Dedica
Questo libro di favole è dedicato ai miei nipoti Leonardo, Matteo ed
Elettra,
ma anche a tutti i bambini del mondo e soprattutto agli adulti;
che possano meditare e capire più in profondità il messaggio
di speranza e di sofferenza che sottende ai vari capitoli.
1° capitolo
L'assalto alla Città dei Pirati
C'era una volta una città sul mare i cui abitanti vivevano
felici e conducevano una vita tranquilla, lavorando e divertendosi.
All'improvviso, di notte, si avvicinò alla costa una flotta di
pirati, i quali erano abituati a scendere a terra per rubare e
uccidere senza pietà.
Un brutto giorno dalle torri di avvistamento le sentinelle si
accorsero che una flotta di galeoni, con la caratteristica bandiera
nera con il lugubre teschio incrociato con le spade, si stava
avvicinando e la battaglia era imminente.
Che cos'e' una battaglia? Una cosa che non dovrebbe esistere, ma
purtroppo esiste dalla notte dei tempi, perché molti uomini sono
cattivi.
Suonarono le campane di tutte le chiese e tutti gli uomini, anche i
vecchi, brandirono le armi per difendere la città.
Nonno Achille fu nominato comandante di un manipolo di audaci,
pronti anche a morire per difendere la popolazione.
Con lui vi erano Albertone, un gigante dalla forza mostruosa,
Giorgio, esile ma furbo come Ulisse, Luigi e Giuseppe, i più giovani
e coraggiosi, Cristiano, il più veterano che aveva sconfitto tanti
pirati in precedenti combattimenti, Jacopo, sopranominato "Fast
furious", specialista negli attacchi alle spalle, Tonino il
calciatore, che sguizzava veloce lì dove gli scontri erano più
cruenti, Luciano, uno zingaro, nero di pelle, ma dall'animo candido
e Roberto, un tipo mite, ma che quando si trattava di combattere
diventava feroce.
Alcuni di questi personaggi li descriveremo in successivi racconti.
Appena i pirati sbarcarono, i cittadini li affrontarono con impeto e
coraggio; la battaglia infuriò per ore nelle strade e nelle piazze
della città. Il sangue scorreva a fiumi e nonostante il valore dei
difensori, alla fine i cattivi ebbero il sopravvento, rubarono nelle
case e nelle chiese, uccisero centinaia di abitanti: uomini, donne,
e bambini e fecero molti prigionieri, tra i quali nonno Achille e
tutti i componenti del suo manipolo. I prigionieri, imbarcati in
catene su un vascello, furono condotti in una prigione chiamata
REBIBBIA, un vecchio castello dove gli sfortunati dovranno rimanere
detenuti per un lungo periodo, in punizione per aver osato sfidare
la loro furia devastatrice.
2° capitolo
Il trasferimento e la sistemazione dei prigionieri nella fortezza di
Rebibbia
Tutti gli uomini catturati durante la battaglia furono stipati in
tre vascelli e, dopo una notte di viaggio avventuroso in un mare in
tempesta, durante la quale alcune navi rischiarono di affondare,
furono condotti nella fortezza di Rebibbia, un vecchio castello,
dove vengono sistemati in celle di pochi metri quadrati con letti a
castello, degli armadietti dove riporre vestiti e stoviglie, un
piccolo tavolo dove consumare pasti frugali ed un minuscolo stanzino
da adoperare come cucina e per i bisogni corporali.
Ogni cella è occupata da sei prigionieri, che trascorrono gran parte
della giornata come belve in gabbia. La mattina gli sventurati
possono trascorrere qualche ora in alcuni cortili all’aperto, dove
passeggiare e scambiare una parola con prigionieri di altri reparti.
Vi è anche all’esterno un campo di calcio, un campo da tennis, che
può pure trasformarsi per giocare a palla a volo, in maniera tale
che i più giovani possano sfogare la loro rabbia e scaricare le
energie represse. Per i più vecchi vi è soltanto la possibilità di
passeggiare. Il pomeriggio si può di nuovo uscire per qualche ora
dalle celle, percorrendo però soltanto il corridoio e fare amicizia
con altri prigionieri. C’è pure una sala dove giocare a ping pong.
Il cibo che viene servito è di qualità scadente, spesso avariato, a
tal punto che viene rifiutato perfino dagli animali, piccioni e
gatti che vivono nei prati, ma per sopravvivere bisogna adattarsi e
fare buon viso e cattivo gioco.
Ad alcuni prigionieri è permesso di lavorare: coltivare la terra,
cucinare, portare il cibo, lavare il pavimento dei corridoi,
raccogliere la spazzatura. L’assistenza medica è approssimativa, i
farmaci scarseggiano e per chi è vecchio e malato, come nonno
Achille, la situazione è drammatica.
Le giornate non passano mai e scorrono tutte uguali. La tristezza,
la malinconia, la solitudine dominano incontrastate.
Quando piove non si può uscire dalle celle, fortunatamente spesso vi
è il sole, che, oltre a riscaldare i corpi, infonde un certo
benessere.
Nel cielo volano dei gabbiani. Come sono felici loro che possono
andare dove vogliono!
Quante volte nonno Achille li ha invidiati! Avrebbe volentieri
scambiato tutte le sue ricchezze per poter divenire uno di loro e
spiccare il volo verso la libertà.
Nella fortezza di Rebibbia sono ammassati prigionieri provenienti da
luoghi diversi e si parlano tante lingue, ma la solidarietà regna
sovrana: ognuno divide quel poco che possiede con gli altri. Si
tratta di una regola non scritta, alla quale nessuno trasgredisce.
Poco alla volta si costituisce una grande famiglia.
Se all’esterno ci fosse la solidarietà che si respira in quel luogo,
il mondo sarebbe più buono e più degno di essere vissuto.
3° capitolo
Roberto e la gattina Chicca
C’era una volta…
Roberto, uno dei tanti sfortunati che deve trascorrere ancora molti
anni in prigione per pagare il suo debito con la società. Passa
alcune ore come lavorante, un modo per far trascorrere il tempo, ma
soprattutto per rendersi utile nei riguardi dei suoi compagni di
sventura. Gode però di un impagabile privilegio, come è consuetudine
per i pochi detenuti che svolgono attività lavorativa, può usufruire
di una cameretta di pochi metri quadrati, dove dorme da solo, anzi
in compagnia, perché con lui vive una graziosa gattina nera: Chicca
che di giorno, nelle ore d’aria, porta all’aperto, conducendola con
un rudimentale guinzaglio di stoffa colorata. Chicca è stata
raccolta nei prati contigui dove si trovano numerosi gatti, che
sopravvivono grazie alla generosità di chi getta loro avanzi di
cibo. Sui prati attorno alle celle svolazzano centinaia di colombi,
ai quali, un anziano detenuto, con spirito francescano e tra gli
sberleffi di tutti, getta il pane raffermo, che normalmente viene
gettato nella spazzatura. I piccioni accorrono a centinaia e bisogna
spezzare il pane in tanti piccoli pezzettini, altrimenti i più forti
ed i più prepotenti mangerebbero tutto e molti rimarrebbero digiuni.
Anche ai gatti, distribuendo avanzi di carne e di pesce, provvede
l’anziano signore, che molti familiarmente chiamano Zio, nonostante
sia nonno di tre bellissimi nipotini, mentre tutti gli altri si
rivolgono a lui con il titolo di professore, perché è l’unico
laureato e mette generosamente la sua cultura a disposizione di
chiunque si rivolga a lui, scrivendo lettere, poesie, fornendo
consigli legali e compilando i tanti moduli che un’asfissiante
burocrazia richiede per ogni necessità. Tenere con se un animale è
naturalmente vietato dai regolamenti, ma anche gli agenti
penitenziari hanno un cuore e chiudono entrambi gli occhi, fingendo
di non vedere Roberto che passeggia tranquillamente con la sua
gattina. La sera la fa accucciare ai piedi della sua brandina, dopo
averla a lungo accarezzata e si addormenta felice. Roberto non ha
parenti che vengono a fargli visita, la sua famiglia lo ha
abbandonato e l’unico conforto è la compagnia di Chicca, il solo
essere vivente che gli vuole bene. Egli è rassegnato, ma sereno.
