Cap.15
Dalla peste al colera
La promiscuità, il sovraffollamento, il mancato rispetto delle più
elementari regole dell’igiene sono state nei secoli le cause
primarie del diffondersi nella città di Napoli di disastrose
epidemie, che talune volte hanno falciato quote cospicue della
popolazione.
Tra queste il colera sembra essere divenuto quasi endemico; esplode
sempre d’estate tra luglio ed agosto, quando le temperature
raggiungono i loro picchi annuali e colpisce per primi gli abitanti
dei bassi, dove le precarie condizioni di vita favoriscono la
diffusione del contagio.
Lungo i secoli bui del Medioevo le epidemie si susseguivano e si
sovrapponevano procurando migliaia di decessi: difterite, tifo,
malaria, vaiolo, epatite e salmonellosi hanno imperversato a lungo
in città ed in provincia.
Tra le epidemie più disastrose bisogna ricordare quella di peste del
1191, durante l’assedio di Enrico lo Svevo con migliaia di morti,
anche se la vera peste fu quella del 1656, che dimezzò la
popolazione, spazzando via un’intera generazione di pittori, mentre
i pochi superstiti ne hanno immortalato scene indimenticabili, come
Micco Spadaro, che ci ha fornito un’immagine grandiosa dell’odierna
piazza Dante con una marea di moribondi, mentre squadre di monatti
compivano il loro triste ufficio o Carlo Coppola che inquadra gli
avvenimenti della grande piazza del Mercato e Luca Giordano il quale
ci mostra San Gennaro nel pieno della sua attività di protettore
della città e nel basso della composizione ci restituisce il
particolare straziante di un bambinello abbandonato al suo destino
dalla madre morta, che cerca disperatamente nutrimento nelle
mammelle di una puerpera da poco spirata. E concludiamo con Mattia
Preti che ebbe l’incarico di eseguire sulle porte della città dei
giganteschi ex voto di ringraziamento per la cessazione del morbo.
Anche il Settecento fu triste sotto il profilo delle epidemie e
nell’Ottocento, dopo l’Unità d’Italia, in poco più di venti anni
Napoli venne colpita ben cinque volte dal colera, pagando nel 1865
un tributo di oltre 6000 vittime alla furia del morbo ed ancora di
più l’anno successivo, fino a quando, dopo l’ulteriore disastrosa
epidemia del 1884, si raccolse l’urlo disperato della Serao:”Bisogna
sventrare Napoli” e si diede mano alla colossale opera del
Risanamento, ridisegnando interi quartieri.
Del persistere delle epidemie molti abitanti davano la colpa ai
nuovi amministratori al punto che in alcuni ospedali circolava il
demenziale ritornello: “Si vulite ca cacammo tuosto, Datece ‘o Rre
Nuosto”.
Il colera ha infuriato incontrastato per decenni, complice il
degrado in cui versava gran parte della città antica, servita da un
acquedotto, che chiamare vergognoso significava fargli un
complimento, perché in molti punti era inquinato dai liquami
fognari. Anzi in quasi tutti i bassi si utilizzava per bere e per
cucinare l’acqua di un pozzo, che “fraternizzava” con gli escrementi
che scolavano verso la cloaca da un orribile buco, il quale fungeva
in ogni abitazione da cesso, permettendo il passaggio verso il basso
e l’esterno di feci ed urine e verso l’alto e l’interno di topi e
zoccole, da cui la necessaria presenza in ogni basso di una colonia
di gatti, che cercava disperatamente di opporsi al proliferare dei
ratti.
Il periodico presentarsi delle epidemie di colera provocava numerosi
decessi, per cui fu necessario realizzare nel 1836 un cimitero
dedicato unicamente ai trapassati per via del morbo. Anzi ad essere
più precisi ne vennero creati due, perché al primo accedevano
prevalentemente gli appartenenti alle famiglie illustri della città,
mentre al secondo, un sepolcreto costruito nel 1837 vicino al
cimitero delle 366 fosse, il popolino, che altrimenti sarebbe finito
nelle fosse comuni dell’attiguo cimitero realizzato dal Fuga per
trovare un’eterna dimora ai senza dimora ospitati nell’Albergo dei
poveri.
E qui si apre un’altra dolorosa ferita nella conservazione della
memoria della città, perché il cimitero, per quanto conservi le
spoglie del gotha dell’aristocrazia napoletana, a partire dai
Caracciolo e dai Carafa ed un profluvio di epigrafi che ci
raccontano, con accenti commossi, storie di amore e di sofferenza,
versa in uno stato di abbandono deplorevole, con i monumenti funebri
avvolti da un’inestricabile boscaglia che umilia questa prodigiosa
Spoon River partenopea.
Avventurarsi tra il fogliame e leggere le parole incise sul marmo,
dettate da questi alto borghesi ed aristocratici, colpiti negli
affetti più cari, ci restituisce il senso di un’immane tragedia che
ha più volte colpito la popolazione e ritornano attuali le
malinconiche intimità di una classe sociale spazzata via dalla
modernità e che pagò, nonostante l’epidemia colpisse prevalentemente
la plebe, un pesante tributo alla furia del contagio.
