Pacecco de Rosa

  Capitolo 6
Rapporti di contiguità con altri artisti

Pacecco, come abbiamo visto, è imparentato con numerosi pittori, per cui l'abitudine tutta napoletana di prendere ispirazione dal lavoro dei colleghi è in lui più accentuata. Diventa così arduo distinguere il suo pennello da quello di artisti border line, non solo della cerchia stanzionesca, come Onofrio Palumbo o Giacinto De Populo, ma anche apparentemente lontani dal suo stile e dalla sua poetica, che divennero facilmente riconoscibili solo negli anni Quaranta. Confusioni attributive possono esserci anche per un occhio esperto verso Finoglia, Do, Guarino, Beltrano, Ragolia, De Bellis, Stanzione e la stessa Gentileschi. 
L'influsso di Paolo Finoglia è particolarmente evidente fino al 1635, prima della lezione stanzionesca e del bagno di colore che impreziosì da quell'anno la tavolozza di tutta la pittura napoletana.

 
fig. 66-67

Il dipinto paradigmatico di questa dipendenza culturale è costituito dalla spettacolare Immacolata di S. Domenico Maggiore (fig. 66), prelievo letterale dall'omonimo dipinto del museo municipale di Brest (fig. 67). Su questa iconografia presentiamo, per un utile raffronto, una tela (fig. 68) da decenni preclusa allo sguardo di appassionati e studiosi, già nella chiesa di San Giovanni Battista delle monache, che riteniamo molto vicina ai modi pacecchiani. Ed inoltre stimmate finogliesche sono molto evidenti nella S. Dorotea della Narodni Galerie di Praga e nella Lotta di Giacobbe con l'angelo (fig. 69), di collezione privata bresciana, pubblicata da De Vito. Due dipinti pugliesi ricalcano soluzioni luministiche parafiglionesche, essi sono: l' Annunciazione della chiesa matrice di Palo del Colle (fig. 70) e la Madonna col Bambino (fig. 71) del museo Pomarici Santomasi di Gravina, tele gemellate dalla medesima atmosfera di calda intimità e dalla stessa modella che presta il suo volto di innocente freschezza alla Vergine, reso con magistrale trattamento chiaroscurale, che richiama a viva voce la tecnica del Finoglia.

   
fig. 68-69

    
fig. 70-71

Poco studiato dalla critica il rapporto di dare ed avere con il cognato Giovanni Do sotto il cui influsso nasce probabilmente il Martirio di San Lorenzo (fig. 72) della parrocchiale di Lizzanello in provincia di Lecce, dominato da un netto taglio luministico e da un intenso contrasto chiaroscurale, che mettono in evidenza il riverbero, anche in aree culturali potenzialmente lontane, della forza espressiva del messaggio emanato dal "tremendo impasto". Alcuni volti ritorneranno in altre opere dell'artista, come il sacerdote che invita ad adorare l'idolo, il quale assumerà le sembianze del San Matteo di Capodimonte. Essa precede di qualche anno la spettacolare replica con varianti (fig. 73) conservata a Greenville negli Stati Uniti, presso la Bob Jones University, realizzata in prossimità degli anni Quaranta, in consentaneità cronologica con Il Massacro degli innocenti del museo di Filadelfia (fig. 74) e l'Andata al Calvario (fig. 75), già al museo del Sannio, con i quali condivide identiche fisionomie dei protagonisti e la medesima modalità di inquadramento delle figure in uno spazio ristretto.

 
fig. 72-73

 
fig. 74-75

La replica statunitense, speculare, con il corpo del martire ribaltato restando fissa la fonte luminosa, presenta poche varianti e tra queste domina la presenza, sulla sinistra, del ridanciano scugnizzo con la dalmatica ammappuciata sulle spalle, somigliante in maniera impressionante al Cam dell'Ebbrezza di Noè, già in collezione Calabrese, uno dei raggiungimenti più alti del nostro secolo d'oro, attribuito ad Annella dal Longhi ed oggi, secondo Bologna, nel catalogo di Filippo Vitale. 

  
fig. 76-77


      
fig. 78-79

A questa temperie culturale appartiene la Visione di S. Antonio da Padova della Gemaldegalerie di Vienna (fig. 76) e le due splendide Adorazioni dei pastori, di Montecitorio (fig. 77) e di collezione privata fiorentina (fig. 78), entrambe segnate da un delicato equilibrio tra naturalismo e classicismo, assieme alle quali presentiamo l'inedita Adorazione (fig. 79) dell'antiquario Gabrius, di cronologia più antica ed una chicca rarissima, la tela (fig. 80), di collezione privata fiorentina, descritta dal Longhi negli anni Cinquanta e mai più sottoposta all'attenzione della critica. Il San Giuseppe col Bambino (fig. 81) del museo dell'Abbazia di Montevergine, viceversa, è più vicino allo stile di Giovanni Do, come sostenuto dal Fiorillo.

