il seno nell'arte
dall'antichità al settecento
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Il Settecento, dominato dal Rocaille e dal Rococò a
differenza del Seicento, secolo delle passioni e del dramma, è nell’Arte
ricerca di grazia languida e di raffinatezze formali, di vaporose elegie
e di frivoli sentimenti, di evasione dal grigiore della realtà e di fuga
nel mondo ideale della mitologia, ma soprattutto di capricciosa gioia di
vivere. L’iconografia muta radicalmente e vanno di moda le figure
affascinanti e gentili della mitologia. In serie vengono riprodotte
Venere, Diana e ninfe varie che, nel pennello degli artisti
settecenteschi, diventano pretesto per un’esaltazione della bellezza.
Qualche critico bacchettone definì divinità da budoir queste icone di
una femminilità adolescente ed acerba, empie di sottile erotismo e di
sfacciata provocazione.
Giovanbattista Tiepolo, arditissimo decoratore di ampie superfici, che inondava con l’iridescenza e la smagliante luce delle sue visioni ed alla cui magnificenza è legata la sua fama, fu ugualmente abile al cavalletto come ci dimostra nella tela, conservata presso l’Ashmolean museum di Oxford, Giovane donna con pappagallo (088). In questa piccola composizione la delicata figura della fanciulla, dal seno timidamente scoperto, non esaurisce la carica visuale del grande colorista, che improvvisa un pezzo di straordinario virtuosismo nel creare un lampante contrasto tra il pappagallo rosso fuoco, arguto e maligno ed il tenero seno latteo della fanciulla, di un biancore dai toni liquidi e trasparenti. I décolleté delle veneziane sfioccano come ventagli di piume e la scollatura della fanciulla è uno scrigno misterioso, un giardino di delizie, etereo come solo questo virtuoso prestidigitatore della luce e dell’aria avrebbe potuto realizzare con accorte pennellate in un vortice di iridi. Le sue donne discinte sono festa e trionfo, sia che riempiano i cieli delle sue creazioni avvolte con nonchalance in rasi preziosi e sete luminose, sia che su piccole superfici si offrano all’incantato occhio dell’osservatore con fantasie profane e burrose nudità. Trasmettono gioia e voluttà terrestre, con l’energia vitale di seni prosperosi, ammalianti e vaporosi, patinati in una luce d’argento, che ci comunicano allegrezze visive così acute da perdere i sensi, in un tripudio di colori, sonori e cristallini, come le campane che suonano a distesa dalle torri di Venezia.
La pittura veneta oltre ai seguaci del rococò e alle superbe creazioni
del Tiepolo presenta una schiera di artisti minori, alcuni dei quali si
esprimono ad un livello qualitativo molto alto, come Gian Battista
Pittoni, il quale si avvale di un cromatismo luminoso e di una fresca
vena creativa, che spesso assume valori di spumeggiante rococò. Egli fu
molto richiesto da una committenza internazionale per cui, pur senza
essersi mai allontanato da Venezia, le sue opere si trovano nei maggiori
musei europei. Una produzione abbondate con poche cadute di livello ed
alcune vette come il Bagno di Diana (089), realizzato dopo il 1721,
della pinacoteca di Vicenza, una briosa composizione nella quale si
respira aria fresca, con le figure che acquistano corposità e morbidezza
grazie al luminoso e vibrante impasto cromatico oltre a degli abili
effetti chiaroscurali. L’episodio mitologico permette di delineare
deliziose anatomie femminili esposte nella loro innocente nudità e tanti
seni al vento preziosi, agili, appuntiti. Forme eteree e garbate in
perfetta armonia con i corpi slanciati ed agili della dea e delle sue
ninfe, dalle gambe lunghe e delicate, portatori di una grazia
ammaliatrice che conquista durevolmente lo spirito ed il corpo.
La famiglia dei poveri (090) in collezione Testori ci offre uno spaccato
di pauperismo riletto con religiosa commozione, trasferendo il tema
della Sacra Famiglia tra le strade di una città devastata dalla peste e
nella tragica maestà di questa mamma senza speranza possiamo intravedere
l’anticipo più memorabile e puntuale della manzoniana madre di Cecilia.
