Cap.42
La scuola di Posillipo ed il mito dell’armonia perduta
All’epoca del Grand Tour Napoli era una delle mete predilette dai
viaggiatori europei e tra questi vi erano anche molti pittori alla
ricerca di panorami da riprendere, ma soprattutto del sole, del mare
e di una luce particolarissima che mutava, ora dopo ora, la
prospettiva e la stessa natura delle cose da fissare sulla tela.
Nei primi decenni dell’Ottocento la capitale borbonica esercitava
una duplice attrazione sugli intellettuali e sugli artisti grazie al
fascino dell’incomparabile bellezza del suo golfo ed al richiamo di
un’antica civiltà riportata alla luce di recente con eccezionale
abbondanza di reperti. Ed a riempire di umanità quello spettacolare
scenario naturale e quel vetusto emporio di arte, che continuava
sorprendentemente a svelarsi giorno dopo giorno, vi era la solare
esuberanza dello spirito partenopeo.
Da sempre inserita come tappa fondamentale nell’itinerario
neoclassico, la città magnetizzò anche l’interesse dei paesisti di
ispirazione romantica da Turner a Corot e, aldilà di questi nomi
famosi, tutta una pletora di francesi, tedeschi, inglesi, svizzeri
ed in generale di nordici, abbacinati dalla potenza della luce. Tra
questi, tolto qualche artista inclinato ad un vedutismo documentario
da cartolina, tutti si attennero ad una colorata topografia di vaga
ascendenza vanvitelliana ovvero ad un paesismo condito di motivi
pittoreschi, che riproponevano in termini piuttosto esteriori gli
attributi romantici del paesaggismo napoletano settecentesco,
derivato dalla lezione di Salvator Rosa e di Micco Spadaro.
Da questa folla poliglotta, intenta a rispondere ad una richiesta
turistica sempre più pressante, si stacca la figura di Antonio
Sminck van Pitloo, un olandese, divenuto napoletano a tutti gli
effetti, che insegnò ai locali a dipingere il paesaggio dal vero.
Egli fu un abile eclettico e seppe ricondurre verso le categorie del
piacevole, dello scenografico e del pittoresco il paesaggio del
Turner, del Constable e di Corot, quasi intendesse accordarlo ai
paesaggi ellenistici delle case di Ercolano e Pompei. Una riuscita
formula di alleggerimento che ebbe molta fortuna e che introdusse a
Napoli, con singolare precedenza rispetto agli altri centri
italiani, la nozione di importanti fatti europei, contribuendo così
a liquidare i ritardatari neoclassici e ad orientare verso una più
fresca scioltezza i nuovi intenti romantici. Il Pitloo riuscì a
suscitare a Napoli quella particolare atmosfera stilistica, tutt’altro
che priva di fascino, che i contemporanei vollero contrassegnare
ironicamente con la definizione di Scuola di Posillipo e che influì
profondamente sulla formazione del maggior paesista napoletano delle
prima metà del secolo: Giacinto Gigante.
Anche Degas, prima di dedicarsi anima e corpo ai tutù vaporosi delle
ballerine, era stato in città dal 1858 al 1860, mentre nel 1874
giunse all’ombra del Vesuvio Mariano Fortuny, dallo stile leggero e
brillante.
Napoli dopo l’Unità d’Italia non fu più una protagonista tra le
capitali europee, ma rimase all’avanguardia con le novità artistiche
che venivano dall’estero e riuscì ad imporre i suoi pittori anche a
Parigi.
Si configurò una vera e propria scuola basata su una pittura
accattivante e disimpegnata, alla quale si convertirono anche molti
artisti, in precedenza famosi per quadri impregnati di crudo verismo
o dedicati ad esaltare episodi storici.
Con la caduta dei Borbone e l’annessione al nuovo regno
monopolizzato dai Savoia, la città si trovò a dovere interpretare un
ruolo di provincia e la sua borghesia non si trovò più rappresentata
in quei grossi dipinti storico patriottici che adornavano i salotti
più eleganti.
Il ruolo di ex capitale di un regno con nove milioni di abitanti, in
gran parte analfabeti, contrastava con una città dove si stampavano
ottanta periodici, vi erano più teatri che a Parigi, l’università
annoverava docenti prestigiosi e la nobiltà e la borghesia, colte e
cosmopolite, erano la punta di un iceberg che poggiava su una massa
di povertà ed ignoranza.