Come lo invidia quell’anziano signore dalla barba bianca, cosa
pagherebbe se potesse anche lui la sera addormentarsi, come ha fatto
per tanti anni, con Attila, steso su un piccolo tappetino persiano,
il suo fedele rottweiler, il piu’ affettuoso ed il piu’ fedele amico
dell’uomo.
4° capitolo
Il colloquio dei prigionieri con i parenti
In passato i pirati permettevano ai familiari di riscattare i
prigionieri, pagando una notevole somma di denaro ed a testimoniare
questa antica consuetudine a Napoli, nel centro storico esiste
ancora una chiesa, chiamata del “La redenzione dei captivi”,
intendendo naturalmente per captivi non certo i bambini cattivi che
rubano la marmellata di nascosto dai genitori, bensì la parola
latina che indicava i prigionieri. Oggi invece i pirati condannano
tutti coloro che catturano a pene diverse, a secondo dell’impegno
con cui hanno partecipato alla battaglia, ma permettono ai loro
parenti di incontrarli poche volte al mese per un’ora. I colloqui
con i parenti sono un conforto molto importante, perché, anche se
per una manciata di minuti, si possono toccare le mani delle persone
care, scambiarsi confidenze, piangere assieme.
Purtroppo bisogna affrontare una doppia via crucis: dentro, per i
prigionieri, attese interminabili tutti stipati in camere di
sicurezza stracolme, mentre all’esterno i parenti fanno file
massacranti di ore, sotto il sole e sotto l’acqua, senza un briciolo
di pietà per bambini, malati ed anziani.
Fuori al portone alcuni si presentano alle quattro del mattino per
essere tra i primi e non perdere interamente una giornata di lavoro.
La fila si snoda senza alcun controllo per cui è facile per i
prepotenti scavalcare i più deboli o lo scatenarsi di risse e sono
ben pochi quelli che cedono il passo a vecchi che si trascinano con
un bastone o a donne con un bambino in braccio.
Ho assistito a scene di una cattiveria indescrivibile, come quando i
guardiani hanno sequestrato un rudimentale pupazzetto di pezza ad un
prigioniero, il quale dopo aver lavorato una settimana per
realizzarlo, lo voleva regalare al suo figlioletto. Mi ha commosso
anche vedere una zingarella di 9-10 anni accompagnare da sola i due
fratellini per fare visita al padre.
5° capitolo
“Salvo per miracolo”
Nei prati intorno ai padiglioni della fortezza di Rebibbia vivono
in perfetto accordo alcuni cani randagi e numerosi gatti, che
sopravvivono grazie alla generosità dei prigionieri, i quali ogni
giorno portano loro avanzi di cibo.
Tra questi vi è Fido, un bastardo, frutto probabilmente di un
incrocio tra un cane e una lupa, perché ha degli occhi che incutono
timore, ma è mansueto perfino con i gatti.
L’altro giorno vi è stata un’ondata di freddo polare, è caduta tanta
neve e Fido non si è fatto vedere all’ora di pranzo. Molti hanno
temuto che fosse morto assiderato e alcuni volenterosi si sono messi
alla sua ricerca, fino a quando non l’hanno trovato in fin di vita
sotto un albero, dove aveva cercato disperatamente un riparo. Il
cuore batteva appena.
Si cerca di praticargli un massaggio cardiaco e poi un ragazzo tenta
di soccorrerlo con una respirazione bocca a bocca. Una scena
commovente, una simbiosi uomo-bestia, un richiamo a quell’amore
sviscerato che lega da sempre tutti i viventi, non solo nella
mitologia e nelle fiabe. Si percepisce il calore del fiato, che
riscalda l’atmosfera ghiacciata, mentre si scruta con trepidazione
il muso del cane per cercare qualche indizio di vita.
Lo portano al caldo in una cella, lo adagiano su due sedie vicino al
termosifone, lo asciugano con il fono. Lentamente si vede il muso
affilato cominciare a muoversi, un orecchio si muove.
Il giorno dopo con un cucchiaino riescono a fargli mangiare un uovo.
Il rumore della lingua che lappa è una vera e propria sinfonia.
La bestia è salva. Una favola a lieto fine: bello il cane, belli i
detenuti, belli i capelli del ragazzo che con il suo bacio gli ha
ridato la vita.
Non è possibile credere che l’uomo sia l’unica meta della creazione
e che tutto l’universo sia stato ideato per noi.
Così il Cristianesimo ha spesso dimenticato la natura.
Molti Santi hanno dedicato la loro esistenza al soccorso dei poveri
e degli ammalati: compito degnissimo.
Soltanto San Francesco e qualche eremita hanno dedicato la propria
vita a salvare una fonte, un albero o a proteggere qualche animale:
compito non meno degno.
6° capitolo
Albertone il gladiatore, il gigante buono
Albertone, al secolo Alberto Santarelli, non è un criminale
spietato, come tanti che affollano le straripanti carceri italiane,
bensì un bonaccione dal fisico Erculeo da fare invidia a Maciste, un
giovane sfortunato che ha conosciuto la droga da ragazzo e, per
procaciarsela, ha commesso reati sempre più gravi, partendo dal
furto per arrivare alla rapina.
É uscito ed entrato da galera ed ogni volta che tornava a casa la
trovava sempre più vuota : sono infatti morti tragicamente prima il
padre, poi il fratello, quindi la madre e le due sorelle. Era
rimasto solo e disperato e si illudeva di trovare nella droga un
conforto alla sua solitudine. Ha assunto di tutto, ma poi ha avuto
la fortuna di trovare l’amore di una ragazza : Alessia, che ha
saputo leggere nel suo cuore e lo ha incoraggiato di seguire un
lungo e tormentato percorso di disintossicazione ormai completato.
Oggi Albertone ha pagato il suo debito con la giustizia e non vede
l’ora di tornare a casa, sopratutto perché Alessia, nel frattempo,
gli ha fatto uno straordinario regalo : è nata Gaia, una bambina
bellissima.
Ed Albertone ha già un lavoro che lo aspetta : diventerà Spartaco,
il prode gladiatore. Farà servizio al Colosseo dalle 9.00 alle 13.00
e dalle 15.00 alle 19.00. Sono certo che ci sarà la fila tra le
turiste, giovani ed attempate, per una bella foto ricordo tra le sue
braccia possenti e molte, attratte dai suoi muscoli debordanti e dai
suoi tatuaggi ubiquitari gli faranno, come le antiche matrone
romane, proposte indecenti, offrendogli cifre considerevoli. Ma
Albertone le rifiuterà, non tradirà mai Alessia, gli basterà
guadagnare quel tanto per vivere onestamente e sarà un esempio per
tanti ex-detenuti, che non vedono l’ora di tornare a delinquere,
ripercorrendo un diabolico circolo vizioso, che non si spezzerà fino
a quando lo Stato non capirà che le galere devono favorire il
reinserimento sociale del detenuto e non essere più terrificanti
palestre di malavita.
7° capitolo
La battaglia per la libertà
Ogni mese nella fortezza di Rebibbia si svolgono delle sfide tra
i pirati ed i prigionieri.
Capitan Uncino tra i corsari e’ il cattivo per eccellenza, l’uomo
cattivo senza terra ne’ legge che odia i bambini e l’umanità.