Pietro Longhi attraverso la sua pittura e la sua tempra morale ha delineato il delicato passaggio tra il Settecento ed il mondo moderno. Egli amò descrivere con puntigliosa precisione i vari aspetti della vita nella sua città, a tal punto da essere definito il Goldoni della pittura. I suoi dipinti sono caratterizzati da un cromatismo chiaro e delicato ed i personaggi sono raffigurati con ironia, mentre nelle opere della maturità il segno si fa più libero ed impertinente, la tavolozza più calcata, con abili giochi di chiaro scuro ed aleggia uno spirito di osservazione salace ed arguto. Nella pastorella che si ammira il seno (091), del museo civico di Bassano, collocabile intorno al 1740, la giovane fanciulla confronta un fiore da poco colto con il bocciolo del suo capezzolo, un pretesto iconografico galante che stempera nel frivolo e rammenta altri dipinti della pittura emiliana coeva che trattano lo stesso tema. Un fondale scuro avvolge la scena e fa risaltare il biancore virgineo dell’incarnato dell’ingenua pastorella, felice delle sue forme che vede crescere e maturare orgogliosa giorno dopo giorno.
Nel luogo più esoterico di Napoli, la Cappella San Severo, regno dei
mirabolanti esperimenti del principe Raimondo di Sangro, affianco al
famosissimo Cristo velato, trova posto una statua allegorica: la
Pudicizia (092), realizzata nel 1752 dallo scultore veneto Antonio
Corradini. Il monumento funebre è dedicato a Cecilia Gaetani d’Aragona,
madre del principe, morta quando il figlio era in tenerissima età. Il
Corradini, già famoso per aver realizzato figure velate, pare che a
Napoli abbia raggiunto la perfezione grazie all’aiuto del principe,
esperto di alchimia e di pratiche di trasmutazione della materia. La
figura della giovane donna, completamente nuda e di rara bellezza, è
ricoperta da un velo di marmo straordinariamente aderente alla pelle,
leggerissimo, naturale, impalpabile che lascia vedere chiaramente il
delicato contorno dei seni, sodi, sormontati da un altero capezzolo
appuntito. L’artista raggiunge una perfezione assoluta nel modellare il
tenue velo marmoreo sul delizioso corpo della donna con estrema eleganza
e sobrietà, come se un vapore esalato da un bruciaprofumo contribuisse a
rendere umido e tenacemente aderente alla cute lo strato impalpabile,
interrotto orizzontalmente da un serto di rose.
La Toilette (093), della collezione Wallace di Londra, eseguita nel
1719, è una deliziosa teletta nella quale una donna dalle forme procaci
viene colta nell’atto di togliersi maliziosamente la camicia, mentre una
fantesca è pronta a coprirla con una elegante mantella. Si tratta di una
signora con la sua cameriera personale oppure, come suppose Boucher, di
una maitresse d’un fermier general, in poche parole una direttrice di
una casa di appuntamenti? Più prosaicamente si tratta della serva di
Watteau, che l’artista, quando passò dai quadri di soggetto mitologico
ai nudi in interni, approfittando della sua bellezza, utilizzò come
modella.
La Diana al bagno (094), eseguita nel 1742 ed oggi al Louvre, è
certamente il suo dipinto più sensuale, per la delicatezza del soggetto
e per l’incarnato perlaceo delle fanciulle che abbaglia l’osservatore.
Diana era una vergine cacciatrice, che prediligeva la compagnia delle
sue ninfe e disdegnava gli uomini. Amava la solitudine dei boschi, dove
poteva bagnarsi nelle fonti e trarre diletto dalla freschezza
dell’acqua.
Le Bagnanti (095) del Louvre, probabilmente eseguito nel 1777 e ritirato
dal Salon dallo stesso autore, rappresenta un tardo esempio di pittura
gaia e fosforescente, alla maniera di Boucher e dove palpabile, sia
nella cromia che nella scenografia, è l’influsso di Rubens. Un empito di
vita gaia e sorridente, una calda e dinamica vitalità si sprigiona sia
dalle figure che dal paesaggio.
Il giudizio di Paride (096), conservato all’Ermitage, fu pagato una
cifra molto alta dall’imperatrice Caterina II, che amava molto il
Neoclassicismo. Il Mengs rivisita l’episodio mitologico, già ampiamente
trattato in pittura nei secoli precedenti, e ne dà una lettura,
nell’anatomia dei corpi nudi rigorosamente settecentesca e neoclassica.
