Le
chiese di Ischia:
"Ischia
Porto"
di
Achille della Ragione
La Cattedrale dell'Assunta
Chiesa dello Spirito Santo
Arciconfraternita di Santa Maria di Costantinopoli
Chiesa dell'Annunziata
Chiesa di San Domenico
Altre chiese di Porto d'Ischia
Le chiese del Castello Aragonese
La Cattedrale del Castello
Convento di Sant'Antonio
Chiesa di San Pietro
Altre chiese di Ischia Porto
Santa Maria di Portosalvo
La Cattedrale dell'Assunta
Dopo la morte, avvenuta nel 1388, di Giovanni Cossa, governatore d'Ischia e di Procida, il figlio Pietro fece edificare sulla spiaggia, a pochi passi dal Castello aragonese, una grande chiesa dedicata alla Madonna della Scala. Di lato venne anche costruito un convento affidato ai padri Agostiniani.
La famiglia Cossa era una delle più illustri dell'isola ed era tenuta in gran conto dalla corte angioina di Napoli. Il fratello di Pietro, Baldassarre, salì al soglio pontificio con il nome di Giovanni XXIII, anche se, a seguito delle lotte ecclesiastiche che imperversavano all'epoca, nella storia pontificia è considerato un antipapa.
Nei secoli la chiesa è stata tre volte demolita e ricostruita, divenendo solo nel 1810 la chiesa madre della diocesi.
In precedenza la sede vescovile si trovava nell'antica città di Geronda, sita nell'attuale pineta di Fiaiano. Una spaventosa eruzione distrusse tutta la zona e la chiesa madre si trasferì, con l'intera popolazione ischitana, nell'isolotto del Castello aragonese, fino al 1809, quando le cannonate degli Inglesi, posizionati sulla dirimpettaia collina di Sorronzano, distrussero la antica Cattedrale. Le opere d'arte che si salvarono dal disastroso bombardamento furono trasferite nella chiesa dell'Assunta, che da allora divenne la nuova Cattedrale. Il 1809 è anche l'anno della legge con la quale il Murat sopprimeva molti ordini monastici, incamerandone le ricchezze. Anche gli Agostiniani si videro costretti ad abbandonare il loro convento, la chiesa di Santa Maria della Scala e tutti i numerosi beni che possedevano sull'isola, dopo essere stati per oltre quattro secoli una autorevole guida spirituale ed una notevole potenza economica, a seguito delle enormi elargizioni di denaro ed immobili fatte dai fedeli, preoccupati della salvezza delle loro anime.
I canonici, una volta espulsi gli Agostiniani, chiesero al sovrano Borbone, divenuto nuovamente re di Napoli, di poter officiare nella chiesa dei frati, che divenne da allora Cattedrale della Diocesi.
Il tempio presenta un'ampia facciata barocca con tre ingressi protetti da una robusta cancellata ed un elegante mosaico, eseguito da artisti contemporanei, che risalta sulla porta centrale.
L'interno è permeato dalla luce, che prepotentemente illumina ogni angolo delle tre maestose navate, dominate da una cupola di ispirazione bramantesca. Il pavimento marmoreo è del 1912, frutto di una donazione, mentre in alto, al centro dell'arco trionfale, è presente un'effige in stucco di una donna, che la tradizione popolare indica come il volto della moglie di Pietro Cossa, il fondatore della chiesa.
Di lato si erge un'imponente torre campanaria, costruita nel 1596, allo scopo di offrire un rifugio alla popolazione durante le frequenti incursioni barbaresche. Diminuite le scorrerie dei pirati la fortezza venne utilizzata, a partire dal 1613, come campanile.
Numerosi dipinti, prevalentemente settecenteschi, arricchiscono le pareti della cattedrale.
Tra questi i più importanti appartengono al virtuoso pennello di Giacinto Diano, un solimenesco nativo di Pozzuoli. Essi sono un'Annunciazione, un'Assunzione della Vergine, un'Elemosina di San Tommaso da Villanova, un San Nicola da Tolentino, un'Assunta ed un Sant'Agostino con la Santissima Trinità.
Le tele sono opere giovanili dell'artista e possono essere collocate cronologicamente agli anni 1758-60. Alcune sono datate, come la grande pala d'altare dell'Assunzione della Vergine, nella quale possiamo apprezzare un ampliamento dell'orizzonte spaziale e prospettico, accoppiato a stesure cromatiche calde e rassicuranti. Spesso gli schemi compositivi replicano opere del Solimena ed anche del De Mura, con non sopiti echi dello scintillante barocco giordanesco, ben leggibili nell'Elemosina di San Tommaso da Villanova. Nelle altre tele predominano sempre gamme chiare di colore, che danno luogo ad un gradevole effetto pittorico di atmosfera quieta e serena, nel pieno rispetto delle inderogabili esigenze di grazia e di devozione.
Alfonso Di Spigna è presente con un suo lavoro posto sul primo altare laterale sinistro: un San Giuseppe di qualità non inferiore alle tante tele che il lacchese ha disseminato nella chiese
ischitane.
assunzione di Giacinto Diano
In sacroestia sono presenti altri quadri interessanti, in parte provenienti dall'antica Cattedrale, come una tavola rappresentante San Giorgio che trafigge il drago, attribuita, nelle schede della Soprintendenza a Teodoro d'Errico, nome italianizzato del fiammingo Dirk Hendricksz, un importante pittore attivo nella capitale, autore di affascinanti soffitti cassettonati e prestigiose pale d'altare. L'opera ischitana viene collocata al penultimo decennio del secolo XVI, un periodo durante il quale l'artista, sotto l'influsso della maniera tosco romana, comincia a far acquistare al suo linguaggio una desinenza italiana. Sulla tela ha in epoca successiva espresso il suo parere il professor De Castris, massimo esperto del Cinquecento, il quale ritiene che la paternità del San Giorgio spetti ad Ippolito Borghese nella prima fase della sua attività, quando nella sua opera si può evidenziare" un ispirato trattamento luministico ed un'accentuata morbidezza cromatica". Ed una recente ripulitura ha evidenziato, anche se poco leggibile, la sigla H B.
Tra le altre tele, una gigantesca, con l'effige di monsignor Onorato Buonocore, uomo pio ed erudito, il quale, esperto d'arte, assegnava un quadro, anch'esso presente in sacrestia, raffigurante San Tommaso orante davanti al crocefisso, al Penni, discepolo di Raffaello ed attivo nel viceregno. Il quadro, naturalmente di ignoto, è stato variamente interpretato da altri studiosi, i quali, aiutandosi con una robusta dose di fantasia, hanno visto in esso l'immagine rovesciata di Alessandro VI, realizzata dal Pinturicchio nell'appartamento Borgia in Vaticano.
Senza dimenticare un San Tommaso orante, attribuito dall'Alparone ad un nome di convenzione: Maestro del San Tommaso del Duomo di Ischia, che può essere identificato come ignoto pittore attivo nel primo quarto del secolo XVI, entrato in contatto con la bottega di Pietro Ispano, forse Pedro de Aponte, nome verso cui converge il parere del Leone De Castris, che colloca l'opera entro il 1507,data del ritorno in Spagna dell'artista.
Nella chiesa, oltre ai dipinti, esistono numerose altre opere d'arte, tra le quali, in fondo alla navata sinistra, un raro crocefisso di scuola catalana del 1200, il cui modulo iconografico denota palesemente analogie con alcuni prototipi in area napoletana, come quello del Duomo o della chiesa di Sant'Aniello a Caponapoli. Anch'esso proviene dall'antica Cattedrale alla pari del Battistero, ricostruito assemblando differenti pezzi provenienti da monumenti distrutti durante il rovinoso bombardamento del 1809. Alcune cariatidi dello stesso provengono con certezza dalla tomba di Giovanni Cossa. Esse sorreggono un pregiato fonte battesimale dove, nel 1654, venne battezzato Carlo Gaetano Calosirto, che diverrà San Giovanni Giuseppe della Croce, il santo isolano le cui spoglie nel 2003 sono tornate nel luogo natio.
Anche lo spettacolare altare marmoreo, realizzato assieme alla balaustra di stile barocco tra il 1746 ed il 1764, proviene dal vecchio tempio.
Degna di nota, in fondo alla navata destra, è la Cappella del Sacramento, dedicata alla Madonna della Libera, la cui immagine ci sorride maternamente da una tavola trecentesca, oggetto di una storica venerazione, davanti alla quale si piegarono in ginocchio ad impetrare grazia o perdono uomini potenti, grandi dame, principi ed anche regnanti. Davanti a lei versò implorante le sue lacrime Vittoria Colonna, mentre il suo amato consorte Ferrante d'Avalos teneva alto l'onore della patria sui campi di battaglia ed egli stesso, migliore spada del Cinquecento italiano, tornando a casa incolume, sostava a lungo davanti alla veneranda immagine per ringraziare degli scampati pericoli.
In conclusione qualche parola va spesa sull'ordine degli Agostiniani, i quali, negli anni, allargando sempre più le loro proprietà, a seguito di continue donazioni, crearono, oltre al principale, altri conventi in diverse località per poter meglio amministrare un sempre crescente patrimonio. Sorse così una nuova residenza di monaci a Barano attigua alla chiesa di San Sebastiano, un'altra a Forio vicino alla chiesa del Soccorso, una a Panza, legata alla chiesa di San Gennaro ed un'altra a Campagnano, in corrispondenza della chiesa di San Domenico.
Importanza notevole per l'economia isolana fu l'introduzione ad Ischia della coltivazione del baco da seta, voluta dai frati Agostiniani, i quali diedero luogo alla prima piantagione di gelso nei loro terreni, ma, generosamente, fornirono le semente anche ai proprietari dei terreni circostanti, facendo sì che in breve la coltivazione si diffondesse a macchia d'olio in tutta l'isola.
In poco tempo l'ordine accumulò cospicue ricchezze, diventando il vero padrone dell'isola.
Tutto finisce nel 1809 con il decreto di soppressione degli ordini religiosi emanato da Gioacchino Murat, il quale volle, astutamente e non per spirito di laicità, impossessarsi delle enormi ricchezze che i religiosi nel regno di Napoli avevano accumulato nei secoli.
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Chiesa dello Spirito Santo
Poco distante dalla Cattedrale, sull'altro lato della strada, sorge la chiesa Collegiata dello Spirito Santo, costruita tra il 1636 ed il 1676. Originariamente, sul posto ove oggi sorge il sacro edificio, si trovava una cappella dedicata a Santa Sofia di proprietà della famiglia Cossa. Essa, intorno al 1570, fu adattata a luogo di culto dei marinai del borgo di Celsa, mentre il titolo parrocchiale dalla chiesa di San Vito a Campagnano, vi fu trasferito, per decisione del vescovo Fabio Polverino, nel 1580. Inoltre tutti i fedeli si tassarono, dedicando una parte dei guadagni prodotti dalle loro attività ad un programma di assistenza materiale e spirituale. A tale scopo, nel 1613, di fianco alla congrega, fu edificato un piccolo ospedale, che funzionò per alcuni decenni. Nel 1672 i lavori di ampliamento terminarono e la chiesa fu aperta al culto di tutti gli abitanti del quartiere. Nel 1851 il pontefice Pio IX la elevò al titolo di Collegiata con un capitolo di canonici.