La sua storia e’ avventurosa: egli secondo una leggenda e’ un figlio
illegittimo del re Giorgio IV, nasce nel castello di Windsor, ma a
seguito di un complotto di corte viene spedito con la madre, una
popolana, in India.
Egli cresce così inconsapevole del sangue blu, che scorre nelle sue
vene e a 13 anni s’imbarca come mozzo su un mercantile, diventando
per il suo coraggio il favorito dell’avventuriero James Brooke.
Durante un arrembaggio perde una mano, che sostituisce con un
uncino, ma la sua menomazione non gli impedisce di solcare per
decenni gli oceani con la sua nave, seminando il terrore e la morte
tra le popolazioni rivierasche. E’ difficile trovare qualche
prigioniero che abbia il coraggio di sfidare Capitan Uncino, perché
sa che quasi sicuramente va incontro alla morte, ma in caso di
vittoria il premio e’ la libertà. Ed Albertone il gladiatore, per la
sua forza erculea, vuole tentare la sorte, stanco della crudeltà di
rimanere per anni recluso, privo di ogni dignità.
Il prigioniero può utilizzare per il combattimento solo un bastone e
non gode di grandi possibilità di movimento, perché non gli vengono
tolte le manette ai polsi, mentre Capitan Uncino, dotato di
sorprendente agilità, possiede una lunga spada ed una mira
infallibile.
La tenzone avviene di domenica a mezzogiorno e possono assistere
tutti, pirati e prigionieri, i quali tifano entusiasti per il loro
rappresentante. La lotta dura a lungo e sembra volgere a favore di
Capitan Uncino, il quale per tre volte ferisce l’avversario, che
sanguina abbondantemente per le ferite; ma all’improvviso con un
colpo di mazza disarma della spada il pirata; gli piomba addosso e
potrebbe strangolarlo.
Mosso a pietà, gli risparmia la vita e ritorna dai suoi compagni,
tra un uragano di applausi. Le regole vanno rispettate e Capitan
Uncino decide di donare la libertà ad Albertone, il quale, salutati
i compagni in lacrime per la gioia, viene rilasciato in libertà e
può tornare dalla moglie Alessia e dalla figlioletta Gaia.
8° capitolo
Rebibbia Uber Alles
Il penitenziario del carcere di Rebibbia è da alcuni mesi al
centro dell'attenzione dei mass media internazionali.
Prima la visita del Pontefice, il quale, in occasione delle
festività natalizie, non si è dimenticato di andare a visitare le
sue pecorelle smarrite; ieri il trionfo, dopo oltre venti anni, al
prestigioso festival di Berlino del film documentario dei fratelli
Taviani, interamente girato nel carcere romano, con i detenuti che
mettono in scena il "Giulio Cesare" di Shakespeare.
Una pellicola che non vuole compiacere il gusto del pubblico, ma
intende scuotere le nostre certezze morali e civili, puntando
l'indice sul disastro del nostro sistema penitenziario, dove la
dignità umana viene calpestata ogni giorno, trasformando esseri
umani, pur colpevoli di efferati delitti, in automi disarticolati,
in pallidi ectoplasmi, a volte in marionette impazzite.
Il pubblico applaude con entusiasmo, ma molti hanno le lacrime agli
occhi, al pensiero che i bravissimi attori: Cosimo, Salvatore,
Fabio, Giovanni, Antonio, Vincenzo e Gennaro non sono presenti,
rinchiusi nella solitudine delle loro celle.
Le scene sono state girate all'interno del reparto di massima
sicurezza, nelle celle, nei cortili angusti e claustrofobici che
costituiscono l'universo desolante di persone, le quali a contatto
con le parole immortali del grande genio, hanno conosciuto una nuova
dimensione provocando dirompenti emozioni.
Il film parla di intrighi, tradimenti, morte, uomini d'onore, una
terminologia familiare per chi vive nel braccio di massima sicurezza
e per chi è condannato per omicidio, mafia, criminalità organizzata.
Comincia a colori con il finale del "Giulio Cesare", per proseguire
poi con un livido bianco e nero.
L'energia della narrazione vive nello stridente contrasto tra i
silenzi delle celle e la forza straripante della rappresentazione
teatrale, con la struggente malinconia, alla fine dello spettacolo,
del ritorno alla desolante realtà della reclusione.
Si tratta di un riconoscimento che, oltre a gettare di nuovo luce su
un tema di scottante attualità, come la drammatica situazione in cui
versa il nostro sistema carcerario, costituisce un plauso ai tanti
volontari, che tentano con ogni mezzo anche attraverso l'arte ed il
teatro, il recupero di tante vite difficili.
Il film è stato già visto in mezzo mondo, dalla Francia
all'Inghilterra, dal Brasile all'Australia, fino addirittura alla
Norvegia ed all'Iran e siamo certi che sarà accolto con interesse
anche dal pubblico italiano.
9° capitolo
La festa della mamma nell’area verde
Nella fortezza di Rebibbia si sono create fra i prigionieri varie
associazioni, una delle più attive è la Lega Ambiente con presidente
Giovanni, la quale, oltre a diffondere l’abitudine della raccolta
differenziata, organizza ogni anno due feste all’aperto nell’area
verde, uno spazio dedicato agli incontri dei detenuti che hanno
bambini piccoli, attrezzato con scivoli, altalene e tanti altri
giochi, in maniera tale che si possa trascorrere qualche ora di
svago.
Il 7 maggio, in occasione della festa della Mamma, si è svolta una
manifestazione veramente grandiosa con la partecipazione di un
gruppo musicale, il quale, per oltre 4 ore, ha allietato il
pubblico, alternando ritmi moderni ad antiche melodie, mentre degli
animatori organizzavano gare di abilità e vivaci tornei tra i figli
dei prigionieri.
Si è svolta prima una corsa nei sacchi, nella quale bisogna fare un
percorso con le gambe avvolte in un contenitore di tela.
Quindi si è passato alla pallacanestro, con 10 tiri da fermo per
ogni concorrente, poi una stimolante caccia al tesoro, per finire in
un allegro karaoke al quale hanno partecipato tutte le mamme.
Una giornata particolare, allietata dal sole prima di tornare nel
buio delle celle.
10° capitolo
I 65 anni di nonno Achille
Il 1 giugno nonno Achille ha compiuto 65 anni nella fortezza di
Rebibbia.
Ha ordinato una torta Mimosa da 60 euro per festeggiare con i
compagni di reparto il giorno fatidico, con sopra scritto “Buon
Compleanno”.
La mattina è venuto a trovarlo Gian Filippo, il figlio prediletto ed
assieme hanno spento le candeline di legno, un sei ed un cinque, a
simboleggiare l’età, poste su un ciambellone farcito di marmellata
ed hanno brindato con dell’aranciata Fanta. Il resto della torta lo
hanno offerto alla nipotina di un altro detenuto, una simpatica ed
educata bambina, che ha detto: “Grazie signore”.
La sera, dopo una cena prelibata, preparata da Rudy, il cuoco
personale di nonno Achille, che conosceremo meglio in una prossima
puntata, alla quale hanno partecipato nella piccola cella, oltre ai
quattro occupanti, alcuni amici più intimi, tutti si sono trasferiti
nella sala del ping pong, dove alla presenza di tutti i prigionieri
del braccio, circa 50 persone, si è consumata la grande torta,
brindando con aranciata, coca cola e chinotto.
In carcere non si fanno gli auguri, ma molti hanno augurato a nonno
Achille di ritornare presto libero, perché sanno che è innocente.
