Cap.15
LA GRAFICA NAPOLETANA SEICENTESCA
A differenza della pittura, che ha raggiunto grande successo e
notorietà in tutta Europa, la grafica napoletana è stata a lungo
negletta dalla critica, per cui era parere consolidato tra gli
studiosi che il disegno in tutta l'area meridionale non si fosse mai
espresso ad alti livelli, tanto da superare appena un modesto
discorso di cronaca locale.
In parte questa minore propensione verso il disegno dipendeva anche
dalla circostanza che i nostri pittori, più che un modello cartaceo,
erano usi predisporre, per le opere più impegnative, un bozzetto che
nel gergo era denominato macchia, ed era questo che veniva proposto
al committente per l'approvazione.
Di questa abitudine ci è data conferma dal racconto del De Dominici:
"il dipinger i bozzetti, che da noi macchie vengon nominate è la
sicura scorta a ber condurre l'opera".
Della predisposizione psicologica a bruciare le tappe da parte dei
nostri artisti ci soccorre la testimonianza di un biografo
forestiero, il Passeri: "li pittor napoletani non sono molto dediti,
per proprio costui me, ad una lunga applicazione al disegnare, ma
prim del tempo, a dar di mano alli pennelli, et alli colori come
essi dicono a pintar".
Ad un disinteresse degli artisti corrispondeva, forse ne era la
causa, una scarsa attenzione da parte dei collezionisti, a parte
poche eccezioni, tra cui degne di nota per ricchezza e
rappresentatività le raccolte Crozat e del Mariette, due raffinati
intenditori stranieri innamorati del nostro disegno.
Il Crozat possedeva trentuno disegni del Ribera, diciassette di Luca
Giordano, sedici del Solimena, cento di Salvator Rosa e addirittura
duecento di Filippo Napoletano. Nella raccolta vi erano inoltre
opere Preti, del Corenzio e del De Matteis.
Altra prestigiosa collezione fu quella del Meriette, che possedeva
una miscellanea completa della nostra grafica antica, dal Corenzio e
dal Santafede fino agli ultimi allievi del Solimena, per un totale
oltre cento esemplari rappresentativi di ventiquattro artisti.
Presso il cardinale Leopoldo De' Medici, come ci riferisce il
Baldinucci, si trovavano accanto a disegni del Corenzio, del
Santafede e di Filippo Napoletano, ben diciassette fogli dello
Spinelli, quasi tutti firmati o siglati, a conferma di un'autonomia
che l'artista riconosceva alla sua opera grafica.
Nella stessa famosa collezione di Filippo Baldinucci erano
rappresentati soltanto tre artisti napoletani: Ribera, Falcone e
Salvator Rosa, ma non bisogna meravigliarsi di questa scelta che può
sembrare riduttiva, perché questi tre pittori sono ancora oggi i
riconosciuti epigoni, che ben illustrano il livello della nostra
grafica.
Su questa situazione, sulla quale aveva inciso senza dubbio il
carisma del Caravaggio, forgiatore della nostra pittura seicentesca,
del quale è notoria l'avversione per il disegno, si era steso un
velo d'oblio, a stento squarciato da qualche intervento marginale
del Voss e del De Rinaldis, autori di qualche volenteroso contributo
al disegno napoletano in età barocca.
E bisogna giungere alla grande mostra del 1938, tenutasi a Castel
Nuovo, per vedere una intera sala dedicata alla grafica, con 72
fogli riferentisi ai tre fatidici secoli ai quali la rassegna era
consacrata.
Le opere provenivano, salvo qualcuna privata, da importanti
collezioni pubbliche: la Società di Storia Patria, il museo di San
Martino e l'Accademia di Belle Arti.
La rassegna, pionieristica, fu possibile grazie all'impegno di
Roberto Pane, ma non diede i fecondi risultati che tutti
auspicavano, perché fu seguita dai tristi avvenimenti della guerra,
che produsse il criminale bombardamento sul Maschio Angioino, col
crollo della torre ove si trovavano le cartelle con i disegni della
Società di Storia Patria, che rimasero per mesi seppelliti sotto
l'infuriare della pioggia e si salvarono, anche se in parte
distrutti ed in parte danneggiati, grazie alla perseveranza ed
all'abnegazione di Alfredo Parente. Il materiale salvatosi fu in
ogni caso precluso all'attenzione degli studiosi per oltre un
decennio.
