il seno nell'arte
dall'antichità al settecento
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Il Seicento è secolo di sfrenate passioni, che
trovano spesso nel seno un emozionante baricentro, catalizzatore di
emozioni le più diverse dall’odio all’amore, dal premio al castigo.
La sua produzione fu veramente copiosa ed è stato molto difficile
scegliere pochi quadri per presentare l’artista, perchè gli esclusi
gridano vendetta.
E siamo certi dell’elemento autobiografico nella sensuale Angelica e
l’eremita (059), anch’essa conservata nel museo viennese, opera della
tarda maturità dell’artista, certamente più che energizzato dalla
quotidiana frequentazione dei vitalizzanti seni della moglie. Il quadro
prende ispirazione da un episodio dell’Orlando Furioso di Ludovico
Ariosto, nel quale si racconta che di Angelica s’innamorò un vecchio
eremita, profondo conoscitore di pozioni e stregonerie, il quale, alla
vista del corpo da schianto della fanciulla mollemente adagiata su un
morbido cuscino, decise seduta stante di approfittare delle sue arti
magiche e trasportò Angelica su di un’isola deserta. L’opera di piccole
dimensioni è in stridente contrasto con le grandi tele di un tempo,
animate da un senso di monumentalità nelle scene e di pimpante turgore
nelle anatomie femminili, mentre nel tenero idillio tra l’eremita ed
Angelica vi è ora il gusto per la finezza della pennellata e l’intimità
del tono narrativo.
La Venere dormiente (060) del museo di Budapest, è un’opera di intensa
sensualità pervasa al tempo stesso da una grazia decorativa, eseguita
probabilmente tra il 1622 ed il 1625, quando l’artista da Roma inviava a
Napoli molte sue creazioni che suscitavano notevoli consensi per il loro
modo originale di concepire il caravaggismo, non più scuro, ma vicino
alla gamma cromatica della Gentileschi. Infatti egli, che amava vestirsi
da militare francese, probabilmente non ha mai messo piede a Napoli,
all’epoca viceregno e satellite della Spagna, acerrima nemica della
Francia, ebbe però importanti commissioni ed alcuni suoi dipinti
incisero sull’arte figurativa locale. Il Vouet amava rappresentare
figure mitologiche, eroine del Vecchio Testamento o sante, sempre nella
loro bellezza tutta profana, acconciatissime, fiorite come gemme di
miniera, fiori di serra inattesi e meravigliosi.
Tra le sue opere più note la Serva che si spulcia (061) del museo di
Nancy, raggiunge una delle note più toccanti della sua arte con
l’affiorare di una schietta sensibilità umana, che trascende il dato
realistico per divenire accorata partecipazione alle vicende, anche più
umili della vita quotidiana. Di datazione incerta si è discusso a lungo
anche sul titolo da attribuire al dipinto, che per alcuni autori poteva
essere Pentimento dopo la colpa oppure Prime doglie del parto; ma è oggi
assodato che raffigura una donna intenta a spulciarsi, una volta
accertata la presenza di un grazioso animaletto tra le unghie della
donna, mentre un altro è ben evidente sul ventre. L’incarnato è dominato
da ampie zone di rosso stese a piatto che sembrano accendersi, mentre i
seni, smunti, fuoriescono dalla veste. Essi, fiocamente illuminati dalla
fiammella di una candela nella stanza buia riverberano la luce in
maniera misteriosa e sembra vogliano sedurci con il loro tenue biancore,
come se fossero a nostra completa disposizione. La tela riflette il
fascino impalpabile del grande prestigiatore dei lumi notturni, pittore
stupefacente e conturbante, in grado di raggelare ed immortalare in
attimi sospesi semplici scene di genere, conferendo alle figure una
solenne monumentalità, un’intensità di sentimenti ed una sorta di
sacralità vicina alla metafisica. Il suo linguaggio è imperniato sulla
luce, misteriosa, sbalorditiva, inenarrabile che si diffonde e si
irradia in maniera unica. Ammaliato dai lumi notturni, di cui ben
conosce esiti ed estri, si serve di una candela per rischiarare le sue
composizioni, che sembrano scaturire dal profondo del suo animo.
