il seno nell'arte
dall'antichità al settecento
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Il capitolo della rappresentazione del seno nell’arte è poco meno che sterminato, perchè già nelle epoche più remote ignoti artisti hanno glorificato questo prezioso attributo della femminilità.
La più antica testimonianza può essere considerata la Venere di Willendorf (01) del Kunsthistoriches museum di Vienna, risalente al Paleolitico. Raffigura una Grande madre o una Madre originaria. E’ un simbolo universale del femminino, una dea dell’amore e della fertilità ed è caratterizzata da una marcata evidenziazione dei genitali esterni e da un seno spazioso e prominente. L’evidenziazione di caratteri che richiamano un chiaro principio di fertilità identificano questa figura femminile come dea madre, garante di un rinnovamento regolare della vita. Questa immagine gioca un ruolo particolarmente significativo in una società fondata sulla produzione di risorse naturali. In questa Venere ottentotta le forme femminili sono esasperate oltre misura in una deificazione della fertilità senza nulla concedere al bello come concetto estetico, categoria che comincerà ad affermarsi soltanto a partire dal classicismo ellenico.
Intorno a 6000 anni prima della nascita di Cristo risale il modello
d’argilla policroma (02) della cultura di Halaf, conservato al Louvre,
raffigurante una figura femminile dalle forme accentuate e
caratteristiche. La scultura è completamente nuda, accovacciata, con le
braccia ripiegate sotto i seni molto marcati, in un’originale posizione
evocatrice del parto.
Tra le antiche civiltà, presso gli Egizi, la figura di Iside raggiunge la maggiore estensione cronologica e geografica, dall’area del Mediterraneo alle remote regioni transrenane e transdanubiane. In seguito, con l’affermazione del Cristianesimo, la sua immagine mentre allatta Horus rivive nella Madonna del latte, iconografia di grande diffusione della quale mostriamo un esempio (04), di collezione privata napoletana, dovuto al pennello di un ignoto stanzionesco, attivo intorno al 1640.
Nella mitologia greca il mito della Grande madre si trasferisce nella dea Giunone, la quale, una volta accolta nel pantheon romano, diventa la protettrice delle donne ed un archetipo di bellezza che giungerà immutato fino al Rinascimento. La divinità era portatrice anche di una simbologia materna, che trova la sua poetica affermazione nel mito della Nascita della via Lattea, originatasi da un abbondante fiotto di latte schizzato dai suoi seni prorompenti mentre allattava il piccolo Ercole (05), come magistralmente narrato dal Tintoretto nella sua tela oggi a Londra alla National Gallery.
Le Mater Matuta, significative testimonianze dell’arte popolare delle
antiche genti campane, sono statue in tufo raffiguranti Madri (06) con
sulle braccia neonati in fasce in atto di offerta alla dea Matuta,
tutrice della maternità e della fecondità. Esse sono conservate in
numerosi esemplari al museo Campano di Capua e coprono un lungo periodo
dal VI al I secolo a.C. Le sculture votive di madri ultra prolifiche
esaltano con acuto realismo la vigoria di una popolazione che riponeva
nella fecondità l’unico mezzo efficace per espandersi, occupando nuovi
territori.
Sempre in tema di fecondità e di nutrimento attraverso il latte una silloge perfetta può essere considerata l’Artemide Eresia (07) conservata nel museo Archeologico di Napoli, una replica romana in alabastro della statua del santuario di Efeso, simbolo di fertilità e di forza vitale, ben espresse dalle numerose file di mammelle pendule, alle quali fanno da contraltare i poderosi scroti dei tori sacrificati. La dea dai molti seni ha un grande ascendente sugli uomini e sugli dei, infatti sia gli uni che gli altri la cercano e la desiderano e lei può ottenere tutto ciò che vuole. Le donne la guardano viceversa con stupore ed invidia per l’autorità ed il potere che possiede. Al suo cospetto le mani vogliose dell’uomo rimangono incerte su quale seno afferrare e finisce per stringerli tutti assieme appassionatamente, rischiando di soffocarne qualcuno.
E sempre nel museo napoletano, nella sezione del Gabinetto erotico,
degna di nota una statuetta fittile (08), proveniente da Pompei, che
illustra la leggenda di Perona che allatta Micone, il vecchio padre
prigioniero e condannato a morire di fame. Del celebre mito, trattato
anche in pittura, parleremo più diffusamente quando di esso si occuperà
Caravaggio in un episodio delle Sette opere di Misericordia.
Nella villa del celebre banchiere pompeiano Cecilio Giocondo vi erano
numerosi pannelli con scene dionisiache, posti all’altezza delle
finestre, interpretate da Satiri e Menadi e realizzate da artisti
specializzati nel genere. Intrise di un nitore classicistico, che ne
attenua l’aspetto a volte violento della scena, fanno altresì risaltare
il contenuto erotico e l’ars amandi, nella quale i Romani erano grandi
conoscitori, non solo a livello teorico. Nel pannello (09) conservato
nel Gabinetto erotico napoletano, una raccolta unica nel suo genere e
visitata con interesse da turisti di tutto il mondo, abbiamo un satiro
che pare conosca molto bene la tecnica dei preliminari e passi senza
indugi alla stimolazione del seno della donna, non insensibile alle sue
esplicite intenzioni. Il seno della donna è sodo e ben dritto, come
andava all’epoca di moda, infatti quando erano flosci erano
intollerabili per i romani, che considerandosi la punta più avanzata
della civiltà, disprezzavano i seni delle donne barbare, penduli e
ballonzolanti, sudati e puteolenti.