I principali pittori: Morelli, Michetti, Migliaro, Dalbono con decine
di allievi e seguaci, spesso anonimi ed imitatori fino al falso
dello stile dei maestri, creano una formula di successo, assemblando
un verismo superficiale con un’esaltazione del folclore e della
tradizione, grondante di pescatori e popolane, immersi in
un’atmosfera allegra e spensierata, resa con pennellate vivaci ed
una tavolozza smaltata ed iridescente. Non mancano scugnizzi
impertinenti ed animali da cortile, a scimmiottare un’Arcadia
idilliaca, agognata, ma irraggiungibile.
Questa pittura sgargiante dai colori luccicanti unì i gusti della
nobiltà e del popolino, piaceva agli uni e agli altri, nella stessa
misura e negli stessi anni durante i quali la canzone napoletana,
prorompente e retorica, raccoglieva applausi da tutte le classi
sociali, in Italia ed all’estero.
Sono gli anni in cui si sviluppa il mito dell’armonia perduta,
l’antica illusione, fallace quanto tenace, che imprigiona da sempre
Napoli, propagandata da scrittori ed intellettuali, che attraverso
libri e convegni vorrebbero farci credere ad un’Arcadia resa
infelice da lazzari ignoranti asserviti alle mire del potere.
Questo sogno dai contorni di fiaba è raffigurato con tinte
idilliache nei dipinti della Scuola di Posillipo e dell’annacquato
verismo di fine Ottocento e questi sono non a caso i quadri ancora
presenti a rappresentare una sorta di status symbol nelle case che
contano all’ombra del Vesuvio. Ma in verità si tratta di un incubo,
che annichilisce ogni speranza di palingenesi della città e la rende
incapace di pensare seriamente al suo futuro, in sorprendente
coincidenza con un dialetto, assurto a piena dignità di lingua, che
esclude questo tempo dalla sua sintassi.
L’Eden vagheggiato da artisti e narratori non è mai esistito al di
fuori della rappresentazione oleografica ai limiti con l’agiografia,
né mai è esistito un popolo in grado di stemperare i propri
interessi in una visione di bene comune. Viceversa e purtroppo a
scandire la storia di Napoli è stato il percorso distaccato di due
mondi paralleli: la plebe e l’aristocrazia. Nei secoli entrambi sono
cambiati senza cambiare le loro traiettorie divergenti.
Napoli paga lo scotto della latitanza di una borghesia
imprenditoriale, che sappia investire nella produzione e sappia
ridisegnare la propria cultura conservatrice e nello stesso tempo di
una classe operaia e lavoratrice, che sia in grado di essere parte
attiva in un programma di sviluppo dell’economia.
Il risultato nefasto è una civiltà costretta a sopravvivere con
l’assistenzialismo statale, con mille truffe e sotterfugi e
destinata ad implodere fragorosamente se dovesse realmente
realizzarsi un federalismo fiscale.
Napoli è da tempo priva di centri decisionali e vede la sua
ricchezza concentrata nelle tasche dei ceti professionali o
redditieri, dediti per inveterata abitudine all’accumulo
infruttifero e non all’investimento, che preferiscono il tranquillo
buono postale, che sopperisce agli sperperi di uno Stato
inadempiente e parassitario, ai titoli azionari, che fungono da
volano delle industrie. Ma soprattutto negli ultimi decenni una
smisurata quantità di ricchezza è stata accumulata dalla criminalità
organizzata, il cui potere è così notevolmente aumentato, al punto
da dettare regole ed essere parte in causa in tutte le più
importanti decisioni.
Eppure Napoli è stata sempre l’unica città che ha visto convivere,
fianco a fianco, nello stesso quartiere e nello stesso palazzo,
ricco e povero, signore e plebeo e questa vicinanza urbanistica
avrebbe potuto costituire un propellente capace di sprigionare
quella carica di energia vitale necessaria al cambiamento. Ma ciò è
avvenuto unicamente nella musica, nel teatro e nell’arte, mai
nell’economia e nel sociale e per questo che Napoli ed i napoletani
continuano a vivere costretti in un opprimente presente senza saper
ipotizzare un decente futuro.
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Anton Sminck Pitloo-Costiera amalfitana (Napoli, Collezione
della Ragione)
Nicola Palizzi-Contadini con armenti a Paestum (Napoli,
Collezione della Ragione)
Teodoro Duclre-Napoli vista dal mare (Napoli, Collezione della
Ragione)
Achille Vianelli-Panorami campani (Napoli, Collezione della
Ragione)
Giuseppe Carelli-Scorci di paesaggio (Napoli, Collezione della
Ragione)
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