Chi volesse
conoscere i massimi esempi della pittura napoletana sul far del
Seicento dovrebbe, entrando nella grandiosa chiesa di S. Maria la
Nova, alzare gli occhi ed ammirare lo splendido soffitto
cassettonato, che da solo costituisce una meravigliosa pinacoteca
di quasi cinquanta dipinti, nel quale furono impegnati i più
importanti artisti napoletani del periodo, che avevano raggiunto
la piena maturità ed avevano già dato prova esauriente della loro
capacità nelle altre chiese napoletane, da Francesco Curia a
Girolamo Imparato, da Fabrizio Santafede a Belisario Corenzio e
Luigi Rodriguez. Questo straordinario soffitto costituisce una
esaustiva antologia delle correnti pittoriche che dominavano in
città ad inizio secolo, dalla maniera dolce e pastosa del Curia
alla cosiddetta riforma toscana importata dal Santafede, in tutte
le possibili declinazioni.
Il secolo d’oro
della pittura napoletana, che tanto riverbero avrà sull’intera
civiltà artistica europea, nasce così sotto il segno di artisti
che seguono la maniera più ritardataria e provinciale, con una
stanca parlata comune, quasi del tutto priva di voci dominanti,
quando, come per incanto, nel primo decennio con un’apparizione
improvvisa compare e scompare due volte dalla scena Michelangelo
Merisi da Caravaggio. La sua presenza farà da catalizzatore delle
energie locali impegnate già con gran fervore nell’ammodernamento
di tutta la “Napoli sacra”, costituita da innumerevoli chiese e
conventi, che si allargano e si innovano senza sosta alla ricerca
di sempre maggiori fasti e onori.
Generalmente il
Seicento napoletano in pittura viene preso in considerazione a
partire dal 1606, anno del primo soggiorno in città del Caravaggio
e lo si fa terminare nel 1705 con la morte di Luca Giordano. Noi
viceversa ci atterremo strettamente agli anni di inizio e fine
secolo dal 1600 al 1699. Questo severo criterio cronologico ci
induce a trattare, anche se brevemente, di tutti quegli artisti e
non sono pochi, che, figli del Cinquecento ed insensibili alla
nuova cultura caravaggesca, pur continuarono a lavorare, alcuni
intensamente, fino alla metà del secolo.
La grande mostra,
tenutasi a Napoli nel 1984 sulla civiltà del Seicento, trascurò
completamente questa generazione di artisti e così fanno anche
molti testi pur autorevoli di storia dell’arte; ma non si può
certo lasciare senza attenzione l’opera di tanti artisti che,
richiesti da una folta committenza pubblica e privata, a carattere
devozionale, continuarono, tra il decorativo e l’illustrativo, la
loro opera talune volte inscurendo unicamente la tavolozza per
adeguarsi, anche se superficialmente, alla nuova moda.
Fra le correnti
artistiche cinquecentesche che protrudono nel secolo successivo
sono da annoverare la linea della pittura dolce che, ispirata
dalla maniera di Zuccari e Barocci ha tra i suoi protagonisti
Francesco Curia e Girolamo Imparato, scomparsi contemporaneamente
alla venuta del Caravaggio ed il fiammingo napoletanizzato Dirk
Hendricksz, il quale, poco concedendo in variazione al suo stile,
lavora fino a circa il 1615. Con questi autori dobbiamo ricordare
anche Giovan Antonio D’Amato, figlio di Giovan Angelo che
proseguirà la bottega paterna fino al 1643.
Francesco Curia
è il più abile tra i tardo manieristi napoletani, figlio d’arte è
nella bottega del padre Michele dal 1588 al 1594. Entro il secolo
realizza numerose ed importanti opere per evolvere poi, sotto la
spinta degli esempi degli artisti fiamminghi presenti in città,
sostenitori della maniera tenera, verso una forma elegante e
mossa, che farà di lui il campione indiscusso di una pittura
fresca e dal forte impatto emozionale, bizzarra e surreale,
visionaria e fantastica. La sua pennellata morbida e densa, quasi
lanosa dà un’impressione tattile sulla superficie pittorica.
