La figura di Giuseppe Marullo si è persa a lungo nel limbo degli stanzioneschi minori e sulla sua fama, più del disinteresse della critica, ha pesato il parere severo di Raffaello Causa, che lo liquidò definendolo "un ritardatario provinciale ispido e legnoso", anatema che andò ad aggiungersi al giudizio, già poco lusinghiero, espresso dall'Ortolani nel 1938: "volgare combinatore di elementi riberiani e stanzioneschi in goffo barocchismo, con qualche momento più calmo alla Pacecco". Ed anche studiosi contemporanei come De Vito, non conoscendo evidentemente tutta la produzione dell'artista, hanno espresso (nel 1993) pareri negativi: "del suo stanzionismo di maniera, delle sue figure un po' allampanate e disarticolate si è scritto abbastanza per raffreddare anche l'entusiasmo di giovani studiosi".
De Dominici, che rappresenta l'unica fonte di notizie sul pittore, per quanto non sempre precisa ed attendibile, lo include tra gli scolari di Massimo Stanzione ed in una posizione di rilievo; infatti alla morte del maestro, è proprio il Marullo a ricevere il testamento spirituale del caposcuola, la sua raccolta di disegni di pittori seicenteschi napoletani e parecchie notizie biografiche sugli stessi. Appunti scritti che passeranno poi al De Dominici e costituiranno la più importante fonte per le "Vite" degli artisti del secolo d'oro della pittura napoletana.
Sui dati biografici gli unici riferimenti sono quelli forniti dal celebre biografo settecentesco, che lo dava nativo di Orta di Atella, senza specificare quando, e morto a Napoli nel 1685. Purtroppo gli archivi del piccolo comune casertano, vera culla di pittori, che ha dato i natali, a distanza di pochi anni, anche a Massimo Stanzione e Paolo Finoglio, sono da tempo dispersi e vanamente ho cercato, con il cortese aiuto di padre Illibato, nei registri di morte della parrocchia di San Giovanni Maggiore, oggi conservati nell'Archivio diocesano, tracce del suo decesso, evidentemente avvenuto altrove, in contrasto con il celebre biografo, il quale riferisce che il Marullo, "uomo attempato", povero e senza amici, colà fosse stato sepolto. E vanamente ho compulsato, per giorni e giorni, tutti i processetti dei matrimoni avvenuti a Napoli nel 1665 alla ricerca di quello del Nostro con la giovane nipote, sempre seguendo il referto dedominiciano.
Fig.1 e Fig. 2
Salvo colpi di fortuna i dati biografici dell'artista continueranno perciò a rimanere incerti, con una data di nascita intorno al primo decennio del secolo, perchè la sua prima tela (fig.1), firmata e datata, è del 1631 e non del 1633, come riferito nella autorevole scheda biografica del catalogo di Civiltà del Seicento ed è opera di un pittore già maturo, nel pieno dei suoi mezzi espressivi, allo stesso livello di qualità della Madonna del latte della chiesa annessa al Ritiro Mondragone, ritenuta la sua ultima opera, eseguita intorno al 1685. Oltre cinquanta anni di attività, sempre ad un livello medio alto, senza quelle cadute di qualità riferite dalle fonti, che segnalano un lungo periodo di allontanamento dallo stile del maestro Stanzione alla ricerca di una diversa maniera. Affermazioni che hanno creato confusione anche nella critica, che negli anni gli ha attribuito i dipinti più disparati, appartenenti ad artisti oggi meglio conosciuti, come Niccolò De Simone e Pacecco De Rosa.
Alla figura del Marullo vanno associate quelle del suo figliuolo Aniello, anche lui pittore e di due suoi allievi Giuseppe Garzillo, un illustre carneade e Nicola Marigliano, citato in seguito anche dal Giannone, autore delle "Giunte" alle "Vite", scritte tra il 1768 ed il 1773. Sul Marigliano, i pur fertili archivi napoletani non hanno ancora partorito alcun documento di pagamento, lasciandolo nel novero degli "artisti senza opere".
