Cap.58
Ferdinando il re di Napoli
Ferdinando Ventriglia
Ferdinando Ventriglia è stato uno dei più noti banchieri italiani,
per anni alla guida del Banco di Roma e del Banco di Napoli. La
prima volta che Ferdinando varcò la fatidica soglia di via Toledo
aveva soltanto 21 anni ed era già laureato in Economia e Commercio.
“Studia, altrimenti finirai ragioniere della Centrale del Latte” gli
ripeteva il padre, le cui aspettativa non andarono deluse. Appena
laureato nel 1948 si mise ad insegnare all’Università, ma l’ambiente
accademico non era di suo gradimento, eppure l’appellativo di «‘O
PRUFESSORE» gli è rimasto per tutta la sua carriera che si è
intrecciata con il Banco di Napoli per mezzo secolo.
Per almeno venti dei 47 anni che ha trascorso nel gotha del sistema
bancario italiano, Ventriglia è stato sicuramente uno dei volti più
immutabili del Potere.
Il nomignolo di "Re Ferdinando" era davvero tagliato su misura per
lui perché è stato, per la storia del Banco di Napoli, ed in parte
per la storia economica del Paese, un vero e proprio monarca di
tempra borbonica.
Era dotato di grande capacità di sintesi, di vedute d’assieme e
felici intuizioni prospettiche oltre ad una conoscenza tecnica del
sistema bancario probabilmente unica in Italia.
La sua ultima dote, non meno importante, era un rapporto di
contiguità con la politica, che ha reso tristemente famosa nel tempo
buona parte dei banchieri italiani. Era inoltre dotato di un
notevole fiuto degli affari, con una inclinazione rivolta alla trama
finanziaria segreta, tesa al raggiungimento ed alla conservazione
del potere.
Democristiano, nel 1947 si era iscritto alla FUCI, Federazione degli
universitari cattolici, presieduta all’epoca dal giovanissimo
Giulio Andreotti. Di lì a poco, l’assunzione al Banco di Napoli. I
tre anni trascorsi all’Ufficio Studi gli insegnarono gli intrecci
tra politica (con la quale è utile avere rapporti senza mai
diventarne protagonista) e finanza in tutti i suoi aspetti, anche
giuridici, nei quali Ventriglia si rivelò un vero maestro.
La sua carriera fu repentina e folgorante. Negli Anni ‘50 il
democristiano Pietro Campilli, ministro del Mezzogiorno, intuì in
lui il brillante economista che era e se lo portò a Roma come
braccio destro. Subito dopo, agli inizi degli Anni Sessanta, il
ministro del Tesoro, il democristiano Emilio Colombo, lo volle al
suo ministero.
Nel 1966 Ventriglia ritornò al Banco di Napoli, di cui divenne
direttore generale. Tre anni dopo, nel 1969, fu nominato
amministratore delegato del Banco di Roma, allora disastratissimo
sul piano dei conti, rimanendovi fino al 1975 dopo aver rimesso in
ordine il bilancio e rafforzato la struttura patrimoniale dell’
istituto. In quegli anni, per avere finanziato incautamente,
soprattutto con le sue consociate estere, alcune delle tante società
di Michele Sindona, patron della Banca Privata, già in crisi di
liquidità, Ventriglia si ritrovò convocato dai giudici nel processo
per bancarotta del banchiere siciliano, uscendone bene, "con le mani
pulitissime", disse all’epoca trionfante.
I suoi detrattori, viceversa, pensarono e raccontarono una storia
diversa: Ventriglia si salvò dall’incriminazione perché aveva in
tasca la famosa "lista dei 500", elenco di quel gruppuscolo di
potenti che avevano esportato capitali oltre frontiera depositandoli
presso la Finabank di Sindona che morirà per un caffè avvelenato
nella sua cella del carcere dell’Ucciardone di Palermo.
Ventriglia ha sempre negato di avere giocato l’arma del ricatto per
uscire dal processo senza conseguenze ma quest’avventura
giudiziaria, benché senza strascichi, gli precluse l’opportunità di
essere nominato, nel 1974, governatore della Banca d’Italia al posto
del suo amico Guido Carli, che lo aveva designato suo successore:
per stoppare la sua nomina, Ugo La Malfa fece riferimento proprio
alla lista dei 500.
Ma la carriera di Re Ferdinando non si fermò perché nel 1975 fu
parzialmente ricompensato con un altro prestigioso incarico, quello
di direttore generale del Tesoro, dove rimase fino al 1977
guadagnandosi l’encomio solenne della comunità finanziaria per aver
negoziato il mega-prestito del Fondo monetario che consentì
all’Italia di respirare un pò d’ossigeno a cavallo tra i due shock
petroliferi. Dopo quest’altra parentesi politica, ritornò in ambito
bancario, prima con la presidenza dell’Isveimer ed infine, nel 1983,
con il grande definitivo rientro come direttore generale del "suo"
Banco di Napoli che, sotto di lui, fino alla fine degli anni
Ottanta, crebbe sotto ogni aspetto fino a quando le fameliche
correnti politiche che si spartivano il potere cittadino, non
pretesero di entrare nel consiglio di amministrazione del glorioso
Istituto di credito che, nel 1991, fu il primo a trasformarsi in Spa
per cui Ventriglia, da direttore generale, assunse la carica di
amministratore delegato. Per alcune nomine giudicate illegittime al
vertice della Fondazione, fu destinatario di un avviso di garanzia e
fu sospeso da ogni incarico. Ventriglia, già consumato dal male,
uscì indenne anche da questa vicenda ma, ormai, la sua carriera era
finita. Morì nel 1994.
