E giungiamo così al decennio della produzione di più alto livello, quando, anche nel campo della mai sopita collaborazione con il patrigno, interrotta soltanto con la morte di questi nel 1650, il De Rosa prende il sopravvento, entrando a pieno titolo tra gli stanzionisti, che si distinguono, nel composito panorama artistico napoletano, per una pittura piacevole e discorsiva, ove l'impegno formale cede spesso alla quantità ed alla rapidità, in un momento in cui, dopo la rivoluzione pittoricistica esplosa intorno al 1635 in città, tutte le voci dominanti presenti nell'antica capitale vicereale, da Artemisia al Monreale, dal Lanfranco al Domenichino vengono assorbite e si amalgamano in un milieu culturale nel quale solo l'occhio esperto è in grado di riconoscere le variazioni minime di espressione tra i pittori, che prendono a copiarsi... l'uno con l'altro.
fig. 177
Per tutti gli anni Quaranta costante sarà l'influsso sulla pittura di Pacecco della lezione del Domenichino con le sue composizioni serene, i suoi personaggi idealizzati ed innocenti, il suo linguaggio poetico etereo, che si trasmetterà sulle tele del Nostro le quali presenteranno un equilibrio armonico della scena, un inconfondibile timbro cromatico ed un ritmo fluido ed incisivo dei contorni dei personaggi, facendo tesoro del paradigmatico dettame dell'artista bolognese:" il disegno dà l'essere e non v'è che abbia forma fuor dei suoi termini precisi...il colore senza disegno non ha sussistenza alcuna".
Pacecco diviene così il fondatore di una corrente, di ispirazione classicistica e di matrice reniana, tendente a stemperare le asperità del naturalismo caravaggesco e ad a creare calde atmosfere di intimità familiare, rese con un estenuato addolcimento delle fisionomie e l'uso costante di una tavolozza dai colori vivi e rassicuranti. Un movimento, pregno di dignità culturale che, con non lievi trasformazioni, giungerà fino al XVIII secolo, attraverso la lezione di Francesco De Maria, che ne sarà un teorizzatore convinto, fino a Francesco De Mura, assertore di un movimento accademico ed antibarocco. Un caposcuola, del purismo, anche se minore, alla ricerca di toni cromatici lucenti, di atteggiamenti, di grazia manierata, leziosa ed a volte stucchevole, con un'attenzione minuziosa alla resa dei particolari preziosi delle vesti, produttore di incarnati alabastrini di bellezza idealizzata dalle vivide tinte simili a maioliche policrome o a smalti cloisonné, con un gusto formale assai prossimo agli esempi del Sassoferrato. Nei suoi dipinti di più alta qualità il purismo dello stile giunge ad una tale sublimazione che l'evento narrato viene trasposto nei limiti di cadenze musicali di puro impreziosimento cromatico. Con l'occhio vigile e attento sulla produzione, non solo di Stanzione, ma anche di Vouet, Artemisia, Cozza e Mellin. Immanente, come un nume tutelare, su tutta la produzione dell'artista "la grande ombra del Domenichino, dall'alto dei pennacchi del Tesoro di San Gennaro, a Napoli, ma soprattutto da Palazzo Farnese a Roma e dall'Abbazia di Grottaferrata" (Causa). Un tipico dipinto di quegli anni, dai colori luminosi come porcellana, è costituito dalla Sacra Famiglia col Battista fanciullo (fig. 177), già in collezione privata a
Solofra.
fig. 178
Divenne all'ora uno degli artisti più ricercati dagli ordini religiosi e dalle famiglie nobili, sia a Napoli che nel viceregno, come testimoniato ampiamente dal De Dominici: "In case particolari poi ve ne sono infinite, ma i palagi del Duca di Maddaloni, del principe di Tarsia, del principe di Sonnino e di tutti i titolati son pieni di sue opere".
Le sue quotazioni salirono anno dopo anno, come hanno evidenziato gli ancora troppo scarsi documenti di pagamento.