Nel 1607 Caravaggio, giunto da poco a Napoli, dove in pochi mesi
rivoluzionerà le arti figurative, ritorna sull’episodio, che incastra in
quello spettacolare squarcio dal vero costituito dalla pala d’altare per
la chiesa del Pio Monte della Misericordia (062). Sul lato destro della
composizione una giovane puerpera offre all’anziano genitore il seno per
sfamarlo, raffigurando ad un tempo due opere di misericordia: visitare i
carcerati e dar da mangiare agli affamati.
La lezione caravaggesca di crudo realismo fu ripresa da molti seguaci e
tra questi va annoverato Jusepe Ribera, spagnolo di nascita, ma a tutti
gli effetti napoletano doc, perchè, giunto giovanissimo in città, vi
rimase per oltre 40 anni fino alla morte nel 1652. L’artista amava
raffigurare la caducità della carne, a tal punto che Byron affermò che
amasse intingere il pennello nel sangue dei martiri. Nella tela che
esaminiamo: Donna barbuta col marito (063), oggi a Toledo presso la
fondazione Medinacoeli, il pittore ci rende partecipi di un’aberrazione
della natura, ritraendo Maddalena Ventura, una donna abruzzese maritata
e madre di molti figli, intenta ad allattare l’ultimo nato, pur munita
di una faccia totalmente virile, di una folta barba e di un torace
egualmente peloso, da cui protrude una mammella ripugnante, gonfia di
latte, in grado di spegnere per lungo tempo qualsiasi desiderio erotico
in chicchessia. Sulla destra della composizione una lunga epigrafe
descrive dettagliatamente la storia paradossale di questa coppia,
ripresa dal vero nell’atelier del Ribera in cinque giorni di lavoro.
Facciamo la conoscenza con le splendide fattezze della signora Giordano,
Margherita Dardi, in un quadro: Venere dormiente e satiro (064), oggi a
Capodimonte, ritornato di recente all’onore delle cronache.
Artemisia Gentileschi, raffinata pittrice dal virtuoso pennello, giunse a Napoli nel 1627, attirata dalle ricche committenze che colà si potevano ottenere e non si mosse più dalla città fino alla morte. Respirò l’aria partenopea e mutò la sua tavolozza, rendendo più mediterranea la resa pittorica dell’epidermide, più dolce e sensuale l’incarnato, più squillante la gamma cromatica. Ci ha lasciato immortali rappresentazioni della bellezza femminile, prendendo a pretesto le grandi donne della storia e della mitologia. Tra i soggetti all’epoca più richiesti: Cleopatra, la leggendaria regina che si dà la morte offrendo al morso dell’aspide la magnificenza del suo seno indifeso, nella sua nuda carnale sensualità, senza enfatizzare l’immagine con l’aggiunta di gioielli e ornamenti elaborati. Un seno fiero e spavaldo che affronta senza paura il temibile serpente, unica difesa la punta acuminata dei più desiderati capezzoli nella storia dell’umanità. La pittrice raffigurò ripetutamente la sfortunata sovrana, raggiungendo l’apice del dramma, intriso di solenne bellezza in un dipinto (065), oggi in collezione privata, eseguito intorno al 1630, dove si compiace di ritrarre la celebre regina nella sfolgorante esaltazione delle sue nudità, delle sue forme procaci e provocanti, che avevano fatto perdere la testa ai potenti della terra, con la mano complice che sembra voler accarezzare l’aspide, prima che le imprima il morso mortale sul capezzolo. Sembrano voler sfidare nella loro soda e prorompente vitalità l’insulto della morte. Cleopatra si appresta a morire con il volto voluttuoso e le labbra appena dischiuse, quasi in estasi e sembra godere della sua fine come una santa che, attraverso la morte, è certa di raggiungere la felicità e la pace dei sensi.
I seni partoriti dal fertile pennello di Artemisia, di un incarnato
alabastrino, sono carichi di energia, sia che appartengano a Lucrezia
che vi infigge vigorosa il pugnale (066) o siano di Betsabea, che li
cura e li profuma in interminabili toelette, o della Maddalena che arde
di macerarli nella penitenza, o di Ester, di Galatea, di Corisca, di
Clio o di tante altre eroine senza paura, pronte ad offrire in olocausto
il bene più prezioso di una donna.