La Collegiata dello Spirito Santo è sede della venerazione di San Giovanni Giuseppe della Croce, un francescano alcantarino (Ischia 1654- Napoli 1734), le cui spoglie sono da poco ritornate nell'isola natia dopo una lunga permanenza a Napoli, dove morì, con grande giubilo della popolazione legata ad un culto molto sentito al Santo, una figura di spicco nella storia religiosa napoletana del Settecento.
La chiesa ha pianta basilicale a croce latina, con navata unica e tre cappelle per lato. Una breve scalinata conduce all'ingresso. La facciata, dalle linee molto semplici, è decorata soltanto in alto da una finestra trilobata sopra il portale. Sul lato destro vi è la torre campanaria, di forma piramidale, sormontata da una cupoletta a pera, rivestita da mattonelle smaltate gialle e verdi. All'incrocio della navata con il transetto è presente una bassa cupola, che all'estradosso porta un tetto spiovente poggiato sui muri perimetrali.
L'interno è particolarmente ricco di opere d'arte, tra cui un affresco, conservato in sacrestia, raffigurante il Castello, del XVI secolo ed un baldacchino d'argento del XVIII secolo.
Entrando, a sinistra, ci accoglie un originale fonte battesimale ottocentesco, mentre sulla controfacciata vi è una tela del 1709 di un ignoto pittore campano, raffigurante San Francesco Saverio che battezza un negretto. Nella prima cappella a sinistra una Madonna con Bambino e Santi, esito del pennello di un artista di ambito provinciale ispirato ai modi di Francesco Solimena. Sull'altare della terza cappella a sinistra una Madonna del Rosario contornata da quindici telette raffiguranti i Misteri. L'Alparone trovò nell'archivio della Collegiata un documento di pagamento di trenta ducati al pittore Giuseppe Bonito per l'esecuzione dell'opera in questione. Il quadro, eseguito nel 1786 utilizzando una vecchia tela, ha dislivelli qualitativi tra il volto della Vergine, molto bello e dolce, sicuramente autografo e la parte inferiore, alla quale partecipa la bottega.
Nei due transetti vi è una coppia di altari in marmi policromi molto belli, eseguiti dal marmoraro Antonio Di Lucca nella seconda metà del Settecento. Il paliotto dell'altare di destra fu modificato nel 1797 per inserirvi il contenitore delle reliquie di San Pio.
Sull'altare del transetto sinistro fa bella mostra una Madonna delle Grazie con le anime purganti di Paolo De Matteis, firmata e datata 1710. La Vergine, seduta in alto tra le nubi col Bambino, fa grondare dal seno copiose gocce di latte ad un gruppo di anime purganti, che, caldamente, la implorano. La tela è impregnata di grazia raffinata e di misurata eleganza compositiva, attraverso l'uso di stesure cromatiche dalle tonalità preziosamente rischiarate, che precorre il gusto rocaille. Il De Matteis realizza nel dipinto " una perfetta sintesi tra colore e disegno, contenuto e forma, in ossequio a quella vena di ritrovato classicismo" (Rolando Persico), che contraddistingue le sue opere più riuscite.
L'altare maggiore in marmi policromi è opera di collaborazione tra un eccellente marmoraro napoletano ed un ignoto scultore, autore dei cherubini che impreziosiscono i due capialtari ed il ciborio. La balaustra riprende motivi di grande successo, introdotti in area napoletana da Niccolò Tagliacozzi Canale nella zona presbiteriale della Certosa di San Martino.
Nella parete di fondo dell'abside è collocata una Pentecoste, realizzata nel 1768 dal Di Spigna, una composizione animata da un moto circolare di grande dinamismo, che ci fa apparire il pittore lacchese aggiornato sui modi della pittura napoletana degli anni Sessanta, di ispirazione accademica.
Sulle pareti dell'abside è presente una serie di quattro rilievi in stucco modellato, rappresentanti, partendo da sinistra: San Giovanni Evangelista, Santo evangelista(?), Sant'Andrea e San Giacomo. Essi furono realizzati nel 1768 da Cesare Starace, quando l'artista eseguì anche la cornice di stucco per il quadro della Pentecoste.
In una nicchia posta nell'altare del transetto destro vi è una scultura a manichino rappresentante San Pio, adagiato su una bara in legno intagliato e dipinto, decorata da profilature dorate. Sull'altare vi è un Crocifisso, fine Settecento, in legno scolpito e dipinto, caratterizzato da un accentuato pietismo, che riprende schemi iconografici importati dalla Spagna il secolo precedente.
Sull'altare del transetto destro vi è un Calvario, eseguito da Giuseppe Bonito, probabilmente nel 1768, sagomato attorno al Crocefisso illustrato precedentemente. La tela è una replica autografa di quella eseguita nel 1757 per la chiesa napoletana di San Giovanni e Santa Teresa all'Arco Mirelli. L'opera presenta chiari segni di classicismo, che in ambito napoletano si manifestavano in quegli anni sotto l'influsso della pittura romana.
Nella terza cappella del lato destro trova posto una Annunciazione, datata 1776, da attribuire al poco noto Vincenzo Diano, del quale non si conoscono legami di parentela con il più noto Giacinto, attivo nella vicina Cattedrale. La paternità della tela si basa su convincenti raffronti con gli affreschi dipinti dall'artista nel monastero di Santa Caterina da Siena nel 1777.
Nella nicchia sull'altare della seconda cappella a destra vi è una scultura rappresentante San Pietro, opera di un artista napoletano ispirato ai modi di Giuseppe Picano, da cui riprende pedissequamente lo schema della capigliatura e della barba condotta per volute.
Nella sacrestia, in un elegante mobile per arredi, di artigianato campano della prima metà del secolo XIX, sono conservati vari oggetti sacri d'argento, tra cui segnaliamo uno splendido calice punzonato dall'argentiere Gennaro Russo, attivo con due statue nella cappella del Tesoro del Duomo di Napoli.
In sacrestia vi è pure una Traditio clavium, un raro tema iconografico eseguito dalla bottega di Fabrizio Santafede.
Il dipinto è stato studiato dall'Alparone, il quale, nell'assegnarlo al pennello del maestro, operava dei raffronti con il Cristo e la Samaritana della quadreria del Pio Monte della Misericordia e con il Cristo ed i figli di Zebedeo della pinacoteca dei Gerolamini. La tela in esame, pur essendo di notevole qualità, tradisce però una certa durezza di esecuzione, che contrasta con la consueta dolcezza dei dipinti del Santafede. La Scricchia Santoro, in una sua comunicazione orale, ha avvicinato l'opera al catalogo di Giovan Bernardo Azzolino, non avendo riscontrato quei caratteri di arrotondamento e di addolcimento tipici nelle fisionomie santafediane. Una particolare attenzione è stata dedicata dalla Rolando Persico, nella sua monografia sui dipinti delle chiese ischitane e dal Borrelli, nel redigere la scheda per la Soprintendenza, alla figura in basso a destra del committente, trovando una somiglianza con il donatore che compare nel dipinto di Carlo Sellitto conservato nella chiesa di Aliano in provincia di Matera. Raffronto che, a nostro parere, è del tutto arbitrario, essendo il ritratto del committente del Sellitto un vero capolavoro impregnato del più schietto naturalismo, che cominciamo a riscontrare in area napoletana dopo la venuta del Caravaggio, non prima del secondo decennio del Seicento, mentre la Traditio clavium ischitana va collocata cronologicamente almeno venti anni prima.
Sistemato attualmente sulla parete destra della controfacciata della chiesa, vi è un olio su tavola con la Madonna, Bambino e Santi, che venne ritrovato nel 1969 dietro il quadro raffigurante la Pentecoste, sito sull'altare maggiore. Attribuito dall'Alparone in un primo momento a Marco Pino, fu, prudentemente, dallo stesso studioso, assegnato, dopo un più attento esame, ad un collaboratore della bottega. Si può ipotizzare il nome di Michele Manchelli, genero del maestro, che, come risulta dai documenti, riprende i moduli del suocero in molte opere, senza però raggiungerne i livelli qualitativi.
Sempre sulla controfacciata destra si trova una Madonna della Salvazione, opera di un ignoto attivo nella prima metà del secolo XVII. La Vergine è seduta su delle nubi ed ha sulle gambe il Bambinello, il quale regge uno scettro con cui indica un gruppo di barche di pescatori dirette verso l'isola di Ponza. Un classico ex voto donato da scampati ad una tempesta.
E per finire, nella prima cappella a destra, si trova una tela di un certo interesse, rappresentante la Sacra famiglia con Sant'Anna, San Gioacchino e San Giovannino, da confrontare con la tela omonima, conservata nella sacrestia della chiesa dei santi Filippo e Giacomo a Napoli ed assegnata a Fabrizio Santafede. La tela della chiesa ischitana ricalca pedissequamente, con qualità molto più bassa, il quadro napoletano di cui con precisione ripete "dettagli, atteggiamenti, espressività, intensità di sguardi, tutti elementi che concorrono a ricreare quella sorta di atmosfera familiare ed intima che si riscontra in numerose tele santafediane"(Rolando Persico).
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Arciconfraternita di Santa Maria di Costantinopoli
Addossata alla chiesa dello Spirito Santo, con un'ampia gradinata d'accesso, sorge l'Arciconfraternita di Santa Maria di Costantinopoli, fondata nel 1613 dagli artigiani del borgo d'Ischia, i quali vollero staccarsi da marinai e pescatori, assieme ai quali avevano fondato nel secolo precedente lo Spirito Santo, per creare un autonomo Oratorio laico, che entrò in funzione nel 1626 e fu ristrutturato completamente nel 1693. In essa per decenni si sono tenuti accesi dibattiti consiliari. Il 25 agosto 1794 il Capitolo Vaticano incoronò la statua della Madonna, conservata all'interno e risalente al secolo XVIII, che nei giorni di festa viene ricoperta di abiti ed oggetti preziosi. Molto venerato è anche il medaglione del paliotto raffigurante la Madonna del Melograno, che certamente costituiva la parte centrale di un sarcofago smembrato, proveniente dal Castello.
Il portale d'ingresso della Confraternita è molto grazioso ed elegante ed è preceduto da un atrio scoperto, chiuso da una bassa facciata, dietro la quale se ne trova una seconda dalle linee più semplici. L'interno, ad unica navata, è coperto da una volta a botte lunettata e fasciata. In alto, nella lunetta degli archi laterali, si rilevano affreschi illustranti episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nell'ambiente adiacente, adibito a sacrestia, si sviluppa una avvolgente scala rampante.
La famiglia di San Giovanni Giuseppe abitava nella zona ed un suo ritratto ci ammonisce severo dalla balaustra dell'organo, mentre altri dipinti sono conservati in sacrestia, come una Sant'Anna e la Vergine bambina ed una Visione di San Francesco Saverio, entrambi modesti ed a carattere devozionale.