A partire dal 1600
numerosi documenti di pagamento testimoniano della sua fama oramai
consolidata. Nel 1601 esegue la Madonna del Rosario di
Prepezzano oggi nel museo diocesano di Salerno, nel 1603 replica
l’analogo soggetto per la parrocchiale di Orta di Atella e da
questi dipinti Giuseppe Marullo ed altri stanzioneschi
preleveranno gli angioletti che svolazzano in alto nella
composizione.
Il 1602 è la data
della sua celebre Gloria del nome della Vergine incastonata
nel cassettonato di Santa Maria la Nova, animata da uno sfrenato
dinamismo con l’angelo che sembra volare al di fuori della
composizione. Intorno al 1605 è collocabile il Battesimo di
Cristo nella cappella Brancacci del Duomo, un dipinto nel
quale le pose fisse dei protagonisti trasportano in una dimensione
irreale e rappresentano l’ultimo guizzo di genio dello svagato
pittore.
Girolamo
Imparato inizia la sua carriera nella bottega di Silvestro
Buono come mero pittore devozionale intorno al 1570, per
collaborare poi in seguito con Giovannangelo D’Amato, con Dirk
Hendricksz nel cassettonato di Donnaromita e con alcuni artisti
del cantiere della certosa di San Martino. Egli nel suo lungo
percorso fino alle soglie del Seicento mostra una chiara
evoluzione da una cultura di marca fiamminga piena di cangiatismi
ad una pittura tenera di matrice baroccesca.
Giunto alle soglie
del secolo d’oro contribuirà con un ultimo sprazzo estroso e
visionario all’ultima stagione della pittura tardo manierista
prima della rivoluzione caravaggesca, dando luogo a composizioni
luminescenti e turbinose spesso arricchite da panneggi che
sembrano una seta rigida quanto leggera.
Tra le sue opere
seicentesche rammentiamo il Sant’Ignazio in estasi (1601) e
la Natività (1602-03) realizzati per il Gesù Nuovo, l’Annunciazione
e l’Assunta, firmata e datata 1603, per il cassettonato di
Santa Maria la Nova, oltre a tre quadri eseguiti per gli altarini
laterali, la Circoncisione, documentata al 1606, del museo
del Banco di Napoli ed infine, nel 1607, il Martirio di San
Pietro da Verona, consegnato poco prima della morte, per
l’altar maggiore della chiesa di San Pietro Martire.
Dirk Hendricksz,
conosciuto anche come Teodoro D’Errico, è documentato a Napoli
dal 1574 al 1608 ed è il principale esponente della colonia
fiamminga in città, ideatore di una pittura tenera dal ricco
impasto cromatico, che raggiungerà il culmine del successo nei due
celebri cassettonati di San Gregorio Armeno prima e di Donnaromita
poi. Sono vaste composizioni che, alla ricercatezza del colore,
associano uno stile pittorico di pretta marca barroccesca.
I pittori nordici
erano specializzati in pitture di paesi e nelle vedute, in quadri
di genere come le stagioni, le stregonerie o le cacce ed erano
abilissimi a dipingere sul rame con colori fini, vivaci ed
allegri.
Al di fuori dei
loro settori preferiti erano spesso destinatari di importanti
committenze da parte di chiese ed ordini religiosi.
Al virare del
secolo la sua maniera si avvale di una materia sempre più fluida
ed impastata ed il suo stile da leggero, fantasioso e
sfarfalleggiante diviene più calibrato e più serio. La sua
attività è scandita da poche opere certe, mentre si incrementa la
collaborazione col figlio Giovan Luca.
Tre opere
seicentesche sono certamente documentate e sono il Miracolo di
Cristo di Arienzo, la Madonna del Carmine di Santa
Maria la Nova e la Santa Caterina dell’Annunziata oggi nel
museo civico a Castel Nuovo, alle quali aggiungere la
Crocefissione in Santa Maria del Parto e la Visitazione
già in San Marco ai Lanzieri. Sono dipinti segnati da uno stile
espressivo e patetico non senza qualche piccola caduta formale.
Nel maggio del 1610 il pittore, dopo la morte prematura del
figlio, decide di ritornare in patria ad Amsterdam, dove
concluderà stancamente una carriera che per oltre quaranta anni lo
ha visto tra i principali protagonisti del tardo manierismo
nell’Italia meridionale.