Assunse un ruolo di protagonista, divenendo uno dei dominatori nell'affollato limbo di "provinciali orbitanti", che si contendevano commissioni pubbliche e lavori privati. Egli fu sempre molto richiesto da una clientela laica, innamorata delle sue figure femminili, generosamente nude, di ricercata bellezza interpretata da modelle "dotate di fascino e grazia tipicamente partenopea di colorito bruno nelle carni e di capelli neri", come nel grande, non solo di dimensioni, quadro raffigurante il Ritrovamento di Mosè (fig. 178), uno dei capolavori dell'artista, proveniente dagli Stati Uniti, museo dell'Università di Santa Barbara in California ed in vendita di recente presso l'antiquario Amodio, un tripudio di" fanciulle elegantemente vestite di stoffe preziose, rasi, sete, damaschi, che indossano oggetti d'oro, collane di perle, orecchini e altri gioielli di valore e monili di corallo rosso, un prodotto tipico della costa vesuviana"
(Pacelli).
fig. 179
Un quadro, il Ritrovamento di Mosè, di qualità e dimensioni sovrapponibili al Massacro degli innocenti (fig. 179), capolavoro del De Rosa conservato al museo di Filadelfia, una tela, per quanto costituita da un collage di invenzioni stanzionesche, eseguita con negli occhi la grande pala del Reni della Pinacoteca di Bologna. La tavolozza è dominata da una tonalità dorata e da un'ombra trasparente. Il dipinto trasmette all'osservatore una tempesta di emozioni. Sembra quasi di sentire il grido lacerante delle madri che vedono strapparsi dal seno le proprie creature innocenti. Folle e crudele è esploso un sadico meccanismo di distruzione che pure si manifesta in una composizione raccolta senza romperne i ritmi, le misure e la simmetria. Donne e sicari sono animati da una cieca energia, mentre a terra cadono già straziati i primi cadaverini. Le bocche spalancate delle madri emettono un suono gelido, marmoreo, che rimbomba all'infinito e sembra raccogliere in sé tutti i dolori del mondo.
fig. 180
fig. 181
La scena è drammatica e commovente, ma una regia ineffabile sembra bloccare i gesti dei protagonisti in una staticità senza luogo e senza tempo, mentre il potente dinamismo dell'episodio è colto in un'ottica che riduce il movimento a fissità, avvolta in una vertigine che tutto risucchia in un orrore infinito, che congela i nostri sensi e le nostre emozioni, ci fa trattenere il respiro, quasi partecipi della tragedia che si compie sotto i nostri occhi.
Della tela esistono più redazioni: una, di altissima qualità, nella chiesa parigina di Santa Margherita (fig. 180), una seconda, con varianti, ella Quadreria della chiesa dell'Incoronata del Buon Consiglio (fig. 181), della quale mostriamo anche due particolari (fig. 182) e (fig. 183) ed una terza, passata in asta da Christie, (fig. 184), nella quale l'iconografia viene esaltata in un dettaglio di estenuata drammaticità.
fig. 182-183
fig. 184-185
fig. 186-187
Contigua cronologicamente alle tele precedenti è l'Andata al Calvario (fig. 185), composizione di grande espressività, che presenta la stessa tavolozza di colori freddi e la stessa modalità di raggruppamento delle figure, come fu giustamente evidenziato dall' acuto occhio dell' Ortolani: "movimentati aggruppamenti barocchi".