Sulla mensola del coro vi è un Cuore di Gesù, attribuibile a Giacinto Diano, intorno al 1770, quando l'artista abbandonando i modi demuriani, cominciò a stemperarsi in grazia accademica. Nella chiesa vi è un solo altare in marmi policromi, databile alla seconda metà del XVIII secolo, con al centro una cona.
Sulle pareti destra e sinistra scorre un maestoso coro, dal disegno simile a quello conservato in Santa Maria Visitapoveri a Forio. Esso è composto da una triplice fila di sedili con parapetti e balaustri, intervallati da scalini e fu eseguito quando la Congregazione si trasformò in Arciconfraternita.
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Chiesa dell'Annunziata
Imboccando la strada di Campagnano ci imbattiamo nella Cappella di San Pietro, chiusa da tempo immemorabile, di fronte alla quale sorgeva una Cappella gentilizia della famiglia Agnese. La prima era una volta povera di addobbi ed arredi, mentre l'altra ne abbondava. La chiesetta di San Pietro, conservava l'effige del Santo titolare, trasportata dall'omonimo tempietto del Castello, che era in rovina per vetustà. Essa rappresentava l'antica nobiltà enariana, poggiata sugli antichi privilegi concessi loro dai reali spagnoli, mentre la vicina era il simbolo della più recente nobiltà ischitana, basata per intenderci non sulle pergamene, bensì sulle sonanti piastre e sui rotoli di luccicanti marenghi.
Giunti nella piazza principale incontriamo la chiesa dell'Annunziata, la cui facciata, adorna di uno splendido rivestimento maiolicato, domina la passeggiata del piccolo borgo. Nasce nel 1602 come chiesetta rurale ad opera dei contadini del villaggio, che si accollano le spese di manutenzione; viene in seguito dedicata a San Sebastiano ed a lungo si è praticata la venerazione dell'Annunciazione di Maria. A fronte del luogo di culto si creava un'atmosfera da "Sabato del villaggio", magistralmente descritta dal D'Ascia nel suo libro sull'isola d'Ischia, vera e propria miniera di notizie e di aneddoti. Gli cediamo la parola:
"Quivi i vecchi contadini, le graziose forosette e le brune villanelle nell'ora del tramonto dei dì festivi, vanno a raccogliersi e salutare la Nostra Signora con armoniose cantilene. Quivi la pace dello spirito ed il disprezzo degli umani fasti, si mescolano in quelle poste di rosario che va cantato in coro fra quei rustici abitanti del villaggio. Quivi nelle sere dei sabati di primavera, le giovinette del villaggio accorrono ad offrire alla Madonna i loro mazzolini di viole selvagge e gelsomini campestri, mescolati alle ciocche di bionde fiorite ginestre; purissimi fiori non profanati dall'alito del cortigiano e dal sospiro dell'adulatrice, raccolti su i poggi incantati, sulle amene colline e su i margini dei prati di quelle campagne".
Per moltissimo tempo non abbiamo documenti sulla chiesa e non sappiamo quando sia avvenuto il cambio di titolo e se lo stesso sia derivato dalla costruzione di un nuovo edificio. Siamo a conoscenza soltanto che nel 1707 vi fu fondato un Pio Monte di fratelli e sorelle, dedicato alla Madonna delle Grazie ed annesso all' omonimo altare che si trova nella crociera. Un ampio restauro è stato eseguito nel 1792.
La facciata è divisa in due registri, uno superiore dominato da un rivestimento maiolicato ed uno inferiore con il portale d'accesso; nella parte superiore due lesene ioniche sostengono il frontone triangolare con il timpano, mentre ai lati sono posti due campanili, uno dei quali completato da una piccola cupoletta a pera. La decorazione parietale, opera di un ignoto maiolicaro campano, è datata 1896 ed è costituita da un rivestimento di mattonelle di maiolica con croce di malta al centro e fiore stellato negli angoli. Le due scene rappresentano la Visione di San Giovanni Giuseppe che riceve il Bambino dalla Madonna e l'Annunciazione alla Vergine.
L'interno è a croce latina con un ampio transetto, che prende luce da caratteristiche finestre trilobate, mentre un arco inquadra le cappelle laterali. La cupola, priva del tamburo, ma con un luminoso lanternino si innesta all'altezza del transetto.
All'interno della chiesa, nel transetto, a destra e sinistra, vi è una coppia di altari, datati 1634, costituiti da paliotto, pilastrini laterali, predella a doppio gradino e ciborio decorati a commesso con motivi geometrici.
Sull'altare del transetto sinistro è collocata una tela firmata e datata, Bartolomeo Viano 1786, raffigurante l'Estasi di Santa Teresa. La scena inquadra la Santa che, accasciata, regge un cuore con la mano destra, mentre un putto impugna una freccia. La cromia della tela imita il pastello e presenta uno stile simile a quello di Giacinto Diano, del quale il Viano, assolutamente sconosciuto alla critica, potrebbe essere stato allievo.
Sull'altare del transetto destro vi è una Madonna delle Grazie con San Pietro e San Vito, di un ignoto artista di ambito provinciale, autore anche della tela posta sull'altare maggiore.
Nella zona absidale, nei pressi dell'altare, vi sono una serie di dieci candelieri di artigianato campano del secolo XIX ed una Croce, con Crocifisso in legno intagliato e dipinto d'argento ed una grossa base sulla quale è raffigurata un'Annunciazione.
L'altare maggiore, eseguito nell'ultimo quarto del secolo XVIII, presenta due reggimensa impreziositi da un paliotto ad urna decorato a commesso ed un elegante ciborio a baldacchino con porticina d'argento punzonato.
Entrati in sacrestia una lapide ricorda la figura del canonico Mazzella, al quale si deve la completa ricostruzione della chiesa, durata dieci anni, a partire dal 1771. Nella cassaforte una preziosa corona, in argento fuso e dorato, decorata a traforo da rose, motivo fogliaceo e volute, opera di un argentiere siglato "FDL", operante alla fine del secolo XIX.
Ed infine, proveniente dalla chiesa di San Vito a Campagnano, già parrocchia e demolita nel dopoguerra, una Madonna delle Grazie, Santi ed anime purganti, opera di un modesto artista locale, che bizzarramente ci ha lasciato il suo autoritratto nelle fattezze di uno degli spiriti purganti.
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Chiesa di San Domenico
Percorrendo la via Nuova Cartaromana, in direzione di Campagnano, incontriamo in località Cappella la piccola chiesa della Madonna del Carmine, costruita dalla famiglia Scoti nel Settecento, che non presenta alcun interesse artistico.
Poco più avanti ci imbattiamo nella superba torre detta di Michelangelo, importante, oltre che per la mole, perché conserva in alcune sale affreschi cinquecenteschi. Alla sua base, quasi sfiorando le onde del mare, sorge la chiesetta di Sant'Anna, edificata nella prima metà del secolo XVI, famosa perché ha dato luogo alla festa di Sant'Anna, una delle più note dell'isola. Per secoli il 26 luglio, onomastico della santa, una miriade di barche portava in pellegrinaggio gruppi di fedeli che, oltre alla preghiera, consumavano robuste colazioni a base di melanzane innaffiate da buon vino locale. A partire dal 1934, si pensò di addobbare le barche che si recavano in processione. Nacque così, per la gioia di turisti ed indigeni, la festa odierna, con eleganti imbarcazioni allegoriche cariche di luci, di festoni e di belle figliole, scoppiettanti fuochi d'artificio, ogni anno a mezzanotte nello specchio d'acqua compreso tra il Castello Aragonese e gli scogli di Sant'Anna.
Arrivati nella zona di Cartaromana e superato il cimitero si incontra la chiesa di San Domenico, che servì in passato l'omonimo convento di Padri predicatori, fondato nel Trecento e soppresso nel 1653.
Nata come chiesa rupestre nel 1469 ha funzionato per circa due secoli, fino a quando, in esecuzione di una Bolla di Innocenzo X del 1652, il convento fu chiuso perché abitato soltanto da tre frati. L'edificio attuale non è quello originario, completamente distrutto dal terremoto del 1557, bensì uno successivo ampiamente ingrandito negli anni Settanta dell'Ottocento. L'ultima ristrutturazione risale al 1984. L'opera più importante e più antica conservata è una Madonna del Rosario, recentemente restaurata. Dal 1657 fu istituita la sede parrocchiale ed il primo a servirla fu don Domenico Chillà, un calabrese.
Al periodo delle soppressioni degli ordini religiosi i beni dei Domenicani furono devoluti al Seminario d'Ischia, il quale, in seguito, ha dato ogni anno cinquanta ducati per la manutenzione dell'edificio al parroco che abitava nelle stanze del ex convento.
Dopo il Concordato del 1818 tra il re Borbone ed il Papa tale elargizione, raddoppiata, fu trasformata in congrua. In seguito anche il comune cominciò a dare un suo contributo.
Durante l'epidemia di colera del 1836 la sede parrocchiale fu momentaneamente trasferita, perché gli edifici attigui alla chiesa vennero adibiti ad ospedale.
Nel tempo alcune Confraternite, del Rosario e del Nome di Gesù, si appoggiarono all'edificio sacro per la sepoltura dei loro iscritti. A queste si aggiunsero quella del Crocifisso e quella di San Raimondo, denominate dei vergini, perché in esse si seppellivano fanciulli e bambine.
La Madonna venerata è quella della Misericordia, per la quale, a partire dal 1870, per decenni, si teneva una grande processione indipendentemente dalla festa di San Domenico.
Entrando in chiesa, sulla destra, si è accolti da una lastra tombale la cui epigrafe , apposta nel 1725, ricorda la famiglia Mele originaria di Melito, mentre sul lato sinistro si trovano un'acquasantiera a forma di conchiglia di metà Ottocento, che riprende uno schema ampiamente diffuso all'epoca ed un elemento di fonte battesimale a forma di coppa, con piede circolare, decorata da nervature.
Sull'altare della navata destra è collocato il più antico e venerato dipinto della chiesa: una Madonna del Rosario, olio su tavola di ignoto cinquecentesco di ambito provinciale ispirato ai modi napoletani, che riprende un'iconografia molto diffusa dopo il Concilio di Trento, con la Vergine in trono che dà il rosario a Santa Rosa, mentre il Bambinello lo porge a San Domenico.
Nella parte destra del presbiterio, in una nicchia, trovasi una scultura lignea policroma settecentesca, raffigurante San Domenico, opera di un ignoto scultore campano, mentre sul lato sinistro, sempre in una nicchia, si trova una scultura a manichino raffigurante la Madonna, vestita con un elegante abito bianco, ricamato in oro con motivi fogliacei e floreali.
Sulla parete di fondo dell'abside vi è un dipinto raffigurante la Madonna col Bambino e San Domenico, eseguita sul finire del secolo XVIII da un ignoto pittore locale, ispiratosi alla tela di medesimo soggetto realizzata da un allievo di Giuseppe Bonito nel 1786 per la chiesa dello Spirito Santo ad Ischia Ponte.