Un capolavoro di sottile malizia e di fascinosa grazia femminile è la tela di Loth e le figlie (067) realizzata da Stanzione intorno al 1645 e conservata nella pinacoteca di Palazzo Reale a Napoli. Il racconto biblico su cui si basa il dipinto è noto: Loth fuggì con la famiglia dalla sua città che doveva essere distrutta da Dio per la sua empietà; la moglie si girò per vedere l’annientamento di Sodoma e Gomorra, contravvenendo al divieto divino di voltarsi e venne trasformata in una statua di sale, mentre Loth e le due figlie si misero in salvo tra le montagne. Le due giovani, distrutta tutta la popolazione, temevano di non potere avere figli e tale era il desiderio di maternità che decisero di sedurre l’anziano genitore. Dopo una abbondante libagione cominciarono a circuirlo, l’una offrendo la grazia di una coscia mica male ed insistendo nel riempire la coppa del vino, l’altra ponendosi sulle gambe del padre e giocando la sua carta migliore: un seno turgido, virginale e pronto ad offrirsi in olocausto. Vinsero ambedue perchè, senza che il padre se ne accorgesse, entrambe rimasero incinte.
Nella Susanna e i secchioni (068) del museo di Francoforte Stanzione utilizza il pretesto di un altro celebre tema biblico per mostrarci una giovane fanciulla nuda, dai seni acerbi e dal volto impaurito, facile preda dei due loschi individui che, oltre a circuirla, la invitano al silenzio, certi di poter soddisfare indisturbati la loro brama.
Tra gli allievi di Stanzione Andrea Vaccaro è l’artista che ha dedicato
maggiore attenzione al nudo femminile, intravisto più che visto, da
vesti discinte con abissali scollature. Le sue donne sono spesso sante,
a volte martiri, in sofferenza o in estasi, ma sono sempre donne vive,
senza odore di sacrestia, quasi sempre provocanti nel turgore delle
forme e nell’espressione di attesa non solo di sposalizio mistico,”col
bel girare degli occhi al cielo” e con le splendide mani dalle dita
affusolate a ricoprire i ridondanti seni. Per convincersene basta
ammirare questa Maddalena (069) della Galleria di Palermo, dal volto
languido ed idealizzato, ma dal seno vivo e palpitante, modellata in un
morbido accostamento dei colori, ricchi di riflessi e cangiatismi. I
seni di Maria Maddalena furono la meraviglia del suo pentimento, più
caldi delle sue lacrime, lo spasmodico epicentro della sua contrizione.
Pacecco De Rosa è artista al quale sono particolarmente legato e del
quale ho realizzato l’unica monografia esistente, per cui, pur essendo
un minore, descriverò due suoi dipinti.
Altra creazione di distillato erotismo di Pacecco è la Venere dormiente scoperta da un satiro (071) del museo di San Martino, nata come elegante sovrapporta della dimora del principe D’Avalos. La modella è una delle ninfe del Bagno di Diana e la composizione è imperniata sull’uso di colori laccati, traslucidi, fortemente contrastati, dal rosso cardinalizio dei tendaggi al blu metallico del prezioso panno su cui è adagiata la dea, dall’incarnato bianchissimo, alabastrino dai riflessi porcellanati, che fa risaltare la carnagione del satiro, paonazzo per il desiderio. Il dipinto è imperniato sulla eccitante figura della dea distesa dolcemente, col braccio rialzato ad esporre meglio la grazia del seno appena accennato, che sembra invitare il satiro a compiere il suo dovere. Il tono è scherzoso: dal sorriso ammiccante del satiro alla stessa Venere, che guarda ad occhi chiusi e sembra accettare volentieri le profferte d’amore e pregustare con compiacimento le gioie dell’amplesso oramai imminente. Nel frattempo i due amorini, complici, dal corpicciuolo delizioso, emanano grazia e gentilezza e ben appagano, in sintonia col corpo nudo della dea e quello muscoloso ed agile del satiro, i gusti di quella particolare committenza desiderosa di un linguaggio profano, esaltato da una sensualità ben esposta.
Geronimo De Magistro è poco più che un Carneade nel panorama artistico
seicentesco, un nome noto solo a pochi napoletanisti, che lentamente sta
emergendo da un oblio secolare. Sua è la Susanna ed i secchioni (072)
della collezione Pellegrini a Cosenza, un tema biblico ripetuto
all’infinito dai pittori, perchè permette di ritrarre una giovine
vergine nature insidiata e molestata da due uomini più che maturi
arrapati.