La conoscenza dei disegni dei maestri barocchi a Napoli e
nell'Italia meridionale deve moltissimo all'opera meritoria di un
italiano naturalizzato, Walter Vitzthum, che ha fatto della nostra
grafica il campo preferenziale dei suoi studi, conducendo per
decenni quotidiane ricerche presso le principali raccolte pubbliche
e private in ogni angolo della terra, coniugando mirabilmente la sua
tenacia teutonica con l'amore sviscerato verso il nostro disegno.
Negli anni Cinquanta una ripresa di interesse fu rappresentata
dall'inizio di un lavoro di classificazione e di restauro del
patrimonio grafico del museo di San Martino, che, con periodicità
mensile, fu oggetto di dodici piccole mostre, volute dal Causa a cui
fecero seguito negli anni Sessanta due importanti esposizioni
tenutesi negli Stati Uniti, ad ulteriore dimostrazione della
crescente importanza riconosciuta dalla critica internazionale alle
nostre tradizioni grafiche.
Queste rassegne si svolsero a Sarasota in Florida nel 1961, presso
il Ringling Museum, a cura di Creighton Gilbert e l'anno successivo
a Bernard Castel, nel Bowes Museum a cura di Tony Ellis.
Le opere presentate furono poi oggetto di un'accurata analisi
filologica e di profonde riflessioni da parte del Vitzthum sulle
prestigiose pagine della rivista Napoli Nobilissima, puntuale
testimone degli sviluppi delle nostre arti figurative, fondata dal
Croce nel 1892.
L'impegno a far riemergere dall'oblio dei secoli il cospicuo
materiale grafico conservato nel museo di San Martino è stato
proseguito, scomparso il Causa, dalla moglie, la professoressa
Marina Causa Picone, alla quale da pochi anni è stata assegnata
anche la prima cattedra universitaria di storia del disegno, al
corso di Conservazione dei beni culturali istituito presso il Suor
Orsola Benincasa. Un lavoro immane di schedatura e catalogazione che
ha impegnato ed impegna la studiosa, solo da poco affiancata in
questa impresa titanica da una giovane storica dell'arte, Rossana
Muzii.
Volendo percorrere ora, anche se brevemente, una cronistoria degli
sviluppi del disegno prima dell'arrivo a Napoli del Caravaggio,
dobbiamo come al solito partire dal 1600, un termine cronologico che
ci siamo imposti di rispettare in questa nostra rassegna, un inizio
di secolo che vede soltanto quattro artisti con una produzione
grafica tale da giustificare la nostra attenzione. Essi sono
Francesco Curia, Belisario Corenzio, Giovanni Balducci e Giovan
Battista Caracciolo.
Del Curia di recente è stato identificato un vasto gruppo di disegni
a Stoccolma, che ci ha permesso di apprezzare le caratteristiche
dello stile grafico dell'artista, il più colto ed il più raffinato
dei manieristi napoletani, "l'unico pittore di interesse e di
stimolo prima che l'arrivo del Caravaggio facesse di colpo sparire
tutta una generazione di paccottiglia partenopea" (Vitzthum).
Egli si differenzia nel disegno nei riguardi del prolifico Belisario,
dalla più alta quotazione, infatti «là dove Corenzio decora a larghe
pennellate, inchiostrature, senso della composizione. Curia quasi si
chiude in fini cesellature di segno, riuscendo a raggiungere un suo
stile ben differenziato e personale. elegante ed aristocratico ...
figure arrotondate, grazia nella composizione, occhi a punta di
spillo» (Causa Picone).
Il Balducci è più rappresentato, ma la sua opera grafica,
incompletamente collocata cronologicamente, è meno significativa per
gli sviluppi delle arti figurative napoletane, perché egli è
presente in città da poco prima del 1600.
Il Corenzio possiede viceversa una cospicua produzione, già a
partire dal 1580, che richiede ancora un'opera di definitiva
classificazione, perché alcuni lavori sono confusi sotto la
paternità di altri artisti.
Nella sua straripante produzione si distingue una fase manieristica,
più antica, quando è difficile distinguerlo dai disegni del
fiorentino Balducci, seguita da un periodo riformato, caratterizzato
da larghe pennellate acquerellate in azzurro.
Il Caracciolo fu l'unico pittore che, nonostante l'incontro con il
Caravaggio, conservò immutato il suo interesse per la grafica.
Per molto tempo l'unico foglio che la critica gli assegnava con
certezza era uno studio di tre figure maschili, conservato nel
cabinet des dessins del Louvre. In seguito, proveniente dalla
collezione Tessin, fu individuato un cospicuo gruppo di disegni che
potevano essergli attribuiti, di proprietà del National Museum di
Stoccolma.