L'altare maggiore in marmi policromi presenta pilastri reggimensa, paliotto, pilastrini laterali, predella a doppio gradino e ciborio decorati a commesso con motivi geometrici.
Ed infine in sacrestia sono conservati numerosi pezzi sacri in argento, tra i quali ricordiamo un ostensorio, datato 1907, decorato secondo moduli di stile floreale ed una navicella punzonata "PC", eseguita tra il 1824 ed il 1832.
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Altre chiese di Porto d'Ischia
Dopo aver visitato la chiesa di San Domenico percorriamo la località detta Cilento, dove in passato vi era la villa del vescovo d'Ischia e proseguiamo il nostro cammino verso Sant'Antuono, che conserva ancora le tracce di una vecchia chiesetta in rovina dedicata a San Michele, oggi adoperata come deposito.
Dopo poco ci imbattiamo nella parrocchiale di Sant'Antonio Abate. Il Buonocore nella sua opera sulla diocesi di Ischia dalle origini ai nostri giorni, scritto nel 1948, riferisce che l' edificio sacro sorse nel 1559 come eremo edificato dalle famiglie Gorrica, Amalfitano e Di Manso, ma abbiamo reperito un documento vescovile del 22 marzo 1486, nel quale la chiesa viene già ricordata assieme ad altri benefici di patronato della famiglia Ingarrica. Negli anni Sessanta del Novecento la chiesa, completamente rinnovata, è stata intitolata a Sant'Antonio Abate ed elevata a parrocchia.
Poche le opere d'arte conservate all'interno, ricordiamo l'altare molto simile a quelli realizzati per le navate della chiesa della Maddalena a Casamicciola, consacrati nel 1896. Esso è costituito da pilastrini reggimensa che inquadrano il paliotto, ornato al centro da una croce raggiata in rilievo, predella a due gradini terminante in volute ai capialtare e ciborio con porticina in argento sbalzato, punzonato "V.deL." e con bollo "800". Sulla porticina è rappresentato il Trionfo dell'Eucarestia. Inoltre una statua in legno policromo raffigurante il Santo titolare, eseguita da un ignoto artista di ambito provinciale intorno alla metà del secolo XVIII. Sant'Antonio Abate indossa un saio bianco e nero e regge una fiamma nella mano destra ed un bastone con la sinistra, mentre ai suoi piedi è accucciato un maiale.
Completiamo la visita "sacra" di Campagnano incontrando la Cappella di San Pietro, chiusa da tempo immemorabile, quindi scendiamo in via Leonardo Mazzella, dove si trova la chiesa di Gesù Buon Pastore, un edificio moderno, costruito da circa quarant'anni, che ha ereditato un antico titolo parrocchiale. Infatti in passato era denominata San Vito ed era incorporata alla Collegiata dello Spirito Santo. Nel 1974 fu trasferita nella sede odierna assumendo l'attuale denominazione.
Poco più avanti in via Michele Mazzella sorge un'altra chiesa moderna la Cappella del Crocefisso, costruita da meno di cinquant'anni. In via Morgioni vi è, in completa rovina, un'antica cappellina dedicata alla Madonna delle Grazie, voluta nel 1691 dalla famiglia De Angelis.
Spostandoci nella zona dove sono state costruite le nuove Terme comunali sorge la moderna chiesa di San Ciro, costruita nel 1926 affianco ad una vecchia cappellina dedicata al Santo, che risale al 1893. La nuova, elevata a titolo di parrocchia, possiede una pianta centrale a croce greca ed è sempre molto frequentata dai fedeli di San Ciro, il medico facile ai miracoli.
Per completare la visita delle chiese di Ischia Porto ci trasferiamo nella contrada Mandra in via Pontano, dove ci imbattiamo nella chiesa dell'Addolorata, fondata nel 1873 grazie alla generosità della famiglia Morgioni, che donò il terreno ed a monsignor Francesco De Nicola, il quale si fece promotore di una colletta tra i numerosi isolani, che veneravano una statua della Madonna Addolorata conservata nell'abitazione di una pia donna.
La sacra immagine era ritenuta dispensatrice senza sosta di miracoli e la diceria popolare si spingeva a credere che i nove nei presenti sul volto della statua indicassero altrettante grazie concesse.
La facciata della chiesa, modesta, è arricchita da un piccolo porticato, l'interno presenta pianta rettangolare con navata unica ed abside circolare. Le pareti laterali sono suddivise da due archi ciechi su lesene sormontate da una cornice aggettante. La volta a botte quasi completamente dipinta presenta una serie di finestroni e lunette. Molto elegante la zona absidale impreziosita da marmi policromi e da dipinti. L'altare di recente realizzazione, è stato completato negli anni Settanta. La statua della Madonna Addolorata, meta ancora oggi di profonda devozione, è posta in una ampia nicchia delimitata da una preziosa cornice lignea.
Poco più innanzi sulla spiaggia dei Pescatori si trova la Cappella di San Giovanni Giuseppe della Croce. Nell'interno segnaliamo l'altare in legno di noce impiallacciato, opera di artigianato campano dei primi anni del secolo XX. Fu donato dalla famiglia Talamo Iannuzzi nel 1908, che lo trasferì dal proprio oratorio napoletano. Esso è formato da una mensa sostenuta da due gambe a balaustra con capitelli a foglie d'acanto, mentre la predella ad un gradino presenta volute intagliate ai capialtare ed il ciborio un'elegante porticina d'argento. La parte dorsale ed i laterali sono decorati da specchiature rettangolari in sottosquadro, tettuccio a baldacchino con frangia intagliata. Nella porzione posteriore è collocata una bacheca, che ospita una piccola scultura a baldacchino raffigurante il Santo titolare.
Degno di nota, sulla parete destra della chiesetta, un reliquario di artigianato campano inizio secolo XX. Esso presenta una base svasata verso l'alto decorata da due fregi intagliati, uno a fiori, l'altro a foglie d'acanto. In alto, in una sagoma a forma di croce, sono conservate alcune reliquie del Santo, mentre, sulla parte anteriore, trovano posto altri quattordici piccoli reliquari ovali. Sulla base poggiano due candelieri in ferro battuto con rami fioriti.
Non potremo concludere la descrizione delle chiese di Ischia Porto senza accennare alla serie di edifici sacri conservati sull'isolotto del Castello Aragonese, dove per lungo tempo, dopo la catastrofica eruzione dell'Arso, trovò ricovero e visse la popolazione ischitana. Si tratta di numerose chiese, quasi tutte sconsacrate e prive degli arredi e delle opere d'arte, che, restaurate di recente, presentano un interesse prevalentemente storico ed architettonico, alcune delle quali adoperate a sede museale.
Precederemo la loro illustrazione interessandoci prima della Curia Arcivescovile, dove sono ospitati molti reperti provenienti dalla distrutta Cattedrale, la cui conoscenza è necessaria per avere un quadro più compiuto della notevole ricchezza monumentale che, a lungo, ha contraddistinto la vita sul Castello Aragonese.
Nella Cappella del Seminario vescovile, sulla parete di fondo, è collocato un altare in marmi policromi di ignoto artefice campano, attivo nel secolo XIX, sul quale, in alto, trova posto una modesta tela settecentesca raffigurante l'Immacolata.
Abbiamo poi un frammento di colonna, proveniente dalla distrutta Cattedrale, di un ignoto lapicida campano attivo probabilmente nel secolo XI. Spostandoci nel cortile vediamo altri imponenti frammenti di colonna di vari periodi, dal VI al XII secolo.
In alcune stanze interne del Vescovato, precisamente nella seconda e nella terza, vi è una serie di quattro dipinti ottocenteschi raffiguranti Santi in meditazione vicino al Crocifisso: Carlo Borromeo, Gaetano Thiene, Gregorio Magno e Luigi Gonzaga.
Più interessante una tela, sempre ottocentesca, raffigurante una Madonna che legge un libro attorniata da due bambini ed un putto, a simboleggiare la trasmissione della Scienza divina ai giovani. L'opera, per quanto di autore ignoto, è di raffinata fattura e necessita di una urgente ripulitura, che ne restituisca l'antico splendore offuscato da uno spesso strato di fumo rappreso, dovuto alla sua precedente collocazione nel refettorio.
Abbiamo poi nella prima stanza un frammento di sarcofago di ignoto scultore campano del V secolo, costituito da una lastra rettangolare scolpita ad altorilievo con varie scene evangeliche rappresentate: la guarigione di due ciechi e di un paralitico, la chiamata di Zaccheo e l'entrata di Cristo in Gerusalemme.
Nell'atrio dell'ingresso, sempre dalla distrutta Cattedrale, un frammento di monumento funebre del XV secolo, che conteneva il corpo di un tale Antonio Taliercio, con epigrafe dedicatoria e tre tondi a mezza figura con Santa Caterina, Sant'Antonio Abate e la Madonna. Inoltre uno stemma vescovile decorato da volute, di ignoto settecentesco, appartenente alla famiglia del vescovo Felice Amato, che resse la diocesi di Ischia dal 1742 al 1764.
Ed infine, sempre nell'atrio e di medesima provenienza vi è ancora un altro frammento di monumento funebre del XV secolo, che dallo stemma deduciamo apparteneva ad un membro della famiglia Cossa. Esso è costituito dalla parte superiore di una lastra tombale con la figura del defunto scolpita a bassorilievo, mentre in alto sono incorniciati due stemmi nobiliari della famosa e temuta famiglia
ischitana.
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Le chiese del Castello Aragonese
Nel 1301 l'eruzione dell'Arso costituì una spinta al trasferimento di gran parte della popolazione del borgo, corrispondente all'attuale Ischia Ponte, nel territorio dell'isolotto del Castello Aragonese. Venne così a crearsi ai piedi del Mastio una vera e propria cittadella, anche perché, passato il pericolo eruttivo, permaneva molto alto il rischio delle incursioni dei pirati, che per secoli infestarono le nostre coste. Nel 1441 Alfonso d'Aragona fece a tale scopo costruire poderose fortificazioni, che diedero sicurezza alla popolazione civile, la quale andò aumentando sempre più, fino a raggiungere, alla fine del Cinquecento, quasi duemila famiglie. A servire le necessità spirituali di tanti ischitani esistevano all'epoca 13 chiese, di cui sette sede parrocchiale. Soltanto dopo il 1750, terminato l'incubo dei Saraceni, la popolazione cominciò ad abbandonare la zona fortificata trasferendosi per tutta l'isola.
Oggi, dopo anni di abbandono, è possibile visitare l'isolotto ed i numerosi edifici, case, chiese e fortezze, quasi tutti di recente restaurati.
castello Aragonese
Si comincia percorrendo il ponte che collega la terraferma all'isola incontrando all'inizio della salita un edificio trapezoidale, oggi adibito a ristorante, che in passato costituiva la parrocchia di San Biagio, trasferita nel Seicento in una cappella della sovrastante chiesa della Libera. Si penetra poi in una galleria scavata nella roccia ed a metà salita si incontra la Cappella di San Giovan Giuseppe, costruita nel Cinquecento da monsignor Falivenia, che la dedicò a San Leonardo. Dopo la canonizzazione del Santo isolano, avvenuta nel 1839, la chiesa fu intitolata a San Giovan Giuseppe della Croce.