Un cielo luminoso domina la scena descritta con profusione di accenti naturalistici, dalla fronte rugosa del Cireneo allo sterno prominente dell'aguzzino, avvolto in un gioco d'ombra e penombra compiutamente caravaggesco. La tela proviene dalla raccolta di Alfonso d'Avalos, il leggendario marchese del Vasto, nobile guerriero, ma soprattutto raffinato intenditore d'arte e di belle donne, che amava, non solo biblicamente, ma anche con gli occhi, per cui voleva anche che fossero degnamente raffigurate nella sua famosissima pinacoteca, esemplare del gusto borghese partenopeo degli anni di metà secolo.Tra queste vi è il Giudizio di Paride (fig. 186), dove le tre dee, nature, espongono le loro grazie, a dir la verità eccessivamente rinascimentali ed ipercolesterolemiche per un occhio moderno, al giudizio del principe troiano. Da questo quadro derivò probabilmente la leggenda, riferita dal De Dominici e ripresa anche da studiosi moderni, in base alla quale Pacecco si servisse come modelle per i suoi dipinti delle sorelle prima (Diana, Lucrezia e Maria Grazia) e delle nipoti poi (Anna, Speranza e Caterina), tutte, notoriamente, di una bellezza devastante, a tal punto da meritare il soprannome di tre Grazie. Se la cosa è possibile e probabile per le sorelle è pura fantasia per le nipoti, dopo che il Prota Giurleo ha identificato le loro date di nascita, addirittura il 1652 per la più giovane delle tre.
Il tema mitologico che sottende al Giudizio di Paride permette all'artista di meglio esprimere la sua inventiva, ben espressa con eleganza di gesti ed armonia di sentimenti. Uno spadariano cielo azzurro, solcato da nuvole orlate di rosa, ci rammenta con malinconia un nitore atmosferico oramai dimenticato, scalzato da pioggie acide e buchi d'ozono. Le ombre scompaiono completamente, mentre gli incarnati assumono la lucentezza della più preziosa porcellana.Un paragone è d'obbligo con l'altra redazione del Giudizio di Paride (fig. 187), che parte della critica propone di trasferire nel catalogo della Gentileschi e che il Causa, dopo essere stato attribuito ad altri artisti, anche di gran nome come il Vouet, collocò nel catalogo del De Rosa, in un momento culminante del suo periodo classicista, per la chiarezza dei colori, per la delicatezza delle anatomie femminili e per la dolcezza dell'impianto
compositivo.
fig. 188
Sempre un tema pagano è alla base del Bagno di Diana (fig. 188), a lungo a Palazzo Reale ed oggi a Capodimonte, noto anche come Diana ed Atteone, un pretesto mitologico per mostrarci dodici irresistibili fanciulle in pose leziose e conturbanti, di una modernità sconcertante, coperte da qualche raro panneggio, unicamente per sfoggio d'abilità di definizione del pittore.
Tra i dipinti più famosi dell'artista, essendo stato in mostra sia nel 1938 che nel 1972, raffigura il noto episodio di Diana e le sue ninfe le quali, mentre si bagnano e si trastullano tranquillamente alla fonte, vengono spiate dal cacciatore Atteone che, scoperto dalla dea, viene da costei trasformato in cervo e dilaniato dai suoi stessi cani.
Il dipinto è la più genuina espressione di un classicismo solare e gaio che, ispirato dal Domenichino, poggia sui colori freddi che definiscono i corpi vellutati delle ninfe attraverso il pennello malizioso dell'artista, che indugia sui nudi femminili per la gioia degli occhi voluttuosi del committente.
Stranamente l'Ortolani non apprezzò a sufficienza il vigoroso messaggio di voluttà emanato dai giovani corpi delle fanciulle e parlò di "tornita fiacchezza dei nudi di maniera", trovando un'eco successiva nella Rocco, che sottolineò nei nudi una chiara impostazione di stampo purista.
