Cap.18
Il crepuscolo delle coscienze
Napoli è stata per secoli una capitale europea, alla pari di Londra
e di Parigi, con il vantaggio di essere posta sul Mediterraneo, una
posizione centrale favorevole per gli scambi non solo commerciali,
ma anche culturali; a differenza delle altre grandi città non ha
però avuto celebri scrittori della statura di Balzac o Hugo o
Dickens, che ne abbiano saputo raccontare la storia e le storie.
Pochi i nomi che potremmo citare, come Mastriani o la Serao, ma
parliamo sempre di narratori d’appendice che scrivevano in dialetto
o si interessavano di problematiche prive di un respiro universale.
Il motivo di questa carenza va ricercato, oltre che nel carattere
autoreferenziale che ha sempre caratterizzato la nostra cultura,
nella circostanza, comune a tutte le società povere e con molti
analfabeti, di utilizzare come principale forma espressiva il teatro
e la musica popolare con le sue canzoni struggenti e malinconiche,
vivaci ed appassionate.
Il cuore palpitante di Napoli ha trovato degni interpreti in Viviani,
attento ai bisogni del sottoproletariato, che affollava i vicoli
brulicanti di passioni e di umanità ed in Eduardo acuto osservatore
della piccola borghesia con i suoi pregi ed i suoi difetti.
Tra gli scrittori del secolo scorso in grado di portare le vicende
napoletane, per quanto squallide, all’attenzione di una platea
internazionale, vi è il solo Curzio Malaparte, oggi in parte
dimenticato, ma all’epoca in grado di incendiare il dibattito sulla
città.
Dopo il successo planetario di Gomorra la letteratura napoletana,
già povera di firme prestigiose, ha inseguito un solo tema: la
camorra, con la segreta speranza, fomentata dagli stessi editori, di
sfruttare l’effetto Saviano.
Abbiamo avuto un diluvio di pubblicazioni, tutte brutte copie
dell’originale, dal libro della giornalista Capacchione a quello del
pluriscortato giudice Cantone, oltre ai testi di Simone Di Meo, che
rivendica alla sua penna di cronista interi brani di Gomorra.
Il risultato è stato un aumento di prestigio dei clan, dotati ora di
una celebrità gratuita legata a libri, film e spettacoli teatrali.
Napoli ha un disperato bisogno di autori che sappiano raccontare una
società in trasformazione dopo essere stata immobile per secoli, al
punto da far pronunciare a Pasolini la celebre frase che “I
Napoletani sono l’ultima tribù che lotta contro la modernità”.
Nessuno ha saputo raccontare le immense periferie, che sono
cresciute come funghi e palpitano di mestieri e di piccoli commerci,
di amori impossibili e di sogni infranti, di dolore e di ansia di
vivere; nessuno ha saputo raccogliere e fare suo il grido di dolore
che proviene dalla Napoli vera, che non compare mai sui giornali:
quella dei disoccupati cronici, dei giovani senza futuro, dei
pensionati alla fame, dei commercianti strangolati dal pizzo, dei
lavoratori al nero per 500 euro al mese, la folla degli onesti
costretti in un angolo dalla prepotenza dei vincitori; nessuno si
interessa a far conoscere le antiche chiese cadere in rovina, gli
abusi edilizi ubiquitari, l’esercizio spietato della prevaricazione
dei burocrati come regola di vita.
Nessuna voce, né indigena né aliena, ha saputo captare quel coacervo
di suoni, odori, sapori, sensazioni che promana potente come un
afrore inebriante dai tanti immigrati, di colore o meno, che a
decine di migliaia hanno sostituito i napoletani nel centro storico.
Aspettiamo ancora quell’intellettuale il quale, invece di limitarsi
a descrivere, sappia spiegarci il perché in tanti quartieri della
città vi sia un odio verso le forze dell’ordine, verso lo Stato e
verso la legge, visti come carnefici, come persecutori, come custodi
di norme incomprensibili. Come in così vasti settori della
popolazione vi sia un’idea di aggregazione limitata a pochi isolati,
a poche famiglie e non si riconoscano regole che non siano quelle
dettate da secoli di ignoranza e di incuria pubblica e dove si
perpetuano usanze tribali, portando inesorabilmente verso il
degrado, la povertà e la subordinazione alla malavita, che a sua
volta considera la polizia come un esercito straniero e le vittime
degli scontri caduti in guerra.
Negli ultimi decenni la città si è dilatata in una periferia
anonima, un mondo grigio di palazzi tutti eguali, abitati da
centinaia di migliaia di persone che non si conosco più come nel
vicolo, un popolo senza memoria storica e senza un ragionevole
progetto per il futuro, costretto a vivere, purtroppo, in un
interminabile e soffocante presente.
Un universo che somiglia a tante periferie del sud del mondo con le
stesse ansie e gli stessi problemi, ma che a Napoli non poteva non
avere il suo lato comico nello stridente contrasto tra il nome
altisonante di alcune strade e lo squallore che le circonda,
indirizzi beffardi a Secondigliano per abitanti costretti a vivere
gomito a gomito con la criminalità organizzata. La più grande piazza
per lo spaccio della droga d’Europa che confina con Il posto delle
fragole o Il giardino dei ciliegi, mentre le vedette della camorra
si stagliano prepotenti in via La certosa di Parma o I racconti di
Pietroburgo. A Ponticelli, altro Bronx invivibile, si passeggia in
strade desolate che richiamano un lontanissimo mondo di favola da
via Walt Disney a via Marilyn Monroe o viale Fratelli Grimm. Come se
i nostri incauti amministratori avessero voluto affidare ad
un’improbabile toponomastica il compito improbo di rendere quei
luoghi inospitali, vivibili e civili.
Ed infine in questo disperato crepuscolo delle coscienze attendiamo
un valido cantore di una borghesia malata e collusa e dell’intreccio
inestricabile tra imprenditori voraci e politici corrotti, mentre
magistratura ed opinione pubblica non si accorgono di nulla.
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Eduardo De Filippo
Curzio Malaparte
Vincenzo Gemito-Ritratto di Raffaele Viviani (Napoli, Museo di
S.Martino)
Roberto Saviano
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