I contemporanei celebrarono con
molte lodi Aniello Falcone, famoso pittore di battaglie, ma ci fornirono
pochi ed imprecisi dati biografici, come il De Dominici, che sbaglia
data di nascita e morte, per cui la sua vita e le sue opere hanno dato
luogo ad un personaggio leggendario, del quale, a sessanta, settanta
anni dalla morte circolavano più aneddoti che notizie.
Una invenzione, creata dalla fertile fantasia del De Dominici,
attribuisce al Falcone ed ai pittori della sua bottega una
partecipazione attiva nei rivolgimenti popolari del 1647. Egli racconta
che “armati di tutto punto, di giorno giravano uccidendo quanti più
spagnoli avessero incontrati, e di notte attendevano a dipingere
alacremente, e specialmente a ritrarre le sembianze di Masaniello”.
Questa favola, a parte i dettagli inverosimili, come la protezione
accordata dal Ribera, che, viceversa, si vantò sempre della sua
hispanidad e nonostante il silenzio delle numerosissime e
particolareggiate cronache di quella rivoluzione, è tra quelle
invenzioni che hanno avuto maggior fortuna. Per amor del vero, come
accertato dal Faraglia, una Compagnia della morte agì in città, ma
alcuni anni dopo, nel 1650, e ne fecero parte malandrini e non pittori.
Aniello Falcone nacque a Napoli il 15 novembre 1607 da Vincenzo e
Giovanna de Luca e venne battezzato nella parrocchia di San Giorgio
Maggiore.
La sua famiglia era benestante e possedeva numerose case alla Selleria.
Il padre era un indoratore e fu più volte console dell’Arte. Nel 1633
emancipa il figlio sedicenne, il quale, il 17 maggio del 1639, sposa
Orsola Vitale, figlia di Filippo Vitale e di Caterina de Mauro, entrando
così a far parte di quella fitta ragnatela di parentele fra pittori
descritta accuratamente dal Prota Giurleo. Diverrà cognato o zio di
Pacecco e Diana De Rosa, Agostino Beltrano, Giovanni Do, Paolo De
Matteis e Giovan Battista Lama. Tra i testimoni delle sue nozze Luca
Forte.
Aniello ebbe vari figli, anche se nei registri della parrocchia di San
Giuseppe è annotata solo la nascita, il 28 novembre 1646, di una
bambina, Cecilia Jacova, ma da altri documenti veniamo a conoscenza che
alla morte di Filippo Vitale, avvenuta nel 1650, ne risultavano viventi
tre: Vincenzo, Antonio e Caterina.
Il 2 marzo 1647 rimane vedovo e l’anno successivo, il 18 giugno, perde
anche il padre che, con la madre, si era trasferito a vivere a casa sua
dopo la morte di Orsola.
Poche ed essenziali le altre notizie rivelate dai documenti sulla sua
attività.
Nel 1636 teneva in casa sua un’Accademia di nudo con Matteo di Guido ed
Onofrio Masturzo, nel 1638 assumeva come assistente Onofrio Giustiniano.
Nel 1651 risiedeva nel palazzo del principe di Tarsia, uno dei suoi
maggiori committenti.
Altri famosi collezionisti napoletani possedevano numerose sue opere,
come i Caracciolo, principi di Avellino, Cesare Firrao, principe di
Sant’Agata e Gaspare Roomer, il quale, nel 1647, gli richiese una serie
di battaglie ispirate alla Gerusalemme Liberata, da inviare in Fiandra e
gli fece affrescare il salone della sua villa di Barra.
Il De Dominici lo colloca tra gli allievi del Ribera, affermazione che
può essere confermata dall’esame delle sue tele giovanili, di
ispirazione realista.
E giungiamo al 1656, ai giorni della terribile peste. Aniello si era
trasferito a vivere in una grande casa presso il monastero delle
Cappuccinelle ed il 14 luglio, contratto il morbo, fece testamento. I
suoi figli non compaiono nel documento, forse perché morti giovanissimi
ed eredi diventano la sorella Candida ed i fratelli Giuseppe e Tommaso.
Lascia proprietà anche ad alcuni nipoti e chiede di essere seppellito
nella chiesa di Gesù Maria e non nel Carmine Maggiore, come riferito da
biografi successivi, tra cui il Dalbono e lo stesso Saxl.
Dona l’interesse dei suoi capitali all’ospedale degli Incurabili, in
cambio di una serie di messe di suffragio e divide in tre lotti la
raccolta dei suoi disegni, una delle quali viene regalata al nipote
scultore Andrea.
Vuole che siano restituite agli aventi diritto le caparre sui quadri non
eseguiti ed infine desidera che dalla vendita dei suoi mobili vengano
stornati 50 ducati da dare “per amorevolezza”, in primis et ante omnia,
a Giovanna de Rosa, sorella di Salvator Rosa, moglie, o forse già
vedova, di Francesco Fracanzano.
Fin qui il racconto del testamento, diligentemente ritrovato e
pubblicato sulle pagine di Napoli Nobilissima dal Faraglia, già dal
1905. Rimaneva, fino a pochi anni fa, il dubbio se al documento olografo
avesse fatto seguito realmente a breve la morte del pittore, tenendo
conto che il De Dominici lo riteneva vivente fino al 1665.
La conferma dell’avvenuto decesso nell’anno della peste è giunta da poco
grazie ad una giovane studiosa, Raffaella Notari, che ha reperito un
atto notarile, nel quale si fa cenno che, nel Decreto di Preambolo
emesso dal Tribunale della Vicaria il 12 dicembre del 1656, Antonio
Falcone, nipote dell’artista, si configura nella sua qualità di erede
del defunto Aniello.
fig. 1 - Ritratto di Aniello Falcone