Il contributo della scuola emiliana all’esaltazione del seno è più
modesto di quella napoletana e si basa su pochi esempi di altissima
qualità, come l’Atalanta ed Ippomene (073) di Guido Reni, conservata al
museo di Capodimonte, potente favola di una vergine cacciatrice,
imbattibile nella velocità, la quale sfida tutti i giovani che ambiscono
alle sue grazie ad una corsa, il cui esito prevedeva o la coniuxio o la
morte del malcapitato. Ippomene, voglioso del suo corpo procace,
astutamente consigliato da Afrodite, fa scivolare a terra durante la
gara dei pomi d’oro che la fanciulla ingenuamente si ferma a
raccogliere, arrivando seconda, e dovendo così rinunciare alla sua tanto
ambita illibatezza.
Padre fondatore indiscusso del classicismo bolognese è Annibale Carracci che, nei primi anni del Seicento, pone mano a Roma agli affreschi della Galleria Farnese, una maestosa serie di decorazioni celebranti la potenza ed il dominio universale dell’Amore, il quale è in grado di soggiogare gli stessi dei dell’Olimpo ed umiliare i terribili poteri degli antichi eroi. L’impresa è annoverabile senza dubbio tra le pagine più alte della storia dell’arte europea per originalità di concezione e per la varietà delle soluzioni figurative. Le prime quattro scene illustrano le vicende di altrettante coppie di amanti della mitologia e per rispetto verso il padre degli dei abbiamo scelto di illustrare l’attrazione fatale tra Giove e la sua sposa Giunone, ammirata in ogni tempo dai viaggiatori, osannata dai critici che la giudicarono una perfetta quanto insuperata manifestazione dell’expression de l’amour. Il signore dei cieli, conquistato dalle seduzioni della sua sposa, abbandona la sua veglia sul campo di battaglia di Troia per i piaceri del talamo, precorrendo di millenni il consiglio dei figli dei fiori ”non fate la guerra fate l’amore” e non poteva essere altrimenti davanti all’offerta della più pura e sacra forma della donna, in pari tempo eterea e materiale, un seno turgido ed invitante, dall’inquietante e morbida consistenza dell’avorio, un seno da dea…(074)
Il martirio di Sant’Agata, alla quale, con estrema crudeltà, vennero
amputate le mammelle, ha stimolato la fantasia di generazioni di
artisti, che dell’evento hanno riprodotto gli aspetti più
raccapriccianti. Noi viceversa, per lo sviscerato amore che nutriamo
verso il più giocoso attributo femminile, abbiamo scelto una
composizione più serena e rassicurante, che rappresenta il prodigio
della guarigione, per cui abbiamo preso in considerazione la Santa
visitata in carcere da San Pietro e l’angelo (075), eseguita dal
Lanfranco intorno al 1613-1614 e conservata nella Galleria Nazionale di
Parma.
La fama di Guido Cagnacci è in gran parte legata alla consumata abilità con cui sapeva fissare sulla tela delicati nudi femminili, dipinti con sottile sensualità derivata dalla lezione del Reni, ma mentre il divino Guido amava idealizzare i suoi nudi quelli del Cagnacci sono presentati con caratteri di erotica e fisica schiettezza ed il suo seno preferito, che vediamo in quasi tutti i suoi quadri, fu quello della sua amante, una giovane donna che accompagnava l’artista nel suo atelier vestita da uomo, dando l’impressione di essere un suo servo, viceversa, caduti gli abiti, diveniva la sua modella e la morbida linea del suo seno acerbo accendeva l’ispirazione del pittore, permettendogli di realizzare alcuni dei più bei nudi della storia dell’arte. I quadri con tematiche osé ebbero molto successo, al pari delle poesie classiche erotiche, nell’Europa del nord ed alla corte austriaca di Vienna, dove dimorò l’artista e dove oggi al Kunsthistoriches museum si trova il suo più noto capolavoro la Morte di Cleopatra (076), un’iconografia di grande successo che l’artista bolognese potenzia con i seni delle ancelle che soccorrono la sovrana morente, seni plebei, ma vispi e rubicondi come quelli dell’amata padrona, che prima di darsi la morte si è assisa in trono su una grande sedia scarlatta e si è posta sul capo una corona di gemme preziose. Corpi nudi che sembra vogliano opporsi alla morte, sottoposti a fasci di luce penetrante che ne fanno risaltare il pallore dovuto all’emozione.
