Cap.20
La piazza dell’eterna confusione ed i fantasmi degli impiccati
Piazza Mercato incombe poderosa nella storia della città, da quando,
campo incolto al di fuori delle mura della città, era chiamato Campo
del Morocino, all’epoca angioina, allorché nel 1270 fu inclusa nel
perimetro urbano e vi si teneva due giorni alla settimana il
mercato, da cui prese il nome, inizialmente detta Mercato a Sant’Eligio,
in omaggio alla chiesa gotica teatro della capitazione di Corradino
di Svevia.
Per secoli ha costituito il cuore pulsante della città, sostituendo
lentamente l’antica Agorà situata nell’odierna San Gaetano.
Nel 1647 vi scoppiò la rivolta di Masaniello, l’anno successivo vi è
la resa di Napoli a Don Giovanni d'Austria, episodio immortalato dal
Coppola in un dipinto del museo di San Martino e da allora si
svolgevano l’esecuzioni dei condannati a morte, ricordate da un
vicoletto appellato fino al 1850 Vico sospira bisi, fantasiosa
traduzione dal vernacolo di suspire ‘e ‘mpise(sospiri di impiccati),
perché da quella stradina giungevano al palco del boia sito al
centro della piazza i tristi cortei con i condannati, torturati ad
ogni quadrivio con piombo fuso e sonori mazziatoni, mentre la folla
sghignazzava ed imprecava, senza risparmiare ai moribondi sputi e
pietrate.
I cortei erano attesi dalla forca e dagli strumenti di tortura,
adoperati di frequente, davanti ad una folla acclamante, allo scopo
di arginare i furori di una plebe dedita a consumare ogni tipo di
reato. Spesso in un giorno erano previste numerose esecuzioni, per
cui, allo scopo di intrattenere il pubblico, sorgevano come funghi
improvvisati palchetti, dai quali guitti e saltimbanchi si
esibivano, alternando applausi scroscianti a sonore pernacchie.
Prima di raggiungere piazza Mercato si percorre quel dedalo vociante
di stradine che si diramano passando nei pressi del solenne arco
della chiesa di Sant’Eligio. Ad ogni angolo torme di scugnizzi che
giocano a pallone, utilizzando come porte degli scalcinati
cassonetti della spazzatura, le mura afflitte sono costellate di
graffiti sconclusionati, opera di quel moderno flagello ubiquitario
costituito dai writers, alternati a manifesti cadenti, alcuni vecchi
di anni. Le lancette dell’orologio, uno dei pochi funzionanti in
città, ci ammoniscono dello scorrere inesorabile del tempo, ben
manifesto nelle minacciose crepe presenti nella maggior parte degli
edifici della zona. L’arco che contiene l’orologio anticamente
congiungeva le due ali di un importante ospedale trasformato in
seguito in un educandato femminile. Ai lati dell’orologio due teste
di un uomo e di una donna ci rammentano una leggenda che vuole
raffigurassero i volti di Antonella e Costanzo, due giovani amanti
vissuti nel Cinquecento, travolti da un dramma passionale dal finale
tragico, più funesto e raccapricciante di quello celebre di
Giulietta e Romeo.
Mentre ci avviciniamo alla piazza l’atmosfera surreale della celebre
chiesa viene travolta dalle sagome orripilanti di alcuni palazzacci
moderni e da un caos sfrenato di negozi straripanti di mercanzie e
da una moltitudine di popolo che sembra muoversi senza una meta
precisa.
Ampie pozzanghere e bancarelle ad ogni angolo rendono il percorso
un’avventurosa gimkana, ma alla fine finalmente siamo arrivati e
nell’ammirare la facciata della chiesa del Carmine possiamo
cominciare il nostro viaggio a ritroso nel tempo.
Nella piazza, a dovuta distanza, si fronteggiano due fontane,
eseguite nel Settecento, formate da un obelisco piramidale poggiante
su un robusto basamento con quattro leoni e sfingi agli angoli. Le
fontane non avevano solo funzione decorativa, bensì fungevano
principalmente da abbeveratoio per le bestie da tiro che
trasportavano le merci. Oggi queste superbe fontane, come tutti i
monumenti della città, versano in un pietoso stato di abbandono,
oltre ad essere a secco, appaiono deturpate da sanguinose scritte in
vernice rossa, mentre le teste di donna delle sfingi hanno subito la
stessa misera sorte di Corradino e di Fra Diavolo:decapitate.
La folla di oggi, equamente composta da indigeni ed extra
comunitari, ci rammenta il furore dei moti scatenati da Masaniello e
quasi rimpiangiamo l’assenza del boia e le centinaia di teste
mozzate, non solo di incauti rivoluzionari, ma soprattutto di tanti
criminali.