La mancanza di precise coordinate biografiche e la scarsità di documenti di pagamento viene compensata dall'abitudine, quasi costante, da parte del Marullo di firmare elegantemente in latino (o siglare) e datare le sue opere, anche meno importanti e di possedere uno stile facilmente riconoscibile, con le teste dei personaggi maschili permeate da un imprinting caratteristico, allungato e spigoloso, che richiama a viva voce il tipico stile del Greco pre-spagnolo, probabilmente studiato dall'artista durante qualche visita di aggiornamento a Roma. Questa lampante similitudine è rimasta sorprendentemente a lungo misconosciuta dalla critica, fino a quando non è stata evidenziata dal De Vito in una breve nota del 1984. Le figure femminili sono ancor più facilmente identificabili, con il volto, dolcissimo, racchiuso in un ovale patognomonico ed un cono d'ombra sulla guancia sinistra, che rappresentano, nelle tele anonime, la firma nascosta dell'artista.
fig.3
In oltre la metà dei suoi quadri compaiono dei corposi angioletti ad ingentilire la composizione, derivati dalla serena contemplazione e riflessione dell'artista sulla Madonna del Rosario (fig. 2), realizzata nella città natale del Marullo, Orta di Atella, nella Congrega del Rosario da Francesco Curia nel 1603. Angioletti che ritroveremo, sovrapponibili, in altre tele di stanzioneschi, da Pacecco De Rosa a Giacinto De Populo. Una caratteristica singolare, una ulteriore forma di firma nascosta, è l'assenza, quasi costante, delle ali nei pur svolazzanti angeli del Marullo (fig. 3-4).
La rivalutazione dell'attività dell'artista è imperniata sulla comparsa sul mercato delle aste internazionali di alcune sue tele di altissima qualità, che hanno raggiunto cospicue quotazioni, come è il caso della Fuga in Egitto (fig. 5), battuta il 9 luglio del 2003 da Sotheby's a Londra, la quale, dopo un'accanita gara al rialzo, ha stracciato ogni precedente record di aggiudicazione per un dipinto di un minore... napoletano: 280.000 euro, come dire oltre mezzo miliardo delle vecchie lire; un ingresso trionfale tra i top ten della prestigiosa casa d'aste londinese. E di recente a New York è stato battuto un altro quadro di spettacolare bellezza, una replica con varianti (fig. 6) dell'Incontro di Rachele e Giacobbe di collezione Luongo a Roma, vendita che ha suscitato l'interesse di una raffinata platea di collezionisti internazionali.
Inoltre, anche sul mercato antiquariale, negli ultimi anni sono riemerse altre tele del nostro pittore, fino ad oggi un dimenticato stanzionesco, noto soltanto ai napoletanisti più esperti. Ma, dopo la scoperta delle sue ultime opere, individuate anche in collezioni private, la figura di Giuseppe Marullo esige una rivalutazione in senso critico, almeno della sua fase giovanile, la più esaltante. Non più un tardo e pedissequo imitatore dei modi stanzioneschi, come la critica a partire dal De Dominici lo ha sempre inquadrato, bensì una feconda personalità autonoma capace di fondere e rivisitare le maggiori parlate della pittura napoletana intorno alla metà del Seicento. Si tratta semplicemente di recuperare la posizione occupata dal Marullo negli anni, oltre cinquanta, della sua attività, quando godette certamente di buona fama, come dimostrato dalla presenza di numerosi suoi quadri negli inventari delle più importanti famiglie napoletane dell'epoca. A dimostrazione di quanto affermato percorreremo le tappe più salienti della produzione del Marullo, portando all'attenzione degli studiosi un numero cospicuo di opere inedite o poco conosciute.
Fig.6 e Fig.7
Partiamo dalla Madonna col Bambino e due sante (fig.7) della chiesa delle Pentite di Castrovillari in Calabria, che è la sua prima opera, firmata e datata 1631, sfuggita all'attenzione degli studiosi, nonostante fosse citata in una guida del Touring del 1981. Nella tela, di buona qualità, segno di un artista già maturo, è presente la Maddalena, prototipo di pentita per antonomasia. Il dipinto fu ordinato a Napoli per la erigenda chiesa del Conservatorio delle Pentite e rimase al suo posto anche dopo le trasformazioni settecentesche. Il richiamo agli schemi compositivi stanzioneschi è lampante, coniugato a raffinatezze formali alla Cavallino ed a qualche spunto naturalistico di stampo riberesco.
Posta tra le nuvole, la Vergine, dal patognomonico ovale, cifra distintiva dell'artista durante tutto il corso della sua cinquantennale attività, ha in braccio il Bambino, che si torce in una leziosa movenza, mentre in alto, in una luce dorata, si intravedono delle testine di cherubini. A sinistra, con le mani congiunte al petto e le dita elegantemente affusolate, in un fluire elegante di vesti, sta inginocchiata Santa Maria Maddalena con il viso dolcemente illuminato. Sul lato destro è posta Santa Maria Egiziaca, coperta da un velo ai limiti della trasparenza, che offre in sacrificio il suo cuore a Gesù, mentre con la mano destra espone la piccola croce che le fu compagna nelle preghiere nell'afoso deserto, ove si era ritirata in meditazione.
