Cap.5
Un animale da palcoscenico
Peppe Barra
La tradizione musicale e teatrale partenopea annovera dei giganti,
al cui confronto i loro colleghi contemporanei impallidiscono; in
ogni caso vi sono delle figure, attualmente in attività, che portano
ancora in giro per l’Italia e nel mondo lo spirito immortale della
napoletanità e tra questi personaggi spicca Peppe Barra, il figlio
prediletto dell’indimenticabile Concetta.
La sua casa napoletana somiglia ad un sacrario pop contaminato alla
perfezione con una wunderkammer barocca. Infatti, in bella mostra,
dappertutto vi sono statuine raffiguranti anime purganti tra le
fiamme sotto lo sguardo severo di Madonne sotto vetro, idoli della
tradizione cubana e feticci trafitti della macumba.
Sua nonna, che ricorda con nostalgia, aveva degli splendidi occhi
blu, mentre Peppe ha ereditato i suoi occhi saraceni da quella
gitana di Concetta, madre adorata ed a lungo compagna di
palcoscenico. Peppe parla con grande tenerezza di nonna Michela con
la quale è cresciuto, mentre i suoi genitori erano spesso assenti
per motivi di lavoro.
Il suo debutto a tre anni in uno spettacolo per la Croce Rossa con
un pubblico costituito da soldati feriti, sia americani che
italiani.
Entrò in scena subito dopo l’imitazione di Charlot di papà Giulio:
mentre l’orchestra di Armando Trovajoli intonava un frenetico boogie
woogie, vestito da pupazzetto tirolese, si muoveva veloce come una
trottola; alla fine del ballo fece un inchino e la folla, mentre
applaudiva, lanciava stecche di sigarette, cioccolata e caramelle.
Fu un trionfo concluso in braccio ad una crocerossina americana.
Quindi la famiglia Barra si trasferisce a Procida, quando il turismo
non aveva ancora contaminato l’isola di Arturo, un’oasi di
tranquillità lontana mille miglia dalla Napoli cupa, descritta
magistralmente da Curzio Malaparte ed Anna Maria Ortese.
Ritornati in città, Peppe frequenta la scuola di recitazione della
mitica Zietta Liù, che ben ricordano coloro che hanno solo capelli
bianchi. Egli faceva da jolly e quando, indifferentemente un bambino
o una bambina si ammalavano, li sostituiva, con le sarte impegnate a
trasformargli gli abiti in uno sfolgorio di strass e paillettes.
L’incontro che creò una svolta decisiva nella sua carriera fu quello
con Roberto De Simone, il quale cercava voci per la Nuova Compagnia
di Canto Popolare.
Era il 1966 e stava per esplodere un indimenticabile revival di folk
popolare, che entusiasmò lo stesso Eduardo De Filippo, categorico
come sempre con il suo “fujtevenne”, che infatti li fece esordire,
grazie ad un’amicizia con Romolo Valli, al “Festival dei due mondi”
di Spoleto, che tenne a battesimo la prima rappresentazione della
“Gatta Cenerentola”, a tutt’oggi uno degli spettacoli più importanti
del teatro italiano. Tra gli intellettuali che si innamorarono del
capolavoro vi fu Fellini, che lo guardava ogni giorno, per poi
cenare con Giulietta Masina e De Simone ed esternare le sue emozioni
sempre diverse.
Un altro spettacolo importante nella sua carriera fu ”Ppè mùseca”,
un collage di musiche barocche, che debuttò nell’auditorium di
Castel Sant’Elmo e, naturalmente, “La cantata dei pastori” con le
scenografie di Lele Luzzati, un appuntamento costante delle feste
natalizie a Napoli.
Un racconto cui tiene molto Peppe è quando con la mamma si recò
negli Stati Uniti a trovare le due zie: una, Nella, compagna di
Harry Belafonte, viveva in Florida, mentre zia Maria risiedeva a
Columbus in Nebraska.
Le tre sorelle negli anni quaranta avevano costituito il Trio
Vittoria, che si esibiva per le truppe al fronte e quando si
incontrarono dopo tanti anni di lontananza, dopo abbracci, baci e
lacrime, intonarono all’unisono “Ba, ba, baciami piccina sulla bo,
bo, bocca piccolina”, un successo degli anni trenta.
Personalmente ho avuto ripetutamente occasione di ammirare Peppe
Barra dal vivo, dalla prima indimenticabile rappresentazione della
Gatta Cenerentola alle sue numerose riproposizioni, orfane della
mitica Compagnia di Canto Popolare, nel frattempo trasformatasi in
tanti piccoli big, fino all’ultima volta, due anni fa, a Villa
Pamphili a Roma, quando, visibilmente invecchiato, conservava
intatto il ruggito del leone.
L’ultimo, almeno per il momento, incontro fondamentale è quello con
John Turturro, che lo scelse tra gli interpreti fondamentali del
film “Passione”, uno straordinario song movie sulla canzone
napoletana, un vero e proprio monumento ad una tradizione musicale
unica al mondo e, lo confesso, l’unico film, a parte pellicole di
Totò, che ho visto ben tre volte.
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