fig. 189-190
fig. 191
fig. 192
A nostro parere la modernità del dipinto lascia stupiti, partendo dalla constatazione che le figure femminili sembrano tutte riprese dal vero con particolare cura; sono ritratti di donne in carne ed ossa, non mere idealizzazioni; in particolare la graziosa fanciulla di schiena in primo piano sulla destra sembra precorrere di secoli le intuizioni di Ingres, per il neoclassico voluttuoso purismo da cui traspare in modo pungente la moderna emozione dal vivo, nella genuinità della posa e nella freschezza del dettaglio ispirativo. E cosa dire dell'incantevole giovinetta (fig. 189) che ci sfugge con lo sguardo sulla sinistra della composizione, dalla pettinatura che sembra uscita da un accorsato coiffeur e dal seno appena accennato. Una creatura diafana che sembra nata in un epoca in cui imperino le diete dimagranti e non le forme opulente care a Giorgione e Tiziano, una icona dal volto angelicato e dal corpo di una top model. E' certamente la modella della Susanna e i vecchioni (fig. 190) e forse la misteriosa Flora (fig. 191) del museo di Vienna.
Un altro soggetto mitologico, proveniente dalla collezione d'Avalos e descritto come gli altri nell'inventario stilato nel 1862, al momento della donazione della raccolta allo Stato, è Venere e Marte (fig. 192). Dobbiamo ricordare che il nobile marchese in quell'anno volle legare alla pinacoteca di Capodimonte la sua ampia e preziosa collezione, rimasta poi sciaguratamente per oltre un secolo nei depositi. Egli intese con il suo encomiabile gesto congiungere il nome della sua casata, che tanto amore nutriva per le arti figurative, all'eternità rappresentata dal museo, segno distintivo di un mecenatismo e di un'apertura mentale, di cui purtroppo si sono perse le tracce. La tela in esame è giocata su colori chiari e rassicuranti, che ben esprimono il momento culminante del colpo di fulmine tra le due divinità, umanizzate in un ambiente di sano sapore campestre. Gli amorini collaborano attivamente allo sboccio ed al materializzarsi del sentimento, in particolare, come fu sottolineato dalla Rocco, il più birbante che sta sciogliendo i calzari a Marte è un prelievo letterale dalla Toletta di Venere di Annibale Carracci, conservata alla National Gallery di Washington.
fig. 193
Pendant della tela precedente una Venere dormiente scoperta da un satiro (fig. 193) , anche esso nato come elegante sovrapporta.
La modella è una delle ninfe del Bagno di Diana (fig. 194) e la composizione è imperniata sull'uso di colori laccati, traslucidi e fortemente contrastanti, dal rosso cardinalizio dei tendaggi al blu metallico del prezioso panno su cui è adagiata la dea, dall'incarnato bianchissimo che fa risaltare la carnagione del satiro, paonazzo per il desiderio.
fig. 194
fig. 195
Il dipinto è impregnato dalla poetica del Domenichino e prende ispirazione da celebri lavori dei Carracci, conosciuti in area napoletana attraverso stampe ed incisioni, particolari che si apprezzano, come è stato evidenziato da Leone de Castris, nella figura della dea distesa dolcemente, col braccio rialzato ad esporre meglio la grazia del seno appena accennato e nel particolare posizionamento della parte inferiore del corpo e delle gambe.
I personaggi in primo piano dominano la scena, lasciando al panorama un piccolo luminoso scorcio, il tono è scherzoso: dal sorriso ammiccante del satiro alla stessa Venere, che guarda ad occhi chiusi e sembra accettare volentieri le profferte d'amore e pregustare con compiacimento le gioie dell'amplesso imminente. Nel frattempo i due amorini, complici, dal corpicciuolo delizioso, emanano grazia e gentilezza e ben appagano, in sintonia col corpo nudo della dea e quello muscoloso ed agile del satiro, i gusti di quella particolare committenza desiderosa di un linguaggio profano, esaltato da una sensualità ben esposta.
