Cap.17
La struggente nostalgia di Napoli
Raffaele La Capria
Raffaele La Capria nasce a Napoli nel 1922, un anno fecondo di
futuri intellettuali.
Si laurea in giurisprudenza nel 1950 e, dopo aver soggiornato in
Francia, Inghilterra e Stati Uniti, si stabilisce definitivamente a
Roma, una vera iattura per il destino della città natale perché,
oltre a lui, si stabiliscono nella Capitale tutti i suoi coetanei di
cui abbiamo già trattato la biografia.
Tra questi, è rimasto particolarmente legato a Francesco Rosi, che
gli ha insegnato a guardare con grande attenzione ai problemi
sociali, ed a Giorgio Napolitano con il quale, da quando è
presidente della repubblica, si sente meno spesso per il timore di
disturbarlo, distogliendolo dai tanti problemi e preoccupazioni,
legati alla sua alta carica.
La Capria non ha esperienze memorabili da raccontare, situazione
comune a tutti gli scrittori italiani, nessuno dei quali è stato
cercatore d’oro in Alaska come London, ha cacciato le balene come
Melville, ha attraversato un tifone con un veliero come Conrad, ha
venduto armi ad un ras abissino come Rimbaud, ha percorso a piedi la
Patagonia o l’Australia come Chatwin.
Ha trascorso una vita sedentaria e viaggiato col pensiero, indagando
affetti, amori e sentimenti, lasciandoci una serie di libri. Tra i
tanti, mi soffermerò su “Ferito a Morte”, scritto nel 1961, che ho
letto più volte e considero una delle più belle opere dedicate a
Napoli.
Quella narrata nel romanzo è la vicenda di un uomo, Massimo De Luca,
costretto per necessità di lavoro a recarsi a Roma, lasciando la sua
amata Napoli, quella città che ti ferisce a morte e ti addormenta.
De Luca rappresenta lo stereotipo del napoletano medio di fine anni
quaranta, amareggiato e disilluso per non essere stato in grado di
collaborare a riportare Napoli al suo antico splendore.
La sua storia è raccontata con una prosa semplice e colloquiale,
ricca di particolari di vita quotidiana che, nello stesso tempo,
mettono in mostra come la città ormai affondi nella sua arretratezza
ed indifferenza per cui solo una personalità forte può decidere di
rimanervi.
“Ferito a morte” può essere amato o odiato ma, in ogni caso, è
doveroso riconoscergli il merito di aver aperto una finestra su un
angolo di storia che ha segnato il nostro tempo.
Altre sue opere sono “L’armonia perduta” (1986), “Capri e non più
Capri” (1991), “La mosca nella bottiglia” (1996), “Esercizi
superficiali, nuotando in superficie” (2012).
Dal 1961 al 1999 La Capria è stato anche apprezzato e richiesto
sceneggiatore cinematografico ed ha collaborato con alcuni dei più
importanti registi italiani.
Alla prima sceneggiatura per “Racconti dell’Italia di ieri-Terno
secco” di Gilberto Tofano, segue, nello stesso anno, “Leoni al sole”
di Vittorio Caprioli.
Nel 1963, con “Le mani sulla città”, inizia il sodalizio con l’amico
Francesco Rosi che lo vuole al suo fianco anche per “C’era una
volta”, “Uomini contro”, “Cristo si è fermato ad Eboli” e “Diario
napoletano”.
Scrive ancora sceneggiature per Luigi Comencini (“Senza sapere
niente di lei”), Giuseppe Patroni Griffi (“Identikit”), Alberto
Negrin (Una questione privata), Lina Wertmuller (“Sabato, domenica e
lunedì” e “ Ferdinando e Carolina” del 1999).
Al mondo del cinema e del teatro lo lega anche il quarantennale,
felice matrimonio con l’attrice Ilaria Occhini.
Vorremmo concludere riportando uno scritto di La Capria comparso
poco tempo fa sulle pagine de “Il Mattino”, che ci permette di
apprezzare in egual misura lo stile ed il carattere del grande
scrittore:
Le ho sempre guardate con rispetto le grandi navi regine del mare.
Fin da bambino le vedevo passare lontano sul vasto panorama del
Golfo dalla terrazza della mia casa di Palazzo donn’Anna a
Posillipo, dirette al porto.
Ne conoscevo i nomi e le riconoscevo dalla sagoma, dal numero dei
fumaioli. Il Saturnia, il Conte Biancamano, il Conte Rosso, il Rex,
e i nomi eccitavano la mia fantasia di lettore dei libri di Salgari.
Avevano attraversato gli oceani, immaginavo i mari d’oriente, le
isole, le albe e i tramonti e tutte le possibili avventure che i
loro nomi bastavano a evocare.
Dopo averle viste passare aspettavo le onde che puntualmente
arrivavano, altissime, e il gridio eccitato dei bagnanti sulla
spiaggia che le salutava, onde possenti che facevano sentire tutta
la potenza della nave da cui provenivano. E quanto ai sogni chi
meglio li ha espressi in un’immagine?
E penso al Rex, annunciato dall’urlo della sirena nel film
“Amarcord” di Fellini, e visto come un’apparizione mentre passa,
vicino e irraggiungibile, immenso e inconcepibile, con tutte le luci
delle cabine accese, davanti agli occhi stupiti di chi lo guarda
dalla banchina. Più o meno, era quella l’impressione che faceva su
di me il passaggio delle grandi navi di una volta.