Scrivere sulla vergognosa operazione di spoliazione del più antico
istituto di credito del mondo da parte di una politica dominata
dalle ragioni del nord e da un apparato burocratico servo dei diktat
del Tesoro e della Banca d’Italia non è stato facile per me,
nonostante provenga da una famiglia che da generazioni ha servito
onorevolmente nel Banco: mio fratello, già direttore ed oggi
pensionato, ma ancora, con entusiasmo, attivo nel sindacato e nella
stesura del battagliero periodico “Senatus”, mio padre, all’epoca
vice direttore della sezione di credito industriale, mio nonno,
impiegato prematuramente scomparso durante l’epidemia di spagnola
del 1918.
Senza salire oltre nell’albero genealogico, ho respirato da ragazzo
quell’atmosfera di rispetto che circondava il dipendente del Banco
di Napoli, forte di stipendi lauti e delle sue quindici mensilità.
Una situazione sociale distante anni luce dall’approssimazione e
dalla sciatteria che contraddistinguono oggi i rapporti con la
clientela.
La politica di ristrutturazione e di vendita del Banco di Napoli da
parte del Tesoro è da inserirsi nell’ottica della politica di
ristrutturazione del settore creditizio, partito negli anni ‘90, che
ebbe inizio con la legge Amato-Carli (legge n. 218 del 1990), che
prevedeva la trasformazione degli Istituti di credito di diritto
pubblico in Società per Azioni. Il Banco di Napoli fu il primo a
cambiare la forma giuridica, nel Luglio del 1991.
La ristrutturazione del settore creditizio ebbe carattere
squisitamente politico, legato sostanzialmente all’obiettivo di
adeguare il settore creditizio agli standard del resto d’Italia e di
avviare il processo di integrazione europea tramite il
consolidamento del settore bancario.
Il processo di ristrutturazione portò alla scomparsa dei centri
decisionali al Sud e nelle isole, rendendo la quasi totalità degli
istituti dipendenti da gruppi del Centro-Nord Italia o esteri fino a
giungere al fatale triennio 1994–96, con la scomparsa del marchio
fagocitato da un processo di accorpamento del credito, per comparire
di nuovo, recentemente, anche se solo nel nome, per assecondare i
desideri di una clientela di vecchia data, che si sentiva frustrata
nell’entrare in filiali dove, oltre a non trovare più volti noti,
nei quali riponeva la sua incondizionata fiducia, capeggiava la
scritta delle banche conquistatrici.
Si deve preservare la verità per le nuove generazioni, ben sapendo
che la storia la scrivono i vincitori, spesso, servendosi di
cronisti asserviti, che occultano documenti scomodi e favoriscono la
damnatio memoriae sull’accaduto.
Nessuno si preoccupa di citare tutti gli atti parlamentari di quei
pochi meridionalisti che difesero la centralità dell’operato del
Banco di Napoli, a difesa degli interessi di tanti piccoli
imprenditori del sud, che rimasero inascoltati perché cominciava a
premere la questione settentrionale e tutto il Mezzogiorno veniva
quotidianamente descritto dalla stampa come il luogo del
clientelismo e dell’inefficienza.
Fu adottato il sistema dei due pesi e due misure, con un’eccessiva
prudenza contabile, che condusse alla perdita del patrimonio ed
alla successiva scomparsa del Banco di Napoli. Il sud perse la sua
banca di riferimento secolare e migliaia di imprese furono costrette
al fallimento con gravi contraccolpi sull’occupazione e con un grave
impoverimento socio culturale.
Fu uno dei danni più gravi inferto ai danni del Mezzogiorno in nome
della supremazia del mercato, proprio alla vigilia di una drastica
inversione di rotta degli Stati più liberisti del mondo, che hanno
adottato la ricetta delle partecipazioni statali immettendo ingente
liquidità per salvare traballanti colossi della finanza e
dell’economia.
Alcuni aspetti tecnici dell’operazione sono difficilmente
afferrabili dal lettore meno versato in economia, anche se risalta
come truffaldino il criterio adottato all’epoca per valutare il
Banco di Napoli, da parte dell’advisor del Tesoro, la Rotschild, che
nel 1977 ritenne equo il prezzo di 61 miliardi di lire per
acquistare il 60% del glorioso istituto da parte dell’Ina e della
BNL e dopo circa due anni ritenne altrettanto equo un prezzo di 3600
miliardi per la vendita del 56% dello stesso Banco al Sanpaolo –
Imi, dando luogo ad una vergognosa plusvalenza.
Non è il solo punto oscuro del criminale atto di sabotaggio e di
desertificazione verso il Sud ed aspettiamo tutti che sull’argomento
voglia quanto prima scrivere una penna alla Saviano, che gridi tutta
la rabbia repressa dei meridionali, dimostrando che i delinquenti
non si annidano solo nell’inferno di Scampia o Secondigliano, ma
anche tra i colletti bianchi che siedono boriosi al Tesoro o nei
consigli di amministrazione delle grandi banche del Nord.
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