Un piccolo spazio bisogna dedicarlo anche all’artigianato di qualità, ed
espressione genuina di devozione popolare è questo originale ex voto in
cera e laminato d’argento (077), di collezione privata milanese,
eseguito da un ignoto artefice, specialista del settore, probabilmente
attivo a metà secolo, quando vi fu una ripresa di un’abitudine risalente
alla cultura pagana di offrire alla pubblica meditazione parti del corpo
risanate miracolosamente “per grazia ricevuta”. Anche artisti famosi si
sono dedicati saltuariamente a questo genere di attività e tra questi
ricordiamo: Benvenuto Cellini, Piero della Francesca e Gentile da
Fabriano.
Juan Careno de Mirando, pittore di camera del re Carlo II, succeduto nella prestigiosa carica che fu di Velazquez, ha l’incarico di ritrarre nuda (078 ) e vestita una mostruosità naturale: la piccola Eugenia Martinez Vallejo, la quale, all’età di sei anni, pesava già quasi settanta chili. “ L’altezza è quella di una donna normale, ma il ventre è tanto smisurato quanto quello di una donna grassa prossima al parto” così descrivono impietosamente la bambina i medici di corte, ma il pittore nel suo dipinto decide di attenuare le straripanti misure di Eugenia presentata, col volto venato di malinconia, in veste mitologica con un grappolo di uva a ricoprire le pudende, tra l’altro normalmente non visibili perchè, come recita la relazione medica” le cosce sono talmente grosse e piene di adipe che si intrecciano e nascondono il sesso”. Ma scoperto rimane il seno, repellente e costituito di solo grasso, destinato alla futura solitudine ed all’inattività fisiologica. Triste destino che toccherà anche ai seni delle debordanti modelle di Botero, che ai nostri giorni ricalcheranno le fatali misure anatomiche di Eugenia; non più mostruosità naturale provocata dal malfunzionamento dell’ipofisi, bensì smisurata obesità indotta dall’infernale alimentazione dell’era moderna.
Nicolas Poussin, maestro del classicismo francese, è stato a lungo in Italia e la sua Peste di Azoth (079), custodita al Louvre, descritta accuratamente nella Bibbia, pare abbia tratto ispirazione dalla terribile pestilenza che infuriò a Milano nel 1630. Tra le scene di disperazione e confusione l’artista fissò, nella parte bassa della composizione (080), un episodio di toccante poesia, dove amore e dolore, vita e morte si confrontano divise da un confine labile lungo il quale il seno salvifico di una donna appena deceduta è in grado di permettere la sopravvivenza ad un neonato che ha da poco perso la sua mamma ed affamato cerca il latte per continuare a vivere; mammelle che continuavano a palpitare e questo loro sopravvivere al di là di ogni regola era ammirevole in una donna giovane ed esuberante, stroncata all’improvviso da un destino avverso, ma ancora in grado di essere indispensabile, anzi decisiva. Un’immagine di toccante poesia che fu replicata all’infinito da tanti pittori napoletani all’indomani della catastrofica epidemia che nel 1656 uccise quasi metà della popolazione partenopea e sterminò quasi al completo una generazione di artisti. Superbe rivisitazioni del tema iconografico sono state fornite da Luca Giordano e Mattia Preti, da Micco Spadaro fino a Giacomo del Po, che a fine secolo introduce l’episodio nella peste di Sorrento. I seni della donna morta sono pallidi e gonfi, immobili ma colmi di latte, che succhiato dal fantolino gli permetteranno di continuare a vivere, mentre tutto intorno imperversa sovrana la morte.
Per Poussin un dipinto non era mera rappresentazione della natura, ma idealizzazione della stessa, processo della mente non della vista, per cui le sue donne, per quanto splendide, sono sempre convenzionali, attrici inconsapevoli di un poema magari sensuale fino all’erotismo, ma prive di ogni sessualità. I seni, specchio dell’anima sono falsi ed ingannatori, anche quando sono superbi ed altezzosi, come nel Trionfo di Nettuno del museo di Filadelfia, dove, nel baricentro della composizione (081), giunoniche fanciulle agitano con studiata grazia un drappo rosso, mettendo ben in mostra i frutti acerbi della loro giovinezza. Biondi, lucidi boccioli tutti eguali, come forgiati da un’identica matrice, accarezzati dal vento, non eccitano, ma ci conducono in sogno verso un porto ideale dove potremo fissare all’infinito, senza timore del tempo che scorre, le più armoniose protuberanze che furono mai create.
