Cap.10
MOSTRA A FERRARA DI MATISSE:
IL COLORE CHE PORTA LA GIOIA DI VIVERE
Fino al 15 giugno 2014 a Ferrara, al Palazzo dei Diamanti si potrà
ammirare l’opera di uno dei giganti del Novecento Henri Matisse in
una retrospettiva con oltre 100 opere tra dipinti, sculture, disegni
e collages.
L’artista al Salon d’Automne di Parigi del 1905 con un gruppo di
colleghi, espose un gruppo di opere con un uso spregiudicato del
colore e l’abbandono dei requisiti formali della figurazione.
La critica parlò con disprezzo di aberrazione cromatica, al punto
che i pittori seguaci del nuovo verbo furono definiti fauves, cioè
belue.
Tale movimento intese il colore in funzione espressiva e non più
come imitazione della realtà. Colori puri, applicati in larghe
stesure con pennellate sciolte tali da esaltare la loro innata
potenzialità, per divenire automa fonte di sensazioni ed emozioni.
Nessuno tuttavia, partendo dall’esperienza “fauvista”, spinse poi
tanto avanti e tanto in alto la propria ricerca, quanto Henri
Matisse (Le Cateau 1869-Cimiez, Nizza 1954), la cui opera, insieme a
quella di Ricasso e di Klee, forma le principali direttrici
dell’arte contemporanea. Già nell’ambito del movimento Fauvisme la
sua pittura, pur nell’esaltazione del colore, si distingue per
un’innata tendenza all’ordine compositivo e alla chiarezza formale,
come mostra il Ritratto con la riga verde del 1905 in cui egli
ottiene una sorta di modellato cromatico per mezzo di inversioni e
opposizioni di colori complementari.
Successivamente lo stile di Matisse evolve verso una stesura
pittorica più liquida e trasparente in cui le zone di colore puro
sono arginate dalla linea sottile di un raffinato disegno che tende
a ricomporre forme di dichiarato effetto decorativo (Figura
decorativa su sfondo ornamentale, 1927). Tra le sue fonti
d’ispirazione sono, oltre Cézanne, le stampe giapponesi, l’arte
musulmana e bizantina, i primitivi italiani, tutto ciò che lo
conduce a organizzare per mezzo del colore e della linea quello
“spazio spirituale” in cui si dispongono con poetica armonia oggetti
e figure. “Ciò che sogno – egli scriveva nel 1908 – è un’arte di
equilibrio, di purezza, di tranquillità, senza oggetto inquietante e
preoccupante…”. Sogno che egli sempre perseguì con costanza e
coerenza, dalle opere giovanili eseguite alla maniera puntinista (Luxe,
calme et volupté, 1904, Parigi, Musée d’Orsay) ai quasi astratti
profili ritagliati su campiture monocrome (bianco e blu) delle
“gouaches découpées” prodotte dopo il 1950.
La nascita precoce dell’artista (1869-1954) ha rischiato di
imprigionarlo per sempre nell’intimismo fin-de-siècle, quasi confuso
tra i Nabis da cui separavano solo pochi anni, e dunque gliene è
venuto un compito analogo a quello toccato a Vuillard e a Bonnard di
saltar fuori dalle spire di “interni” colmi di mobili e carte da
parato e vasi di fiori, pur nell’atto di rispettarli.
A dire il vero, Matisse, subito all’inizio di secolo, è riuscito a
sottrarsi con forza da quelle spire, tuffandosi risolutamente nella
prima avanguardia, quella detta a ragione dei “fauves”, delle belve,
che affrontavano le parvenze della “belle époque” a scudisciate, con
forti sbattimenti cromatici, maltrattando in sostanza le sagome,
anche femminili. Anzi, in quella fase Matisse, oltre ad affidare la
sua furia ai pennelli, la svolse ben di più con la scultura, in cui
sembrava proprio voler strozzare le figure muliebri, allungandole,
torcendole, o squartandole come in macelleria. Ma poi, quando, con
le picassiane Demoiselles d’Avignon, nel 1907, si prospettò la vera
avanguardia che voltava pagina, trattando le forme con i cubi del
mondo delle macchine, il Nostro avvertì un impaccio, su quella
strada, cui invece aderì senza riserve un compagno di via delle
esperienze fauviste quale Georges Braque. Matisse sembrò appartenere
alla categoria di “quelli che restano”, per usare una famosa
etichetta di Boccioni, rifiutando in sostanza di applicare alle
sembianze umane, o dei fiori e frutti, gli schemi astratti della
geometria.
Matisse fu un “resistente”, quasi che avesse già violentato in
eccesso le vecchie figure. Ma in realtà egli aveva una ricetta che
lo salvava, consistente in una maestria sovrana nel tinteggiare gli
spazi, dentro, fuori, attorno alle figure, o alle tavole onuste di
chincaglieria varia. Quelle pennellate, spesso magre, rade, libere,
riuscivano magicamente a ristabilire le distanze, le varie sagome
balzavano avanti-indietro sulla tela, quasi col potere di saltarne
fuori.
