Cap.19
Scugnizzi, un mito duro a morire
Gli scugnizzi, i ragazzi del popolo napoletano, definiti nel tempo
anche guaglioni o sciuscià, sono presenti in ogni epoca ed assieme
ai lazzari rappresentano l’anima più genuina della città.
L’oleografia ce li rappresenta sorridenti e distesi al sole, ma la
loro vita è stata frequentemente una storia di miseria,
analfabetismo e sofferenza.
Spesso sono stati al centro di avvenimenti cruciali: da cuore
pulsante della rivolta di Masaniello a piccoli eroi ardimentosi
protagonisti delle Quattro Giornate, che portarono alla cacciata dei
tedeschi, ma senza dimenticare la partecipazione spontanea alle
grandi manifestazioni di giubilo come la Piedigrotta o le tante
altre feste tradizionali, che cercano di far dimenticare ai
cittadini la tristezza di una vita povera e priva di speranze.
La pittura e la scultura ed in tempi più recenti la musica, il
teatro ed il cinema ne hanno tessuto le lodi, spesso grazie ad
artisti, anche essi scugnizzi per nascita o vocazione come Gemito,
Mancini o Viviani.
Gemito venne allevato nel brefotrofio dell’Annunziata, dove assunse
il suo cognome per il continuo lamentarsi. Della sua condizione di
figlio della Madonna si vantò per tutta la vita e più volte
immortalò la figura dello scugnizzo nelle sue sculture come nel
celebre Pescatorello, più volte replicato, nel quale imprime, con la
magia del suo cesello, un brivido di luce alla superficie bronzea.
Egli si serviva come modelli di scugnizzi presi dalla strada, che
teneva a lungo in piedi su di un sasso cosparso di sapone per
cogliere l’energia potenziale e la fame atavica, ben espressa dai
pesciolini portati alla bocca, per poterle poi immortalare nel
metallo.
Anche Mancini, nasce scugnizzo e continuò a lungo a rappresentare
questi candidi fanciulli, mentre scalzi con gli abiti laceri ed una
coppola sgualcita sulla testa contemplano un piatto di pasta od una
festa alla quale avrebbero voluto partecipare.
Viviani come nessun altro commediografo ha saputo cogliere l’essenza
degli scugnizzi, creando un pantheon di volti tristi o gioiosi, di
corpi macilenti e sgraziati ed ha saputo sottolineare il loro
carattere beffardo e la gioia di vivere, prelevando i suoi
protagonisti dai bassifondi e dal mondo dei diseredati, ma
assegnando a questi eterni emarginati il compito di far sentire
polemicamente la loro voce nel denunciare le contraddizioni di una
società dove troppo vistose erano le ingiustizie e troppo stridente
il divario tra poveri e ricchi.
Tra i registi Vittorio De Sica dà voce alle miserie del dopoguerra e
colloca gli scugnizzi napoletani in una nuova nomenclatura coniando
il termine sciuscià, dall’americano shoe shine, pulisciscarpe. Sono
bambini di sei sette anni costretti dal furore degli avvenimenti ad
inventarsi un mestiere per sopravvivere e saranno magistralmente
descritti da Malaparte nella Pelle;” Bande di ragazzi cenciosi,
inginocchiati davanti alle loro cassette di legno, gridando
sciuscià, shoe shine”.
Seguiranno altri registi: Nanny Loy con Le quattro giornate di
Napoli ed in tempi più recenti Piscitelli con Baby gang e Capuano
con Vito e gli altri.
Centinaia di migliaia di napoletani hanno fatto la fila per
applaudire e commuoversi per il recital Scugnizzi, che da anni fa il
tutto esaurito dovunque venga rappresentato, imperniato sulla figura
di un prete che combatte la camorra, pochissimi sanno però che
l’ispiratore del personaggio è veramente vissuto a Napoli ed ha
fatto cose ben più grandi di quelle che si raccontano nel musical.
Egli era il celebre Don Vesuvio, soprannome assegnatogli dagli
emigranti e nello stesso tempo Naso stuorto, come lo chiamavano
affettuosamente gli scugnizzi dei vicoli napoletani. Oggi, ritornato
allo stato laicale, è semplicemente il dottor Mario Borrelli, vive
abitualmente ad Oxford ed è venerato da estimatori e studiosi di
tutto il mondo.