 
fig. 81-83


fig. 82-80

 
fig. 85-84

Rimanendo in area riberiana possiamo considerare alcuni dipinti contrassegnati da un cospicuo trattamento chiaroscurale, quali la Maddalena penitente dei depositi di Capodimonte, attribuita dal Bologna ed intrisa forse di eccessiva cultura caravaggesca, il Cristo deriso (fig. 82) conservato ad Albano Laziale nel Collegio del Preziosissimo Sangue, sicuramente opera giovanile appartenente ad una inedita fase di caravaggismo classicizzato ed il Martirio di San Bartolomeo (fig. 83), aggiudicato da Finarte nel 1979, che replica moduli compositivi e fisionomie del Ribera, tradite da una eccessiva morbidezza dell'incarnato e dei panneggi patognomonici di Pacecco.
Riberiano, e non solo nell'iconografia, lo spettacolare Apollo e Marsia ( fig. 84) del Castello di Opocno in Boemia, una poco conosciuta opera giovanile del Nostro di altissima qualità, nella quale apprezziamo ombre taglienti, che scompariranno completamente dal repertorio dell'artista nel decennio d'oro della sua maturità.
Sul tema iconografico basato sull'incontro di Rachele e Giacobbe, immortalato dal De Rosa in celebri composizioni, segnaliamo un inedito di altissima qualità (fig. 85), in collezione privata ad Utrecht, incorniciato da un panorama boscoso degno del pennello dei migliori specialisti napoletani e con i personaggi, dalle classiche fisionomie pacecchiane, che intrecciano languidamente tra loro una conversazione senza parole, fatta di teneri sguardi e maliziosi ammiccamenti.


fig. 86


fig. 87-88

Tra i dipinti famosi, il Rachele e Giacobbe (fig. 86) della Pinacoteca di Capodimonte, derivato da una più antica redazione in collezione privata napoletana, ed il Riposo dalla fuga in Egitto della collezione Laliccia.
Nel Rachele e Giacobbe facciamo la conoscenza del cane di Pacecco De Rosa, che si affaccia in basso a sinistra della composizione e che rincontreremo in seguito più volte, costituendo una sorta di firma nascosta dell'autore; basterebbe questo dettaglio per escludere categoricamente l' ipotesi, avanzata in passato dalla critica, di assegnare la tela al Marullo, il quale, per quanto rivalutato di recente dagli studi (consulta sul web la prima monografia sul pittore del Pinto e l'opera omnia pubblicata dal sottoscritto), non raggiunge mai la qualità molto alta di questo quadro, tra gli esiti maggiori del nostro artista. Essa fu giudicata dall'Ortolani un Pastor Fido, o meglio, per quei salaci villani ridenti, una scena prelevata da una commedia rusticana del Ruzzante, impregnata da una materia cromatica stoffosa dalla consistenza di un marmo granoso; una favola paesana raccontata con garbo forbito e fare lezioso in toni spontaneamente naturalistici e dialettali. Da notare inoltre che, nella Fuga in Egitto (fig. 87), il modello che ha posato per l'angelo posto a destra nella composizione, ripropone lo stesso atteggiamento speculare, nella mano che raccoglie il panneggio e nell'altra che porta al petto, assunto dalla Rachele protagonista del quadro preso in esame precedentemente ed è lo stesso che presta il suo corpo per raffigurare il principe troiano nel Giudizio di Paride (fig. 88) del Kunsthistorisches Museum di Vienna, un altro dipinto dove ricompare il muso del cane del nostro artista, che per inciso incontriamo di nuovo nel Venere ed Adone (fig. 89), già Sotheby's, quadro gemello, di poco successivo del Venere che cerca di trattenere Adone (fig. 90) del Museè des Beaux Arts di Besancon, dove stranamente compaiono ben tre cani, ma nessuno di Pacecco....