E giungiamo alla famosa Sacra famiglia con Sant'Anna e due santi benedettini martiri (fig.8) della chiesa dei SS. Severino e Sossio, ritenuta la prima opera nota dell'artista, ricordata da tutte le guide locali e lodata dal De Dominici: "opera bellissima con dolcezza di bel colorire". Firmata e datata 1633, fu eseguita su committenza del duca di Salsa e testimonia riferimenti culturali ampi ed articolati, dalle rughe della vecchia di matrice riberesca alla preziosa veste della Vergine, che richiama l'eleganza cromatica del Finoglia. La composizione si staglia vigorosa con precisione nel disegno ed effetti luministici di superficie, a dimostrazione della varietà di ispirazione degli artisti napoletani a cavallo della metà degli anni Trenta, quando il filone di ascendenza naturalista si coniuga volentieri con la corrente stanzionesca, attenta al colore ed alla rappresentazione di delicati sentimenti di intimità familiare.
Nella stessa chiesa, nella seconda cappella destra, l'artista eseguì una seconda tela, firmata in primo piano su di un gradino "Ioseph Mar. F.", raffigurante la Discesa dello Spirito Santo (fig. 9), anch'essa lodata dal De Dominici per il bel componimento e la forza del chiaroscuro. L'opera non è datata e a differenza della Sant'Anna appare meno articolata e più rigida nella composizione. L'espressività dei volti si stempera in tratti convenzionali ed in forzature di tipo accademico. Un dipinto in cui "il pittore sembra rafforzare l'interesse per l'espressione colta attraverso il gesto, la posizione della testa e delle mani, lo sguardo ora attonito, ora stupefatto, ora atterrito, ora incredulo" (Ascione). Il Marini, oltre a pubblicare una Visione di San Girolamo (fig. 10), firmata "Joseph", collocata dallo studioso agli anni Quaranta, segnala una Madonna col Bambino ed i santi Giovan Battista, Anna e Gioacchino (fig. 11) ad ubicazione ignota, per la quale propone una data di esecuzione contigua al 1633, per stringenti analogie con la Sant'Anna della chiesa di San Severino e Sossio. Nella prima tela lo studioso sottolinea l'altissima qualità dello scorcio di paesaggio, che rammenta il pennello del miglior Spadaro e la corretta esecuzione della natura morta, esempio della pittura "secca" dell'artista ispirato, oltre che dal Finoglio, dallo Stomer e dal Van Somer anche dalle più scorrevoli aggettivazioni del vandijckismo italiano.
Fig.10 e Fig.11
Del 1634 è la Caduta di San Paolo (fig. 12), firmata e datata, già nella chiesa di San Paolo Maggiore, di cui vi è una replica con varianti (fig. 13) nella chiesa di Santa Sofia a Giugliano. Ed a proposito di queste due tele bisognerà più attentamente riconsiderarne l'iconografia, perchè è difficile che il Santo si convertì alla visione di una donna in topless...
Del 1635 è una Susanna e i vecchioni (fig. 14), firmata e datata, di collezione privata napoletana, tutta giocata su colori tetri e corruschi, incluso l'incarnato cianotico della casta fanciulla, quasi a voler simboleggiare l'atmosfera d'intrigo che sottende al celebre racconto biblico.
Questa tela è stata per molti anni proprietà del principe... Antonio De Curtis, in arte Totò, che la conservava nel salotto della sua casa romana ed è stata immortalata anche in uno dei suoi più celebri film, "Letto a tre piazze".
Sempre del 1635 è un'altra tela di collezione privata napoletana, di straordinaria bellezza, firmata e datata, raffigurante San Giovanni Battista (fig. 15).
Fig.14 e Fig.15
Il quadro presenta degli squillanti impasti cromatici, dal manto rosso, dalle eleganti pieghe sinuose, del Santo al bianco villo, cespuglioso, della pecorella in primo piano.
Il volto efebico dell'illustre fanciullo, di rara dolcezza, non trova riscontro, non solo in altre tele dell'artista, ma in tutto il panorama figurativo napoletano del secolo. Egli si inchina ad accarezzare il suo umile compagno di viaggio, ma con il dito ammonisce severamente a cercare la retta via. Lo scorcio di paesaggio nella parte alta è scuro e tenebroso, ma in basso acquista un chiarore abbacinante, simbolo di speranza e di redenzione.
