I dipinti di figura attribuiti
al Falcone dalla critica sono non più di una ventina.
Tra i più antichi vi è la Maestra di scuola (tav.
26) conservata nel Museo di Capodimonte, uno dei pochi quadri che ha
compiuto un percorso diverso dai tanti che, dalle collezioni private
napoletane, una volta ricche e prestigiose, sono volati via, come al
soffio di un’incontenibile tempesta, verso raccolte e musei stranieri.
tav. 26 - Maestra di scuola
tav. 4 - Battaglia
Louvre
L’opera nel 1673 si trovava ad Anversa, correttamente attribuita, nella
pinacoteca di Peter Wouters, in seguito, a metà del Settecento, passò
nella collezione Spencer ad Althorpe ed infine a New York presso
Wildenstein.
Viene unanimemente considerata opera giovanile precedente la Battaglia
(tav. 4) del Louvre, datata 1631, permeata dall’impronta naturalistica
di Filippo Vitale e dagli esempi del Velazquez a Napoli nel 1630.
Similitudini molto spiccate possono riscontrarsi anche con la produzione
del Ribera, del Maestro dell’Annuncio ai pastori e dei caravaggisti a
passo ridotto attivi a Roma, in particolare Michael Swerts.
La scena rappresentata mostra una severa maestra di altri tempi, quando
rispetto e disciplina avevano la giusta considerazione, in atto di
minaccia verso i suoi scolari di una vibrante punizione con un vigoroso
funicchietto, se si fossero dimostrati svogliati nello studio.
Una tela degli stessi anni può essere considerata l’Elemosina di Santa
Lucia (tav. 27), anch’essa conservata nel Museo di Capodimonte, dove si
leggono gli stessi stringenti rapporti tra i modi falconiani e la
poetica del Velazquez. Il Longhi era più propenso a ritenere che la
santa raffigurata potesse essere Santa Elisabetta d’Ungheria, nella cui
agiografia sono ricordate numerose opere di carità, ma non escludeva che
potesse anche trattarsi di un’aristocratica napoletana, in un momento
storico ricco di episodi di nobili, i quali generosamente erano attivi
nel contrastare i tristi fenomeni di pauperismo diffusi tra la
popolazione napoletana.
tav. 27 - Elemosina di Santa Lucia
Un recente restauro ha evidenziato sui gradini posti a sinistra nella
composizione la sigla dell’artista, altresì numerosi sono i prelievi
letterali da prototipi tipici del primo naturalismo, come lo storpio
ignudo che riceve una veste da un benefattore, mentre la figura del
ragazzo sulla destra, nel mostrare la scodella vuota ad una bambina,
sembra ispirata alla fresca vena narrativa del grande sivigliano.
Il loggiato ampio e luminoso fa pensare ad una collaborazione del
Codazzi, mentre il gruppo di case sullo sfondo ricompare identico nella
Scena di saccheggio (copertina) del museo di Ithaca.
Non tutta la critica è concorde nel collocare la tela al periodo
giovanile del Falcone, in particolare Raffaello Causa, vedeva profonde
analogie con l’Elemosina di Sant’Ignazio (fig. 77) affrescata nella
sacrestia del Gesù Nuovo, documentata agli anni Cinquanta ed evidenziava
il sapiente utilizzo della luce nel far risaltare il cromatismo dei
personaggi raffigurati. Egli vedeva anche un influsso della
contemporanea pittura francese”quasi un Le Nain di più smagliante
tessitura cromatica, oltre che di ben diversamente marcata
qualificazione plastica”. Con questi paragoni dava credito al racconto
del De Dominici, il quale citava un viaggio dell’artista oltralpe.
Anche l’Eremita bruniano (tav. 28) conservato a Roma nella Galleria di
Arte Antica è collocabile in contiguità cronologica con i dipinti già
illustrati. Dopo un’attribuzione a Mattia Preti, fu il Longhi a proporre
il nome del Falcone, ipotesi avvalorata dalla fisionomia caratteristica
del personaggio raffigurato, che si ripete costantemente, quasi una
firma nascosta in tante opere del nostro Aniello.