Non sarebbe macabro organizzare per forestieri ed indigeni delle
visite guidate a questi luoghi dell’arte e della pietà, della
meditazione e della preghiera, che costituiscono una fondamentale
pagina di storia della città.
Ed una tristezza sconfortante coglierebbe il visitatore vedere le
stradine, invase dalle piante e le palme divorate dal punteruolo
rosso che guardano malinconiche i grattacieli svettanti del centro
direzionale, mentre tutto attorno si estende una distesa di tombe
dimenticate, di monumenti divelti e profanati da ladri sacrileghi e
le infinite lapidi che ci ammoniscono sulla caducità della vita.
Durante il fascismo stranamente non vi furono epidemie, ma mentre
infuriava la guerra, nel 1943, scoppiò di nuovo la peste, portata
dalle truppe americane, le quali rimanevano immuni dal contagio.
Sono i giorni tristi in cui capeggiavano le scritte sulle mura:”Off
limits” o “Out of bonds”, che perentoriamente consigliavano ai
militari in cerca di puttane di stare alla larga da alcuni quartieri
dove il morbo si manifestava con maggiore virulenza.
Ed infine l’ultimo capitolo di questo dramma infinito si è avuto nel
1973, quando il vibrione del colera, complice la scellerata
abitudine di consumare mitili non cotti, prelevati dal mare
cittadino, ridotto da tempo ad una penosa cloaca a cielo aperto, ha
di nuovo dilagato in città e provincia chiedendo il suo implacabile
pedaggio di vittime.
E purtroppo in questa occasione i mass media hanno dilatato per
tutto il globo l’immagine di una città perduta, condannata ed
irrecuperabile, per via anche dei suoi abitanti più rozzi,
immortalati dalle telecamere mentre si pascevano scriteriatamente di
cozze appena prelevate dagli scogli puteolenti di via Caracciolo.
Ho ricordi personali ancora vivi del morbo, dal vero e proprio
tumulto scoppiato nel cortile dell’ospedale di Cava de’ Tirreni per
accaparrarsi il vaccino dal quale fui travolto assieme ai colleghi
medici e mi salvai unicamente perché iniettammo soluzione
fisiologica una volta finite le dosi o la delusione patita di vedere
al mio matrimonio, celebrato a settembre col morbo da poco
terminato, disertato dalla totalità degli invitati non napoletani
spaventati e perfino da un mio zio residente a Roma, che doveva
fungere da compare d’anello.
Le colpe di queste infinite epidemie, che fanno somigliare Napoli ad
una città del terzo mondo, vanno equamente divise tra amministratori
ed amministrati, presenti e passati. Nei secoli nessuno è riuscito a
regolare la crescita tumultuosa della città, cercando di limitare la
sproporzione tra numero degli abitanti e superficie a disposizione,
per cui una quota significativa della popolazione è costretta a
sopravvivere in condizioni precarie, sia che occupi degli squallidi
bassi nei vicoli senza luce del centro antico o i disumani casermoni
delle periferie da Scampia a Secondigliano.
Un esempio storico di amministrazione mirata alla speculazione ed a
privilegiare le classi sociali più agiate è fornito dall’operazione
del Risanamento, che seguì all’ennesima epidemia del 1884, la quale
provocò nel solo capoluogo 7000 vittime del colera. Anche allora,
come si è pervicacemente ripetuto in seguito, speculatori di ogni
risma, politici corrotti o corruttibili, usurai e profittatori si
diedero appuntamento per sfruttare l’emergenza, un’abitudine
inveterata, che in tempi più vicini ha addirittura programmato la
gigantesca struttura della protezione civile, autorizzata ad agire
al di fuori di ogni regola concorsuale ed edilizia.
Ma torniamo al passato: nella mastodontica opera di ristrutturazione
del Risanamento vennero abbattute 17000 abitazioni e scomparvero
sotto i colpi di piccone anche 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi.
Prese forma il Rettifilo lungo quasi due chilometri, che tagliò
letteralmente in due il ventre di Napoli, ma non si costruirono come
promesso case economiche, per cui la popolazione più povera fu
costretta a ritornare nei bassi con l’unica differenza che dove
abitavano in sei o otto, dovettero arrangiarsi in dieci o dodici.
Nel frattempo il mercato immobiliare entrò in fibrillazione con
aumenti vertiginosi dei prezzi e guadagni stratosferici per i soliti
speculatori, tra i quali si distinse il piemontese Glisser, che
realizzò una fortuna tra appalti e subappalti.
Ne derivò una celebre inchiesta, venne istituita una commissione,
che mise in luce l’intreccio tra malaffare e politica, ma non riuscì
a condannare nessuno.
La storia si è ripetuta altre volte e sempre con gli stessi
risultati, per cui non ci resta che attendere la prossima epidemia,
nel frattempo ci dobbiamo contentare di una diffusione di epatite
virale che non ha eguali nel mondo occidentale.
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Mattia Preti-Bozzetto per la Peste (Napoli, Museo di Capodimonte)
Luca Giordano-San Gennaro intercede per la fine della peste (Napoli,
Museo di Capodimonte)
Carlo Coppola-Scena della peste del 1656 (Napoli, Museo di San
Martino)
Domenico Gargiulo-Piazza Mercatello durante la peste del 1656
(Napoli, Museo di San Martino)
Cimitero dei colerosi di Napoli
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