Si possono seguire due itinerari, uno di Levante e l'altro di Ponente. Seguendo il primo, incontriamo dopo poco la chiesa di San Pietro a Pantaniello, detta anche di San Pietro a Castello dal nome dell'antica Cappella di San Pietro situata sui bordi del lago Pantaniello, che venne abbandonata quando cominciarono i lavori per la creazione del porto di Ischia, voluti nel 1851 dal re Ferdinando II di Borbone. L'edificio, a pianta esagonale, fu edificato per volere di tal Dionisio Basso, che diede i fondi necessari purchè la chiesa fosse destinata al figlio Pompeo, ordinato sacerdote. Aperta al culto nel 1564, lo stile architettonico ha fatto pensare come ideatore a Jacopo Barozzi, detto il Vignola.
Superato il carcere borbonico e lo spettacolare terrazzo degli ulivi, incontriamo la chiesa di Santa Maria delle Grazie, detta anche dell'Ortodontico, di cui non conosciamo la data di costruzione della primitiva struttura, sulla quale donna Costanza Carretta, ai primi del Cinquecento, fece costruire una congrega per i pescatori, i quali, data la posizione a strapiombo sul mare, solevano chiamarla della Madonna della Punta.
Proseguendo lungo il Sentiero del Sole, uno tra gli itinerari più suggestivi dell'isolotto, si giunge in prossimità dei gradoni di San Cristoforo, così chiamati perché conducevano ad un'antica chiesetta dedicata al Santo, che in passato si trovava nella zona.
Poco più avanti si incontra la chiesa della Madonna della Libera, che risale al XII secolo. Essa era di proprietà della famiglia Calosirto, da cui discenderà, nel 1654, Carlo, il futuro San Giovanni Giuseppe della Croce, l'amato patrono di Ischia. Originariamente costituiva la parrocchia di San Nicola. Quando, nel 1301, ci fu la terribile eruzione del monte Rotaro, la popolazione che riuscì a salvarsi volle dedicare la chiesa alla Madonna della Libera, che li aveva salvati dalla morte. Una sacra immagine, con la Vergine che arresta la lava con le mani protese, è conservata oggi nella Cattedrale moderna, sita ad Ischia Ponte, mentre nella chiesa sul Castello si trova una copia fedele, eseguita dal pittore isolano Antonio Cutaneo.
Proseguendo con il secondo itinerario, di Ponente, dopo poco incontriamo la chiesa dell'Immacolata, detta anche della Beata Vergine Assunta. Costruita nel 1737 andò a sostituire una precedente cappella dedicata a San Francesco. Fu voluta dalla badessa Battista Lanfreschi del vicino Convento delle Clarisse. L'impegno economico per edificare la chiesa, di grandi dimensioni e con un'audace cupola, fu notevole, a tal punto che le religiose, come ci ricorda l'Onorato nel suo "Ragguaglio", furono costrette a vendere gran parte dell'argenteria del convento e, addirittura, ad indebitarsi, pur di portare a termine i lavori.
L'edificio presenta una pianta a croce greca, all'ingresso un pronao ed in fondo il presbiterio. La facciata ha un modesto portale in pietra lavica. Nell'interno è presente una cospicua decorazione con lesene, paraste e stucchi di gusto barocco. La cupola possiede un tamburo circolare con otto finestroni, dai quali la luce straripa all'interno. Le pareti sono semplicemente intonacate, mentre il pavimento è in cotto rustico campano.
Completamente restaurata e restituita dal 1980 all'antica dignità architettonica, la chiesa è sede di mostre di pittura e scultura contemporanea, di convegni e di concerti, costituendo così il fiore all'occhiello delle manifestazioni organizzate nei mesi estivi nell'ambito di un circuito culturale di respiro internazionale.
Trasformato oggi in albergo, che sfrutta anche androne e chiostro, l'antico convento di Santa Maria della Consolazione rappresenta uno degli angoli più suggestivi della visita. Ad esso è annessa anche l'antica chiesa di San Vincenzo; il suo prospetto è caratterizzato dal susseguirsi simmetrico delle finestre. All'interno presenta pianta rettangolare, con una serie di cellette distribuite su tre piani, nelle quali le monache conducevano la loro vita di meditazione e di preghiera, sostituite oggi da turisti in cerca di un'oasi di pace e tranquillità in un'isola caratterizzata da rumore e confusione.
Esso fu fondato nel 1574 da Beatrice Quadra, vedova d'Avalos, la quale, con atto pubblico del 10 settembre, donava il suo grande palazzo a due piani situato nella zona del Castello per creare gli alloggi per le religiose. Il convento ospitava quaranta monache appartenenti all'ordine delle Clarisse, provenienti dall'Eremo di San Nicola, posto sulla vetta del monte Epomeo, in un luogo rigido per il clima e pericoloso, perché molti furfanti vi si nascondevano. Le monache erano quasi tutte appartenenti a nobili famiglie e venivano avviate alla vita claustrale per le feroci abitudini del tempo, che miravano a salvaguardare il patrimonio di famiglia per il primo figlio maschio.
Gioacchino Murat nel 1809 emanò una legislazione di soppressione ed incameramento dei beni ecclesiastici ed in quella occasione il convento fu trasformato in padiglione militare da parte degli Inglesi. Nello stesso anno infuriò feroce la battaglia tra Francesi ed Inglesi, che erano asserragliati sul Castello. Seguirono violenti bombardamenti, che causarono ingenti danni alle strutture del monastero, il cui tetto venne polverizzato dalle esplosioni. Il convento rimase così privo di copertura fino agli inizi del XIX secolo. Le monache,16, che lo abitavano si trasferirono prima nel palazzo della nobile famiglia Lanfreschi ad Ischia Ponte e poi nel Convento di Sant'Antonio, da dove erano stati espulsi i Frati. Ivi rimasero fino al 1866, quando, a seguito di una nuova legislazione soppressiva emanata dal giovane Stato italiano, si estinguevano definitivamente.
Negli ambienti sottostanti la chiesa del convento si trovano una serie di stanze di varie dimensioni, che costituivano l'ossario delle suore. In questi luoghi si osservava una consuetudine di trattamento dei cadaveri quanto mai orripilante, la cui rievocazione è motivo di turbamento ancor oggi per il visitatore. Nelle varie stanzette dell'originale cimitero erano, e sono tuttora situati, dei cosiddetti "scolatoi", dei sedili in muratura sui quali venivano poggiati i cadaveri delle monache dopo la morte e lì giacevano in preda ai fenomeni di putrefazione per vari anni, fino alla completa essiccazione. Mentre il corpo si decomponeva lentamente, i liquidi scendevano lungo gli scolatoi e si raccoglievano in un recipiente detto cantaro, da cui il nome di cantarelle, dato a tale tipo di sepoltura per la forma del contenitore degli umori putrescenti. Lo scheletro veniva poi posto in un loculo senza segni di riconoscimento, per far perdere ogni segno di individualità dopo la morte. Da questa originale consuetudine deriva il detto napoletano puozza scula.
Tale macabra usanza, sorta agli inizi del Cinquecento e che trova riscontro anche in chiese e catacombe napoletane, rispondeva alla volontà di rammentare tutti giorni alle sventurate monache la caducità della carne ed il nostro triste destino di mortali. Le Clarisse dovevano due volte al giorno visitare il cimitero, sostare in preghiera e meditare sulla morte, con quale beneficio per la loro salute fisica e psichica facilmente immaginabile.
I corpi essiccati delle monache hanno fatto bella... mostra per molti decenni dopo la soppressione del convento, prima di essere traslati nel cimitero di Ischia.
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La Cattedrale del Castello
La Cattedrale dell'Assunta venne realizzata dalla popolazione ischitana dopo la calamitosa eruzione dell'Arso del 1301 in sostituzione della precedente distrutta, che era situata sull'insula major. Il nuovo edificio venne costruito su di una preesistente cappella che assunse da allora funzioni di cripta.
La storia della Cattedrale si intreccia con quella del Castello ed ebbe il suo episodio di maggiore eroismo sul finire del Quattrocento, quando le truppe francesi, dopo aver conquistato il regno di Napoli, decisero di porre sotto assedio l'isolotto Aragonese e cercarono di conquistarne il Castello. L'operazione militare si risolse in un completo fallimento per i transalpini, perché gli isolani si difesero valorosamente, infliggendo anche cospicue perdite al nemico, sia di uomini che di materiale. L'anima indomita della difesa fece perno sull'azione e sull'esempio di Costanza d'Avalos, una donna di coraggio mascolino e di incrollabile fedeltà alla casa d'Aragona, a tal punto da meritare giustamente il titolo di "Governatrice a vita dell'isola di Ischia", beneficio concessole da Ferdinando il Cattolico il 10 marzo 1503.
La leggenda della valorosa castellana fece più volte il giro d'Europa, come circolò la fama della sua bellezza e del suo amore per la diffusione della cultura. La sua corte divenne così ambita meta per letterati, artisti e filosofi.
L'isolotto divenne in tal modo il luogo prediletto dove Giovanna e Maria d'Aragona amavano trascorrere lunghi periodi di riflessione e tranquillità, anche e soprattutto nei momenti più difficili attraversati dal regno di Napoli. Prodi cavalieri conversavano piacevolmente con letterati ed artisti in un'atmosfera impregnata dalla ricerca del bello, nel corso di balli e feste, che diedero alle sale del Castello, affacciate su panorami di irraggiungibile fascino e suggestione, la nomea di vertice indiscusso della mondanità e della spensieratezza.
L'apice dello splendore fu toccato il 27 dicembre 1509, quando Ferrante d'Avalos, intrepido guerriero nipote di Costanza convolò a nozze con la poetessa Vittoria Colonna, celebre per aver intrattenuto a lungo un affettuosa corrispondenza con l'immortale Michelangelo Buonarroti.
E tra queste mura inviolabili Vittoria trovò l'ispirazione per i suoi più toccanti sonetti dedicati al suo prode marito, spesso lontano da casa nei suoi trionfi e poi, nella tragica vedovanza susseguita alla morte di Ferrante avvenuta nel 1525, trovò la rassegnata calma per continuare ad innalzare le lodi del "suo amore scomparso".
Lo stile della Cattedrale subì numerosi cambiamenti nel corso degli anni: dal romanico delle origini, che ben si evince dalle numerose colonne incluse nei pilastri quadrati, alle ristrutturazioni eseguite nel Quattrocento, volute dal mutare dei gusti estetici, fino agli stupendi stucchi barocchi realizzati nel XVIII secolo.
I combattimenti tra Francesi ed Inglesi sfociarono, nel 1809, in uno scellerato bombardamento dalla terraferma, che distrusse la gran parte degli edifici, inclusa la Cattedrale.