 
fig. 89-90-91


fig. 92-94

  
fig. 95


fig. 93

Vicinissimo cronologicamente al quadro del museo francese lo splendido Ratto d'Europa di collezione privata napoletana, del quale una replica autografa è stata battuta presso Christie's nel 1978.
La possibilità di scambiare un'opera di Giacinto De Populo con i dipinti del nostro artista è dovuta alla conoscenza frammentaria che ha la critica del pittore casertano. Un esempio è costituito da questa tela raffigurante le tre sante salernitane Tecla, Archelaa e Susanna (fig. 91) conservata nella chiesa di San Giorgio a Salerno, che si aggiunge alla Madonna della Purità (fig. 92) citata in precedenza.
Molto difficile delineare i confini verso Onofrio Palumbo, un artista ancora non ben conosciuto dalla critica ed al quale probabilmente appartiene la scena mitologica (fig. 93) di recente passata sul mercato antiquariale con un'attribuzione al De Rosa. Abbiamo già accennato all'Immacolata Concezione di San Domenico Maggiore (fig. 94), attribuita negli anni prima al Guarino, poi al Finoglia ed infine al Palumbo. Segnaliamo una Pietà (fig. 95) passata in un'asta Semenzato a Venezia nel 1991, con una non sostenibile attribuzione a Guarino, nella quale, viceversa, sono facilmente leggibili caratteri distintivi di quell'area culturale equidistante tra Stanzione e Ribera, in cui spesso si esprimono il De Rosa, il De Bellis e lo stesso Palumbo.
Anche il cognato Beltrano, con il quale si può anche ipotizzare sporadicamente una forma di collaborazione, può essere confuso con Pacecco, come nel caso del San Giuseppe con Gesù Bambino (fig. 96), di collezione privata praghese, presentata come autografo alla mostra " La pittura napoletana tra l'eruzione e la peste", che tradisce, particolarmente nell'ampio scorcio di paesaggio, il pennello del Beltrano.
La confusione attributiva verso Guarino è notevole e crediamo siano venuto il momento di valutare l'opportunità di far ritornare nel catalogo dell'artista solofrano l'Abramo e i tre angeli (fig. 97) del museo civico di Castel Nuovo, per il vigoroso trattamento naturalista della testa di Abramo, nonostante i colori levigati, la riduzione delle ombre e gli incarnati vicini all'effetto porcellana dei tre angeli, caratteristiche che contrassegneranno lo stile del De Rosa a partire dalla metà degli anni Quaranta.


fig. 96-97
 

 
fig. 98-99
 


fig. 100-101

Sembrerebbe a prima vista del Guarino il Sacrificio d'Isacco (fig. 98), già in collezione Auzola a Madrid, assegnato invece dal Lattuada al De Rosa, per " i toni da porcellana nel pigmento degli incarnati di Isacco e nelle stoffe traslucide", mentre nel San Giovanni Evangelista (fig. 99), esitato da Christie's nel 1989, Pacecco interpreta in chiave classicistica la nota iconografia, arricchendola con un'impeccabile scelta di colori dall'effetto brillante. Anche il S. Antonio da Padova con Gesù Bambino (fig. 100) è passato in asta da Christie's a Roma nel 1990 come Guarino, ma più probabilmente è assegnabile al nostro artista in un felice momento di attenzione e convergenza verso la lezione di Massimo Stanzione. Infine la S. Orsola (fig. 101) di collezione privata napoletana, schedata dalla Soprintendenza genericamente come Santa martire ed assegnata al Guarino, è ritenuta dal Lattuada più vicina allo stile del De Rosa, in consonanza con i modi stanzioneschi. 

 
fig. 102


 fig. 103

Michele Ragolia è un pittore ancora poco noto alla critica, nonostante la sua produzione raggiunga a volte livelli molto alti, come nei due trionfi conservati a Schloss Rohrau. Suo è il San Francesco che soccorre gli ammalati (fig. 102), conservato in palazzo D'Ayala Valva a Taranto e proveniente dalla chiesa di San Francesco della cittadina pugliese. Esso è stato attribuito al De Rosa dal Galante, che opera raffronti con la Strage degli innocenti di Filadelfia, mentre alcune fisionomie non lasciano alcuna ombra di dubbio nell'assegnare il dipinto al Ragolia, fisionomie che caratterizzano più di un personaggio nel grandioso soffitto cassettonato della parrocchiale di Polla, capolavoro dell'artista.
Scambi attributivi versus Antonio De Bellis sono ragionevoli, soprattutto da quando, negli ultimi anni, sono comparse sul mercato tele firmate dell'artista simili ai modi cavalliniani per soluzioni cromatiche raffinate e per tipologie fisionomiche dolci e languide. Un Sansone e Dalila (fig. 103), su rame, di collezione privata parigina, attribuito da Spinosa al De Bellis in occasione della mostra su Cavallino, è stato ricondotto al catalogo del De Rosa dal Lattuada, per analogie formali con le lunette di San Paolo Maggiore; lo studioso ha sottolineato quale autonomia espressiva avesse raggiunto Pacecco nel campo del piccolo formato, che esalta le sue doti di colorista affezionato a timbri squillanti e laccati e ne raffina i partiti compositivi mediante l'uso di una luce cristallina.