Marie Guillemine Benoist è una pittrice neoclassica francese, allieva
prima di Elisabeth Vigée Lebrun e poi di Jacques Louis David, dal quale
recepì l’impostazione monumentale e la forza plastica. Sul finir del
secolo esordisce con un Ritratto di giovane donna di colore (097) di
statuaria bellezza, che ottenne un lusinghiero successo al Salon del
1800 e fu lodato dal pubblico e dalla critica per la purezza del disegno
e per il rilievo scultoreo. Il quadro, ispirato all’abolizione della
schiavitù, è oggi conservato al Louvre e ci presenta una fanciulla,
dallo sguardo altero, la quale espone orgogliosa il seno, di colore
ebano, che risalta nel contrasto al bianco della veste che la cinge ed
al grazioso copricapo caratteristico per le donne del suo paese. I suoi
seni sono floridi e somigliano a degli otri pieni di buon vino, ai quali
attaccarsi e berne il nettare avidamente, assaporando la forte
gradazione che li fa terribili, ma di breve durata, perchè così come
maturano rapidamente, così avvizziscono presto. Si imbevono della luce
in un modo sconosciuto ai seni delle bianche e sembrano luccicare come
bubboni ardenti, in grado di infiammare lo sguardo ed accendere la
fiamma del desiderio.
Etienne Maurice Falconet fu scultore caro a Madame de Pompadour, della
quale ha immortalato il leggendario corpo in un marmo (098) conservato a
Londra nella National Gallery. La sua produzione giovanile è
baroccheggiante, poi il suo stile evolve verso una grazia elegante e
raffinata in consonanza con i gusti dell’epoca e le sue opere più
celebri appartengono a questo periodo, tutte marcate da una morbida
idealizzazione del corpo femminile, coniugata ad una voluttuosità più o
meno appariscente. Nel marmo della sua protettrice la Pompadour è
rappresentata nelle vesti di Venere e mentre il corpo è tenuemente
idealizzato, il volto, espressivo, reca le tracce di un’acuta analisi
psicologica e nonostante la rivisitazione mitologica resta un vero e
proprio ritratto.
Augustin Pajou, raffinato scultore francese, pieno di una leziosità
tutta settecentesca, è attivo negli anni di trapasso tra rococò e
neoclassicismo e conserva la grazia languida del primo, mentre nella
scelta del tema mitologico già aderisce al secondo. La sua opera più
famosa è la Psiche abbandonata (099), eseguita nel 1790 e conservata al
Louvre, che raffigura una fanciulla languida ed impaurita resa con
sottile, morbida sensualità. I detrattori inizialmente la considerarono
indecente per il pianto, che lasciava trasparire la sentimentalità
teatrale tipica delle opere di Rousseau e per la nudità chiaramente
attribuibile ad una qualunque modella parigina priva di mitologica
grazia, ma in seguito tutta la critica è stata unanime nel riconoscerla
straordinaria.
Johann Heinrich Fussli, pittore svizzero, ebbe una personale visione
dell’arte come trasposizione sulla tela di visioni interne, di incubi,
di emozioni profonde che lo spingono ad avvolgere turbate immagini
femminili in evanescenti chiaroscuri lunari ed in preda ad allucinate
fantasie romantiche. Lunare ed estroso è il suo Peccato inseguito dalla
morte (100), realizzato nel 1796 e conservato alla Kunsthaus di Zurigo,
derivato da un episodio del Paradiso perduto di Milton, un autore molto
ammirato dal Fussli alla pari di Dante, Omero e Shakespeare. Il dipinto
è dominato dalle brume e dagli spettri, che sembrano fuoriuscire dai
meandri più tenebrosi dell’inconscio. L’ombra della morte ghermisce i
seni di una fanciulla e vuole trascinarla con sé nel precipizio. Li
tormenta con unghie affilate approfittando delle catene che impediscono
la fuga. E non possiamo nemmeno immaginare che sono destinati ad essere
posseduti dalla morte, essi rappresentano la realtà più perenne
dell’universo e la loro totale scomparsa non si riesce in alcun modo ad
accettare.
Il secolo trova un’esaltante conclusione nella sua opera più famosa la
Maja desnuda (101), uno dei più celebri dipinti della storia dell’arte.
Realizzato in coppia con la tela gemella vestita, raffigura, mollemente
adagiata su un divano, nella stessa seducente positura, la stessa
modella, sia nuda che in abiti eleganti. Il committente è sconosciuto,
anche se alcuni elementi sembrano indicarlo nella duchessa d’Alba,
presso la quale il Goya soggiornò nel 1797 e, tenuto conto delle voci
che li indicavano legati da affettuosa amicizia…, vogliamo immaginare
che la nobildonna abbia chiesto al pennello del suo amante di trasferire
il suo splendido corpo dalla caducità della giovinezza all’immortalità
della tela.
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