Un nordico di cui
poco conosciamo, ma che ci ha lasciato alcune opere significative
all’inizio del secolo è Pietro Torres, un pittore membro
della numerosa colonia fiamminga che, dopo la fatidica notte di
San Bartolomeo del 1572, emigrò in Italia e soprattutto nel
viceregno. Egli collaborò prima con Smet per avvicinarsi in
seguito allo stile del Cobergher. Un artista modesto ma bizzarro
ed interessante oscillante tra le espressioni del manierismo e la
pittura schiettamente devozionale.
Notevoli e da
collocare ad inizio secolo due tavole caratterizzate da accesi
cangiatismi mirabilmente coniugati a tenere espressioni nei volti:
una Immacolata Concezione ed angeli conservata presso la
Curia arcivescovile ed una Madonna delle Grazie coi
santi patroni di Napoli già nella chiesa di Gesù e Maria.
Nell’ambito della
pittura di paesaggio occupano un posto di rilievo altri due
nordici: Paolo Bril, il quale nei primi anni del Seicento
esegue un importante ciclo di affreschi nel chiostro della chiesa
di Santa Maria delle Grazie a Caponapoli., mentre a Loise Croys,
maestro di Carlo Sellitto, vengono oggi assegnati quelli nel
pronao della chiesa di Santa Maria Regina Coeli. Con il loro
esempio e con modalità eleganti e raffinate nasce una nuova
concezione del paesaggio in area meridionale; non più luogo di
ambientazione bensì parte centrale della composizione. A questi
testi si ispireranno Domenico Gargiulo, Salvator Rosa e lo stesso
Battistello Caracciolo, che saranno i fondatori della pittura di
paesaggio napoletana.
Giovanni
Antonio D’Amato nasce come pittore devozionale ma per una
parte del suo percorso artistico sarà attirato dal naturalismo dei
primi caravaggeschi napoletani, a tal punto da confondersi a loro
in alcune opere come nel Mosè fa scaturire l’acqua dalla
roccia della collezione Pellegrini a Cosenza, attribuito in
passato a Beltrano o a Vitale. I suoi quadri naturalisti sono però
sempre intrisi da una garbata punta di devozione familiare e dal
dolce impasto cromatico proprio delle sue origini baroccesche.
Ad inizio secolo
sono collocabili la Vergine Lauretana della chiesa di Santa
Maria del Popolo agli Incurabili e la Visione di San Romualdo
sulla volta del coro dell’Eremo dei Camaldoli. In anni successivi
realizza il caravaggesco Santi Nicola, Domenico e
Gennaro, oggi nel museo civico. Celebri alcune sue opere
conservate nella quadreria dei Gerolamini: la Deposizione e
la Sacra Famiglia, un soggetto che replicherà in una tela
già nella chiesa delle Crocelle ai Mannesi ed oggi al Divino
Amore.
La sua attività
proseguirà fino agli inoltrati anni Quaranta non solo a Napoli ed
in costiera amalfitana, ma si irradierà anche verso la Calabria e
la Puglia, fino a quando i tempi dell’ultima Maniera, anche se
aggiornati al lume caravaggesco, non saranno esauriti
definitivamente.
Il filone
devozionale d’ispirazione toscana comprende autori importanti:
Fabrizio Santafede, uno Stanzione ante litteram, campione
incontrastato della nuova pittura, Giovanni Balducci, fautore di
un pacato realismo domestico e Giovan Bernardo Azzolino, suocero
del Ribera, il più seicentesco tra i tardo manieristi napoletani.
Essi si limiteranno unicamente ad un viraggio di colore verso lo
scuro nelle loro composizioni sacre dopo il 1608. A questi autori
può essere affiancato Ippolito Borghese dal linguaggio intriso di
pietismo e dallo stile aneddotico e devozionale.
Fabrizio
Santafede attivo dal 1576 al 1623 importa in area meridionale
la corrente toscana che cercava di coniugare la tradizione
pittorica fiorentina a quella pittorica veneziana. L’artista si fa
fautore di un nuovo modo di interpretare la storia sacra con un
patetismo contenuto ma efficace. La luce nei suoi dipinti, a
differenza di quella cavaraggesca, potente nel rilevare
impietosamente ogni aspetto della realtà, si posa delicatamente su
persone ed oggetti ed anche quando l’ombra è profonda permette una
lettura completa della figura nel rispetto del disegno e della
composizione.