Il Martirio di San Gennaro nella Solfatara di Pozzuoli (tav. 29) è
ricomparso sul mercato dopo un lungo periodo di assenza ed è stato
correttamente assegnato al Falcone dal Bologna dopo una fantasiosa
attribuzione a Niccolò De Simone. Del dipinto esiste un’altra versione
di più ridotte dimensioni, già nella collezione Rubsam di Fulda.
tavv. 28 e 29 - Eremita bruniano - e - Martirio di San Gennaro
L’opera si trovava in passato nella celebre raccolta di Gaspare Roomer,
ne parlano sia Joachim von Sandrat tra il 1630 ed il ’35, sia il De
Dominici che ne precisa anche, oltre al soggetto, le misure ”egli
dipinse in tela di otto palmi per traverso il martirio di San Gennaro,
così ben ideato e dipinto, che ne meritò straordinaria lode,
imperciocchè in esso vedeasi gran quantità di figure, cavalli, soldati
ed altro che era uno stupore, avendovi effigiato al naturale il luogo
della solfatara, dove il santo con suoi compagni fu decollato”.
La tela rappresenta un’autentica silloge della migliore pittura
naturalistica a Napoli intorno al terzo decennio con precisi riferimenti
al Maestro dell’Annuncio ai pastori, a Cornelio Brusco ed a Battistello
Caracciolo.
Il quadro possiede un poderoso impianto compositivo ed una gran quantità
di personaggi dalle vesti sgargianti curate meticolosamente negli
aspetti cromatici con tratti fisionomici talmente precisi da poter
identificare numerosi protagonisti famosi dell’epoca, mentre molti altri
possiamo ipotizzarli: dal viceré spagnolo, il conte di Monterey,
rappresentato sulla destra affianco al cardinale Buoncompagni, ai due
personaggi con abiti orientali sulla destra, probabilmente i mercanti
fiamminghi Roomer e van den Eyden. Sulla coscia del cavallo in primo
piano esiste un enigmatico monogramma che ha messo fuori strada taluni
critici, certi che si celasse la sigla dell’autore, viceversa trattasi
semplicemente dello stemma apposto dal proprietario del cavallo,
abitudine allora molto diffusa in caso di esemplari di razza molto
pregiata.
In leggero anticipo cronologico sul Martirio di San Gennaro possiamo
collocare la Crocefissione di Policrate (tav. 30) una tela di collezione
privata, convincentemente assegnata da Spinosa al periodo giovanile del
Falcone. Il dipinto in passato era stato proprietà del Museum of Fine
Arts di Boston ed assegnata da Federico Zeri a Francesco Fracanzano.
Esso è caratterizzato da una marcata attenzione alla verità naturale
dell’evento di pregnante matrice caravaggesca, mentre le fisionomie dei
personaggi raffigurati sono elaborate dopo una sofferta introspezione
psicologica. Le figure affollate ed esattamente collocate nello spazio
richiamano quelle del martirio e nello stesso tempo anche quelle
presenti nella produzione migliore di Carlo Coppola.
tav. 30 - Crocefissione di Policrate
“L’uso di materie cromatiche dense, compatte, dai toni corruschi e
bituminosi, che si colloca nel vivo di quel complesso di ripresa
naturalistica e di relazioni tra artisti di origine e formazione
diverse, ma spesso uniti da vincoli di parentela, che si determinò a
Napoli alla metà del terzo decennio” (Spinosa) fanno propendere per una,
ancora non certa, ma molto probabile attribuzione ad Aniello Falcone,
poco più che ventenne, ma già precoce e rilevante protagonista di quegli
anni.
I Gladiatori (tav. 31) e Soldati romani entrano nel circo (tav. 32),
entrambi al Prado, fanno parte di un’importante committenza ordinata da
Filippo IV di Spagna tramite il Monterrey, viceré di Napoli e completata
dal suo successore Medina de las Torres, che assunse i poteri nel 1637.
