Cap.35
La cintura degli ipermercati e dei centri commerciali
Un nuovo, ennesimo, faraonico centro commerciale è stato aperto alle
porte di Napoli, con il solito codazzo di potenti all’inaugurazione
e con il consueto plauso dei mass media, amplificato dal progetto di
Renzo Piano e dalla benedizione del premier.
Stranamente in Campania, mentre le industrie e le poche attività
produttive languono in stato comatoso, i templi del consumismo
fioriscono senza sosta. Non si capisce da dove dovrebbero provenire
i soldi da spendere se non si crea più ricchezza, ma la civiltà dei
consumi pare abbia trovato la soluzione attraverso l’abuso perverso
del credito e della rateizzazione, convincendo lo stolto consumatore
che l’importante è acquistare anche cose inutili, a pagare vi è
sempre tempo e se non pagherà lui, pagherà qualche altro, attraverso
la gigantesca truffa dei derivati.
Si glorificano i nuovi posti di lavoro indotti dai nuovi centri
commerciali, ma nessuno calcola la chiusura continua di negozi e
botteghe con disoccupazione indotta in ragione di numeri dieci volte
superiori.
E mentre il traffico si strozza sulle autostrade alle porte di
Napoli e nei fine settimana si paralizza completamente, le vie del
centro si desertificano, vanificando le occasioni di incontro e
stravolgendo la stessa filosofia con cui sono state costruite le
nostre città, senza che il consumatore ne tragga un reale vantaggio,
a differenza di questi colossi della distribuzione, spesso di
proprietà straniera e sempre collusi con il potere politico che
elargisce le licenze e la camorra che gestisce i terreni.
Il copione della nascita di questi megacentri commerciali è sempre
lo stesso: una multinazionale, incurante dell’effetto devastante
sulle attività commerciali medio piccole della zona, prende contatto
con i politici locali, i quali si rivolgono alla camorra per
procurare i terreni, precedentemente dediti all’agricoltura,
costringendo alla vendita i legittimi proprietari. Identificato il
luogo dove dovrà sorgere la struttura, cadono come d’incanto i
vincoli paesaggistici ed urbanistici, se presenti, mentre le licenze
di edificazione vengono concesse a tempo di record. I ricavi della
vendita dei prodotti, quasi tutti comperati in Cina, sfuggirà alla
tassazione, perché la sede legale della società si trova in uno dei
tanti paradisi fiscali, nati come funghi da quando il capitalismo,
perso ogni volto umano, è divenuto selvaggio. Per i brand più
affermati il rischio viene trasferito ad un commerciante locale, il
quale viene coinvolto con la formula del franchising. A fronte di
questa spoliazione di reddito del territorio, la multinazionale,
assume, con contratti capestro a termine, un po’ di personale
indigeno, indicato dai mammasantissimi, i quali devono procurare ai
politici di riferimento un cospicuo serbatoio di voti per le
frequenti competizioni elettorali.
Negli ultimi anni l’entroterra napoletano, una volta regno
incontrastato di broccoli e pomodori, è stato invaso da un
proliferare sconsiderato di centri commerciali sempre più grandi,
dal Campania al Polo della Qualità, dal Tarì a Vulcano buono, uno
degli ultimi ad essere edificato.
Sono costruzioni imponenti, che dominano le campagne e si collocano
tra un intreccio inestricabile di sopraelevate, le quali smistano in
maniera caotica il traffico in tutte le direzioni. Se dovessimo
ascoltare i cartelli indicanti infinite località, da città della
Puglia a località più o meno note del salernitano e del beneventano
ci troviamo nel cuore palpitante delle regione, crocevia di merci e
di consumatori, luogo di passatempo e di passeggiate, in grado di
sostituire in pieno le funzioni dell’antica Agorà.
Ed infatti questi enormi spazi, serviti da parcheggi grandiosi, sono
un pullulare, oltre che di negozi, anche di fast food e ristoranti,
multisale ed american bar, molto amati dai giovani che vi
trascorrono, soprattutto nel fine settimana, gran parte del tempo
libero.
La confusione regna sovrana e fa somigliare questi spazi
ultramoderni ai tradizionali bazar arabi, dove si commerciavano, tra
le urla dei venditori, merci provenienti spesso da lontano.
Ad un occhio attento si percepisce subito la stridente differenza
tra questi non luoghi, enormi superfici senza storia e senza anima,
partoriti dalla modernità e le antiche piazze cittadine, dove tutti
si conoscevano e si passeggiava vedendo le vetrine.
Oggi questi centri commerciali, più che vendere, in un periodo di
crisi economica, sono affollati da torme di giovanissimi: ragazzine
di 14 – 15 con abiti succinti e barocchi, quasi tutte over size, con
addomi batraciani che fuoriescono dai jeans a vita bassa e le più
bone con pantaloni trasparenti che, senza lasciare nulla alla
fantasia, sono uno sfacciato trionfo di mutandine tanga, mentre i
ragazzi, di poco più grandi, sfoggiano camice sgargianti e tagli di
capelli alla Hamsik o quanto meno alla selvaggia. Le fanciulle amano
parlare ad alta voce per farsi notare, i maschi viceversa
gesticolano silenziosi, indicandosi le prede più appetitose da
puntare. Si muovono incessantemente per ore, facendo la spola dal
cinema ai bar più frequentati, senza mai sedersi e senza consumare,
al massimo il più economico dei gelati.
Provengono quasi tutti dalla provincia ed i loro genitori si sentono
sicuri, perché ritengono questi faraonici centri commerciali una
zona off limit per scippi ed aggressioni; spesso le mamme
accompagnano i figliuoli nelle prime ore del pomeriggio e li vengono
a prelevare a notte fonda.
I giovani si recano volentieri in questi templi della modernità, in
grado di omologare gusti e tendenze e far somigliare,
nell’abbigliamento e nelle scelte consumistiche, europei ed
americani, giapponesi e sud coreani, ma credo che solo
nell’hinterland napoletano gli esercenti di tavole calde e bar
abbiano avuto l’idea di chiamare Arapaho un panino imbottito di
spezie o un piatto di pasta Don Peppe o malommo ed una pizza a
taglio multisapori Re di denaro.
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Il Centro Commerciale Campania
Il Vulcano Buono
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