fig. 104-105-106

A partire dagli anni Quaranta l'influsso stanzionesco (e probabilmente una vera e propria collaborazione, come documentato in alcune chiese napoletane) sarà sempre più palpabile nel suo stile, a tal punto che alcune tele sono assegnabili al De Rosa solo per la minore qualità rispetto al maestro, come la S. Caterina (fig. 104) conservata a Bratislava o la S. Orsola (fig. 105) esitata da Sotheby's a Londra nel 1989, nella quale "l'impianto della figura, la struttura semplificata dei panneggi argentei e degli incarnati chiari" (Lattuada) sono i segni tangibili di un felice momento nella produzione di Pacecco.
Dubbiosa può essere la paternità della Pittrice che ritrae l'immagine del sudario (fig. 106), proposta come autografo stanzionesco nel 1979 in un'asta Sotheby's di Londra, attribuita poi al Guarino e che potrebbe essere una prova giovanile di Pacecco, per la dolcezza del volto della fanciulla e per il raffinato trattamento cromatico degli abiti e dei panneggi. Infine un Loth e le figlie (fig. 107) di collezione privata tedesca, probabilmente da identificare con un tela descritta nel 1938 dall'Ortolani, come replica con variante del famoso dipinto dello Stanzione conservato a Palazzo Reale.


fig. 107-108


fig. 109-110

Una tela, da sempre nel catalogo dello Stanzione, quale il Miracolo di Soriano (fig. 108) della chiesa di San Domenico a Lucera, dopo essere stata in mostra a Pagani nel 1990, fu ritenuta non autografa da molti studiosi, per il modellato piuttosto piatto e per le campiture di colore stese in maniera semplificata, per cui il Willette, nella sua monografia, ipotizza la partecipazione di aiuti. La parte superiore, incentrata sui volti delle sante di una languida dolcezza, a nostro parere, è sicuramente di Pacecco, che collaborerà a iconografie identiche in alcune chiese napoletane.
Un problema complesso è costituito dalla grandiosa pala dell'Assunzione della Vergine (fig. 109), già in collezione Cook, oggi al North Carolina museun of art di Raleigh, assegnata al De Rosa dal Pigler già negli anni Trenta e confermatagli da Spinosa, mentre Lattuada ritiene che Pacecco esegua solo qualche figura, come ad esempio il giovane apostolo inginocchiato a destra ed il dipinto sia stato viceversa realizzato dallo stesso Stanzione, al cui pennello si ispira tutta la composizione, che deriva dal sacrificio di Mosè, firmato e conservato a Capodimonte.
Ancora inestricabili i rapporti con la Gentileschi, a Napoli dal 1627, la quale influenzò tutta la pittura partenopea ed in particolare lo Stanzione, principale fonte ispirativa per Pacecco a partire dagli anni Trenta. Alla sua lezione cromatica appartiene senza dubbio il poco noto Concertino (fig. 110) della Galleria di Palermo, sgorgante di fantasmagorici contrasti di colore. E' prudente continuare a considerare di Artemisia la Cleopatra (fig. 111) di collezione privata londinese, presentata alla Mostra Civiltà del Seicento come autografo della pittrice toscana dalla Gregori e ritenuta invece dal Lattuada tipica dei modi del De Rosa e molto vicina alla S. Barbara già presso Finarte. Sorprendente il perentorio consiglio dello stesso studioso di attribuire ad Artemisia lo splendido olio su rame rappresentante il Giudizio di Paride (fig. 112) della Gemaldegalerie di Vienna, in passato attribuito al Vouet e dato a Pacecco da Raffaello Causa, nel quale, a differenza di altri dipinti in cui è appena abbozzato, compare un panorama fogliaceo di grande respiro, eseguito con grande probabilità da Micco Spadaro, che sappiamo aver collaborato più volte con la Gentileschi. La composizione pervasa da una pacata armonia nelle figure è inondata da una luce calda che sembra indugiare sui corpi nudi delle dee e fa risaltare l'eleganza delle vesti.


fig. 111-112

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