Pacecco de Rosa
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Pacecco, come abbiamo visto, è imparentato con numerosi pittori, per cui l'abitudine tutta napoletana di prendere ispirazione dal lavoro dei colleghi è in lui più accentuata. Diventa così arduo distinguere il suo pennello da quello di artisti border line, non solo della cerchia stanzionesca, come Onofrio Palumbo o Giacinto De Populo, ma anche apparentemente lontani dal suo stile e dalla sua poetica, che divennero facilmente riconoscibili solo negli anni Quaranta. Confusioni attributive possono esserci anche per un occhio esperto verso Finoglia, Do, Guarino, Beltrano, Ragolia, De Bellis, Stanzione e la stessa Gentileschi.
Il dipinto paradigmatico di questa dipendenza culturale è costituito dalla spettacolare Immacolata di S. Domenico Maggiore (fig. 66), prelievo letterale dall'omonimo dipinto del museo municipale di Brest (fig. 67). Su questa iconografia presentiamo, per un utile raffronto, una tela (fig. 68) da decenni preclusa allo sguardo di appassionati e studiosi, già nella chiesa di San Giovanni Battista delle monache, che riteniamo molto vicina ai modi pacecchiani. Ed inoltre stimmate finogliesche sono molto evidenti nella S. Dorotea della Narodni Galerie di Praga e nella Lotta di Giacobbe con l'angelo (fig. 69), di collezione privata bresciana, pubblicata da De Vito. Due dipinti pugliesi ricalcano soluzioni luministiche parafiglionesche, essi sono: l' Annunciazione della chiesa matrice di Palo del Colle (fig. 70) e la Madonna col Bambino (fig. 71) del museo Pomarici Santomasi di Gravina, tele gemellate dalla medesima atmosfera di calda intimità e dalla stessa modella che presta il suo volto di innocente freschezza alla Vergine, reso con magistrale trattamento chiaroscurale, che richiama a viva voce la tecnica del Finoglia.
Poco studiato dalla critica il rapporto di dare ed avere con il cognato Giovanni Do sotto il cui influsso nasce probabilmente il Martirio di San Lorenzo (fig. 72) della parrocchiale di Lizzanello in provincia di Lecce, dominato da un netto taglio luministico e da un intenso contrasto chiaroscurale, che mettono in evidenza il riverbero, anche in aree culturali potenzialmente lontane, della forza espressiva del messaggio emanato dal "tremendo impasto". Alcuni volti ritorneranno in altre opere dell'artista, come il sacerdote che invita ad adorare l'idolo, il quale assumerà le sembianze del San Matteo di Capodimonte. Essa precede di qualche anno la spettacolare replica con varianti (fig. 73) conservata a Greenville negli Stati Uniti, presso la Bob Jones University, realizzata in prossimità degli anni Quaranta, in consentaneità cronologica con Il Massacro degli innocenti del museo di Filadelfia (fig. 74) e l'Andata al Calvario (fig. 75), già al museo del Sannio, con i quali condivide identiche fisionomie dei protagonisti e la medesima modalità di inquadramento delle figure in uno spazio ristretto.
La replica statunitense, speculare, con il corpo del martire ribaltato restando fissa la fonte luminosa, presenta poche varianti e tra queste domina la presenza, sulla sinistra, del ridanciano scugnizzo con la dalmatica ammappuciata sulle spalle, somigliante in maniera impressionante al Cam dell'Ebbrezza di Noè, già in collezione Calabrese, uno dei raggiungimenti più alti del nostro secolo d'oro, attribuito ad Annella dal Longhi ed oggi, secondo Bologna, nel catalogo di Filippo Vitale.
A questa temperie culturale appartiene la Visione di S. Antonio da Padova della Gemaldegalerie di Vienna (fig. 76) e le due splendide Adorazioni dei pastori, di Montecitorio (fig. 77) e di collezione privata fiorentina (fig. 78), entrambe segnate da un delicato equilibrio tra naturalismo e classicismo, assieme alle quali presentiamo l'inedita Adorazione (fig. 79) dell'antiquario Gabrius, di cronologia più antica ed una chicca rarissima, la tela (fig. 80), di collezione privata fiorentina, descritta dal Longhi negli anni Cinquanta e mai più sottoposta all'attenzione della critica. Il San Giuseppe col Bambino (fig. 81) del museo dell'Abbazia di Montevergine, viceversa, è più vicino allo stile di Giovanni Do, come sostenuto dal Fiorillo.