Egli è stato
paragonato a sommi pittori come Murillo o ad abili mestieranti
come Santi di Tito, ma a nostro giudizio il paragone che meglio
rende la lunga attività dell’artista è quello con Massimo
Stanzione. Alla pari del collega seicentesco il Santafede volle
cantare la poetica degli affetti, la serenità e la gioia della
famiglia, come nel Bagno di Gesù Bambino, conservato nella
quadreria dei Gerolamini, che più che un quadro sacro dà
l’impressione di una tranquilla scena nell’intimità domestica, una
sacra conversazione.
Il delicato
problema del luminismo naturalista fu affrontato con un occhio
attento ai quadri notturni del Bassano e della sua bottega, che
furono molto richiesti per decenni anche nel meridione e si
giovarono del successo del verbo caravaggesco. In un suo celebre
dipinto come la Resurrezione, eseguito nel 1608 per il
Monte di Pietà, il Santafede utilizza un effetto di lume notturno
accentuato da lampeggiamenti, drammatico ed efficace, dando prova
di un’originale interpretazione veneziana del caravaggismo.
Tutte le più
importanti collezioni napoletane, da quella dei Filomarino agli
Spinelli di Tarsia, si vantavano di possedere tele del Santafede,
del quale le fonti ci tramandano anche una notevole attività di
ritrattista di ispirazione fiamminga: analitica e descrittiva.
Pochi esempi ci sono pervenuti e tra questi il principale è il
Ritratto del viceré conte di Olivares e della moglie
conservato a Madrid nella raccolta del duca d’Alba, mentre la sua
abilità si può apprezzare anche nelle fisionomie dei committenti
in alcune pale d’altare come in quella giovanile di Matera o nella
tela per la chiesa dei Sette dolori.
Non possiamo
giudicare le sue qualità di decoratore, che lo videro all’opera
con Battistello per due anni nei perduti affreschi della Cappella
del Tesoro.
Numerosi sono i
suoi quadri per importanti committenti nel primo e secondo
decennio del secolo, mentre la sua bottega, assai prolifica, era
in grado di soddisfare ordini che venivano non solo da Napoli e
dal viceregno, ma dalla Spagna e dalle altre regioni italiane.
Ricordiamo l’Incoronazione
della Vergine (1601 – 02) per il soffitto di Santa Maria la
Nova, la Pietà (1601- 03) per il Monte di Pietà, la
Pentecoste (1609 – 10) per lo Spirito Santo, la Trinità con
la vergine e Santi (1618 - 19) della chiesa di Monteverginella,
la Madonna coi santi Francesco e Domenico (1623 – 24) nella
chiesetta di Ruvo e tanti altri.
Tra gli allievi
del Santafede che lavorano prevalentemente in provincia ricordiamo
Giovanni De Gregorio, detto il Pietrafesa, il quale si
muove nell’alveo della tradizione tardomanierista orientata
all’assunzione di forme severe e controllate, aderenti alle norme
tridentine, con accenni di naturalismo allo scopo di rendere più
vere le immagini e più accessibile il messaggio ai fedeli. Nel
1610 firma e data una Madonna della Consolazione e Santi
per la chiesa di Santo Stefano a Sala Consilina, mentre successiva
è una Deposizione per il monastero di Castel Civita.
Giovanni
Balducci, nato a Firenze, appartiene alla generazione dei
pittori toscani riformati. Trasferitosi a Roma dopo alcuni anni di
attività, nel 1596, si sposta a Napoli al seguito del cardinale
Gesualdo, divenuto primate nella capitale del viceregno, dove
risiederà per circa quaranta anni. Affrescherà nel Duomo la
tribuna e la cappella degli Illustrissimi e parteciperà alla
realizzazione nel 1621 del grandioso soffitto cassettonato.
Lavorerà con
successo nei primi anni del secolo nella chiesa di San Giovanni
dei Fiorentini ed in numerose altre imprese decorative in chiese e
palazzi nobiliari. Da ricordare il suo contributo nel cassettonato
dell’ Annunziata di Maddaloni eseguito nel 1604, nel chiostro del
Carmine Maggiore, nel 1606 ed a Monteverginella. Diverrà uno degli
esponenti di spicco del filone devozionale con una cospicua mole
di opere caratterizzata da estrema ripetitività e semplicità
compositiva, corretta nel disegno e dolce nel colorito, un
realismo domestico con delicate cadenze didascaliche e narrative.