E’ stato detto, giustamente, che quelle stesure sapienti valevano
come “repoussoirs”, noi diremo “respingenti”. Si può fare
riferimento alla legge dei liquidi, e dunque, grazie alle diverse
gradazioni cromatiche, alcuni corpi, nelle tele matissiane, vengono
a galla, mentre altri affondano nelle retrovie, o si inabissano, ma
in acque terse che ne consentono comunque la leggibilità. Seduto
sulle sponde di quel suo stagno di nuovo conio, l’artista attese
paziente di veder passare le spoglie dell’avversario, che ovviamente
altri non era se non Ricasso, in cui i cubi, a un certo punto,
andarono in crisi, nel dopoguerra in cui il meccanomorfismo non fu
più di moda, nella nostra società, e dunque, nel dopoguerra, tanti
si affidarono a stesure liquide e sciolte, si pensi a Rothko, negli
USA, o addirittura all’arrivo dei Graffisti, capeggiati da un
Jean-Michel Basquiat che può sembrare davvero il magnifico erede
della virtù matissiana, di andar via leggero, di far danzare le
figure attraverso emersioni minime, ma sicure, da una incantata
tappezzeria multicolore. Le imperiose erezioni macchiniste del
Cubismo e derivati si sono afflosciate su se stesse, come Matisse in
qualche misura aveva previsto, mettendosi ad attendere con pazienza
di essere raggiunto dall’avversario di un tempo.
Nei dipinti di Matisse oggetti e figure sembrano annidarsi in un
paesaggio concavo. Tutto si trasforma in colore il problema, negli
anni Dieci come nelle Odalische degli anni Venti e come nei Papier
Decoupes dei Quaranta e dei Cinquanta è l’equilibrio della
composizione che si coniuga con l’impertinenza colorata delle masse.
L’esposizione a Ferrara ripercorre le tappe di questa ossessione che
accompagna il pittore fin dagli esordi. A partire dalla centralità
della figura in grado di esprimere un sentimento.
La Serpentina (1909) costituisce il primo esempio di questo
approccio, una riflessione sulla curva, sulla figura sinuosa dove
tutto deve essere visibile, indipendentemente dal punto di vista.
E’ indubbiamente il colore a corroborare questo approccio originale.
Lo possiamo osservare nel Vaso con pesci rossi (1914) e nelle stesse
Odalische.
Vi è il trionfo di una sensualità, che scaturisce dal tracciare i
contorni delle forme.
Le linee si intersecano, si oppongono, si spostano in un’esplosione
che congiunge verità e interpretazione: sentimento e concetto devono
trovare un equilibrio, colore e linea, movimento e arresto, musica e
silenzio.
“La maggior parte dei pittori – sottolinea nel 1930 – ha bisogno del
contatto diretto con gli oggetti per sentirne l’esistenza e non può
riprodurli che nelle loro condizioni strettamente fisiche. Cercano
una luce esterna per vedere chiaro in se stessi. Invece l’artista o
il poeta possiedono una luce interiore che trasforma gli oggetti per
creare un mondo nuovo, sensibile e organizzato, un mondo vivo che è
di per se stesso il segno infallibile della divinità, del riflesso
della divinità”.
L’ardore del colore fauve non tramonta, l’analitica cubista non
sfonda. Eppure le radici giovanili sembrano dialogare con gli esiti
formali dell’avanguardia. Solo che la figura e il colore sono
sottoposti al rigore di una musica dove la sensibilità del reale
impone una misura originale: la musicalita’ non tanto della forma
quanto dell’espressione del soggetto, a sua volta subordinata al
controllo di un temperamento creativo fatto di riflessione come nel
Nudo rosa seduto (1935). Ma quel che piu’ affascina nel percorso di
questo artista alla ricerca costante – è stato spesso sottolineato –
di un “capolavoro borghese” che potesse superare le litigiosità
faziose delle avanguardie, è la devozione nei confronti della
sorpresa che le interazioni del colore definiscono; è lo stupore che
il ritmo delle linee può generare. E tutto questo nulla ha a vedere
con l’imitazione: la pittura è frutto di accordi, esattamente come
nella musica, resi possibili da una costante tensione che l’artista
crea con il proprio modello, sia una natura morta o una figura
umana. Un modello espresso instancabilmente: forme divorate,
dettagli che l’artista trasforma in monumentalità. Carne e sostanza,
silenzio e voluttà, pulsione e quiete, istante e durata. La Natura
morta con donna addormentata (1940) è uno degli esempi più sottili
di questo stile inimitabile.
Una mostra che non lascia delusi e trasferisce al visitatore la
gioia di vivere.
Matisse autoritratto
figura decorativa su sfondo ornamentale
Giovane donna in bianco, sfondo rosso
Le due sorelle
Natura morta
Ragazze in giardini
Odalisca
ritratto con la riga verde
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