La sera prima di addormentarsi il festeggiato ha pensato alla sua
famiglia lontana ed in sogno si è ritrovato con tutti: la diletta
Elvira, i tre cari figli, gli amati nipoti, le tre zie vegliarde, il
fratello Carlo ed il nipote Mario ed Attila, il fedele rottweiller,
che aspetta il suo ritorno a casa.
11° capitolo
L’angelo della fortezza: Suor Ancella
I detenuti sono liberi di assistere alle funzioni religiose e
molti, attraverso la fede, cercano un conforto per resistere alla
perdita della libertà e soprattutto alla forzata lontananza dai
propri familiari.
Oltre ai sacerdoti, esistono anche molti volontari, i quali, spinti
unicamente dall’amore per il prossimo, si mettono a disposizione di
tutti, sottraendo tempo alle loro attività esterne.
Tra queste figure giganteggia una suora dall’età indefinibile, che
esercita da quasi trenta anni la sua nobile missione, sempre pronta
a dare un consiglio, ma soprattutto a confortare chi si trova in
maggiori difficoltà.
Il suo volto richiama a viva voce quello di Madre Teresa di Calcutta
e la sua attività non conosce sosta, da domenica a domenica, per 365
giorni l’anno.
E’ sempre disponibile al colloquio, ad una parola d’incoraggiamento,
a non cedere mai ed a tenere viva la speranza.
A chi ha bisogno regala: scarpe, giacconi, maglie, calzini, frutto
della carità di anonimi donatori esterni.
Il suo nome è significativo: Ancella, cioè a disposizione di un
padrone, ma per lei tutti possono disporre della sua bontà.
Un’altra sua qualità è di essere in confidenza con Babbo Natale, per
cui, attraverso lui, fa pervenire ai bambini buoni bellissimi
regali, come è capitato a Nonno Achille, che ha tre splendidi
nipotini: Leonardo, Matteo ed Elettra, ai quali ha fatto recapitare,
in occasione del Natale, 5 libri di favole, riccamente illustrati.
12° capitolo
Il Papa visita i gironi infernali
A dicembre il Papa si recherà nel carcere di Rebibbia a celebrare
la messa e ad ascoltare, reparto per reparto, le esigenze dei
detenuti.
Un gesto nobile, a pochi giorni dal Natale, che darà agli ultimi tra
gli ultimi la forza di sopportare la sofferenza di trascorrere il
giorno più lieto dell’anno nella solitudine e nella tristezza.
Il Papa nelle sue encicliche ha saputo parlare con estrema saggezza
non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà e la
sua visita non può essere vista solo nel quadro della sua missione
di pastore, il quale tiene a cuore le sue pecorelle smarrite, bensì
si carica di pregnanti significati simbolici.
Sicuro di interpretare le richieste di tutti i compagni di pena,
anche se non sarò io ad avere il privilegio di parlargli, vorrei
semplicemente dirgli: “Santità, le sue preghiere sono ben più
potenti delle nostre. Faccia che la Giustizia divina, infallibile,
illumini quella terrestre, spesso fallace, e la sua invocazione
venga ascoltata non solo nell’alto dei cieli, ma anche nelle aule
sorde e grigie del Parlamento, il quale, pur impegnato da pressanti
problemi di natura economica, trovi il tempo e la volontà di varare
un indifferibile provvedimento di clemenza, che permetta di sfollare
le carceri e restituire ai detenuti, ridotti al rango di bestie, la
dignità di uomini.
13° capitolo
Piena integrazione
Il problema dell’integrazione tra Italiani ed il fiume di
stranieri che, anno dopo anno, sempre più affluiscono nel nostro
paese, in un solo luogo ha trovato piena applicazione : nei
penitenziari, soprattutto delle grandi città: Roma, Napoli, Milano,
nei quali oramai "gli alieni" (ma sono nostri fratelli)
costituiscono la maggioranza.
Nel buio delle celle vigono regole di solidarietà sconosciute nel
mondo esterno, cosiddetto civile e tutti si considerano membri di
una grande famiglia, chi non conosce la nostra lingua la impara in
fretta, acquisendo anche la cadenza dialettale locale.
Un esempio virtuoso di cui tenere conto e da perseguire, perché non
si può andare contro il corso della storia, Noi abbiamo bisogno
della loro energia e voglia di conquistare il benessere ed è una
fortuna non una calamità, che molti scelgono l’Italia, antica terra
di emigrazione, divenuta oggi per tanti la Terra promessa.
14° capitolo
Il presepe a Rebibbia
Il presepe con il suo messaggio di pace e di buona novella
rappresenta il momento culminante dell'amore di Giuseppe e Maria
verso il loro fragile figlioletto destinato in breve tempo a
cambiare il mondo e la tradizione di fabbricarlo risale alla fine
del '400 per raggiungere il suo fulgore nel '700 a Napoli, quando
alla sua creazione concorsero veri e propri artisti, impegnati a
forgiare la figurine che ne animano lo scenario.
E' triste constatare come abbiamo trasformato il Natale da momento
magico di letizia in un rito di massa, con grandi mangiate e smodate
libagioni, acquisti sfrenati ed un'idolatrica prostrazione al Dio
Denaro.
Bisogna approfittare di questi giorni in cui studio e lavoro
presentano una pausa per riunire le famiglie, sempre più spesso
separate, per santificare la festa.
Ogni anno i detenuti di Rebibbia preparano con impegni un grande
presepe siamo certi che senza dubbio Ninno, vedendolo, alla domanda
"Te piace 'o presepe", avrebbe risposto a Lucariello "me piace
assai".
Il Natale dei detenuti di Rebibbia naturalmente è ben diverso da
quello che si respira vicino ai propri familiari, ma la fede e la
visita del Papa daranno loro la forza di trasformarsi, tutti uniti,
nella più grande famiglia del mondo, superando così, in un giorno di
letizia la tristezza, la malinconia, la solitudine.
15° capitolo
Il carcere come casa
Nella fortezza di Rebibbia non sono rinchiusi solo i prigionieri
dei pirati ma anche delinquenti comuni, i quali si sono macchiati di
gravi delitti: rapinatori, assassini, spacciatori di droga.
Tra questi mi ha particolarmente colpito una figura, Alì un
marocchino che a vederlo sembra la persona più pacifica del mondo:
educato, servizievole, sempre sorridente. Ogni qual volta lo
incontro mi stringe la mano, mi chiede: ”Come sta dottore?” e mi
prepara il caffè.
Un cameriere perfetto, lavoro che ha svolto impeccabilmente a lungo
presso una celebre nobildonna famosa in tutto il mondo.
Egli mi ha confidato che in Italia si sentiva straniero, ma quando
tornava sporadicamente in patria, anche lì si sentiva un estraneo.
Ma la cosa che più mi ha sbalordito è quando ha affermato che ora in
carcere ha finalmente trovato la sua casa e nei suoi compagni di
sventura la sua famiglia. Ora potrà vivere sereno, studiando,
lavorando, crescendo spiritualmente ed essendo utile agli altri.
Una forma di tolleranza al duro regime carcerario, che gli ho
invidiato e che non, ho mai trovato nelle centinaia di storie di
altri reclusi, disperati ed incattiviti, in preda allo sconforto,
alla malinconia, alla solitudine.
Un esempio virtuoso sul quale meditare e che non finisce di
meravigliarmi.
16° capitolo
Panuino, poliziotto severo dal cuore buono
Nella fortezza di Rebibbia, oltre ai prigionieri dei pirati, sono
reclusi anche detenuti comuni, per cui, per tenere sotto controllo
tante persone, lavorano anche uomini e donne della polizia
penitenziaria. Tra questi vi è Panuino, molto temuto perché applica
rigorosamente il regolamento e questa sua solerzia è scambiata per
severità, ma egli con la stessa solerzia, se si avvede che un
diritto di un detenuto non è rispettato, fa di tutto per rimettere
le cose in ordine.