Rimanendo in area riberiana possiamo considerare alcuni dipinti contrassegnati da un cospicuo trattamento chiaroscurale, quali la Maddalena penitente dei depositi di Capodimonte, attribuita dal Bologna ed intrisa forse di eccessiva cultura caravaggesca, il Cristo deriso (fig. 82) conservato ad Albano Laziale nel Collegio del Preziosissimo Sangue, sicuramente opera giovanile appartenente ad una inedita fase di caravaggismo classicizzato ed il Martirio di San Bartolomeo (fig. 83), aggiudicato da Finarte nel 1979, che replica moduli compositivi e fisionomie del Ribera, tradite da una eccessiva morbidezza dell'incarnato e dei panneggi patognomonici di Pacecco.
Tra i dipinti famosi, il Rachele e Giacobbe (fig. 86) della Pinacoteca di Capodimonte, derivato da una più antica redazione in collezione privata napoletana, ed il Riposo dalla fuga in Egitto della collezione Laliccia.
Vicinissimo cronologicamente al quadro del museo francese lo splendido Ratto d'Europa di collezione privata napoletana, del quale una replica autografa è stata battuta presso Christie's nel 1978.
Sembrerebbe a prima vista del Guarino il Sacrificio d'Isacco (fig. 98), già in collezione Auzola a Madrid, assegnato invece dal Lattuada al De Rosa, per " i toni da porcellana nel pigmento degli incarnati di Isacco e nelle stoffe traslucide", mentre nel San Giovanni Evangelista (fig. 99), esitato da Christie's nel 1989, Pacecco interpreta in chiave classicistica la nota iconografia, arricchendola con un'impeccabile scelta di colori dall'effetto brillante. Anche il S. Antonio da Padova con Gesù Bambino (fig. 100) è passato in asta da Christie's a Roma nel 1990 come Guarino, ma più probabilmente è assegnabile al nostro artista in un felice momento di attenzione e convergenza verso la lezione di Massimo Stanzione. Infine la S. Orsola (fig. 101) di collezione privata napoletana, schedata dalla Soprintendenza genericamente come Santa martire ed assegnata al Guarino, è ritenuta dal Lattuada più vicina allo stile del De Rosa, in consonanza con i modi stanzioneschi.
Michele Ragolia è un pittore ancora poco noto alla critica, nonostante la sua produzione raggiunga a volte livelli molto alti, come nei due trionfi conservati a Schloss Rohrau. Suo è il San Francesco che soccorre gli ammalati (fig. 102), conservato in palazzo D'Ayala Valva a Taranto e proveniente dalla chiesa di San Francesco della cittadina pugliese. Esso è stato attribuito al De Rosa dal Galante, che opera raffronti con la Strage degli innocenti di Filadelfia, mentre alcune fisionomie non lasciano alcuna ombra di dubbio nell'assegnare il dipinto al Ragolia, fisionomie che caratterizzano più di un personaggio nel grandioso soffitto cassettonato della parrocchiale di Polla, capolavoro dell'artista.
A partire dagli anni Quaranta l'influsso stanzionesco (e probabilmente una vera e propria collaborazione, come documentato in alcune chiese napoletane) sarà sempre più palpabile nel suo stile, a tal punto che alcune tele sono assegnabili al De Rosa solo per la minore qualità rispetto al maestro, come la S. Caterina (fig. 104) conservata a Bratislava o la S. Orsola (fig. 105) esitata da Sotheby's a Londra nel 1989, nella quale "l'impianto della figura, la struttura semplificata dei panneggi argentei e degli incarnati chiari" (Lattuada) sono i segni tangibili di un felice momento nella produzione di Pacecco.
Una tela, da sempre nel catalogo dello Stanzione, quale il Miracolo di Soriano (fig. 108) della chiesa di San Domenico a Lucera, dopo essere stata in mostra a Pagani nel 1990, fu ritenuta non autografa da molti studiosi, per il modellato piuttosto piatto e per le campiture di colore stese in maniera semplificata, per cui il Willette, nella sua monografia, ipotizza la partecipazione di aiuti. La parte superiore, incentrata sui volti delle sante di una languida dolcezza, a nostro parere, è sicuramente di Pacecco, che collaborerà a iconografie identiche in alcune chiese napoletane.
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