Splendidi esempi sono il Sarcofago delle Amazzoni del Kunsthistoriches
di Vienna e quello conservato nel museo Egizio Etrusco di Roma (010).
Prima di esaminare dettagliatamente il lungo percorso della cultura figurativa occidentale nella rappresentazione del seno, volgiamo un breve sguardo alle arti primitive, dove non mancano esempi di attenzione all’esaltazione delle mammelle come organo legato al nutrimento ed alla fecondità della terra ed al lontano Oriente, Cina ed India, patria di civiltà millenarie e di un’arte raffinata.
Tra gli esempi di arte primitiva africana segnaliamo una statuetta
femminile in legno (012) del museo de l’Homme di Parigi, un prodotto dei
Senufi, un popolo che abita la savana a nord della Costa d’Avorio. La
scultura realizzata a stacchi netti e con un profilo estremamente
angoloso, presenta un seno pendulo ed estremamente appuntito, che
concorre ad evidenziare la protuberanza acuminata del ventre. Mammelle
afflosciate ed addomi batraciani sono da millenni il segno distintivo
delle popolazioni centro africane, caratteristiche prodotte, la prima da
una congenita lassità dei muscoli pettorali, la seconda da una
ipovitaminosi latente e diffusa.
Una pittura rupestre risalente al II secolo d.C. nell’isola di Ceylon
(l’attuale Sri Lanka) raffigurante una ragazza col fiore (015), munita
di un bel seno rigoglioso, ci permette di conoscere quale fosse la sua
forma ideale indicata nel sacro testo Samudrika Lakshanas: i seni
perfetti sono pieni e pesanti come brocche piene d’acqua, duri e sodi
come i frutti della palma o delicati e lisci come i frutti del mango.
Altri testi sacri propongono una chiave di lettura del carattere della
donna attraverso l’osservazione delle sue forme anatomiche, una
fisiognomica ante litteram applicata al torace… I seni dell’eroina
devono essere simmetrici, pesanti e sensuali, toccarsi tra loro di modo
che lo stelo di un fiore di loto non vi possa passare in mezzo. I
capezzoli devono essere puntati in avanti come il becco di un
pappagallo. I seni ben separati con i capezzoli in avanti indicano una
donna di facili costumi, i capezzoli orientati in direzione diverse
indicano che la donna è incostante.
Capolavoro della letteratura erotica di tutti i tempi il Kamasutra,
famoso codice indiano delle posizioni dell’amore scritto in sanscrito
tra il IV ed il VII secolo, è stato arricchito di immagini esplicative
da artisti di ogni latitudine, ma per documentarlo, anche se brevemente,
abbiamo scelto due antiche raffigurazioni coeve eseguite da artisti
indigeni, che meglio di chiunque altro potevano trasfondere nelle
didascaliche illustrazioni lo spirito che sottende alla mera esecuzione
dell’atto sessuale. Nel Kamasutra si dedica particolare attenzione ai
seni che portano i segni dei graffi di un amante in estasi. Un grosso
graffio vicino al capezzolo veniva definito il salto della lepre e le
donne erano orgogliose di mostrare alle altre donne questi trofei
d’amore come prova inoppugnabile del successo con i propri amanti.
La più straordinaria trasposizione artistica dei concetti espressi nel Kamasutra possiamo apprezzarla nel tempio dell’amore a Khajuraho (019) nell’India centrale, un intero santuario sulle cui pareti una sconfinata fantasia scenografica ha collocato un vero e proprio diluvio di statue, raffiguranti una moltitudine di coppie avvinghiate in tutte le posizioni del Kamasutra, in una felliniana orgia di massa. Questa gigantesca copula è stata variamente interpretata dagli studiosi, che hanno pensato al trionfo del climax dell’anima umana che si ricongiunge al divino attraverso il sesso praticato fino alla sublimazione. Altri hanno ipotizzato una celebrazione alla grande del principio femminile, che eccita e domina l’universo. Infine alcuni, con minore fantasia e maggiore malizia, hanno supposto che questi raffinati riti orgiastici avvenissero realmente all’interno del tempio in particolari occasioni. Certamente in passato esistevano molti altri edifici sacri così intensamente evocativi del sesso, al quale nessuna civiltà ha dato maggior risalto più di quella indiana, con quella selva di seni tutti eguali e nello stesso tempo tutti diversi, ma solo quello di Khajuraho è giunto fino a noi; tutti gli altri sono stati distrutti dalla furia iconoclasta del bigotto moralismo mussulmano, nemico delle immagini e parsimonioso consumatore dei piaceri della carne.
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