Per entrambi i quadri esistono dei fogli preparatori, conservati a
Firenze nel Gabinetto dei disegni (figg. 20 - 20 bis); per il primo
esiste anche un dettaglio ripreso dalla Santa Susanna eseguita nel 1629
da Francois du Quesnoy per la chiesa di Santa Maria di Loreto a Roma. Le
scene raffigurate sono episodi di storia romana, in linea con il tema
dell’importante committenza, alla quale parteciparono artisti sia romani
che napoletani: Lanfranco, Sacchi, Romanelli, Perrier, Codazzi, De
Lione, Gargiulo.
tav. 32 - Soldati romani entrano nel circo
tav. 31 - Gladiatori
figg. 20 e 20 bis - Gladiatori - e - Gladiatori (part.)
Evidente è la collaborazione del Codazzi alle architetture sullo sfondo,
come pure la possanza dei nudi gladiatori sono il segno evidente
dell’attività dell’Accademia di nudo tenuta dal Falcone nel suo studio,
segnalata dal Saxl, che pubblicò anche un contratto con un modello del
1638, i cavalli sono quelli caratteristici del Falcone, rampanti o con
vezzose treccine come nell’affresco di Villa Bisignano (figg. 25 - 51).
fig. 25 e 51 - Cavallo con treccine - e - Cavallo rampante
Gli altri due dipinti conservati nel Prado sono collocabili alla prima
metà degli anni Quaranta e fanno parte di una diversa e non identificata
committenza.
La Cacciata dei mercanti dal tempio (tav. 33) presenta come il Concerto
(tav. 34) la classica figura dell’uomo anziano barbuto presente in tanti
dipinti del Falcone a mo’ di firma criptata e sulla cui identificazione
si sono avanzate le ipotesi più varie: escludendo con certezza che possa
essere un autoritratto è più probabile trattarsi di uno dei suoi
principale committenti, forse Gaspare Roomer.
tav. 33 e 34 - Cristo scaccia i mercanti - e -Concerto
Nella prima tela sono presenti gli sfondi architettonici di Codazzi e
numerosi inserti di natura morta, per i quali non è necessario credere
all’intervento di uno specialista; Falcone era ben in grado di
realizzare le bianche colombe in gabbia, il vasellame o la cesta con i
panni posta sulla testa di un giovane a torso nudo inquadrato di spalle,
di chiara ascendenza naturalista; nel Concerto invece l’altissima
qualità del cesto di fiori e frutta fa pensare ad una collaborazione con
Luca Forte, avvalorata dai documenti e dall’identificazione della tela
in esame con una contrassegnata dal numero 148 nell’inventario redatto
nel 1655 alla morte di Ferrante Spinelli.
Sul Concerto incombe solenne un respiro cavalliniano, ben espresso dal
fanciullo canterino posto sulla destra della composizione, segno di un
influsso cadenzato nel tempo, ben più del ricordo dei Bamboccianti che
caratterizzano le sue opere più antiche.
Il Riposo nella fuga in Egitto (quarta di copertina) eseguito nel 1641,
oggi nel Museo Diocesano di Napoli, è una delle poche tele datate e
firmate dal Falcone, come pure è una delle poche di soggetto sacro,
assieme agli affreschi sulle Storie di Sant’Ignazio (figg. 76 - 79) del
Gesù Nuovo ed una Morte di Santa Maria Egiziaca segnalata nell’Ottocento
in una raccolta napoletana ed oggi dispersa. In collezione Perrone
Capano esiste una replica autografa di minori dimensioni, ma di
altissima qualità.
Il Riposo nella fuga in Egitto
fig. 76 - Preghiera
fig. 79 - Assedio di Pamplon
L’impianto stilistico è caravaggesco anche se la scena, immersa nel
paesaggio, è riportata alla dimensione degli affetti, con quella madonna
zingarella col suo atteggiamento di mamma premurosa ed attenta e quel
bimbo addormentato dalle cui fasce si svolge una piacevole cascata di
lini candidi. Essa ci fa presagire un modo diverso di recepire la
lezione naturalistica, di “deviazione guariniana stanzionesca” (Causa) e
già aperta alle influenze del Cozza, che si apprezza principalmente
nello splendido inserto di natura morta costituita dal sacco di colore
baio poggiato a terra sulla destra.
