Cap.17
I napoletani perdonano Vittorio Sgarbi
Qualche anno fa Sgarbi in un suo libro: L’Italia delle meraviglie
fece una stupenda cavalcata attraverso le bellezze artistiche
italiane, avendo come bussola la sua non indifferente cultura, ma
anche una sfrenata fantasia.
Infatti scrisse su villa Fersen imprecisioni macroscopiche,
descrivendo la celebre dimora caprese del barone teutonico dai gusti
particolari, come un cumulo di macerie con al centro del salone una
voragine senza fondo.
Fortunatamente ero tra il pubblico alla presentazione del libro in
un lussuoso albergo di via Veneto a Roma e lo colsi in fallo,
chiedendogli se la famosa scala che porta al piano superiore era
rimasta intatta. Egli non seppe rispondere, arrossì, dimostrando che
nella villa non entrava da decenni o forse, più probabile, non vi
era mai entrato.
Premetto, per chi non lo sapesse, che il corrimano delle suddette
scale, ogni 20 centimetri, presenta un fallo di varie fogge e
dimensioni, sul quale il barone si appoggiava nella salita e che la
villa era stata completamente restaurata dal Comune, come ebbi modo
di constatare di persona anni fa in occasione di una “mostra di foto
di Van Gloden” altro gay dell’epoca.
Informai in Sindaco dello “svarione di Sgarbi” (entrambi gli
articoli tra virgolette sono consultabili sul mio sito
www.achilledellaragione.it), il quale andò su tutte le furie,
asserendo che voleva chiedere un risarcimento, ma nello stesso tempo
temeva di inimicarsi un personaggio importante ed iracondo.
Decisi allora, a titolo personale, da strenuo difensore dei beni
artistici meridionali, di informare la stampa con una lettera ai
giornali, che venne pubblicata dai principali quotidiani del paese.
Dopo questo preambolo dobbiamo dire che l’eclettico Vittorio nel suo
libro “Il tesoro di Italia” si è fatto perdonare, perché ha
descritto magistralmente i dipinti di Cavallini nella chiesa di
Santa Maria Donnaregina Vecchia ed una scultura raffigurante
Sigilgaida, conservata a Ravello. Diamogli la parola.
Del grande pittore romano Pietro Cavallini, come di Giotto, abbiamo
testimonianza anche a Napoli. E anzi, uno dei rari documenti
essenziali per la sua biografia è conservato all’Archivio nazionale
di Napoli ed è pertinente alla sua attività. Infatti, Carlo II
d’Angiò il 10 Giugno 1308 accredita un pagamento annuo di quaranta
once d’oro a Cavallini, «de Roma pictor». La sua statura artistica,
come abbiamo visto, è stata diminuita dal pregiudizio vasariano che
vuole l’arte moderna nata a Firenze. Così Vasari considera Cavallini
discepolo di Giotto. Queste fonti o pseudo fonti contrastano con
l’evidenza. Imponente, infatti, è l’opera di Cavallini, manifesto il
suo superamento della tradizione bizantina attraverso l’esaltazione
di elementi classici. Non con spirito archeologico, ma come viva
ispirazione di una nuova humanitas in coerenza con Arnolfo di Cambio
e i Cosmati. L’impegnativa opera di modernizzazione delle chiese
romane – a San Paolo, a santa Maria in Trastevere e a Santa Cecilia
e anche a San Pietro e a San Francesco a Ripa – si interrompe nel
1305 con l’esilio avignonese dei papi. Ed ecco allora cominciare la
stagione napoletana di Cavallini, chiamato per chiara fama da Carlo
d’Angiò.