Secondo il De Dominici una fonte ispirativa fondamentale per il
Caracciolo fu Annibale Carracci, dal quale egli derivò in maniera
cristallina nei disegni a carboncino una semplicità grafica ed una
nettezza nel tratto, che è privo di complessità calligrafica. Negli
anni giovanili il Caracciolo si espresse con una tecnica che faceva
uso del tratteggio, mentre negli anni della piena maturità il suo
ductus divenne dolce ed appena accennato, pur senza perdere il
vigore che egli espri¬meva nel delineare le figure, pregne di forma
ed emananti una forza scultorea.
Del Caravaggio, indiscusso maieuta della nostra pittura, e della sua
ostinata avversione al disegno, parlano senza ombra di dubbio i suoi
dipinti, pieni di pentimenti e carichi di violenza realistica e di
esasperati giochi di luce una caratteristica che lo accomuna ad un
altro grande nel panorama figurativo napoletano, punto fermo di
riferimento per gli altri artisti non solo per la pittura, ma anche
per le arti grafiche: il Ribera. che nella sua bottega pontificò per
decenni il culto della verità tenendo alta la fiaccola del
caravaggismo, fino alle soglie del barocco.
Per il Ribera l'interesse per il disegno fu una costante che
accompagnò tutta la sua attività e la sua produzione grafica
costituendo un modello per un'intera generazione di artisti
napoletani, fino al suo ultimo e più geniale allievo: Luca Giordano.
Egli adoperò un poco tutte le tecniche a disposizione, dalla penna
al lapis, dalla matita alla sanguigna, eseguendo studi di figure e
di particolari, come pure intere composizioni.
Il valenzano eseguì nei quaranta anni di permanenza nella nostra
città un grande numero di disegni. molti dei quali ci sono
pervenuti, tra cui nel 1622 una serie di tavole con illustrazioni
anatomiche.
Egli fu molto attento nelle sue figure a delineare attentamente
espressioni e gestualità. La sua attività grafica fu del tutto
autonoma, infatti ben pochi disegni possono associarsi ai suoi
dipinti.
I suoi fogli sono tutti di elevata qualità ed evidenziano l'assoluta
maestria e la collaudata sicurezza di chi si serve assiduamente
della penna o della matita. Studi rifiniti con effetti di morbido
chiaroscuro, di grande libertà espressiva e tematica.
Il De Dominici era proprietario di numerosi disegni del grande
spagnolo, del quale ci descrive la maniera con cui usava la penna, a
larghi tratti senza sollevare la mano dalla carta, eseguendo teste
allungate dalla chioma sottile e leggera il cui principale valore è
nella espressione. Il biografo settecentesco non fu l'unico a lodare
l'artista per questa sua attitudine, perché anche altre fonti
storiche sottolineano la sua attività di disegnatore indefesso ed
avvalorano, a sostegno delle loro tesi il grande successo che il
Ribera incontrò tra i collezionisti della sua grafica.
Il ductus caratteristico del Ribera, che ci permette di distinguere
i suoi lavori, è evidenziabile nei rapidi tratti di contorno
continuamente interrotti e contorti, il cui esempio più esplicativo
si può osservare nel foglio di «Apollo e Marsia», eseguito a penna
ed inchiostro nero, conservato a Roma all'Accademia nazionale dei
Lincei. Questa grande abilità del Ribera nell'uso velocissimo della
penna fece esclamare ad un suo celebre studioso ed estimatore, il
Brown: "Produce linee irregolari che pulsano come se fossero
caricate elettricamente".
Dalla costola del Ribera si dipartono le esperienze di due artisti,
Domenico Gargiulo e Salvator Rosa che, pur compagni a lungo nella
stessa bottega falconiana, nella grafica esprimono di Napoli, dei
suoi abitanti e del suo panorama due posizioni diverse, quasi
antitetiche: l'uno spinto alla rappresentazione di una cronaca
quotidiana spesso spietata che vede nei suoi disegni e nei suoi
schizzi nervosi il preciso illustratore, ma anche l'acuto testimone
di tante ingiustizie, mentre l'altro, pur lontano dalla sua patria,
mai dimenticata e sempre amata, conservò nella mente e nel cuore i
suoi ammalianti panorami, i suoi tramonti scintillanti, le coste. le
isole, i paesaggi animati da piccole figurine che richia¬mano un
virgiliano clima bucolico.