Possiamo tra le macerie ricostruire idealmente la pianta del sacro tempio, che era costituita da una struttura basilicale a tre navate, la centrale e le due laterali coperte da volte a crociera, mentre la zona absidale era chiusa da una cupola a sesto ribassato. Di fianco alla Cattedrale erano presenti numerose cappelle ed alcuni vani utilizzati per la sacrestia. Nell'interno erano conservati numerosi sarcofagi e lastre tombali delle famiglie nobili dell'isola.
ruderi della cattedrale
Don Domenico Verde di Francesco nel suo "Compendio" ci fornisce un'accurata descrizione delle cappelle laterali fino al Settecento, che erano sette, di cui sei gentilizie ed appartenevano alle famiglie Taliercio, De Masellis, De Turris, Monti, Lanfreschi e Pappacoda. Tra le tombe ricordiamo quella di Marino Bulgari, adornata da una splendida statua multicolore, rimasta in sede fino al 1808 e quella del famoso Giovanni Cossa, padrone di Ischia e di Procida, deceduto nel 1346, la quale era collocata sopra la porta maggiore, da dove fu poi smembrata e riutilizzata in parte per la costruzione del Battistero, visibile oggi nella nuova sede vescovile ad Ischia Ponte.
Negli ultimi anni sono stati organizzati radicali programmi di recupero, sia statico delle mura, che conservativo dei numerosi e pregevoli stucchi settecenteschi, da parte della proprietà, che, vogliamo sottolineare, è di alcuni privati. Infatti, nel 1912, in un periodo distante anni luce dall' odierno programma di scriteriate privatizzazioni, lo Stato italiano pose in vendita il Castello per pubblico incanto. Esso venne acquistato dall'avvocato Nicola Mattera di Ischia per la cifra di 25.000 lire, che costituiva la base d'asta ed oggi il bene è dei suoi discendenti.
Descriveremo ora alcune parti di notevole interesse artistico della Cattedrale, che si sono salvate dagli assurdi scempi degli uomini e dall'inesorabile trascorrere del tempo, partendo da uno stipite in piperno a blocchi decorati da motivi geometrici incisi e da riquadri con fiori nella nave e nelle imposte dell'arco, posto di fronte all'ingresso laterale dell'ex Cattedrale. Esso, decorato con motivi di gusto ancora cinquecentesco, ripresi in chiave provinciale, dava accesso ad una delle case dell'antico borgo arroccato intorno alla Cattedrale, spopolatosi a partire dalla fine del XVII secolo.
Collocato nella navata sinistra, si staglia poderoso un imponente portale cinquecentesco che decorava l'accesso ad una delle cappelle laterali. Esso è costituito da uno stipite composto da blocchi di piperno decorati da un motivo a dentelli e da voluta con foglia nella chiave dell'arco.
Due cappelle della navata sinistra conservano ancora, anche se in mediocre stato di conservazione, una decorazione parietale in stucco modellato e dipinto bianco. Ignoti stuccatori campani lavorarono nel 1694, su commissione di Michelangelo Corignola, vescovo di Ischia. Le decorazioni mostrano tangibilmente i modi ornamentali diffusi in area napoletana nella prima metà del XVII secolo. Infine, murato ad una parete, un frammento di lastra tombale del XIV secolo, datata 136..., scolpita a bassorilievo con una figura di uomo, giacente con indosso l'armatura, le mani incrociate sull'addome ed il capo posato su di un cuscino. Dall'epigrafe deduciamo trattarsi della copertura della tomba del nobile Giovanni Maselli, deceduto nel settimo decennio del Trecento.
Passiamo ora alla descrizione della sottostante Cripta gentilizia, una struttura, originariamente dedicata a San Pietro, risalente agli inizi del XIII secolo, alla quale si accede attraverso una doppia rampa di scale. Essa è costituita da un ambiente centrale con volte a crociera e sette piccole cappelle laterali con volta a botte, tre a destra, due a sinistra ed una per ciascun lato della cripta.
Nella cappelle e nelle lunette si trovano una serie di affreschi risalenti ai secoli XIV, XV e XVII, in precario stato di conservazione, anche se da alcuni anni è partito un meritorio programma di restauro.
Nelle varie cappelle si trovano figure di santi e stemmi nobiliari relativi alle famiglie che ne avevano il patronato ed alcuni paesaggi, che si intravedono, si riferiscono ai possedimenti delle rispettive casate.
Gli affreschi trecenteschi si riferiscono alla storia di una santa, probabilmente santa Caterina e lo stile dell'ignoto artefice richiama quello del "Maestro del Seneca dei Gerolamini", un artista attivo in area napoletana nella seconda metà del Trecento, il quale realizza le bellissime miniature, che illustrano il codice delle Tragedie di Seneca, conservato nella biblioteca dei Gerolamini di Napoli. Un autore influenzato dalla lezione di Cristoforo Orimina, raffinato miniatore, che riflette l'ascendenza inequivocabile di Giotto e di Maso di Banco, intorno alla metà del Trecento.
Altri affreschi quali: un'Annunciazione e le figure dei santi Benedetto, Nicola e Caterina sono posteriori e, a differenza del parere della critica che a lungo li ha considerati giotteschi, sono viceversa espressione di linguaggio cavalliniano, in consentaneità con la lezione fornita dai frescanti attivi nella chiesa di Donnaregina vecchia e poi irradiatisi per tutta la provincia.
Purtroppo questi affreschi molto importanti sono oramai molto rovinati e poco leggibili.
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Convento di Sant'Antonio
Il tempio, intitolato a S. Maria delle Grazie, sorgeva nella località detta La Mandra, perché colà stanziavano le greggi. La terribile eruzione dell'Arso, avvenuta nel 1301, con la colata lavica che, dalla zona attualmente di Fiaiano, giunse a lambire il mare, lo distrusse completamente.
La chiesa era stata costruita nel 1225, ancora vivente San Francesco, ed il convento era il più antico, non solo dell'isola, ma di tutta la Campania.
La popolazione, come voto per lo scampato pericolo, chiamò nell'isola i Frati minori e ricostruì l'edificio sacro nello stesso luogo. Nel 1558 esso appare nel rilievo eseguito dal geografo Cartaro, pubblicato nel libro dello Jasolino.
Nel 1743 furono eseguiti, ad opera di frate Garofalo, ampi lavori di ristrutturazione, completati nel 1773.
Nel 1806, in virtù delle norme emanate dal Murat, che soppressero ed incamerarono i beni degli ordini religiosi, i Frati furono mandati via e, dopo pochi anni, nel 1810 subentrarono le monache Clarisse, anche loro espulse dal monastero di Santa Maria della Consolazione su al Castello, dove vivevano da oltre quattro secoli.
Convento di S.Antonio, facciata
Infine nel 1911 anche loro andarono via e nel 1919, richiamati dall'Amministrazione comunale, divenuta proprietaria della struttura, ritornarono i Francescani, che tuttora la officiano, i quali, oltre ai loro novizi, accolsero molti giovani, fondando una scuola tecnica.
La facciata della chiesa è movimentata dallo snodo semicircolare delle due rampe d'accesso di scale, mentre in alto la profonda arcata centrale è ingentilita ai lati con le piccole finestre modellate a serliana.
Nell'interno è presente una sola navata, intersecata da pilastri, che si concludono con ampi archi.
La volta a botte è sormontata da una piccola cupola, allogata all'incrocio della navata con il transetto.
L'altare principale è impreziosito da marmi policromi, esso fu realizzato nel 1740, quando fu cambiato l'antico titolo della chiesa nell'attuale di Sant'Antonio e fu invertito l'orientamento della navata. Al centro, ben visibile, l'emblema dell'ordine francescano.
Di lato la zona conventuale ha ospitato nei secoli eminenti personalità in odore di santità, come padre Bonaventura da Potenza, del quale si addita ancora la cella. Oggi è occupata dalla Biblioteca Antoniana, fondata dal monsignor Onofrio Buonocore e ricca di oltre 20.000 volumi e da una sala conferenze, dove è conservato un raro e prezioso dipinto, capolavoro del pittore transalpino Jules Le Fevre, rappresentante, da giovane, Vittoria Colonna.
Nelle sale di consultazione della biblioteca troneggia un affresco, recentemente restaurato dal maestro Mazzella, con la figura di un pontefice, identificato da alcuni per "l'indigeno" Giovanni XXIII, ma più probabilmente trattasi, viceversa, di Benedetto XIV.
Nella chiesa è sepolta la serva di Dio Suor Maria Angela della Croce ed il martire San Esuperanzio, il cui corpo fu portato dalle Clarisse.
Dal 30 settembre 2003, per la gioia dei fedeli ischitani, un nuovo tesoro arricchisce la chiesa: il corpo del santo protettore dell'isola, San Giovanni Giuseppe della Croce, ritornato finalmente nel luogo natio, dopo essere stato sepolto per 250 anni nella chiesa di Santa Lucia al Monte a Napoli, dove morì nel 1734. Egli, nato con il nome di Carlo Gaetano Colasirto, dedicò tutta la sua vita alla meditazione ed all'apostolato. Divenuto ministro provinciale dell'ordine, costituì una nuova suddivisione religiosa, composta di alcantarini italiani, che si separarono da quelli spagnoli.
Esaminiamo ora le tele esposte all'interno.
Sul primo altare lungo la navata sinistra è conservata una Immacolata, rappresentata in piedi sulle nubi, in atteggiamento orante, con ai lati quattro putti. Ignorata stranamente dall'Alparone nella sua monografia sull'artista, va attribuita al catalogo del Di Spigna, per le stringenti analogie con la Natività e l'Annunciazione di Visitapoveri e con l'eponima tela conservata a Barano in San Sebastiano.
Segue poi una coppia di dipinti del pittore lacchese: un San Francesco che riceve le stimmate ed una Visione di Sant'Antonio di Padova. Tra le ultime opere dell'artista, collocabili al 1775-80, sono contraddistinte da un cromatismo terroso, quasi da pastello, con una dominanza dei toni rosei e, soprattutto nella seconda tela, da un certo compiacimento di maniera.
Sulla parete destra dell'altare trova posto un'altra tela del Di Spigna: un'Estasi di San Giuseppe da Copertino, nella quale il Santo levita in estasi davanti ad un'immagine della Vergine, mentre tre donne ed un fanciullo assistono attoniti alla scena. L'Alparone la considerava coeva alle altre due trattate in precedenza, ma, per la tavolozza diversa, è più opportuno considerarla antecedente. Nella tela in esame sono accentuate le lumeggiature e molto evidente risulta la caratterizzazione delle donne agghindate con i caratteristici abiti delle ischitane di quel periodo. Senza dubbio una delle più riuscite opere dell'artista.
Sull'altare maggiore troneggia una Madonna col Bambino, incoronata da due putti, con a sinistra San Francesco ed a destra Santa Chiara. Fu portata dalle Clarisse, che la conservavano nella loro chiesa, sita sul Castello. Stranamente nelle schede della Soprintendenza viene ritenuta opera accademica denotante i modi di Andrea Vaccaro, è, a nostro parere, autografa del maestro con richiami alle delicatezze di un Pacecco De Rosa, in particolare nel volto dolcissimo della Vergine.
