Non amiamo parlare della morte, ci
infastidisce solo il pensiero, ci comportiamo come se si trattasse
di un argomento che non ci riguarda, siamo così impegnati a
lavorare, ad occupare ogni istante di tempo libero, a divertirci, a
viaggiare, sempre di fretta, senza un momento di sosta per meditare
sull’epilogo della nostra vita.
Oggi più di ieri temiamo la morte,
l’ultimo tabù che ci è rimasto dopo aver distrutto tutti gli altri,
dal sesso all’amor patrio, che ci attanagliavano da tempi lontani.
La nostra società, profondamente
secolarizzata, vuole allontanare l’idea della fine della nostra vita
terrena, perché è un pensiero che ci induce ad esacerbanti
esercitazioni metafisiche sul motivo della nostra esistenza, sul
nostro destino, su Dio.
Oggi nelle grandi città si muore in
assoluta solitudine, in punta di piedi, per non turbare il frenetico
girotondo di chi rimane; negli stessi ospedali i morituri vengono
ghettizzati in reparti di pseudo rianimazione o per malati
terminali. Non sono in condizione più di dominare o quanto meno
controllare le tremende emozioni che accompagnano il momento del
trapasso. Pochi, anche i parenti più stretti dedicano loro soltanto
qualche visita frettolosa, perché nessuno è più in grado di
sussurrare quelle dolci parole di cui hanno bisogno, nessuno sa più
stringere quelle mani tremanti per infondere coraggio e
rassegnazione.
Soltanto in qualche sperduto
paesello, dove si conservano ancora dialetto e forti legami sociali,
la morte viene onorata, recitata, rappresentata come un grande
dramma collettivo al quale tutti partecipano, facendosi depositari
della memoria del defunto. Un cerimoniale commosso e corale
inimmaginabile nelle affollate città dove disperdiamo tutto e non
abbiamo tempo né per la memoria né per il dolore.
Nel medio evo la morte era viceversa
accompagnata da un grandioso apparato rituale, nel quale i
sentimenti venivano incanalati e sublimati.
L’uomo moriva davanti a tutti, se
ricco oltre ai parenti si raccoglievano attorno al letto i servi e
gli abituali frequentatori della casa, se povero erano presenti
moglie e figli anche se bambini, i quali spesso in coro recitavano
candide preghiere.
Negli ultimi istanti una sensazione
miracolosa dava al moribondo la forza di dare l’addio, chiedere e
concedere il perdono, dispensare consigli ai più giovani che
venivano accolti con un’autorevolezza fino ad allora sconosciuta.
Il suo corpo non si allontanava molto
dalla casa, trovando ospitalità nelle chiese o in luoghi posti
dentro le mura urbane. Poi leggi severe hanno collocato i cimiteri
lontano dalle città e noi da allora li visitiamo raramente, come
rifiutiamo quei cerimoniali pomposi impregnati di esequie, di lutto,
di estremo cordoglio, di orpelli funerari.
Ora che abbiamo abbandonato questi
antichi rituali protettivi e consolatori la morte ci devasta
maggiormente, facendo scempio delle nostre certezze, che ci
illudevamo fossero incrollabili. La scomparsa di una persona cara,
con la quale abbiamo vissuto a lungo condividendo gioie e dolori, ci
sconvolge, lacerando per sempre la nostra esistenza e strappandoci
la gioia di vivere. Essa continua a vivere soltanto nel nostro
ricordo dove vi è spazio per un’immortalità surrogata.
Per il credente la morte è un
fardello più tollerabile, mentre per il laico rappresenta un
angosciante salto nel buio.
Nulla si crea e nulla si distrugge” è
uno dei paradigmi della scienza ed anche il nostro corpo dopo la
morte, disintegrandosi, ritorna nella terra e restituisce le
sostanze della sua materialità. Ma i nostri pensieri, i dolori, le
speranze, la felicità, gli smarrimenti, le malinconie, i ricordi, i
desideri, gli affetti, non vogliamo dire la nostra anima, dove
finiscono? Se nulla si distrugge, se la nostra misera carcassa
continua ad esistere trasformandosi, perché ciò che a noi continua a
sembrare immateriale dovrebbe scomparire.
Una modesta radio a transistor è in
grado di captare le voci provenienti dall’altro emisfero terrestre,
ci permette di ascoltare un monologo di Amleto recitato a New York o
il ritmo di una frenetica danza brasiliana da Rio, il cervello
dell’uomo è la cosa più prodigiosa che vi sia nell’universo, perché
non possiamo credere che esso possa afferrare i nostri sentimenti,
che vagano nello spazio dopo la nostra morte? Un bambino che oggi
nasce potrebbe raccogliere un messaggio di uno sconosciuto che
chiude la sua esistenza e gli lascia in eredità le sue inquietudini,
le sue speranze, le sue gioie ed i suoi dolori.
Milioni di uomini di antiche e sagge
civiltà, hanno creduto e credono a questa possibilità, anche noi
possiamo crederlo, sperarlo, temerlo.
Sono pensieri che ci danno l’idea
della nostra miseria e della nostra nobiltà: sperduti nell’infinita
immensità degli spazi, destinati a vivere un lampo a confronto
dell’eternità, non riusciamo a credere che la nostra coscienza si
sia accesa per caso, a contemplare un universo ostile o quanto meno
indifferente al nostro destino.
Achille della Ragione
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