Sempre proveniente dalla collezione d'Avalos, una Didone abbandonata (fig. 195) ci rammenta la storia dell'eroe troiano Enea, il quale, per volere degli dei, fu costretto ad abbandonare Didone, dopo aver goduto della sua ospitalità e del suo amore e riprendere il mare per lidi lontani, dove alti destini lo attendevano. Tela, dalla marcata impronta classicista, di grandi dimensioni e di soggetto insolito per l'artista, che forse si ispirò ad un celebre ciclo di storie della Gerusalemme liberata commissionato al Finoglio dagli Acquaviva di Conversano. Il dipinto è privo di ombre, una caratteristica costante negli anni della maturità dell'artista ed è venata da una piccola ma significativa nota naturalistica nelle appena accennate lacrime che intristiscono il volto della sventurata regina.
fig. 196
Oltre al soggetto mitologico Pacecco dedicò una parte del suo lavoro anche al soggetto biblico ed al racconto dei Vangeli. Tra questi un Sacrificio nel tempio (fig. 196), conservato nel Castello di Opocno, incentrato su una serie di semifigure attorno al Bambino, che è lo stesso della tela di Gravina di Puglia (fig. 197), mentre altri personaggi presentano palesi somiglianze con altre tele del De Rosa; raffronti calzanti vanno inoltre fatti verso il Vescovo che battezza un bimbo, esitato in un'asta Christie's del 1980 e con il Battesimo di Santa Candida (fig. 198), al quale il dipinto in esame va accostato anche cronologicamente.
fig. 197-198
fig. 199
Un altro richiamo alle sacre scritture è costituito dalla Scena biblica (fig. 199) in collezione privata ad Ospedaletti, nella quale sulla destra della composizione si staglia poderoso un personaggio misterioso, probabilmente il committente, rappresentato con la forza e la vivacità di un ritratto.
Un Gesù e l'adultera di collezione privata napoletana (fig. 200), pubblicato dal Pacelli, prima come
Stanzione, è un classico esempio del pennello del Pacecco intorno al 1645, quando egli imprime nelle sue tele una iridescenza di colori ed una materia cromatica densa nella definizione dei preziosi abiti dei personaggi rappresentati. Il lato destro della composizione è il segno tangibile del persistere della lezione naturalistica del patrigno, anche negli anni di massima osservazione al dettato stanzionesco, con la resa quasi caravaggesca delle armature e degli elmi degli armigeri.
In prossimità cronologica con la tela testé descritta si colloca la originale composizione (fig. 201) nella quale il duca di Guisa riceve lo scettro dalla
fig. 200
fig. 201
Madonna implorata da Ludovico da Tolosa, della quale abbiamo già presentato una modesta copia di bottega (fig. 202). E' l'unico dipinto del Nostro che rievoca con certosina precisione un episodio della storia napoletana. Per l'episodio illustrato l'opera va collocata cronologicamente tra il 15 novembre 1647, data dello sbarco nella nostra città del duca e l'aprile del 1648, quando il nobile francese conclude miseramente il suo sogno di potere. Il quadro, luminosissimo per gli sgargianti colori dei protagonisti, conferma il rango elevato della committenza dell'artista: lo stesso duca o i nobili che lo seguirono nella sua effimera avventura. La tavolozza è dominata dal contrasto tra colori caldi e luccicanti, dai rossi agli arancioni che definiscono il sontuoso mantello del titolato, indossato con eleganza sulla sua uniforme verde appesantita da decorazioni di ordini cavallereschi e collari vari, mentre San Ludovico da Tolosa, scambiato da alcuni critici erroneamente con l'onnipresente San Gennaro, è identificabile per il sontuoso manto con i gigli angioini che ricopre il primitivo modesto saio francescano.
fig. 202-203
Un quadro spettacolare del periodo d'oro è Giuseppe e la moglie di Putifarre (fig. 203), già in collezione Molinari Pradelli, nel quale, oltre ai colori rutilanti delle vesti, leggiamo le emozioni espresse dai volti dei protagonisti: morboso desiderio sessuale nella donna, ostinata ritrosia nel giovane, che non vuole tradire la fiducia del padrone.
Un capolavoro assoluto del nostro Seicento, oggi purtroppo ad ubicazione sconosciuta.