Passiamo ora alla illustrazione del convento, normalmente non visitabile, ma, grazie alla gentilezza dei frati, aperto a semplice richiesta.
Nell'atrio troviamo una coppia di dipinti, un'Addolorata ed una Gloria dell'Immacolata con Santi, proveniente dalla sconsacrata chiesa dell'Immacolata sul Castello, attribuibile a Gennaro Migliaccio, un poco noto artista isolano, che, nel 1769, sigla una Pietà in San Francesco Saverio a Forio.
Nella stanza adiacente un'altra Immacolata e Santi, di mano di un ignoto pittore, che si rifà all'acclarata iconografia controriformata diffusa all'epoca nell'area napoletana da Giovan Bernardo Lama. La tela è tardo cinquecentesca, per cui le figure poste in basso di San Carlo Borromeo, canonizzato nel 1610 e di San Nicola da Tolentino sono aggiunte posteriori.
Nel corridoio si può ammirare una statua lignea policroma, un Cristo a mezzo busto, caratterizzato da un intenso espressionismo, assegnato dal Borrelli agli anni giovanili di Giacomo Colombo. La scultura, come riferisce il Buonocore, è stata donata agli inizi del Novecento e probabilmente proviene da qualche chiesa napoletana. Essa è pervasa da un sentimento drammatico e sembra concepita come un personaggio di una sacra rappresentazione, che veniva utilizzato nelle processioni, soprattutto nella Settimana Santa, abitudine diffusa dalla religiosità spagnola.
E giungiamo così al capolavoro conservato nel convento: un polittico smembrato, proveniente dalla vecchia Cattedrale su al Castello, oggi completamente restaurato e restituito all'antico splendore.
Le tavole rappresentano:
a)San Giovanni Battista e San Tommaso d'Aquino
b)Santa Lucia a mezza figura
c)Madonna delle Grazie e committenti
d)Maddalena a mezza figura
e)San Ludovico da Tolosa e San Francesco
f)Santa Caterina
g)Santa Chiara
Le tavole provengono da un polittico smembrato nel secolo XVIII, proveniente dall'antica Cattedrale e le figure delle sante costituivano la predella.
Il polittico è stato variamente attribuito, dalla Navarro a Pietro Ispano, dal Previtali a Simone da Firenze, mentre il Leone De Castris propende, prudentemente, per un'artista ignoto locale, il quale, intorno al 1515, assembla armonicamente ascendenze umbre, accenti lombardi e contiguità con Andrea da Salerno.
Per la collocazione cronologica dell'opera possono fare da guida le figure delle due committenti, una di mezza età in abiti vedovili, Costanza d'Avalos, governatrice dell'isola dal 1503 al 1528, l'altra più giovane da identificare in Vittoria Colonna, sposa nel 1509 del marchese d'Avalos.
Conoscendo le date di nascita delle due donne, 1460 e 1490, si può ragionevolmente collocare l'opera verso la metà del secondo decennio del secolo
XVI.
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Chiesa di San Pietro
La chiesa di San Pietro, detta anche del Purgatorio o di Santa Maria delle Grazie, si trova sull'attuale corso Vittoria Colonna, la strada che collega il Porto al quartiere di Ponte. La zona deriva dall'antico borgo seicentesco che sorse quando, diminuito il pericolo delle incursioni barbaresche, la popolazione cominciò ad abitare anche fuori dal Castello. Sul luogo, all'inizio dell'Ottocento, cominciarono a sorgere i primi stabilimenti termali, da cui il nome alla località di "Villa de'bagni".
La costruzione della chiesa fu voluta fortemente da don Antonio Moraldi, parroco di San Vito Martire e dello Spirito Santo, il quale abitava in zona e non poteva dedicarsi ai fedeli suoi più vicini, che erano costretti, per assistere alle funzioni, a raggiungere la chiesa dei Frati minori. Ottenne dall'Università il terreno sul quale edificare il sacro edificio e dopo, per sopperire alla scarsezza di fondi, anche il patronato, ereditato oggi dal comune di Ischia.
La data di fondazione del tempio è indicata in una lapide conservata al di sopra della porta d'ingresso:1781. Il nome, Santa Maria delle Grazie e delle Anime purganti ricordava un'antica cappella, inclusa ormai nella Reggia ed inoltre rispettava una consuetudine, che voleva fosse dato tale nome a tutte le chiese che fungessero da luogo di sepoltura ed infatti tutto il piano sottostante al livello stradale era adibito a cimitero comunale.
Durante i moti del 1799 la chiesa fu al centro di un episodio raccapricciante, ricordato ai posteri dal nome della piazza contigua: un gentiluomo del posto, tal Pasquale Battistessa venne impiccato sulla spiaggia della Mandra e, creduto morto, fu portato per essere seppellito nel cimitero della chiesa; durante la notte il morto, che era soltanto svenuto, si riprese..., dando nuovo lavoro ai carnefici, che dovettero ucciderlo per la seconda volta ai piedi dell'altare maggiore.
La denominazione di San Pietro deriva dalla presenza, nella cappella della Madonna delle Grazie, di una piccola statua dell'apostolo pescatore, sempre molto venerato dai suoi colleghi, abitanti della zona, i quali desideravano portare in processione la sacra immagine ogni anno il 28 giugno, per cui, con il passar del tempo, il secondo nome ha preso il sopravvento sul primo.
L'edificio, sotto il profilo architettonico, si distingue dalle soluzioni più correnti e provinciali adottate nelle altre chiese, anche importanti, dell'isola. Esso è stato oggetto di una approfondita lettura stilistica da parte del Venditti, che ha dedicato all'argomento un esaustivo articolo nella prestigiosa rivista Napoli Nobilissima. Egli ha sottolineato l'ariosa spazialità del tempio, intravedendovi, insieme alle più moderne tendenze barocche, lo straordinario equilibrio tra le parti, la misura interna nitida, argentea, fondata su un linguaggio classicistico di sapore vanvitelliano. E di un intervento attivo del grande architetto alla realizzazione di San Pietro si è a lungo ipotizzato, tenendo conto del suo soggiorno nel 1762 sull'isola, per sottoporsi alle cure termali, sotto la guida del protomedico di corte Francesco Buonocore. E certamente una funzione di mediazione nei riguardi degli ambienti napoletani culturalmente più avvertiti ci sarà stata, soprattutto nella scelta della pianta ellittica, che, a differenza della pianta a croce, permetteva una serie di variazioni in grado di soddisfare"il gusto per il capriccio, per la bizzarria e per la fantasia".
La pianta ovata aveva fatto la sua comparsa a Napoli grazie a fra' Nuvolo ed in seguito era stata adottata dal Lazzari, dal Nauclerio, dal Vaccaro, fino allo stesso Vanvitelli, che, nel 1760, la adotta nella chiesa dei Padri della Missione ai Vergini, un sicuro punto di riferimento per la chiesa di San Pietro di Ischia, nella quale il tema spaziale dell'ellisse rappresenta una vera novità per l'architettura isolana.
La chiesa si trova in posizione elevata rispetto al piano stradale ed è leggermente arretrata su di un piccolo spiazzo, con sul davanti una serie di gradini che conduce ad un rustico sagrato, pavimentato con pietre di lava. La sua collocazione su un importante asse di scorrimento tra due quartieri, densamente popolati, è stato determinante in passato per l'orientamento degli edifici sorti nel corso del tempo.
La facciata, tipicamente barocca, ha forma convessa, che tende a seguire la curva ellittica della pianta interna; in essa si svolgono due ordini di paraste, raccordate da volute inserite entro sinuosi pinnacoli terminali e conclusi da un timpano.
La geometria interna è pervasa da un sorprendente carattere unitario, chiara espressione di una notevole personalità creatrice, che non ha trascurato alcuna, anche modesta, parte dello spazio; è un vero peccato che la scarsezza di fonti storiche non ci permetta di conoscere il nome dell'architetto, ma, un'attenta disamina di alcuni dettagli, ci permette di stabilire con precisione la sua corrente culturale di appartenenza. Egli si muove con sicurezza nell'ambito della scuola vanvitelliana, ben partecipe di quella nuova corrente di gusto, che, a partire dal 1751, aveva sostanzialmente romanizzato l'ambiente edilizio della gloriosa capitale borbonica, dando luogo a quegli straordinari esempi di "grandeur", quali la Reggia di Caserta e l'Albergo dei Poveri.
L'interno, pervaso da una tarda ripresa di soluzioni borrominiane, è caratterizzato da una profonda zona absidale e da quattro cappelle laterali, che si innestano armonicamente nel perimetro ellittico. Di grande eleganza la decorazione a stucco realizzata intorno al 1770 dall'artigiano napoletano Francesco Starace.
Al centro, in corrispondenza della navata, sopra un ampio tamburo, poggia una poderosa cupola ellittica ricoperta di embrici maiolicati gialli e verdi, usciti dalla famosa bottega napoletana di riggiolari dei fratelli Chiaiese, rutilanti al caldo sole isolano e dallo straordinario effetto cromatico, ben visibili dalla vicina spiaggia e dalla non lontana pineta dell'Arso.
Entrando, ai lati dell'ingresso, siamo accolti da una coppia di acquasantiere con vasca di splendente bardiglio a forma di conchiglia, realizzata nel 1780 e dalla lapide, posta sulla controfacciata, che ci rammenta l'anno (1781) di consacrazione della chiesa.
Proseguendo, nella prima cappella a sinistra, in una nicchia vicino all'altare, trova posto una scultura lignea di San Pietro, dalla preziosa aureola d'argento, punzonata nel 1830 dall'argentiere partenopeo Gennaro Romanelli. Quindi un San Giovanni Giuseppe della Croce, settecentesco, di modesta fattura, che ci mostra il venerato santo ischitano a mezzobusto, con indosso il saio francescano e con la destra ampiamente benedicente.
Lungo i pilastri della navata si ammirano quattro tele del pittore ischitano Carlo Borrelli Ponticelli, che realizza anche la tela posta sull'altar maggiore, firmata e datata 1779, rappresentante la Madonna delle Grazie con le Anime purganti. L'artista, poco noto, è anche l'autore di tre quadri nella chiesa di San Leonardo a Panza.
In sacrestia sono conservati alcuni dipinti a carattere devozionale: un olio su vetro ottocentesco, rappresentante San Luigi Gonzaga, una teletta con la Madonna ed il Bambino di ignoto autore ispirato ai modi del Solimena, a cui, in epoca successiva sono state applicate stelle e corone ed infine una Immacolata, troneggiante su una schiera di putti, firmata e datata 1862, opera di Antonio Scotti Lachianca, un indigeno, che dopo circa trenta anni eseguirà le tele nella cappella della Pietà a Lacco Ameno.
Per finire, nella prima cappella a destra, un San Camillo de Lellis, opera di un ignoto pittore locale settecentesco, che ci ricorda la leggenda che vorrebbe il santo frequentatore della località Villa de' bagni, fare ricorso alle benefiche virtù terapeutiche delle acque locali, per una piaga che da tempo lo tormentava, scomparsa per un miracolo terreno, dopo alcune efficaci quanto gratuite abluzioni.