Io ho avuto un incontro ravvicinato col personaggio in questione,
quando mi venne ritirato l'orologio, che mi era stato regalato dal
cappellano ed io mi trovai e mi trovo in grave difficoltà, perché
dovendo assumere ogni giorno 15 farmaci ad un orario preciso,
commettevo e commetto gravi errori nell'assunzione. All'inizio ero
inferocito, poi ho consultato il regolamento (che necessita con
urgenza di un'ampia rivisitazione ed ho scoperto che il mio orologio
non era regolare, per cui ero io in torto.
Mi sono affrettato ad ordinarne uno consentito, ma da 8 mesi sono in
attesa che me lo consegnino.
Rimasi meravigliato quando qualche giorno dopo l'accaduto Panuino,
sapendo che sono un appassionato di scacchi, mi mise a disposizione un splendida
scacchiera.
Da allora vi è un rispetto reciproco.
17° capitolo
Un fiore nel deserto
La fortezza di Rebibbia non è soltanto sovraffollamento e
solitudine, ma vi sono anche delle oasi di pace e di tranquillità,
una delle quali è costituita dal gruppo universitario fatto nascere
dal nulla negli anni da Sergio e frequentata da una ventina di
detenuti che studiano Giurisprudenza, sotto la guida di illustri
luminari e giovani dottorande con un rapporto docente-discente da
fare invidia a celebri università come Oxford e Cambridge.
Fianco a fianco senza problemi siedono famosi politici e medici
plurilaureati con efferati assassini e trafficanti di droga.
E' d'obbligo l'uso del tu anche fra professori e studenti. Ed
assieme si trascorrono molte ore del giorno in ambienti estremamente
accoglienti: una grande sala luminosa, dotata di aria condizionata
ed una biblioteca fornitissima.
Studiare vuol dire libertà ed il gruppo universitario della fortezza
di Rebibbia costituisce il tempio del sapere.
18° capitolo
Rudy il capocella di Nonno Achille
Nonno Achille è stato fortunato, perché è capitato in una cella
di Napoletani, che gli vogliono bene e lo rispettano. Sono tutti
molto giovani, intorno ai trenta anni!!
Vi è Alicella un ragazzo sfortunato, che ha perso da bambino la
mamma e non riesce che raramente a vedere il padre, mentre nessuno
gli scrive. Deve scontare una lunga pena, non riesce a lavorare e
cerca di sfogare la sua rabbia giocando a pallone dove è un abile
attaccante.
Vi è Pasquale, napoletano acquisito, in questi giorni molto depresso
perché la fidanzata, per la quale aveva addirittura scritto un libro
da pubblicare a giorni "Cronistoria di un amore folle" dopo anni di
promesse e di colloqui, di punto in bianco con un telegramma, è
stato lasciato dalla fidanzata, che gli ha preferito un altro.
Ma la figura di spicco, il capocella per anzianità di detenzione è
Rudy, soprannominato il colosso, il quale per il nonno svolge varie
funzioni, da guardia del corpo, a cuoco (preparandogli i piatti che
preferisce),a cameriere personale. Gli fa il letto ogni mattina e lo
consola nei momenti di sconforto, abbracciandolo e trasmettendogli
così la sua energia.
Ha un bel bambino ed una moglie affettuosa che ogni settimana lo
conduce da lui e solo così riesce a non pensare ai tanti anni di
carcere che deve ancora scontare
E' un bonaccione anche quando strilla e vuole sembrare rude, non per
niente si chiama Rudy.
19° capitolo
“L’OMBROSO”, UNA BAND DA SCHIANTO
Il reparto G8 di Rebibbia costituisce il fiore all’occhiello del
penitenziario per le numerose attività che vi si svolgono: da un
corso di giornalismo ad un gruppo universitario, che frequenta la
facoltà di Giurisprudenza, ad una sezione molto attiva di Lega
Ambiente, fino ad una compagnia di attori che allestisce spettacoli
teatrali.
Ma l’attività più “rumorosa” è senza dubbio quella di un gruppo
musicale alla quale spesso partecipa in prima persona anche uno
degli educatori: il dottor Del Curatolo, persona umanissima ed
appassionata, che vuole condividere con i suoi assistiti le note e
l’atmosfera di sana allegria.
Ai detenuti bastano delle botti di legno percosse veementemente con
nodosi bastoni per far sentire subito il rumore cupo e fragoroso,
che devasta il cuore delle foreste africane, sono sufficienti pochi
strumenti a corda per percepire le emozioni di Siviglia o di
Barcellona, poche note dolenti di sax per aprire squarci poderosi
sulla musica di oltre oceano dell’ultimo secolo.
Essa sa esprimere in egual misura l’amore e le passioni, ma anche
l’indignazione e la rabbia attraverso una fontana di suoni, ora
sussurrati ora gridati, in un immenso quanto sconvolgente geyser di
emozioni canore.
Nel tempo varie band si sono alternate, perché fortunatamente
qualche componente torna libero, ma viene subito sostituito, perché
sono in tanti coloro che vogliono associarsi alla combriccola, che
viene guidata da Andrea (foto), un musicista professionista, che
funge da volontario e coordina le varie iniziative in campo
musicale.
I partecipanti sono Giovanni ed Emiliano alla batteria; Salvatore,
che si alterna tra basso e chitarra, oltre a cantare in maniera
mirabile; Francesco alle percussioni; il dottor Del Curatolo, abile
chitarrista, e Paolo, cantante e valido alle tastiere in egual
maniera.
Il gruppo si è esibito più volte nella Festa della Musica, una
manifestazione organizzata da Lega Ambiente nell’area verde, ma il
sogno è di potersi esibire nel teatro del penitenziario davanti a
tutti i compagni di sventura degli altri reparti; un sogno che,
grazie alla sensibilità della direzione, sono certo diverrà presto
realtà.
Tra le mura di Rebibbia di recente i fratelli Taviani hanno girato
un film vincitore al Festival di Berlino, nel quale vi era uno
spazio anche per la musica.
20° capitolo
La lavanda dei piedi
Durante le festività pasquali si susseguono le celebrazioni nella
chiesa grande della fortezza per i prigionieri credenti e si
percorrono le varie fasi della passione di Cristo, culminanti il
venerdì nella sua morte sulla croce e la domenica nella sua
resurrezione.
Il giovedì, nel momento culminante della Messa, si rammenta la
cerimonia della lavanda dei piedi. Si scelgono tra le centinaia di
presenti 12 prigionieri ed il cappellano capo, una delle maggiori
autorità della fortezza, lava loro il piede destro, lo asciuga
delicatamente e come atto di sottomissione lo bacia.
Quando venne il turno di nonno Achille, uno dei prescelti, il
cappellano si avvide di una serie di escoriazioni sanguinanti lungo
la gamba segno di una malattia emorragica di cui egli soffre ed
esclamò solennemente: "Nel baciare il tuo piede ho l'impressione che
si tratti del corpo piagato del Salvatore, sono emozionato". Potete
immaginare la mia commozione nell'essere paragonato a Dio in
persona.
Le Messe nella chiesa madre avvengono una volta al mese e ad esse
partecipano festosamente in tanti, perché è una delle rare occasioni
in cui si possono incontrare con detenuti di altre sezioni e prima
della comunione, quando ci si scambia un segno di pace, si possono
abbracciare e baciare vecchi compagni con i quali non ci si vede da
mesi.
Il percorso della fede è anche uno dei mezzi per meglio tollerare le
asprezze della detenzione e molti trovano Dio nel buio delle loro
celle, il quale li guida paternamente nel difficile percorso dal
profondo delle tenebre verso la luce.