Il tempo e gli anni sono volati via, e le grandi navi transoceaniche
sono scomparse.
Oggi quei viaggi oltre oceano si fanno in aereo, e altre sono le
grandi navi che d’estate solcano il mare. Sono navi molto diverse
per la forma, bianche, enormi, straripanti, e nello stesso tempo
familiari, un po’ tozze ma altrettanto imponenti.
Somigliano a piccole città galleggianti e non attraversano più gli
oceani ma hanno mete più vicine. Navi da crociera, da turismo
privilegiato e abbordabile, soprattutto navi comode, fornite di
tutto ciò che occorre, palestra, piscina, giochi, per chi ha bisogno
di allontanarsi dal faticoso trantran della vita indaffarata.
Queste navi solcano le azzurre autostrade del mare, la scia
spumeggiante che lasciano a poppa segna sull’acqua il loro
itinerario, Sardegna, Baleari, Tunisia, Marocco, le isole greche e
le città più belle del Mediterraneo.
Anch’io partendo da Napoli e arrivando nel mar Egeo, a Delo, a
Delfi, a Mikonos, a Santorini, a Rodi, ho fatto su una di quelle
navi un’esperienza che ricordo molto bene: l’esperienza del
distacco, e cioè, prendere le distanze, abbandonarsi.
Prendere le distanze dalla terra che lasci ti consente di vederla in
modo diverso. A me accadde a Napoli. Dal ponte della nave vidi la
città che man mano si allontanava… la nave si trova proprio al
centro del cerchio che si chiude laggiù, dove il sole sta
tramontando tra il monte Epomeo alto e puntuto e la linea bassa
della costa di Procida.
Per un momento questo golfo mi appare come una remota preistoria,
con i due vulcani contrapposti, il Vesuvio e l’Epomeo, rossi sulle
cime e infuocati di lava, i Campi Flegrei e le solfatare fumanti.
Il paesaggio che prima per me era consueto ora sta prendendo un
aspetto diverso, primigenio e porta l’impronta dell’immane
sconvolgimento da cui nacque. Non c’è più l’oleografia capace di
addomesticarlo.
Ecco, per me questo significa prendere le distanze: vedere le cose
in modo nuovo e diverso, con quell’estraniazione di cui parlava il
grande Sklovskij, che aprì nuovi campi espressivi alla letteratura.
Il piacere della lentezza. E’ bello ritrovarlo al di fuori del
convulso affrettarsi di ogni caso che oggi fa della velocità il suo
idolo.
La lentezza ti dà la possibilità di fermarti sulle cose, di vederle
non fuggevolmente, di rientrare in un tempo umano, antico e direi
“antropologicamente” più naturale per ognuno. Puoi guardare, quando
dalla nave scendi a terra, una statua, un monumento, la strada di
una città, con tutta la calma necessaria per imprimerla nel ricordo.
Così fu per me quando la nave ci portò a Delfi e salii sull’acropoli
a guardare l’auriga, e non potevo distogliere gli occhi da quella
statua dove l’immobilità dell’auriga, dritto in piedi a reggere le
redini per trattenere focosi cavalli, suggerisce ed implica lo
sforzo per mantenere quella postura. O quando a Rodi, entrando nel
porto, immaginai il colosso a gambe divaricate sotto cui passavano
lentamente le triremi. O a Santorino quando salimmo su nel paese in
groppa agli asinelli ed avemmo tutto il tempo per curiosare nei
mercatini sovraccarichi di merce locale e tra le bancarelle piene di
colorate cianfrusaglie. Ingenue turistiche futilità che fanno parte
di un viaggio che la lentezza rende possibili.
Adesso le grandi navi da crociera hanno altri nomi, La Magnifica, La
Divina, La Gloriosa, nomi altisonanti, certo meno avventurosi di
quelli che sapevo a memoria da bambino. La loro prua solca le acque
del Mediterraneo uno dei mari con più varietà di luoghi, di memorie,
di miti e di genti.
“C’è più storia in una piccola onda del Mediterraneo che in tutti
gli oceani” è stato detto, ed è vero. In questo mare Oriente e
Occidente si sono scontrati, tre religioni si sono combattute, due
poeti Omero e Virgilio l’hanno esaltato, Ulisse lo ha navigato, le
sirene su qualche scoglio cantano ancora (per chi riesce a
sentirle), la Bellezza e la Natura si sono incontrate e hanno
prodotto le trasparenze delle acque della Sardegna, l’incanto dei
tanti paesini rivieraschi, il mistero delle grotte e degli anfratti,
gli infiniti variegati Pollok dei fondali, l’eleganza del delfino e
dei pesci che lo abitano. Da subacqueo poi io “mi sono sentito
penetrato dalla grandiosa coerenza stilistica di questo mare” che
preferisco al fastoso carnevale dei mari orientali.
Qui in questo mare così vario si aggirano le grandi navi bianche dai
nomi altisonanti, toccano le loro mete e i loro approdi, e basta una
settimana al viaggiatore per correre un’esperienza che Ulisse
impiegò dieci anni a soddisfare.
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