Riposa a Napoli in
un’originale sepoltura inchiavardato nel muro in un corridoio
delle catacombe di San Gaudioso poste sotto la basilica di Santa
Maria della Sanità, un luogo a lui caro che lo aveva visto
all’opera nel chiostro e nell’esecuzione di alcune pale d’altare.
Alla figura del
Balducci sono legati alcuni artisti fiorentini che sul crinale del
nuovo secolo inviavano opere o giungevano in città per trascorrere
alcuni anni. Tra questi Pompeo Caccini del quale a
San Giovanni dei Fiorentini in sacrestia si conserva un
Battista in carcere del 1601, Agostino Ciampelli
che inviava un’ Entrata di Gesù in Gerusalemme
conservata nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio e nel 1605 una
tela per la Trinità delle Monache e Domenico Cresti detto il
Passignano che entro il primo decennio faceva giungere a Santa
Teresa degli Scalzi un Incontro della Vergine con Giuseppe.
Senza dimenticare Cristofaro Roncalli detto il Pomarancio,
il quale nel primo decennio invia varie opere, dalla Natività
per l’altare Ruffo alla splendida Madonna col Bambino e San
Francesco della quadreria dei Gerolamini.
Giovan Bernardo
Azzolino, nativo di Cefalù, per cui fu detto il Siciliano, è
attivo a Napoli per oltre cinquanta anni dal 1594 al 1645.
Frequentò il cantiere della certosa uscendone perito frescante,
come dimostrano i suoi affreschi nella cappella Ambrosino al Gesù
Nuovo, eseguiti tra il 1605 ed il 1606.
Il De Dominici,
con la sua fertile fantasia, ci descrive l’artista come uomo pio e
devoto che avvertiva l’esigenza di accostarsi ai sacramenti prima
di eseguire il ritratto della madonna, alla quale avrebbe
consacrato la sua verginità, mentre sappiamo che ebbe non meno di
quindici figli ed in particolare una figliola che andò sposa al
Ribera.
Le sue
composizioni sono semplici nella disposizione dei personaggi,
quasi neo quattrocentesche, ma sono sempre di una qualità molto
alta, in grado di produrre genuine e vibranti emozioni. Fu in
contatto con i mercati anche fuori della città specialmente con
Genova, grazie alla sua familiarità con il principe Marcantonio
Doria, il quale nella sua famosa collezione possedeva ben
quarantasette suoi quadri.
Numerose sono le
sue opere in un arco di tempo molto ampio. Ricordiamo: la
Circoncisione (1607) nella chiesa del Gesù e Maria, dove
esegue anche la Madonna del Rosario per la cappella
Romano (1609 - 1610), un Martirio di Sant’Orsola in
collezione napoletana, intriso di naturalismo, una Madonna del
Rosario (1612) per la chiesa di Santa Maria della Sanità,
nella quale, nel 1627, esegue anche un’Annunciazione. Nel
1617 esegue la Santissima Trinità e Santi nel cappellone di
Sant’Ignazio nel Gesù Nuovo, una tela di grosse dimensioni che
dopo assurde per quanto autorevoli attribuzioni al Guercino, a
Battistello e addirittura al Beltrano è stata assegnata ad
Azzolino con certezza su base documentaria. Il San Paolino
del Pio Monte della Misericordia è del 1630. Opere tarde sono il
Miracolo di San Bernardino dell’Eremo dei Camaldoli e lo stesso
Angelo custode della chiesa di Santa Maria degli Angeli a
Pizzofalcone.
Egli fu il più
seicentesco dei tardo manieristi ed i suoi quadri furono richiesti
fino agli inoltrati anni Quaranta, a dimostrazione di un mercato,
anche importante, di pittura intrisa da pietismo ma anche di
piacevolezza domestica, dipinti pregni di religiosità seria e
meditativa, ma di calda intonazione familiare.