Proseguendo lungo il corso Vittoria Colonna, dopo poco incontriamo la cappellina dedicata alla Madonna della Pace, detta comunemente di San Girolamo, perché in passato era dedicata a questo santo. Oggi costituisce la cappella delle Suore Figlie della Chiesa. La chiesetta fu edificata dopo l'eruzione dell'Arso, avvenuta nel 1301, lì dove si era spinta la furia devastatrice della lava. Nel 1543, come apprendiamo consultando la Platea degli Agostiniani, il municipio di Ischia fece dono della Cappella di San Girolamo ai frati di Santa Maria della Scala.
L'edificio, posto in un luogo di grande bellezza paesaggistica, è stato più volte ripreso da pittori, come l'Hackert che ne fece nel Settecento una splendida incisione, nella quale la cappellina, luogo di eremitaggio e di devozione, appare isolata tra brulle rocce laviche o altri artisti ottocenteschi, quali il Carelli, il Lanza ed il Volpe, che l'hanno immortalata in una serie di disegni.
La chiesa è stata interessata da un ampliamento verso la fine del secolo XIX, quando al prospetto fu aggiunta una veste classicheggiante, che conserva ancora oggi, mentre nel 1950 sono state apportate ulteriori modifiche, a seguito dello sviluppo edilizio della zona limitrofa, conservando in ogni caso il profondo legame tra l'edificio sacro e l'ambiente circostante.
San Girolamo presenta un'unica navata, dal soffitto molto basso ed in fondo, nella zona del transetto, vi è la cupola, impreziosita da un finissimo mosaico, che sovrasta l'altare e fa prendere luce all'interno attraverso un'apertura.
La porta d'ingresso fa da base ad un arco che funge da campanile; in alto una Croce metallica. Una lapide ricorda il quarto centenario del felice matrimonio tra due vip dell'epoca: Vittoria Colonna e Ferrante D'Avalos, mentre a destra un triste ricordo più vicino nel tempo: il monumento ai caduti in guerra. Nell'interno poche le opere da ricordare, un dipinto della Madonna della Pace posto dietro l'altare e, dietro, il tabernacolo in una teca dorata.
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Altre chiese di Ischia Porto
Entrando nel porto di Ischia, che quest' anno ha celebrato il 150° anniversario della sua apertura, la vista spazia tra due collinette che chiudono il panorama, a destra quella di Sant'Alessandro ed a sinistra quella di San Pietro, le quali prendono il nome da due antiche cappelle situate in loco.
La prima di Sant'Alessandro, contigua al bosco del Castiglione, termina a mare in una piccola spiaggia denominata degli Inglesi. Sulla sommità, lungo le rampe che conducono a mare, incontriamo l'antica cappelletta risalente al secolo XIV e tutto intorno possiamo scorgere alcune antiche testimonianze architettoniche del periodo durazzesco, oggi inglobate negli attuali edifici del borgo. In particolare, dell'antico palazzotto della famiglia Di Manso, proprietaria all'epoca di tutta la località dedicata al papa martire Sant'Alessandro, resta ben conservato un portale in pietra lavica, nel quale la sorprendente soluzione architettonica, di gusto catalano, dell'arco tangente alla modanatura rettangolare rappresenta un unicum nell'isola, mentre a Napoli esempi simili si trovano nei palazzi Bonifacio e Penne.
La chiesetta, dedicata al papa martire Sant'Alessandro, sorse nel 1326 come cappella privata della famiglia Di Manso, originaria di Benevento, ma trasferitasi ad Ischia già nel 1179. Sul luogo di costruzione dell'edificio preesistevano antiche testimonianze del passato, inglobate nell'edificio sacro ed ancora oggi presenti, come frammenti di un pavimento romano in cocciopesto, visibile nella muratura esterna insieme a cocci di ceramica sigillata risalente al III-IV secolo d.C.
La facciata rustica, delimitata nella parte superiore dal profilo ogivale del frontone, è completata dalla piccola edicola posta a sostenere la campana, costituendo così un tipico motivo dell'architettura minore isolana. Nell'interno è ancora presente, sul lato destro dell'altare, una lapide di marmo con scritta latina, che ricorda il capostipite Andrea, al quale si deve la costruzione dell'edificio. Oggi tale lapide viene utilizzata come mensola per le ampolle.
Al di sotto dell'edificio è ancora visibile, attraverso un varco laterale sulla stradina del villaggio, il coro delle monache, oggi proprietà privata e purtroppo trasformato in deposito.
Gli abitanti del posto ed i frequentatori estivi sono sempre stati legati alle antiche memorie del luogo, per cui, nel 1981, si sono riuniti in un comitato e, con il consenso dell'ultimo discendente della nobile famiglia, la signora Maria Di Manso, hanno curato il recupero della chiesetta, restituendola anche alle funzioni di culto, per la comodità dei villeggianti e per la salvezza delle anime degli indigeni.
Sul lato opposto del porto sorge la collina di San Pietro, ove, a pochi passi dall'Acquario, sono presenti i resti della omonima chiesetta, più volte distrutta e ricostruita. Vi si accede attraverso un viale, che fende la rigogliosa vegetazione mediterranea, portando ad uno slargo dove sono visibili i resti dell'ultimo edificio, ricostruito nel 1860.
Intorno all'anno 1000, sulla collinetta di San Pietro, dove si ammira da sempre un panorama mozzafiato, sorse un convento di monaci Basiliani, dedicato al santo apostolo.
Tre secoli dopo, a seguito della terribile eruzione dell'Arso del 1301, i monaci furono costretti ad abbandonare la zona.
Nel XVI secolo, come narra l'Onorato, il vescovo di Ischia Fabio Polverino, decise di sopprimere definitivamente il convento e trasferì il beneficio ed il titolo abbaziale alla chiesetta di San Pietro, sorta sul Castello nel 1547.
Ad ogni modo il vecchio edificio sacro negli anni successivi fu ripristinato, ma fu sempre poco frequentato, sia per le pestifere esalazioni che giungevano dal sottostante lago pantano, che diverrà poi il porto di Ischia, ma soprattutto per le continue scorrerie dei pirati. Leggendo infatti la platea del protomedico Francesco Buonocore veniamo a sapere che, nel 1740, anche la seconda costruzione risultava distrutta.
Infine nel 1860 i proprietari del fondo vollero ripristinare la cappella, che sorse su pianta rettangolare a navata unica. Oggi, di nuovo, l'edificio risulta da tempo abbandonato; possiamo apprezzarne però alcuni aspetti architettonici: una modesta cornice sormonta il portale della facciata principale, su cui superiormente si appoggia un'arcata cieca. Al centro del frontone triangolare è collocata l'edicola campanaria, con due volute di raccordo ai lati, che non poggiano sugli spioventi del timpano, ma su raccordi ad andamento orizzontale inseriti tra essi.
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Santa Maria di Portosalvo
Al centro del porto, alla base della collinetta del Montagnone, affacciata sul molo, si trova la chiesa di Santa Maria di Portosalvo. Di patronato regio, la sua edificazione fu voluta dal sovrano, Ferdinando II di Borbone.
Progettista l'ingegnere Quaranta, i lavori cominciarono contemporaneamente all'inaugurazione del porto nel 1854, la chiesa fu consacrata nel 1857, divenne sede parrocchiale nel 1932.
Il suo prospetto è su due piani, la pianta è a croce latina con tre navate, all'esterno la decorazione è impreziosita da un peristilio in stile greco, mentre nell'interno graziosi stucchi ornano le pareti. Su di un lato, ad oriente, esiste ancora un collegamento verso i giardini della vecchia Casina reale, adoperato all'epoca dallo stesso sovrano per assistere alle funzioni, quando Santa Maria di Portosalvo era sotto la giurisdizione del Cappellano maggiore della reale Cappella Palatina ed era iscritta nei bilanci della Casa regnante.
Entrando nel tempio, ci accoglie a sinistra dell'ingresso un acquasantiere ed una targa con la data della consacrazione: 29 luglio 1857. Lungo la navata sinistra un gruppo di sculture a manichino, in legno dipinto e stoffa ricamata, attribuibili ad un ignoto artefice napoletano, che lavora intorno al 1880. Tra queste segnaliamo una Madonna della Salvazione, sistemata in una bacheca decorata da specchiature rettangolari, laterali a vetri. La Vergine, elegantissima, indossa un abito ricamato con motivi floreali e geometrici in oro.
Nella zona del transetto, ai due lati, sono presenti due altari con eleganti cibori in argento sbalzato, rappresentanti la Gloria del Sacramento, a sinistra e la Gloria del cuore di Gesù, a destra. Entrambi hanno il punzone di Gennaro Russo, noto argentiere napoletano, che li realizza nel 1857, dopo aver eseguito, per la celebre Cappella del Tesoro del Duomo di Napoli, il San Francesco Caracciolo.
Sull'altare del transetto sinistro trova collocazione una Visione di San Taddeo, datata 1855 e firmata Vincenzo De Angelis, un ignoto artista, forse appartenente alla famiglia di pittori ischitani di Antonio e Giacomo De Angelis, attivi nello scorcio del XIX secolo. San Taddeo è inginocchiato in basso, mentre in alto, tra le nubi, Gesù gli parla.
Nel mobile della sacrestia sono conservati numerosi oggetti preziosi in argento punzonato, tra questi: un ostensorio, una pisside, un incensiere, un secchiello con aspersorio ed una navicella cesellata dal famoso argentiere Matteo Condursi.
L'altare maggiore è costituito da marmi policromi ed ha un prezioso ciborio in argento lavorato dallo stesso famoso artigiano artista.
chiesa di S. Maria delle Grazie
Due pilastrini inquadrano il paliotto, decorato al centro da una croce raggiata rilevata. Il ciborio, a catino absidale, ha una porticina in argento sbalzato con raffigurato l'agnello mistico.
Sugli altari secondari vi è una serie di 18 candelieri ed una grossa croce, che poggia su di una singolare base a zampa di leone, decorata da foglie, mentre il crocifisso, dorato, è modellato in cartapesta.
Nel transetto destro vi è una statua lignea dipinta e modellata in cartapesta rappresentante San Giuseppe, del medesimo autore della Madonna della Salvazione, precedentemente descritta.
Sull'altare maggiore un'altra tela del già citato Vincenzo De Angelis, dedicata a Santa Maria di Portosalvo, con in testa la Santissima Trinità ed in basso il porto di Ischia appena aperto.
Sull'altare del transetto destro vi è un dipinto, datato 1855 e firmato Battista Santoro, rappresentante il miracolo di San Francesco di Paola, il quale insieme ad altri due frati galleggia su un mantello, mentre attraversa lo stretto di Messina, sotto lo sguardo protettivo di alcuni puttini. Importante un dettaglio nell'angolo in basso a sinistra della tela: la figura di un giovane, Francesco II, l'ultimo re di Napoli. Dal 1866 è presente l'immagine di "Maria Santissima rifugio dei peccatori", che ne ha caratterizzato la devozione mariana.
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