Una tela inedita che permette all'artista un grande salto nella considerazione della critica, fino ad oggi ferma a valutare quasi esclusivamente le opere chiesastiche.
Nel 1636 l'artista riceve 70 ducati per un quadro, di palmi 13 per 9, raffigurante la Madonna di Costantinopoli con San Giovanni Battista e Santa Chiara; probabilmente si tratta della pala (fig. 16) collocata sul quarto altare destro della chiesa di San Francesco di Matera, firmata e datata 1637. Essa raffigura, assisa tra le nubi, la Madonna con il caratteristico cono d'ombra sulla guancia, segno distintivo che permette di riconoscere costantemente il pittore in assenza di firma e documenti. In alto svolazzano spericolatamente alcuni angeli senza ali, altra caratteristica del Marullo, mentre in basso, tra le figure dei due santi, si intravede una città devastata dalle fiamme sulla quale altri due volenterosi angioletti, novelli pompieri, riversano generosamente acqua nel tentativo di domare l'incendio.
La tela respira aria stanzionesca e si colloca in quel clima culturale introdotto a Napoli dal "divino Guido" al ritorno dal suo secondo soggiorno romano, quando cominciò ad avere successo una pittura tesa, in contrasto con le tematiche portate avanti dai caravaggisti, al recupero ed all'esaltazione di valori quali la bellezza e la grazia.
Nel dipinto materano la Barbone Pugliese ha sottolineato quanto la figura del San Giovanni risulti simile nella posa all'omonimo personaggio della Predica del Battista, capolavoro dello Stanzione, conservata al Prado. Sempre della Barbone Pugliese è l'ipotesi che al Marullo appartenga una Madonna del Rosario (fig. 17), di collezione privata pugliese, probabilmente eseguita in consentaneità cronologica alla tela di Matera.
Convincenti sono i raffronti avanzati dalla studiosa: un volto quasi sovrapponibile tra la Santa Chiara e la Santa Caterina da Siena e l'immagine della Vergine che richiama quello della Sacra Famiglia dei santi Severino e Sossio.
Del 1638 è una monumentale Madonna (fig. 18) assisa tra le nubi circondata da un nugolo di vispi angioletti festanti, mentre il Bambino gioca con un ciondolo smaltato a forma di croce appeso ad un prezioso nastro serico che regge tra le manine, con grande probabilità una decorazione cavalleresca del committente, il cui stemma nobiliare, chiaramente visibile in basso a sinistra, attende l'esperto di araldica che lo riconosca. La tela, di grandi dimensioni, firmata e datata, fu pubblicata dal Pinto, che sottolineò l'accostamento del Marullo alla temperie stanzionesca nell'interpretarne gli orientamenti di caldo accomodamento delle forme, di tornitura dei volumi, di delicati impasti cromatici.
Fig.18
Del 1639 sono due pannelli ad olio (fig. 19-20) conservati ai lati dell'altare nella chiesa di Santa Maria della Consolazione a Villanova, entrambi siglati ed uno datato. A grandezza naturale rappresentano Sant'Agostino e San Giovanni Battista. Di mediocre qualità, mostrano l'artista suggestionato dalle coeve esperienze di ambito iberico, soprattutto il Battista "ricorda in qualche aspetto le affilate impostazioni disegnative di Zurbaran" (Lattuada). Influsso della cultura spagnola che ritroveremo ancora in alcune delle tele del Marullo, come nella Pesca miracolosa, nella quale è tangibile lo stile del Greco nella definizione delle figure allungate e spigolose.
Per alcuni anni mancano quadri firmati e documenti, fino al 1643, quando realizza per Domenico Mazzarotta una serie di tre ritratti non rintracciati e, sempre nel 1643 esegue, secondo Spinosa, alcuni dei rametti che circondano la monumentale Madonna del Rosario realizzata da Massimo Stanzione per la cappella Cacace in San Lorenzo.
Nel 1644 esegue, sempre per Domenico Mazzarotta, un quadro di Noè ubriaco ed un Venere ed Adone al momento dispersi, ed una Storia di Giacobbe con le pecore, di palmi dieci per sette, dipinto che per dimensioni e datazione si può identificare con quello pubblicato prima dalla Barbone Pugliese nel 1983 e l'anno successivo dal De Vito (fig. 21).