Esteriorità ma anche accesa e scoppiettante fantasia, che il Rosa
trasferì nei suoi fogli, spesso disegnati con creatività autonoma,
accurati, sovente firmati o siglati. Non solo panorami e paesaggi,
ma anche eroi ed animali fantastici che popolano prodigiose foreste
abitate da streghe e folletti, infestate da serpenti, zeppe di
fossili e di ricordi del passato. La sua grafica, più che la sua
stessa pittura, trabocca dei risultati di una sfrenata fantasia, che
non si stanca giammai e sempre ricerca nuove e meravigliose
creazioni.
La grafica del Gargiulo fu presa in considerazione dagli studiosi la
prima volta in occasione della mostra di Sarasota nel 1961 e si
imperniava su un gruppo di fogli conservato presso la Cooper Union
di New York. di cui uno era datato 1638, mentre altri provenivano
dal Metropolitan Museum e dal fondi della Smithsonian Institution di
Washington, che in passato aveva acquistato la collezione napoletana
del Duque de Durcal.
Nella monografia sull'autore, pubblicata nel 1994. vi è un ampio
capitolo sulla grafica, in cui vengono presentati numerosi inediti
ed un cospicuo gruppo di fogli conservato a Berlino nel
Kupferstichkabinett, proveniente dalla collezione Pacetti.
Studiando gli esiti del Gargiulo ci si avvede, oltre che contatti
con il Rosa, delle forti influenze riberiane anche in assenza di
quelle caratteristiche sottigliezze calligrafiche. Egli ama una
esecuzione scabra, senza fronzoli, con linee fortemente marcate, che
definiscono rapidamente le figure con tratti sovrapposti. Micco
"Scarnifica l'immagine, si tormenta nel segno nudo, interiorizzato,
quasi ridotto all'osso, decalcificato nel suo esasperato accento
intimistico. L'immagine desolata di una situazione popolare
tristissima, il presagio di un dolore, di una miseria, di una
condizione umana e sociale che egli persegue con la crudezza di una
cronaca vera" (Causa Picone).
Salvator Rosa è senza dubbio il più prolifico disegnatore dell'età
barocca, con oltre 800 fogli, con tecniche e formati diversi, che ci
sono pervenuti. La sua produzione grafica è stata studiata in
maniera esaustiva da critici stranieri quali il Wallace ed il
Mahoney, autore nel 1965 di un ampio repertorio, che approfondisce
in particolare i disegni eseguiti in funzione dell'utilizzo per
l'incisione, attività alla quale l'artista si dedicò assiduamente
nel settimo decennio del secolo.
Il Rosa, oltre a studi preliminari all'esecuzione di incisioni,
soprattutto acqueforti, realizzò anche numerosi disegni destinati ad
essere venduti come opere d'arte indipendenti, nei quali amò
rievocare quei misteriosi paesaggi, aspri di rocce e densi di
vegetazione con alberi morenti ed i classici rami spezzati, animati
da figure di eremiti e da candide creature di un irragiungibile epos
virgiliano.
Egli si espresse con la più ampia libertà di esecuzione e pur
riprendendo dal Ribera alcuni elementi, quali la rapidità del tratto
e la semplicità del modellato, raggiunse apici sconosciuti al pur
grande valenzano. Nell'acquerello, tecnica prediletta dal Rosa,
riuscì ad ottenere effetti di luce di inusitata ampiezza; elevati
livelli qualitativi gli erano altresì congeniali attraverso l'uso
della penna e del gessetto. Fecondo ed apprezzato come incisore e
come grafico, affidò alla diffusione dei suoi fogli gran parte della
sua fortuna, che fu pari alla sua fama di pittore.
Il Falcone riveste una posizione centrale nel panorama della grafica
partenopea, non solo per la sua ampia produzione, della quale ci
sono pervenute molteplici testimonianze, ma principalmente per aver
istituito nel 1636 per tre mesi presso la sua abitazione una vera e
propria accademia di studio del disegno del nudo dal vero sulla
falsariga di quelle esistenti in altre città italiane come Bologna,
Firenze o Roma. Dell’argomento è prodigo di informazioni il De
Dominici che parla del suo "studio dell'accademia e dei buoni
modelli per impossessarsi perfettamente del nudo" e "volentieri
copiava alcune belle teste di Guido, di fresco venuto a Napoli, come
si osserva da molte teste verginelle disegnate su quello stile, la
qual cosa troppo piaceva al Ribera". Una precisa testimonianza di un
interesse profondo per il disegno, come espressione autonoma da
parte di un artista napoletano. documentata inoltre dal riferimento
di un contratto stipulato con un modello.