fig.01-Affreschi di Pietro Cavallini (Napoli, S. Maria
Donnaregina)
In uno dei principali monumenti angioini, Santa Maria Donnaregina,
ricostruita per volontà di Maria d’Ungheria a partire dal 1307,
Cavallini con la sua scuola dipinge sulla controfacciata il Giudizio
universale e gli Apostoli e i Profeti nella parte alta del
presbiterio (fig. 1). In questa imponente impresa, egli fu
certamente regista, appassionato e appassionante insegnante di
giovani allievi che ne trasferirono il magistero anche nel Duomo di
Napoli (Cappella degli Illustrissimi), in Sant’Antoniello e ancora a
Ravello e ad Amalfi. Quella che Pietro Cavallini impagina nel coro
delle monache è, infatti, una parete insieme didattica e
didascalica: racconta storie, ma insegna anche come esse debbano
vivere nello spazio e contribuire alla definizione dell’architettura
secondo uno schema strutturale che pochi anni prima Giotto aveva
esemplificato nella Cappella degli Scrovegni, a partire dal
basamento in finto marmo con le Virtù e i Vizi. Architettura
dipinta. In diverso modo, anche la scansione delle storie di
Donnaregina è architettura, è uno spaccato narrativo come se ci
fosse consentito di vedere dall’esterno gli ambienti interni di
un’architettura razionalista. Cavallini imposta la griglia, lo
schema compositivo entro il quale si esercitano gli allievi. Da Roma
Cavallini porta a Napoli quello che Giotto da Padova porta a
Firenze.
Sigilgaida Rufolo. Emblema d’Italia
Qui non è questione d’arte medievale in Meridione. Sigilgaida, come
Uta, è una delle donne più fascinose di tutti i tempi, in uno dei
luoghi più belli del mondo: Ravello. Se dovessimo riconoscere
l’emblema dell’Italia rappresentato in un’opera d’arte, forse
dovremmo scegliere lei, la regale Sigilgaida. Ma sarà proprio lei?
Di una Sigilgaida abbiamo notizia nel 1179 per aver donato con il
marito Sergio Muscettola il portale centrale, a formelle bronzee, di
Barisano da Trani per il Duomo di Ravello. Ma la Sigilgaida che
abbiamo davanti è più giovane, oltre a essere sempre giovane, e
meglio si accorda con l’ambone del Vangelo nello stesso Duomo opera
di Niccolò di Bartolomeo da Foggia, circa cento anni dopo. E’
difficile dirla di un secolo piuttosto che di un altro. Verrebbe da
immaginarla un’opera federiciana esempio di protorinascimento. Ma la
sua compiutezza la fa pienamente rinascimentale con la ieraticità di
un idolo bizantino e la perfezione di un busto neoclassico. Insomma,
Sigilgaida è di tutti i tempi, ne sentiamo il corpo caldo sotto la
leggera veste di lino con la decorazione di un ricamo sbalzato
intorno al collo e sull’abbottonatura. I lunghi orecchini a
strascico, d’oro e di pietre preziose (la scultura era policroma),
scendono sulle spalle. Sulla testa una corona d’oro, e mirabile,
l’acconciatura dei capelli arricciati e ordinatamente pettinati.
Chiunque sia, Sigilgaida è regina. Domina. Soltanto Federico II
potrebbe starle al fianco. Intanto domina il Museo di Ravello,
conservando intatto tutto il suo mistero. E’ Sigilgaida Rufolo (fig.
2), moglie di Nicola, gentiluomo di corte di Carlo d’Angiò? E’
un’allegoria della Chiesa? O è una personificazione della città di
Ravello, in forma di Fortuna? Nessuno scultore di quel tempo,
neanche tra i più grandi, non Nicola né Giovanni Pisano e neanche
Marco Romano Tino di Camaino, ci ha lasciato un’immagine così viva e
vera di una donna di potere che esprime un’analoga e autentica
vitalità. Un carattere forte. Come, se da un momento all’altro,
dovesse parlare, lusingarci o rimproverarci. Niccolò di Bartolomeo,
se ne è l’autore, ha con lei concepito un archetipo che, sul
versante dell’espressione del potere, compete con Ilaria del
Carretto; co la Dama del Mazzolino di Andrea Verrocchio, con la
Paolina Borghese di Antonio Canova. Espressioni tutte di un eterno
femminino che la pietra rende resistente al tempo. Se si aggiunge
che, nella scultura federiciana, l’artista non vuole perdere la
fedeltà fisiognomica, possiamo dire di essere di fronte a una
persona anche, nel controllato, severo distacco. In realtà
Sigilgaida è perduta, regina nella nostra mente di un regno senza
confini. Possiamo immaginarla a casa sua, nello spazio infinito di
Castel del Monte. Ma va bene anche qui, a Ravello, poco lontano da
villa Rufolo, rapita dalla musica di Wagner.
fig.02-Sigilgaida Rufolo (Ravello, Museo del Duomo)
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