Fig.21
Il dipinto ha una travagliata storia che comincia nel 1977 all'ufficio esportazione di Napoli, quando, in procinto di essere inviato in una collezione straniera, viene attribuito a Pacecco De Rosa ed identificato, erroneamente, come Isacco e Giacobbe. Dopo lunghe peregrinazioni viene identificata la firma, in basso a destra "Joseph Marulli F.", che successivamente viene abrasa per spacciare... il quadro sul mercato sotto un nome di maggior valore commerciale. Ricomparsa nel 2003 in un' asta Porro, la tela è oggi in collezione Luongo a Roma.
Con questa opera si entra nel periodo d'oro del Marullo, in passato ignoto alla critica, ispirato più che a Stanzione alle migliori prestazioni di
Pacecco, anche lui in quegli anni al top della produzione. Nell'Incontro di Rachele e Giacobbe il Marullo si confronta con una tematica cara al Maestro dell'annuncio ai pastori, ma il soggetto viene trattato, non con la violenza naturalistica e drammatica del "tremendo impasto", bensì con delicatezza misurata e sottile introspezione psicologica dei personaggi, i quali "comunicano tra loro con i gesti cortesi ed eloquenti propri della commedia teatrale; la classica impaginazione, articolata per linee orizzontali, si arricchisce di connotazioni pittoresche, dettagli, costumi preziosi, come nelle coeve tele del De Rosa della raccolta
D'Avalos e del Finoglio nel castello di Conversano" (Pacelli).
A questa opera si accosta un' inedito di straordinaria bellezza (fig. 6), esitato nel 2004 ad un'asta
Christie's a New York, nel quale la medesima modella, agghindata elegantemente e con in mano lo stesso bastone adoperato nell'Incontro di Rachele e Giacobbe ha come sfondo, un luminosissimo cielo azzurro, che sembra eseguito da uno specialista del calibro di Andrea Di Lione o Domenico
Gargiulo.
Il 1644 è l'anno di esecuzione di un importante ciclo, sia a tela che a fresco, che il Marullo porta a compimento nella chiesa di San Sebastiano nella cupola e nella zona
presbiteriale. Tutte le antiche guide accennano e lodano il lavoro dell'artista, purtroppo non pervenutoci per la rovinosa perdita della chiesa, all'epoca uno dei più importanti templi napoletani.
Nel 1646 riceve dei saldi di pagamento per il completamento delle tele per il soffitto della Pietà dei Turchini: "per tutti li quadri fatti, consignati per servizio
dell'intempiatura". Malauguratamente anche questi lavori non sono giunti fino ai nostri giorni.
Al 1647, con grande probabilità, possiamo collocare una testa mozza di martire su un piatto metallico, firmata per esteso, identificata dal Pinto come ritratto funebre di Masaniello (fig. 22).
Lo studioso si è diffuso in un'analisi dettagliata del dipinto, sul quale è presente un tocco magistrale di naturalismo: una mosca che sosta indisturbata in vicinanza dei grossi vasi del collo, correttamente descritti con rara precisione anatomica. Nessun committente avrebbe tollerato una così invadente presenza sul collo di un martire della chiesa, per cui prende credito l'ipotesi del ritratto di Masaniello, divenuto forse santo nell'immaginario popolare, ma pur sempre un santo laico...E se fosse vera questa identificazione la tela potrebbe "datarsi anche nell'anno della peste (1656), quando la figura dell'eroe può essere stata invocata quale taumaturgo intercessore"
(Pinto).
Nel 1651, un documento del Banco di Pietà (fol.612 del 27 aprile), ci segnala l'artista al lavoro per il monastero di San
Liguoro, dove esegue alcuni quadri ed in particolare una Cena del Signore, probabilmente il prototipo della Cena in Emmaus (fig. 23) del museo Correale di Sorrento, una tela precedentemente attribuita ad Alonzo
Rodriguez, quando questo artista era poco noto ed oggi, dopo un accorto restauro, riconducibile più plausibilmente al pennello del
Marullo. Raffronti convincenti possono operarsi nei riguardi di opere certe
dell'atellano, come ha giustamente sottolineato la Maietta, dall'Immacolata già in San Giacomo degli Spagnoli, con la quale il Cristo della Cena condivide lo stesso sguardo in estasi ed il delicato volgere degli occhi languidi verso l'alto, ai due discepoli che somigliano ai personaggi della Pesca miracolosa del museo di
Capua. Ed infine il taglio prospettico ravvicinato, soluzione adottata con successo nel San Pietro liberato di collezione privata spagnola.