Per il Falcone la pratica del disegno costituisce una essenziale
esecuzione che lo impegna quotidianamente, sia per studi preliminari
ai suoi dipinti ed ai suoi affreschi, sia per realizzare fogli,
spesso a sanguigna, destinati ad essere commerciati. I soggetti
rappresentati erano i più vari, dalle accademie alle battaglie ed
anche disegni di paesaggio, molti dei quali vennero acquistati da
don Gasparo De Haroy Guzman che possedeva ben trenta volumi di
grafica antica e contemporanea.
Il De Dominici mostra di conoscere e di apprezzare i disegni del
Falcone quando afferma che "aggiunge alla forza di Ribera la
dolcezza di Guido". Alcuni esiti della sua applicazione possiedono
uno straordinario vigore ed uno stupefacente impatto visivo come il
famoso "Ritratto di Masaniello", conservato alla Pierpont Morgan
Library, un adattamento di un disegno di Leonardo da Vinci, eseguito
in vista della realizzazione della "Battaglia di Anghiari".
Alla figura dell'”Oracolo" va strettamente riferita quella di Andrea
De Lione, anch'egli valente battaglista, interessato alla grafica
nella stessa ottica falconiana ed a sua volta possessore, come si
evince dal suo testamento, di numerosi disegni dei suoi colleghi.
"La linea di demarcazione tra gli elaborati grafici del Falcone e
del De Lione si presenta più evidente e sensibile negli studi per i
dipinti, impercettibile invece nelle accademie di nudo" (Causa
Picone).
Tale sottile distinguo non è stato ancora affrontato dalla critica
anche se si può affermare che i disegni del Falcone sono più
dinamici ed impregnati di vigore naturalistico, mentre il De Lione
appare più compendiario e con un'eco più flebile.
A distinguere i due artisti ci aiutano le immancabili dichiarazioni
del De Dominici che del De Lione riferisce "fu molto studioso del
disegno, e massimamente del nudo. E infatti vanno a torno molte sue
accademie assai ben disegnate, come altresì molte teste, e parti del
corpo, a somiglianza del maestro (Falcone) che simil faceva". A
conferma di queste parole, nel museo di Capodimonte sono conservate
due splendide sanguigne rappresentanti ben dotati nudi virili,
firmate, ed illustrate dal Blunt già prima dell'ultima guerra.
Il ductus grafico del De Lione si basa su "un contorno netto con
angoli ben delineati e sulle linee che spiccano delle figure e le
ombre rese col tratteggio di segni paralleli" (Sestieri). La resa
dell'immagine è immediata, mentre il movimento è esplicato con
contorni appena accennati ed ombreggiature che definiscono le forme.
Bernardo Cavallino come disegnatore rimane a tutt'oggi un continente
inesplorato ed i pochissimi fogli che gli possono essere attribuiti
con certezza, anche se di raffinata fattura, realizzati con un tocco
rapidissimo ed animati da una vibrante agitazione superficiale,
costituiscono la punta di un iceberg che stenta ad emergere.
L'altissima qualità dei fogli pervenutici e la rarità dei pentimenti
nei dipinti del Cavallino, ci fa supporre che la sua produzione sia
stata ben più cospicua ed anche se alcune realizzazioni
probabilmente giacciono non identificate nelle collezioni private o
nelle anonime cartelle di qualche sezione di disegni di un lontano
museo, la maggior parte probabilmente è andata persa.
Una possibile distruzione può essere avvenuta durante la peste del
1656, che colpì la nostra città e lo stesso pittore, ed un destino
simile può aver interessato anche i disegni di altri artisti,
ingenerando per secoli la convinzione che i pittori napoletani non
si applicavano molto alla grafica, ma si dedicavano al più presto ai
loro pennelli ed ai colori. Infatti bisogna tener presente che
durante l'infuriare del morbo una commissione fu incaricata di
segnare con una croce le case degli appestati, le cui cose
indiscriminatamente venivano date al fuoco e per attizzare le fiamme
cosa può esservi di meglio della carta!
Destino crudele, che in tempi recenti ha di nuovo danneggiato il
patrimonio culturale della città, quando, dopo il sisma del 1980, i
terremotati alloggiati nei locali attigui alla storica biblioteca
dei Gerolamini, inconsapevoli nuovi barbari, adoperarono per mesi,
senza che nessuno intervenisse né si indignasse, le pagine di
antichi libri e di rari manoscritti per riscaldarsi nelle tiepide
notti partenopee!!!
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