La sua storia straordinaria comincia in una stradina del quartiere
Porto, dove nasce nel 1922 in una famiglia di doratori. A otto anni
è a bottega da un barbiere, quindi garzone in un bar, dove conosce
un prete, al quale confessa che di notte, ogni notte, sente la voce
di Dio che lo chiama ripetutamente. Grandi sacrifici per la madre
che favorisce la sua vocazione e si fa in quattro per pagare le
rette del seminario.
Nel 1946, quando diventa sacerdote, si trova a confrontarsi con una
Napoli colma di macerie materiali e morali. Gli scugnizzi senza
famiglia sono legioni, figli di genitori morti sotto i bombardamenti
o abbandonati da prostitute senza scrupoli. Egli capisce subito che
il suo compito è di redimerli dal loro triste destino e chiede al
cardinale il permesso di infiltrarsi tra di loro e vestirsi da
straccione. Comincia la sua doppia vita: di giorno sacerdote ed
insegnante di religione in un liceo classico del Vomero, di notte
scugnizzo alla disperata caccia del sostentamento quotidiano.
Lasciamo a lui la parola: «Allora, la fame era la madre della vita,
i trucchi per sopravvivere erano infiniti e a metterli in atto erano
esseri ibridi senza genitori, mezzo uomini e mezzo bambini, e
tuttavia né bambini né uomini, capaci però di realizzare
stupefacenti strategie di arrangiamento esistenziale senza la
violenza di oggi, che fa accoltellare chiunque per un nonnulla”.
Egli rammenta con malinconia quei giorni ricordando l’abilità degli
scugnizzi nel turlupinare soldati americani a caccia di ”segnorine”,
ridotti letteralmente in mutande (e a bocca asciutta), e scaricati
dormienti nei cassonetti importati dagli Usa, gli abiti venduti,
dopo una bella sbronza a base di vino spacciato per prelibato
moscato: «Nel senso che ci mettevano le mosche dentro» ride
divertito. «Sono questi ragazzi che mi hanno donato il senso
stupendo della libertà».
Questo racconto lo ascoltai dalla sua viva voce presso la sede
napoletana dell’Ucid, negli anni Sessanta, dove era stato invitato
dall’ingegnere Sergio Lamaro a parlare della sua vita avventurosa ai
giovani. Rimasi colpito dai suoi abiti civili, all’epoca i preti non
prediligevano il clergyman, e dalle sue parole, semplici e prive di
enfasi. Mi resi conto che quegli episodi leggendari meritavano la
penna di un grande scrittore, che avesse l’occhio acuto del pittore
e l’impietoso angolare dello storico.
Ma ritorniamo a quegli anni eroici. Per essere accettato pienamente
dalla sua banda non si spaventa a dover usare le mani, anzi, prese
lezioni di boxe, sfida il capo della combriccola, esperto a
manovrare il coltello e lo sconfigge, divenendo all’unanimità capo
banda.
Egli riesce a procurarsi un tetto, utilizzando una vecchia chiesa
sconsacrata di Materdei, che, con l’aiuto di alcuni volenterosi,
trasforma in un centro di accoglienza. Attira lì i primi scugnizzi
con l’offerta di cibo e di ricovero per la notte. In seguito gli
regalano un carretto grazie al quale recupera rottami di ferro da
rivendere. Possiederà poi un biroccio ed infine un camion, col quale
trasporta e vende abiti smessi e calzature usate, procurandosi fondi
per il suo centro di accoglienza.
Ma l’occhio benevolo della Provvidenza non smetteva di seguirlo e
gli fece capitare tra le mani il biglietto vincente della lotteria
di Agnano, che il proprietario del tagliando non aveva riscosso.
Cominciano le prime incomprensioni con la curia che vuole destinare
il denaro per un’altra iniziativa, ma don Borrelli non molla e fa
nascere l’edificio sulle ceneri della vecchia chiesa di Materdei.
L’arcivescovo cerca allora di impossessarsi della struttura,
chiedendo all’indomito prete di assumerne unicamente la direzione
con uno stipendio; una soluzione che non piace al fondatore, il
quale diventa gerolomino dell’ordine di San Filippo Neri, un ordine
che non prende ordini dalla curia. Divenne bibliotecario
all’oratorio dei Girolamini, dove pazientemente catalogò i
settantamila volumi custoditi, con cura e competenza, perché egli
non era solo uomo di fede e di impegno civile, ma anche teologo e
paleografo, specializzatosi in Inghilterra presso la London School
of Economics.