Fig.22 e Fig.23
Nel dipinto sorrentino, oltre ai brani di natura morta, di precisione ottica
caravaggesca, particolare pregnanza assume l'eloquente fraseggio delle mani del Cristo e dei discepoli, che assume dignità di colloquio senza parole. Abilità teatrale che il Marullo dimostrerà più volte di saper padroneggiare con disinvoltura, dall'Incontro di Rachele e Giacobbe alla stessa Pesca miracolosa.
Nel 1659 incontriamo un'altra tela firmata e datata (la data da alcuni è letta 1639) nella chiesa di Sant'Anna a Sessa
Aurunca, un'Immacolata, (fig. 24-25) da taluni identificata come Sant'Anna. Il dipinto è stato pubblicato dal
Villucci, il quale ha evidenziato l'influsso sulla composizione degli esempi del Guarino in terra di Puglia dopo il 1650 ed il richiamo al Finoglio per gli effetti luministici della veste. Da segnalare inoltre l'accurata e stanzionesca definizione delle dita, affusolate, ed il caratteristico cono d'ombra sulla guancia sinistra della Vergine, che fissa gli occhi al cielo con calma serafica.
Nella stessa chiesa il Villucci assegna al Marullo anche una Flagellazione di Cristo, di minore qualità e probabilmente eseguita lo stesso anno.
F
L'iconografia dell'Immacolata è stata ripetuta dal Marullo in una tela conservata nella sacrestia (fig. 26) della Cattedrale di Castellammare di
Stabia, collocabile cronologicamente un po' più avanti negli anni e di qualità più modesta. La Vergine viene rappresentata con lo sguardo rivolto verso l'alto, in estasi, e le mani incrociate sul petto in atto di profondo raccoglimento.
Nel 1660 coesistono opere di alta qualità come l'Ebbrezza di Noè, firmata e datata, già a Napoli in collezione Baratti, descritta con toni entusiasti da Causa, che la intravide sul mercato antiquariale negli anni Sessanta, dove le figure sono tutte rappresentate in primo piano, come nella Liberazione di Pietro della collezione Manuel Gonzales di Madrid e danno l'impressione di soffrire per il limitato spazio a disposizione.
Il quadro è oggi ad ubicazione sconosciuta, e non è stato possibile rintracciarne una foto. Grazie al fiuto del giovane dottorando Napoletano, nel museo di Marsiglia è stato identificata un' altra Ebbrezza di
Noè, (fig. 27) chiaramente firmata in primo piano, che non può essere quella vista da Causa negli anni Sessanta, perchè risulta proprietà del museo da molti anni prima, ma forse potrebbe essere la tela per cui esiste un pagamento eseguito da tal Domenico Mazzarotta nel 1644.
Fig.27 e Fig.28
A fronte di un capolavoro, in simultanea il Nostro realizza a Terlizzi, nella chiesa di Santa Maria la Nova, una tela ad impianto accademico (fig. 28), un'Estasi di Sant'Antonio da Padova, firmata e datata, ambientata in una nuda cella conventuale, in cui fanno compagnia al santo pochi umili oggetti: un povero giaciglio, un amletico teschio e dei libri per la meditazione, oltre al duro inginocchiatoio sul quale trascorrere gran parte della giornata. Si respira un'aria di calma serafica e di appagamento completo, percepito dai gioiosi angioletti, che fanno da corona al Santo, elegantemente levitante in estasi verso l'agognata apparizione divina.
Del 1663 sono dei grossi dipinti, rappresentanti storie bibliche (fig. 29-30-31-32), forse quelli realizzati per conto del vicerè don Pietro Antonio d'Aragona, oggi conservati in un dimenticato locale attiguo alla sagrestia del Gesù Vecchio, nei pressi della stanza dove ogni Natale viene preparato il famoso presepe dei Gesuiti. Essi in passato costituivano certamente degli sportelli per coprire l'organo, oppure delle porte; sono assemblati a due a due e curiosamente con frammenti delle due storie che vanno così ad intersecarsi senza filo logico.
Fig. 29 - 30 - 31 - 32
Su uno dei dipinti, quello raffigurante l'Angelo, in basso a destra vi è la firma
"Ioseph Marullo/F 1663".