21° capitolo
Achille della Ragione vincitore incontrastato
Un torneo autogestito si è svolto nel carcere di Rebibbia con la
partecipazione dei una quindicina di detenuti. Vincitore a punteggio
pieno è risultato il maestro napoletano Achille della Ragione
davanti al maestro internazionale albanese Kusturica. Il giorno
successivo in una grande simultanea il vincitore ha sfidato tutti i
partecipanti, battendoli di nuovo tutti. Per l’autunno si prevede
l’organizzazione di un corso di scacchi, per permettere a tutti di
conoscere ed apprezzare questa nobile attività agonistica, che,
oltre a tenere in esercizio l’intelligenza e la memoria, insegna la
correttezza, per cui è stata giustamente denominata “Il gioco dei re
ed il re dei giochi”.
22° capitolo
Michele il topolino curioso
Michele è l’unico topolino superstite di una cucciolata finita
sotto le grinfie di una coppia di gatti famelici, che avevano
divorato la mamma ed i suoi fratelli e sorelline.
Egli era riuscito a scappare, perché era molto veloce e per giorni e
giorni aveva vagabondato per la città, mangiando nei bidoni della
spazzatura tante cose appetitose abbandonate dai cittadini.
Aveva imparato ad attraversare sulle strisce pedonali ed osservava
incuriosito il comportamento dei passanti, che gli sembravano
animati da una furia frenetica, mentre a lui piaceva camminare piano
piano e spesso riposarsi sull’erba, godendosi i raggi tiepidi della
primavera.
Aveva notato che tutti camminavano con le mani libere, a volte
adoperate per portare dei pacchi o spingere una carrozzina con un
bambino; rimase perciò meravigliato, quando davanti ad una fortezza,
arrivavano spesso dei camion blindati, dai quali discendevano degli
uomini con i polsi serrati dalle manette, che venivano condotti
all’interno.
Incuriosito girò lungo il muro di cinta fino a quando non trovò un
buco sufficiente al suo passaggio, un piccolo percorso al buio ed
eccolo a studiare da vicino questa umanità bizzarra che secondo lui
agiva contro le regole della natura.
Passerà molti giorni all’interno e ci racconterà le sue mirabolanti
avventure.
23° capitolo
Michelino nella fortezza
Camminò a lungo attraverso il foro ed all'improvviso si trovò
accecato da un bagliore di luce tra enormi prati, sui quali
affacciavano numerosi padiglioni, tutti stranamente muniti di sbarre
alle pareti. Notò anche che vi erano numerosi gatti, ma si trattava
di felini pacifici, che si nutrivano di spazzatura, anzi fece
amicizia con Lucia, una gatta fortunata, perché ogni giorno nonno
Achille gli portava dei bocconcini di pesce e di carne, oltre a
tenere sempre piena la ciotola del latte e dell'acqua. Michelino
divenne inseparabile con Lucia, la quale conosceva un luogo sicuro
dove trascorrevano la notte.
Di giorno il topolino andava in giro per rendersi conto dei luoghi e
per prodigio una fatina di passaggio gli permise di intendere il
linguaggio degli uomini, per cui si accorse dai loro discorsi che
non tutti erano cattivi, anzi molti erano buoni e docili.
Nel complesso vi era una grande chiesa, che il sabato e la domenica
era affollata da molti detenuti, che si recavano ad ascoltare la
messa. Alcuni si avvicinavano a degli armadi di legno ove si trovava
un prete al quale confessavano i loro peccati.
Michelino rimase inorridito dalle cose che sentì e decise di
lasciare subito quel luogo di sofferenza e di perdizione.
24° capitolo
Michelino nelle cucine
Uscì dalla chiesa di corsa e si avviò alla ricerca del buco da
dove era entrato, ma durante il percorso fu attirato da un odore di
cibo, che proveniva dalle cucine. Prima di andare via volle
visitarle per constatare cosa mangiassero i prigionieri dei pirati.
Percorse un corridoio ed in un momento in cui si aprì una porta si
intrufolò all'interno e vide tanti pentoloni che bollivano e padelle
che friggevano.
Il suo occhi esperto identificò sul pavimento il passaggio di suoi
colleghi di stazza più corpulenta, dette zoccole o per essere più
precisi topi delle chiaviche, che avevano lasciato degli eloquenti
escrementi. Ciò che vide gli fece aumentare la voglia di scappare,
ma sul percorso finale gli passarono davanti agli occhi immagini
liete. Attraversò l'area verde dove possono accedere i bambini dei
detenuti, un luogo ameno dove è possibile giocare a pallone usare
l'altalena o lo scivolo e sanamente divertirsi anche se il poco
tempo passa in un attimo.
Ritrovato il buco Michelino di corsa andò verso la libertà e appena
uscito tirò un sospiro di sollievo di aver abbandonato quella triste
e cupa fortezza.
25° capitolo
La gatta Lucia
Abbiamo già conosciuto in una favola precedente una gattina:
Chicca, il cui padrone aveva anche il privilegio, tenendo una camera
singola, di portarla la sera a dormire ai suoi piedi.
Nonno Achille anche lui ha una gatta che lo ha preso in simpatia, si
chiama Lucia e vive da tanto tempo a Rebibbia, sopravvivendo,
razzolando tra i rifiuti.
Ma da un anno a questa parte, nonno Achille si è preso cura di lei,
la mattina divide con lei la sua porzione di latte e ad ora di
pranzo, se vi è carne o pollo, rinuncia volentieri per darlo a
Lucia, come pure sta sempre attento che non gli manchi l’acqua. Per
tenere lontani i colombi, sparge lontano pasta e pane, affinché non
la infastidiscano.
Lucia appena la mattina intravede nonno Achille, gli si avvicina,
perché sa che non rimarrà delusa. Poi dopo mangiato si mette tra le
sua gambe ed ama essere accarezzata a lungo.
E’ una gatta pacifica, abbiamo visto che ha fatto amicizia con
Michele il topo e ,quando lui ha scelto la libertà, è rimasta molto
dispiaciuta.
Chi sceglierà alla fine il primo finale vedrà nonno Achille ottenere
dalla direzione di portarla con sé e vivrà nel giardino della villa
di Posillipo, dove farà addirittura amicizia con Attila, il
rottweiler più buono che esista.
26° capitolo
Da professionista a barbone
Non vi diremo chi è il personaggio di cui parleremo, ma vi sarà
facile identificarlo.
Fuori era sempre elegante nelle manifestazioni ufficiali: completo
Rubinacci e cravatta di Marinella, che il suo cameriere personale
gli sceglieva. intonandole a seconda del colore del vestito e della
camicia, e addirittura, se fuori era nuvoloso o se splendeva il
sole.
Ogni giorno amava confrontarsi con intellettuali di ogni genere:
scrittori, storici, registi, docenti universitari. Frequentava i più
importanti ed esclusivi circoli cittadini, dove spesso teneva
conferenze sui temi più vari.
Aveva uno studio affermato, al quale affluivano moltitudini di
pazienti da tutta Italia.
La sera amava andare a teatro, soprattutto al San Carlo, dove non
perdeva una prima con al fianco la sua adorata moglie Elvira, sempre
elegantissima, ammirata ed invidiata da tutte le altre signore.
Poi all'improvviso a seguito di una sentenza ingiusta, che grida
vendetta davanti a Dio, la sua vita è cambiata radicalmente: i suoi
interlocutori, salvo rarissimi casi, sono drogati, rapinatori,
truffatori, assassini, con i quali è impossibile abbozzare qualunque
discussione e con i quali trascorrere ore inutili tra scope,
briscole e rubamazzetto.
Abituato alla sua vasca idromassaggio con spruzzi di acqua calda,
ora deve arrangiarsi a brevi docce tra il tiepido e il gelato.