La Susanna e i vecchioni della pinacoteca di Capodimonte (fig. 204) ha come protagonista la modella preferita di Pacecco, forse una delle sue sorelle, che abbiamo già conosciuto tra le ninfe nel Bagno di Diana (fig. 205), la quale dà le sue fattezze alla casta Susanna. L'episodio è tra i più noti raccontati dalla Bibbia e costituisce una rivisitazione in chiave di naturalismo classicizzato delle tele dello Stanzione e del Reni dedicate a questa diffusa iconografia. Il dipinto, erroneamente considerato da alcuni studiosi tra i più antichi dell'artista, è viceversa collocabile cronologicamente intorno ai primi anni Quaranta, come ben si evince dalla preziosa veste damascata di uno dei vecchioni, il più eccitato, eseguito sotto l'imprinting di Artemisia Gentileschi, indiscussa autorità nel campo della resa cromatica raffinata. Lo sfondo boschivo richiama, nella definizione del fogliame, il pennello del Gargiulo e collabora a creare un'aria di mistero e di atemporalità alla scena. I personaggi parlano attraverso messaggi espressi perentoriamente con le mani, con una gestualità tutta partenopea, e, possiamo intuire, anche arricchita da un vernacolo stretto, colorito ed onomatopeico.
fig. 204-205
fig. 206-207-208
In collezioni straniere troviamo altri due capolavori della maturità di Pacecco, una prorompente Lucrezia (fig. 206) che offre impavida il prosperoso seno al pugnale, conservata ab antico nella raccolta della famiglia Rochlitz ed un San Sebastiano curato dalle pie donne (fig. 207), in collezione privata ad Utrecht, attribuito in passato al De Rubeis, che reclama a gran voce la paternità del De Rosa.
Concludiamo la nostra carrellata con la Flora (fig. 208), conservata nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, della quale presentiamo una inedita replica autografa di altissima qualità dell'antiquario Currier di Napoli (fig. 209), che si differenzia dall'originale unicamente per la presenza di un nastrino nella ciocca dei capelli.
Il dipinto, eseguito con la precisione di un ritratto, faceva probabilmente parte di una serie raffigurante le quattro stagioni ed il nostro simboleggiava, con i suoi variopinti fiori, lo sbocciare della primavera.
Tra le fonti ispirative privilegiate della tela la pittura di Vouet, celebre ritrattista romano, esponente di spicco a Roma della corrente dei caravaggisti riformati, presente nella nostra città in chiese e nelle più importanti collezioni.
La fanciulla era una tra le modelle preferite di Pacecco, il suo volto con il caratteristico nasino, leggermente irregolare, è simile a quello di più di una ninfa del Bagno di Diana.
Il pennello dell'artista ha indugiato a lungo sulla tela alla ricerca di raffinati giochi di colore e di effetti luminosi, senza tralasciare qualche appena accennato ricordo naturalista sulla guancia sinistra della Flora.Il cestino dei fiori, in equilibrio instabile, presuppone la collaborazione di uno specialista, per la minuziosa indagine descrittiva dei petali e per la resa ottica delle singole specie raffigurate, eseguita con preciso realismo.
L'avventura terrena di Pacecco con grande probabilità si conclude nel 1656, quando la peste, assieme a circa metà della popolazione napoletana, spazza via una intera generazione di pittori. Pochi si salvarono, o perchè lontani dalla città o perchè, come Micco Spadaro, al sicuro tra le accoglienti e sbarrate mura della Certosa di San Martino. Invano si è cercato e si cercherà il suo documento di morte, in quei terribili giorni i cadaveri venivano ammassati in fretta e seppelliti in gigantesche fosse comuni.
Con la morte la fama dell'artista lentamente cresce e senza mai toccare vette supreme, mantiene costantemente un posto di rilievo nel variegato panorama della pittura napoletana del XVII secolo.
Speriamo che questa monografia, contribuendo a conoscerlo più approfonditamente, contribuisca a collocarlo definitivamente tra i più abili artisti del secolo d'oro.
fig. 209
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