Le tele non sono ricordate da alcuna delle fonti antiche, che pure segnalano varie opere del Marullo nella chiesa, sono impregnate di spirito controriformistico e rappresentano temi biblici particolarmente suggestivi della provvidenza divina e della denunzia della tirannia delle istituzioni. La concatenazione logica degli episodi è il seguente: in una delle tele, dentro un fitto bosco, Agar, con indosso una elegante veste rossa e marrone, piange inginocchiata e si rivolge misericordiosa verso l'Angelo, raffigurato in un altro scomparto, mentre dietro di lei vi è il figlioletto Ismaele morente. Sullo sfondo invece Agar riesce a salvare l'innocente fanciullo dalla morte per sete grazie al pozzo che gli ha indicato l'angelo.
Nell'altro episodio testamentario descritto Lot, con la veste marrone ed i ricami in oro, viene salvato dai due angeli e, seguito dalle figlie, scappa da
Sodoma, mentre la città è distrutta dalle fiamme. Sullo sfondo sua moglie, che si è fermata ed ha voltato lo sguardo per vedere ciò che succede, è condannata ad essere pietrificata in una statua di sale.
Bisogna notare come questo gruppo di tele, realizzate in anni ben avanti la bufera della peste, facciano del Marullo un testimone esemplare del progressivo passaggio avvenuto nella pittura napoletana dalle istanze naturalistiche e pittoricistiche a quelle barocche e come l'artista si assesti sui modi di un naturalismo temperato da calibrature compositive di tipo classicista.
Le tele sono una intelligente combinazione di motivi riberiani in chiave
stanzionesca, rivisitata alla luce di un classicismo alla Pacecco.
Fig.33 e Fig.34
Sempre nella chiesa del Gesù Vecchio, tanto vicine ai modi marulliani che ci sentiamo di assegnarle all'artista, vi sono altre due tele nella prima cappella a destra: quella collocata sull'altare maggiore (fig. 33), che ripete gli schemi compositivi della Sacra famiglia di San Severino e quella posta sulla parete destra della cappella (fig. 34), simile alla Sant'Anna della chiesa di Santa Maria della Verità. Antiche guide, tra cui il
Giannone, segnalavano altre opere dell'artista nella chiesa: un Sant'Ignazio che guarda Gesù con la croce in spalla, e sulle pareti laterali della cappella di San Raffaele, un'Annunciazione ed una Vedova di
Nain.
In particolare, per il Sant'Ignazio, il Celano riferisce che l'artista "per sua infermità non poté finirlo di sua mano", forse perchè commissionato in anni successivi alle tele precedentemente descritte.
Al 1664 appartiene una Liberazione di San Pietro (fig. 35) presentata da pochi giorni nel nuovo museo dell'Opera dell'Istituto Suor Orsola
Benincasa. Essa è firmata in primo piano "Ioseph Marullus Neapolitanus F. 1664".
Fig. 35
L'opera è descritta già nel 1669 al centro del Refettorio del Convento da Francesco Maria Maggio, autore di un ragguaglio dei beni del monastero. L'episodio descritto si richiama alla celebre tela di Battistello del Pio Monte della Misericordia, ma fissa il momento precedente alla liberazione, quando l'angelo, sfolgorante, appare all'improvviso al santo. L'angelo è lo stesso che compare nelle scene bibliche del Gesù Vecchio eseguite l'anno precedente. La tela assegnata da Stefano Causa al Marullo per raffronti stilistici, prima che al restauro comparisse la firma, costituisce un ulteriore tassello per la riabilitazione dell'artista "Ritardatario ispido e legnoso? Piuttosto un'interpretazione dialettale: una declinazione tra il rustico ed il saporito, negli anni di decorso del cosiddetto classicismo
stanzionesco, ormai diviso tra qualità e industria" (Stefano Causa).
Lo studioso sottolinea del dipinto l'intonazione accesa di lumi abbaglianti, alla maniera di
Stom, accompagnata ad una definizione delle forme caricaturale e ad una tavolozza scoppiettante.
Fig. 36 e Fig. 37
La tela è pervasa da un potente dinamismo, mentre "la tenue penombra, che si addensa nello stretto vano del carcere e la posa spericolata dell'angelo in equilibrio precario affidato al perno del piede poggiante a terra, rivelano inoltre un interesse per le soluzioni sofisticate introdotte a Napoli negli anni '40 e '50 da Bernardo Cavallino"
(Sellitto).
Il 1667 è l'anno i cui è documentata, nella chiesa della Sapienza, una tela con la Vergine ed il Bambino tra San Gaetano e Sant'Andrea Avellino, iconografia che ritroviamo identica nella seconda cappella a sinistra (fig. 36) della vicina chiesa di Sant'Andrea delle Dame. Per ironia del destino entrambe le composizioni, in anni diversi, sono state trafugate ed addirittura è stata rubata anche la foto nell'archivio della Sovrintendenza.