Ippolito
Borghese, umbro di nascita, è attivo a Napoli a partire dal
1601 ed occuperà presto un posto di rilievo nel panorama artistico
di stampo devozionale. Le sue fonti ispirative sono non solo
quanto era stato realizzato nel cantiere della certosa di San
Martino, ma anche quanto prodotto dai fiamminghi napoletanizzati,
sostenitori della maniera tenera. Nascerà uno stile caratterizzato
da un accentuato pietismo delle immagini e da un’aria domestica
delle composizioni spesso rallegrate da legioni di leggiadri
puttini ridenti.
Tra le opere più
antiche la Crocefissione di Lucera dal sapore barroccesco,
seguita dalle due Pietà di Capodimonte e della pinacoteca
di Bari. Nel 1603 la grande pala dell’Assunzione per il
Monte di Pietà dalla pennellata vaporosa e dalla palpabile matrice
tardo manierista. Seguono le Storie di Santa Teresa per la
chiesa eponima eseguite nel 1605 e dall’esito modesto e l’Immacolata
per l’altare Amodio in Santa Maria la Nova del 1609.
Appartiene al
primo decennio anche la spettacolare Cena in casa di Marta e
Maria della Walpole Gallery, già in collezione Ganz.
In seguito
Borghese rinterza anche lui fortemente gli scuri, pur conservando
un’elevata qualità disegnativa e formale. Sono gli anni delle tele
per la chiesa dei Santi Filippo e Giacomo (1618) e del Duomo di
Perugia (1620) o della Madonna e Santi della chiesa di Santa Maria
dell’Orto di Castellammare di Stabia (1621), tutte contrassegnate
da un chiaroscuro molto marcato.
Paolo Finoglia,
uno dei più famosi caravaggeschi napoletani, fu suo allievo e da
lui erediterà una predilezione per le sete preziose e per i colori
cangianti, oltre ai gioiosi puttini a volte prelevati
letteralmente dai quadri del maestro.
Col Borghese il
tenue confine tra tardo manieristi protrudenti nel Seicento e
pittori naturalisti si fa ancora più sottile, una circostanza che
si può ben apprezzare nelle grosse committenze eseguite in
collaborazione come il soffitto cassettonato di Capua o quello di
Giugliano.
Giovanni
Baglione, romano, pittore e biografo, celebre per il processo
che lo oppose a Caravaggio, lavora nel cantiere della certosa di
San Martino e nel 1608 esegue per la chiesa del Pio Monte della
Misericordia una Deposizione sostituita poi da una Pietà
di Luca Giordano e trasferita nella quadreria. Si tratta di
una tela fondamentale nel percorso dell’artista in un momento in
cui massimo è l’influsso caravaggesco.
Pompeo Landulfo
è attivo in Italia meridionale fino al 1609, genero di Giovan
Bernardo Lama lavora nella bottega che il suocero aveva con
Silvestro Buono. Nella sua produzione riecheggiano con imitazione
fedele e pedante i modi dei suoi maestri fortemente devozionali e
con ascendenze fiamminghe.
Tra le sue opere
seicentesche, molte ancora da identificare, citiamo l’Incoronazione
della Vergine con anime purganti del 1604 e una Santa Lucia
del 1609, conservate nella chiesa del Corpus Domini di Gragnano
caratterizzate da una certa asprezza disegnativa e da una
schematicità coloristica tipiche delle sue ultime opere.
Più complessa è la
posizione di Giovan Vincenzo Forli, la cui pittura è già
più aderente alla lezione del Caravaggio. Egli fu definito dal De
Lellis “pittore di prima classe nei suoi tempi” e senza esagerare
rivestì una certa importanza nel campo dell’imprenditoria
artistica del primo quarto di secolo. Nel primo decennio eseguì
alcuni dipinti di buona qualità come le due Annunciazioni
della Croce di Lucca (1600) e dello Spirito Santo(1602). Fu tra i
primi, nella generazione di pittori tardo manieristi attivi a
Napoli, a porsi il problema delle novità portate da Caravaggio con
la nascita di una corrente di cultura naturalista e la
dimostrazione lampante è costituita dal suo capolavoro: la
Parabola del buon samaritano realizzata nel 1608 per una
cappella del Pio Monte della Misericordia, nella quale gli scuri
sembrano scimmiottare il divino luminismo del lombardo. Ebbe
occasione poi di rilevare una committenza per una grande pala
raffigurante la Circoncisione nella chiesa di Santa Maria
della Sanità, lasciata insoddisfatta dal Caravaggio.