Johan Baeck, nativo di Utrecht, lavora nel solco di una tradizione
perpetuata nella sua città dai pittori seguaci dell’insegnamento
caravaggesco e si ispira ad alcune iconografie di grande successo come
la rappresentazione dei cinque sensi, che potrebbe essere la chiave di
lettura del Figliol prodigo tra le prostitute (082), un suo dipinto
realizzato nel 1637 e conservato nel museo di Vienna. Nella tela il
protagonista è un grande intenditore e palpeggiatore di seni e lo
dimostra la maniera in cui tasta vigorosamente le deliziose poppe dallo
scintillio carnale della prostituta poggiata sulle sue gambe, che sembra
gradire l’attenzione e godere della stretta sapiente da vero raffinato
gaudente. L’uomo esercita una leggera trazione per sincerarsi che esse
siano ben attaccate al petto e nel goderne la polposa consistenza si
avvede di una strana sensazione, non rara a provarsi quando si cerca il
piacere nei seni mercenari: gli sembra di palpare una durezza
particolare simile al metallo, come se una borsa, anche se piccola,
piena di monete d’oro si allogasse nella profondità della carne. La
ruvida consistenza del vile metallo addolcita dalla soda trama della
carne! Quelli delle prostitute sono seni pieni d’oro, due borse tanto
più preziose quanto più belle. Ed a volte queste protuberanze si
sviluppano in maniera straordinaria, fino a sfiorare l’opulenza per
vincere la temuta concorrenza.
In un catalogo imponente di oltre 800 dipinti ritenuti autografi dalla
critica estrapoleremo solo due opere e faremo la conoscenza con i seni
più importanti per Rembrandt: quelli di Saskia la moglie e quelli di
Hendrickje, la seconda compagna che, divenuto vedovo, gli fu vicino fino
alla morte e che non sposò per non perdere la ricca eredità della prima.
La Betsabea con la lettera di David (084), realizzata nel 1654 e
conservata al Louvre, ha come modella Hendrickje, la sua governante che
poi diverrà compagna fedele fino alla morte. L’episodio sacro è, come
spesso capita, un pretesto per una saporosa realizzazione di un nudo
integrale reso palpitante da un’opulenza di colori. Il personaggio
biblico viene svelato impietosamente da una luce greve ed oleosa che si
riversa a coni lividi con un biancore quasi violaceo, che sorprende
Betsabea nella sua disarmante nudità. La pennellata estremamente libera
ed allusiva, densa di materia pittorica, esalta la concretezza della
carne rinascimentale, morbida ed elastica, mentre una luce penetrante
scava nell’ombra, conferendo un senso di drammaticità al prodigioso
realismo dell’artista. La donna è ritratta con estrema dolcezza ed i
suoi sentimenti, dominati dalla tristezza, sono espressi con grande
discrezione. Lo sguardo è rivolto verso la serva che le lava i piedi, ma
il pensiero è lontano combattuto tra emozioni e malinconie.
L’erotismo trasformato in pura poesia lo si può ammirare nell’eccitato
ed eccitante gruppo scultoreo dell’Apollo e Dafne (085) della Galleria
Borghese, nel quale Gian Lorenzo Bernini, tra il 1622 ed il ’25,
ispirandosi alle Metamorfosi di Ovidio, interpreta il mito del folle
amore di Apollo per la ninfa Dafne, la quale, per preservare la sua
illibatezza si dà disperata alla fuga. Raggiunta, la sua verginità viene
salvata dalla repentina trasformazione della fanciulla in un albero
d’alloro. Lo spettacolare marmo, tra i massimi raggiungimenti di tutti i
tempi, sembra il vertice dell’idealizzazione classicheggiante, dotta
manifestazione di una società ricca di cultura umanistica, ma l’episodio
è colto con delicato realismo e sovraumana bravura: i capelli fluttuanti
al vento si allungano in fronde, le braccia diventano rami, il piede
così lesto si fissa nell’immobilità delle radici; si salva il seno,
tenero fiorellino, che permane nella sua eterea bellezza senza subire
l’onta della metamorfosi. Gli stati d’animo sono ben delineati nella
dura materia e l’artista sa magistralmente fondere in un solo attimo la
fase della corsa con quella successiva della trasformazione, bloccando
per sempre nel marmo, in una sola istantanea, il momento culminante
della metamorfosi, prodigio di abilità, mai prima tentato in scultura,
che coinvolge lo spettatore, rendendolo partecipe del dramma dei due
protagonisti, che sembrano davvero carne.
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