Nel frattempo il nome di Don Vesuvio fa il giro del mondo grazie ad
un libro The children of the sun di uno scrittore australiano,
Morris West, che per un lungo periodo affianca in prima linea
l’indomito prete per raccontarne le fantastiche imprese. Il volume
arriva sulla scrivania della Casa Bianca, letto con commozione dalla
first lady, Eleanor Roosevelt, che commenterà entusiasta:”La più
straordinaria avventura che abbia mai letto”. Il libro diverrà poi
un film che farà conoscere le eroiche gesta di don Borrelli
dall’Australia al Canada, dalla Francia alla Germania, favorendo la
creazione di comitati di sostegno che faranno affluire denaro per la
sua iniziativa.
Soltanto nel 1963 in una autobiografia scritta con Anthony Thorne ed
intitolata Napoli d’oro e di stracci, all’ultima pagina il
battagliero prete si confessa, ritenendo, evangelicamente, che sia
il momento di tirare a riva la rete.
”Si sono io Don Vesuvio, ma sono anche Naso stuorto, sono tutti e
due assieme”.
La sorpresa fu grande e finalmente tanti scugnizzi capirono, con le
lacrime agli occhi, perché ci teneva tanto ad insegnare loro un
mestiere.
Nel 1967 ritorna allo stato laicale, ma continua indefesso la sua
opera, ritenendo che bisognasse agire alla base del fenomeno,
altrimenti gli scugnizzi non sarebbero mai scomparsi, perché essi
rappresentano solo il sintomo più appariscente di un diffuso
malessere sociale. Cominciò a combattere al fianco dei baraccati e
divenne un’icona dell’ultra sinistra napoletana. Sfiorò più di una
volta la condanna in tribunale e forgiò un’intera generazione di
animatori sociali.
Nel 1971 si sposò con una ragazza sudafricana ed ebbe una figlia,
che oggi dirige un prestigioso istituto scientifico di caratura
internazionale.
Ad ottantaquattro anni conserva la grinta e l’ardore giovanile, con
un lampo negli occhi, che sovrasta i capelli oramai di un bianco
candore.
“Oggi vedo molta prostituzione tra il potere e la povertà ed i nuovi
scugnizzi sono gli immigrati extracomunitari, i nomadi i profughi,
che hanno preso il posto dei disperati ragazzi di strada della
Napoli del dopo guerra”. Parole come frecce che egli ebbe modo di
scandire tempo fa in occasione di un suo breve ritorno nella città
natale. Napoli rappresenta il richiamo della foresta, al quale non
riesce a resistere a lungo. Qui vi è la sua creatura, vi è sua
figlia, vi è sua moglie, gravemente ammalata.
“Alla mia età non mi resta che lo studio e la ricerca, ma anche per
questo vi è necessità di coraggio e fantasia”.
Sono lontani i tempi eroici quando decise di intrecciare
concretamente la propria vita di sacerdote oratoriano ed erudito
studioso con gli scugnizzi orfani del dopoguerra napoletano, con i
baraccati e le puttane senza diritti, vivendo e combattendo con loro
sulla strada, al di là di ogni convenzione, da scomodo e ribelle
prete scugnizzo, da polemico avventuriero di Dio, vagabondo tra i
vagabondi e maieuta caparbio e insofferente a qualunque forma di
sopraffazione e iniquità dell'uomo sull’uomo. In una Napoli d’oro e
di stracci, come il titolo della sua autobiografia, seppe creare la
Casa dello Scugnizzo nel cuore di Materdei, pionieristico punto di
riferimento per uomini di buona volontà.
Il testimone della sua attività è passato ad Ermete Ferraro, oggi
presidente della Fondazione, insegnante, ma soprattutto ex
scugnizzo.
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Scugnizzi lustrascarpe
Scugnizzi intenti a spidocchiarsi
Vincenzo Gemito-Pescatoriello (Napoli, Collezione della Ragione)
Locandina del film Scugnizzi di Nanni Loy
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