Il blu affilato del manto della Vergine, la qualità pittorica dello
sfondo crepuscolare acceso all’orizzonte, la sommessa figura di Giuseppe
di evidente stirpe corenziana, aggiornata alquanto da un’esperienza di
macchiettista, la delicata pittura dei panneggi, ci mostrano quanta
abilità avesse il Falcone anche al di fuori della sua specialità di
pittore di battaglie.
La critica si è a lungo cimentata sul dipinto e mentre il Saxl vi
leggeva un accademismo addirittura carraccesco, l’Ortolani vi scorgeva
un revival neo cinquecentesco realizzato con l’imprinting del Cozza e
lodava nell’artista il raffinato disegnatore.
“In effetti proprio la componente classicista sembra predominare nel
dipinto. In particolare il rapporto tra le figure ed il paesaggio
rammenta in modo stringente le esperienze figurative del classicismo
romano bolognese, le cui immissioni continuano ad influire sull’ambiente
napoletano per tutto il quinto decennio” (Alabiso).
Ed infine l’ambientazione aperta della composizione risente anche delle
suggestioni del Poussin, molto influente a Napoli in quegli anni e
seguito da quegli artisti che volevano differenziare la propria cifra
stilistica rispetto al formulario bolognese. Un dipinto fondamentale
dunque per la storia della pittura napoletana in cui si possono
apprezzare le diverse correnti attive nella capitale in quel fecondo
decennio del secolo. Un’ulteriore esempio della stretta collaborazione
tra Falcone e Forte ci è data da una spettacolare Marina con pescatori e
mostra di pesci (tav. 35) di collezione privata resa nota dal De Vito,
il quale ha evidenziato anche la doppia sigla (tav. 36). Del grande
generista non sono noti dipinti di pesci, né nelle fonti, né negli
inventari, per cui qualche studioso ha pensato possa essere opera di
Paolo Porpora, mentre l’esecuzione delle figure dei pescatori è senza
dubbio del Nostro Aniello, come pure il paesaggio ed il cielo ”con
nuvole striate, limpido, arioso, di un azzurro illibato, di quell’ariosità
mancante spesso nei cieli pur magistrali di Micco” (De Vito).
tavv. 35 e 36 - Mostra di pesci con pescatore - e - Firma Falcone
e Forte
Intorno agli anni Quaranta vanno collocati una serie di ritratti di
notevole qualità che raffigurano personaggi di difficile identificazione
contemporanei al Falcone da Gennaro Annese, personaggio dei tempi di
Masaniello, il quale per motivi anagrafici certamente non può essere il
vecchio raffigurato nella tela di collezione privata napoletana (tav.
37), ad Alvar de la Torres fantasiosamente ritenuto il guerriero
dall’elegante cappello piumato (tav. 38), fino all’anonimo Soldato in
corazza dallo sguardo penetrante (fig. 113) della tela resa nota dal
Bologna.
tavv. 37 e 38 - Ritratto di vecchio in corazza - e -
Ritratto di Alvar de la Torres
fig. 113 - Soldato in corazza
Tra i dipinti dubbi segnaliamo, unicamente per l’autorità degli studiosi
che hanno avanzato l’attribuzione un Sant’Antonio Abate (tav. 39) di
collezione privata pubblicato dal Pacelli e la coraggiosa proposta di
Spinosa di pensare al Falcone, sulla base di una sigla, come autore del
celebre Soldato morto (tav. 40) della National Gallery, esposto di
recente alla mostra napoletana su Salvator Rosa.
Da respingere invece senza ombra di dubbio la Famiglia (fig. 114) ad
ubicazione sconosciuta segnalata dal De Vito ed il Banchetto di Erode
(fig. 115) sito nella parrocchia di Santa Maria delle Grazie in
provincia di Lecce, segnalato prima dal D’Elia e poi dal Galante e del
quale alcuni anni fa circolò sul mercato antiquariale napoletano una
copia che presentava un ampio vuoto al posto della tavola imbandita.
tav. 39 - Sant’Antonio Abate
tav. 40 - Un soldato morto