Enzo Striano nel suo celebre romanzo Il resto di niente ci ha ha
descritto in maniera mirabile il sacrificio di Eleonora Pimentel
Fonseca, la nobile poetessa portoghese che prese parte ai moti
insurrezionali del 1799 a tal punto da perderci la testa.
Questi flash back che ci compaiono continuamente agli occhi della
mente vengono puntualmente e fragorosamente interrotti dalle urla
sguaiate dei venditori ambulanti, dagli appiccichi tra vajasse
affacciate ai balconi, dagli stereo a pieno volume delle bancarelle,
dalla musica neomelodica che straripa dagli appartamenti, ma su
tutto domina il rombo dei motori delle infinite auto alla spasmodica
ricerca di un parcheggio.
Osservando attentamente i volti anonimi della folla in preda ad una
lucida confusione si ha l’impressione che il peso della storia, che
impregna questa piazza, sia la causa prima della follia collettiva
che agita una così vistosa calca di popolo. Ogni tanto si creano
piccoli assembramenti per assistere in diretta ad una zuffa o
semplicemente vicino al solito imbroglione specialista del gioco
delle tre carte. Poi tutti si disperdano, dimenticando ciò che è
accaduto. Sembra un revival delle parole del boia dopo aver
tranciato l’ennesima testa:” finita la festa si sparpaglieranno in
mille direzioni, domani avranno già scordato”.
In poche lapidarie parole si tratteggia il carattere precipuo del
napoletano: la curiosità ai limiti dell’ossessione per il
particolare, l’incapacità di derivarne regole generali, facendo
tesoro dell’esperienza.
A poca distanza dalla chiesa del Carmine è sita la chiesa di San
Giovanni a Mare, una delle più antiche della città, nei cui pressi,
il 24 giugno, si svolgeva una festa dalle origini remote, che si
perdono nel paganesimo, anche se rivisitata dal cristianesimo, il
quale vi intendeva rappresentare il battesimo di San Giovanni
Battista. Essa cominciava con una funzione nel tempio, proseguiva
con una processione del santo e si concludeva con un bagno di massa
in costume adamitico con tutte le conseguenze dovute ad una così
eccitante mescolanza di corpi nudi, al punto che il viceré, duca di
Castrillo, su pressione della moglie, celebre ed invidiosa racchia,
timorata di dio, si vide costretto a sopprimerla, affermando che la
“promiscuità di homini e femmine” procurava inquietudini e
turbamento.
La piazza è stata irrimediabilmente deturpata negli anni del sacco
edilizio da un orrendo palazzaccio costruito da Ottieri e sul quale
una storiografia sinistrorsa, collusa col potere, ha favoleggiato
per decenni che fosse tutta colpa di Achille Lauro. Il tetro
edificio con i suoi dieci piani spezza l’armonia della piazza,
separando la zona del mercato da quella adiacente la chiesa del
Carmine, proiettando sin dalle prime ore pomeriggio un’ombra
inquietante.
Il disordine edilizio, come l’assenza di ogni regola, ben si
armonizza con i segni della schizofrenia che si leggono negli occhi
della gente. Dopo la grande confusione delle ore mattutine, con la
chiusura del mercato, la solitudine ed un senso di vuoto si
impossessano dei luoghi, amplificando al diapason la percezione
chiara e mortificante dell’incuria e dell’abbandono.
La sera la piazza diventa terra di nessuno, con bande di teppisti
che si impadroniscono dei luoghi sotto i fumi dell’alcol e della
droga, mentre i radi lampioni proiettano una sinistra ombra a forma
di falce. Sembrano impauriti gli stessi obelischi alla vista di
tanti ceffi, nonostante ne hanno visti nella loro lunga storia di
volti patibolari.
La città da tempo ha scelto piazza del Plebiscito come nuovo Agorà e
piazza Mercato, dopo secoli di gloria è sempre più abbandonata al
suo destino tra trascuratezza e disordine, sporcizia e degrado.
Sembra quasi di rivivere la descrizione accorata della Pimentel
Fonseca: ”Si camminava su di uno strato molle di escrementi e fango
che il sole, sebbene martellasse, non riusciva ad asciugare”.
Di notte poi, andati finalmente a dormire balordi e rompiballe, gli
unici a girovagare per la piazza sono i fantasmi degli impiccati,
molti dei quali morti con l’illusione di migliorare la città, per
cui dannati a vederla andare irrimediabilmente verso il baratro.
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Una delle fontane di piazza Mercato
Piazza Mercato in una stampa ottocentesca
Carlo Coppola-La resa di Napoli (particolare con le teste dei
decapitati)
Carlo Coppola-La resa di Napoli a Don Giovanni d'Austria nel 1648
(Napoli, Museo di San Martino)
M. Zampella-Sant'Eligio
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