Abituato a pasti succulenti ed a cenare nei migliori ristoranti, ora
deve cibarsi di pasti, che farebbero rabbrividire, il più delle
volte, il meno schizzinoso dei maiali.
La sera bisogna contentarsi di film d'annata, che i compagni di
cella scelgono tra i più truculenti del genere poliziesco. Il suo
vestiario farebbe inorridire il più lercio dei barboni.
La notte si sistema nel suo giaciglio tra coperte bucate e lenzuola
lercie, e dopo aver assunto dosi massicce di sonniferi si
addormenta abbracciato a tre rudimentali cuscini, imbottiti di panni
vecchi e puzzolenti.
Fortunatamente sogna di essere libero e trascorrere ore liete con i
suoi familiari e con i suoi tanti amici, che vengono a fargli
compagnia, molti anche morti da molti anni.
27° capitolo
Beati loro
Da sempre amo leggere la divina commedia e ne conosco a memoria i
versi più famosi. L'altro giorno, mentre recitavo i passi immortali
della storia di Paolo e Francesca ad altri compagni, ho provato
invidia per i due amanti, condannati a vagare per l'eternità tra le
fiamme dell'inferno, ma teneramente abbracciati; mentre io e mia
moglie Elvira, senza aver commesso alcun peccato, siamo costretti a
vivere la stessa pena, ma separati.
Lei a fare la nonna a tre vispi nipotini a Bruxelles, mentre io nel
buio della mia cella, e possiamo stare abbracciati poche volte al
mese, e solo per pochi minuti
28° capitolo
Il campionato di pallone tra prigionieri e pirati
Ogni domenica si svolge tra otto squadre, 4 di prigionieri e 4 di
pirati un animato campionato di pallone, che vede nelle tribune un
tifo scatenato con bande di ultras, che non hanno nulla da invidiare
a quelle del Napoli o della Roma.
Le prime due squadre classificate svolgono poi una finale alla quale
è permesso di assistere ai familiari dei detenuti.
I tre migliori giocatori della squadra che partecipa alla finale, a
giudizio insindacabile di Capitan Uncino ottengono la libertà tra il
tripudio dei parenti.
Il calcio non è l'unica attività sportiva che si può frequentare, a
Rebibbia: vi sono anche attrezzate palestre e campi da tennis. La
tenuta del fisico è tenuta in gran conto dai pirati, perché non sono
pochi i prigionieri che chiedono ed ottengono di diventare corsari
e, se forti ed audaci, dopo un breve corso vengono arruolati.
EPILOGO
Un anno è ormai trascorso il 3 ottobre
Il racconto di favole dalla fortezza di Rebibbia deve
concludersi, ma non conosciamo ancora il finale della storia, per
cui ne ipotizziamo tre diverse, avvertendo il lettore che, se fino
ad ora abbiamo scritto prevalentemente per i bambini, mentre
lasciavamo ad un pubblico adulto la sottigliezza di cogliere
l’allegoria nascosta, i prossimi capitoli si rivolgono
esclusivamente ad un pubblico maturo.
Primo finale
Nonno Achille, essendo innocente, ha tentato da tempo di riavere
la revisione del suo processo, cercando di dimostrare che lui non ha
ucciso alcun pirata, ma si è limitato, come ogni maschio adulto, a
scendere in piazza a difendere la sua città.
Nel processo precedente vi erano stati ricatti, estorsioni,
intimidazioni e prove false, che si discuteranno oggi nel Gran
Consiglio dei Pirati davanti ad una giuria presieduta da Capitan
Uncino.
Il pensiero di un esito negativo mi paralizza, sono certo che la
prossima crisi di angina mi sarà fatale, anzi quasi lo spero, perché
quando succederà sarà una vera liberazione.
Mi aggrappo con tutte le forze ad un intervento divino, che possa
influenzare la giustizia terrena. Da settimane le mie zie
ultranovantenni, donne di chiesa con il Paradiso assicurato, hanno
recitato Rosari per me, alternandosi giorno e notte; alcuni
compagni, testimoni di Geova, hanno pregato il loro dio
d’intercedere in mio favore, addirittura Alì ed Omar mi hanno
riferito di avere pregato cinque volte al giorno Allah di farmi
liberare.
All’improvviso verso le 20, una guardia carceraria, Salvatore, mai
nome fu più adatto, mi avverte che sono libero e posso tornare a
casa.
L’incubo è finito, ma non riesco a convincermi, sbatto ripetutamente
la testa contro il muro per essere certo che non si tratti
nuovamente di un sogno. Saluto piangendo i tanti compagni di pena,
raccolgo in un grosso sacco della spazzatura i miei vestiti ed esco
dalla cella. Mi accompagnano all’ufficio matricola per le formalità
burocratiche, che saranno lunghe, laboriose ed estenuanti.
All’uscita scorgo un taxi che fermo al volo e chiedo di potere
telefonare a casa per informare i miei cari del mio ritorno.
Al cancello mi attende impaziente mio figlio Gian Filippo con Attila
al guinzaglio, prego il tassista di attendere, fra poco arriverà il
denaro per la corsa.
A casa mia moglie e mia figlia Marina mi aspettano con le lacrime
agli occhi, mi stringono a loro, vogliono che mi pesi: 79 chili, 18
mesi fa ne pesavo 113.
L’indomani abbraccerò anche l’altra mia figlia Tiziana, in arrivo da
Bruxelles dove lavora, che in un anno non ha mancato una visita pur
di potermi vedere per pochi minuti.
In passato mi ero lambiccato il cervello alla ricerca di cose
rappresentassero per l’uomo il dolore e la felicità.
Anni fa organizzai un importante convegno all’Istituto italiano per
gli Studi Filosofici: “Perché il dolore? Una risposta fra scienza
fede e filosofia”. Invitai teologi, psicanalisti, letterati,
filosofi, specialisti in terapia del dolore. Nessuno mi convinse con
le sue argomentazioni.
Fra i miei ultimi scritti vi è un piccolo saggio sulle “Basi
biologiche della felicità”.
Ho sprecato inutilmente il mio tempo.
In pochi minuti, come una folgorazione, avevo avuto chiaramente la
visione del problema: uscendo dal carcere, avevo impresso per sempre
nella mente e nell’anima cosa fosse la sofferenza, mettendo piede a
casa avevo percepito cosa fosse la felicità.
Questo primo finale è giunto al termine: l’ultima scena sulla quale
si chiude il sipario è l’abbraccio interminabile sul divano del mio
salotto con Attila, il mio fedele rottweiler, una stretta affettuosa
20, 30, forse 40 minuti, fino a quando gli occhi gelosi dei miei
familiari mi fanno intendere che mi debbo dedicare a loro.
Secondo finale
I giorni passano tutti uguali, trascorrono i mesi e il tempo
sembra fermarsi in un eterno presente. Non bisogna pensare al
passato glorioso, per evitare inutili rimpianti, né si può
ipotizzare un futuro, incerto e nebuloso, soprattutto per nonno
Achille che è vecchio e malato.
Lentamente gli amici tendono a dimenticarti, le lettere diventano
sempre di meno, addirittura gli stessi parenti, presi dal lavoro e
impediti dalla distanza cominciano a diradare le visite.
Ti senti sempre più solo, perché a farti compagnia costantemente
sono soltanto la nostalgia, la malinconia, la solitudine, la
sofferenza.
Cominci a perdere ogni stimolo per la lettura di libri e giornali,
che hanno costituito l’interesse di una vita, hai difficoltà a
scrivere; ogni lettera devi rileggerla più volte perché piena di
errori di ortografia e di grammatica ed un tempo eri giornalista e
scrittore.