Fig. 38 e Fig. 39
Gli stessi santi teatini compaiono anche in un gruppo di tele conservate in provincia di Benevento ad Airola nella chiesa di Regina
Coeli. Si tratta con grande probabilità di realizzazioni coeve, per la qualità mediocre di tutti i dipinti, che rappresentano con poche varianti la medesima iconografia. I soggetti sono: San Gaetano e Sant'Andrea Avellino che contemplano la piaga nel costato di Cristo (fig. 37), la Vergine incoronata tra i due Santi (fig. 38) e San Francesco che rende omaggio alla Madonna col Bambino (fig. 39).
Nella Sapienza si trovava anche una Maddalena assetata (fig. 40), oggi in deposito, alla quale portano soccorso i caratteristici angioletti che le porgono una brocca.
Fig. 40 - 41 - 42
Nella maestosa parrocchiale dei Santi Cosma e Damiano a Secondigliano, ai lati del coro, immersi nel buio e dimenticati da tutti, anche dalla schedatura della Sovrintendenza, si trovano due grossi teloni, che il Lattuada riconobbe come esiti del pennello del
Marullo. Rappresentano Storie della Vergine: una Sacra famiglia (fig. 41) ed un'Immacolata e Santi (fig. 42); uno dei due è datato 1667. Narrano ad un pubblico di bocca buona, come erano gli abitanti dei casali napoletani nel Seicento, storie religiose con rustica semplicità e felice vena narrativa. Una pacatezza da calda intimità familiare, che sarà piaciuta a committenti capaci di ottenere a buon prezzo dipinti che non sfiguravano nel paragone con i caposcuola, senza dover far fronte ai prezzi proibitivi richiesti da Stanzione e dallo stesso Andrea
Vaccaro.
Dopo un intervallo di oltre dieci anni di assenza di opere firmate o documentate, ritroviamo un'altra tela, di straordinaria qualità, firmata per esteso e datata 1678: un incontro di Rachele e Giacobbe (fig. 43) in collezione privata napoletana, proveniente dalla raccolta Garzilli di
Solofra, ove si trovava ab antico. Una composizione di grandi dimensioni animata da un intenso dinamismo, pubblicata dal
Pinto, in cui i personaggi, riprodotti a grandezza naturale, occupano con autorità la scena. Il tema era stato già trattato dall'artista (l'omonima tela in collezione Luongo a Roma), ma in questo dipinto sono accuratamente narrati tutti gli elementi iconografici fondamentali della vicenda.
Fig.43 e Fig.44
Lasciamo ora la parola al noto studioso per la descrizione: "L'atteggiarsi delle figure è caratterizzato da perspicue indagini di carattere, che disgelano tratti psicologici non certamente risolti col semplice ricorso alla maniera. Il colore è disteso con sapienza e gusto, i personaggi individuati con acume: si rileva così la aperta ed ammiccante compiacenza di
Labano, che dà in sposa la figlia Rachele a Giacobbe, il sussiego contegnoso di questo, la vaghezza femminile della donna che occupa il centro psicologico e geometrico della composizione...Poi occorre aggiungere i brani di natura morta, gli scorci paesaggistici, le architetture in rovina, il brano delicatissimo che illustra il Sogno di Giacobbe, un autentico gioiello di rara preziosità cromatica, le pecore del gregge di Rachele tutte bellissime, da far quasi invidia ad un Maestro dell'Annuncio ai Pastori"
(Pinto).
All'ultima fase della produzione marulliana potrebbe appartenere anche la Decollazione di San Gennaro in collezione privata napoletana ed infine, almeno secondo il racconto del De
Dominici, la Madonna del latte, (fig. 44) sita nella chiesa annessa al Ritiro
Mondragone. Il parere del biografo settecentesco sulla tela è lapidario e quanto mai severo: "che fa pietà il vederlo". Non concordiamo assolutamente con il pur autorevolissimo parere, perchè a nostro giudizio il quadro ha una qualità in linea con la maggior parte della produzione dell'artista, la quale, lo ribadiamo, ad eccezione di alcuni quadri chiesastici, è di buon livello e fa del Marullo un autorevole comprimario in quella folta schiera di "provinciali orbitanti" che costituiscono, a fianco dei giganti, la spina dorsale di quel tempo felice per le nostre arti figurative, giustamente ricordato come il secolo d'oro della pittura napoletana.
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