La mattina, all’ora d’aria, cominci ad ascoltare delle voci che ti
chiamano, prima indistintamente, poi lentamente cominci a
riconoscerle: sono i tuoi vecchi amici scomparsi, sono i tuoi
genitori, alcuni sono sconosciuti.
La notte per tanti mesi aveva costituito una sorte di liberazione,
infatti alle 21 ero già fra le braccia di Morfeo, sognavo di essere
fuori da questa squallida fortezza e potevo trascorrere ore liete da
uomo libero in compagnia dei miei cari e dei miei tanti amici, anche
quelli scomparsi da tempo. Ciò fino alle 8 del mattino, quando il
risveglio dei compagni di cella mi costringeva a tornare alla dura
realtà.
Ora anche il sonno era popolato da incubi e da lunghi periodi di
veglia di 3 o 4 ore. Spesso e volentieri, mi veniva a trovare
Lucifero e mi invitava a far del male ai miei compagni: “ammazzali”
- mi urlava – “sono cattivi, devi ammazzarli”.
Gridavo come un ossesso, ma nessuno mi sentiva, provavo ad
inginocchiarmi e a pregare e solo allora, qualche volta, scompariva.
Nei corridoi non riconoscevo chi mi salutava, dopo aver perduto
oltre trenta chili, ero ormai diventato un pallido ectoplasma, un
automa disarticolato, una marionetta impazzita. Percepivo
l’inutilità di una vita trascorsa in quelle condizioni, ma ero
assolutamente impotente.
Poi giunse un giorno in cui il frastuono della televisione accesa
dai miei compagni non mi svegliò, cominciarono a preoccuparsi solo
dopo un’ora, quando, arrivata la colazione e pronto il caffè,
continuavo a giacere a letto con la testa coperta dal lenzuolo come
ero solito dormire.
Prima mi chiamarono più volte, poi visto che non rispondevo, si
avvicinarono e mi strattonarono più volte, ma niente da fare, la
morte mi aveva ghermito (probabilmente un infarto) durante il sonno.
Il corpo fu avvolto in una coperta, giunse il prete per una
benedizione e poi il lungo viaggio verso Napoli, che il destino non
mi ha concesso di rivedere da vivo, ma che accoglierà le mie
spoglie.
Una commovente cerimonia funebre nella cappella di Villanova ed ora
abito nella nicchia di famiglia, in compagnia di mio padre, di mia
madre e della piccola Tiziana, la mia prima tenera figlioletta morta
durante il parto.
Terzo finale
Quale dei tre finali che stiamo proponendo al lettore sarà
quello che realmente si verificherà? Ognuno potrà scegliere quello
che più gli piace, ma uno e uno soltanto: il caso, la divina
provvidenza o qualche forza sconosciuta sarà a determinarlo, anche
se un piccolo spazio è riservato al libero arbitrio, come in questa
terza conclusione, la più truculenta, che ci sentiamo di vietare ai
minori di 14 anni.
Nonno Achille ormai è stanco di vegetare, perché oltre alla libertà,
gli è stata sottratta la dignità di uomo e soprattutto la speranza.
Decide che l’unico metodo per uscire dalla fortezza è quello di
suicidarsi.
Essendo un medico, avrebbe mille modi per mettere in pratica la sua
decisione: mettere da parte per due settimane i 15 medicinali che
gli vengono somministrati ogni giorno ed assumerli tutti insieme,
oppure con una lametta recidere la femorale o la giugulare, ma
viceversa, esibizionista come sempre, sceglie il più spettacolare,
che avendo un inevitabile risalto mediatico, possa creare clamore ed
attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e del governo sulla
drammatica situazione in cui versano i penitenziari italiani.
Nella fortezza esiste la chiesa centrale, una splendida struttura in
grado di ospitare centinaia di detenuti e dove è venuto in visita
anche il papa a tenere un nobile discorso, che però non ha sortito
alcun risultato, a cui fece eco il ministro della giustizia, anche
lei con belle parole e lodevoli proposte, che non hanno cambiato di
una virgola sovraffollamento ed invivibilità delle carceri.
Al centro della chiesa giganteggia un Crocifisso di oltre cinque
metri, una scultura moderna che richiama a viva voce lo stile di
Sassu e che incute a tutti i presenti un sacro timore reverenziale.
Un pomeriggio, al termine della funzione, riuscii a nascondermi in
uno sgabuzzino, dal quale, scavalcando un muro interno, si accedeva
ad un corridoi cieco dove attesi la mezzanotte.
Nel frattempo non avendomi visto rientrare in reparto, scattò
l’allarme generale e cominciarono a cercarmi senza esito in ogni
angolo del carcere, concludendo, alla fine, che probabilmente mi ero
abilmente mischiato al gruppo dei visitatori ed ero uscito dalla
porta principale beffando gli agenti addetti al controllo.
Fu lanciato l’allarme all’esterno e tutte le pattuglie di polizia e
carabinieri si misero alla ricerca del pericolo evaso.
A mezzanotte, nel silenzio più assoluto, mi inginocchiai ai piedi
del Crocifisso, chiesi a Dio perdono per quello che mi apprestavo a
fare e nello stesso tempo di fornirmi il coraggio di farlo.
Il pensiero andò ai miei familiari, a mia moglie ed ai miei figli e
chiesi perdono anche a loro perché li privavo della mia guida.
Quindi salii con difficoltà alla sommità della croce, fissai il
robusto laccio alla testa del Cristo e l’estremità al mio collo.
L’ultimo pensiero ai miei genitori: mamma, papà fra poco ci
rincontriamo. Un profondo respiro e poi giù nel vuoto.
Mi trovarono l’indomani con gli occhi strabuzzati, la lingua da
fuori ed i pantaloni bagnati per la classica perdita delle urine.
In un battibaleno giunsero giornalisti e televisioni e l’episodio
occupò le prime pagine di tutti i giornali. Il governo non rimase
insensibile ed invitò l’esercito a liberare tutti i prigionieri dei
pirati, mentre per i detenuti comuni furono emanati un’amnistia ed
un indulto.
Non fu perciò una morte inutile, perché mi liberò da tante
sofferenze e produsse grandi benefici ai miei compagni di sventura.
AUTORE
Il dott. Achille della Ragione è nato nel 1947 a Napoli, sposato
con Elvira Brunetti, tre figli: Tiziana, Gian Filippo e Marina; tre
nipotini: Matteo, Leonardo ed Elettra ed un affettuoso rottweiler:
Attila.
Laureato in Medicina, con specializzazione in Ginecologia ed in
Chirurgia generale, nonché in Lettere moderne.
Lasciata per problemi cardiaci la medicina, coltiva con impegno
alcuni interessi: gli scacchi e la storia dell'arte. E’ uno dei
massimi esperti della pittura del Seicento napoletano, sulla quale
ha pubblicato 35 volumi.
In campo scacchistico è dal 1994 "Maestro", massimo titolo conferito
dalla Federazione scacchistica italiana; ha ricoperto per molti anni
la carica di Presidente della Lega campana scacchi. Nel 1998 ha
sfidato in una simultanea, l'ex campione del mondo, il sovietico
Boris Spassky, partita nella quale fu l’unico a batterlo.
Collabora da anni con numerose riviste e testate online e cartacee.
Da quando il 28 aprile del 1978 comparve in prima pagina su "La
Stampa" una provocatoria intervista sull’aborto, è al centro di
furibonde polemiche.
Uomo di multiforme cultura partecipò nel 1972 a Rischiatutto e
conserva gelosamente i gettoni d’oro vinti nell’occasione.
Attualmente è recluso a Rebibbia dove sconta una condanna per
violazione della legge 194/78 sulla interruzione volontaria della
gravidanza. |