In seguito si
trovò a collaborare con esponenti di spicco del naturalismo
napoletano nella realizzazione di grandi soffitti cassettonati:
con Vitale e Battistello (tra il 1616 ed il ’20) nella chiesa
dell’Annunziata di Capua ed in seguito (dal 1618 al ’21)
nell’Annunziata di Giugliano e nel Duomo (1621). Terminerà in
provincia nel 1639 la sua attività ripetendo stancamente formule
collaudate per committenti di minore importanza.
Nel campo delle
grandi decorazioni, dopo l’esempio del celebre Cavalier d’Arpino
nel cantiere della certosa di San Martino, dove l’artista romano,
nell’ultimo decennio del Cinquecento, è attivo col fratello ed una
numerosa bottega nella realizzazione di grandi cicli dal piacevole
tono narrativo.
Ras incontrastato
delle committenze diverrà poi Belisario Corenzio, il quale
fino al 1640 monopolizzerà il mercato che gli ordini religiosi, in
nobile gara tra loro, incrementeranno incessantemente. La sua
formazione artistica è ancora avvolta nell’ombra. Greco di origine
e trasferitosi a Napoli in giovane età è stato descritto dal De
Dominici come pittore camorrista in grado di minacciare la
concorrenza e di accaparrarsi l’enorme numeroso di committenze
dell’area napoletana, che riusciva a soddisfare grazie all’aiuto
di una numerosa bottega. “Pittore copioso ma non scelto” fu
definito dallo Stanzione, anche se non mancava di mestiere come
sottolinea lo stesso De Dominici lodando le figure ben disegnate,
il senso del colore, la varietà dei personaggi e l’ordine nelle
composizioni.
La sua produzione
è sterminata, tale da scoraggiare qualsiasi studioso a
confrontarsi in un approccio critico serio e completo.
Tra i cicli
seicenteschi segnaliamo, tra i principali, quelli
dell’Annunziata (1598 – 1612), nel Monte di Pietà (1601 – 1604),
nel Gesù Nuovo ( 1601 – 1637), in Santa Maria la Nova (1603 –
1621), nei Ss. Severino e Sossio ( dal 1607 in avanti), in Santa
Maria della Sapienza ( 1636 – 1641). Egli lavorò inoltre in molti
palazzi pubblici e privati e nello stesso Palazzo Reale dove
eseguì i Fasti della casa di Spagna e nell’Abbazia di
Montecassino.
Fu prolifico
disegnatore ed esecutore di pale d’altare, che la critica
lentamente gli restituisce come l’Annunciazione nella Pietà
dei Turchini, notoriamente attribuita al Forli e che un documento
recentemente scoperto gli assegna nel 1616.
Lavorò
incessantemente fino alla fine e chiuse con onore la sua carriera
ultraottantenne, precipitando da una altissima impalcatura nella
chiesa dei Ss. Severino e Sossio e trovando la sua sepoltura nel
punto del suo tremendo impatto.
Un piccolo spazio
saprà procurarselo Luigi Rodriguez, siciliano, fratello di
Alonzo, che comincia la sua attività nella bottega di Corenzio per
poi, divenuto autonomo lavorare nella cappella Montalto in Santa
Maria del Popolo agli Incurabili e nel refettorio del convento di
San Lorenzo. Egli si distinguerà dall’antico maestro per una più
acuta sensibilità chiaroscurale, per una tavolozza più accesa e
per un tocco lieve e delicato, che diverranno la sua firma
nascosta. Sarà autore anche di pale d’altare e di quadri da
cavalletto: nel soffitto cassettonato di Santa Maria la Nova,
secondo le fonti, esegue tutti i quadri minori di figura, nel 1605
nella chiesa dell’eremo dei Camaldoli realizza la notevole
Madonna coi santi Benedetto, Giovanni Battista, Romualdo ed
Andrea; è inoltre presente nella Concezione degli Spagnoli,
nello Spirito Santo e nel Carmine Maggiore. Molti altri dipinti ed
affreschi sono conservati,
in condizione
precarie, in altre chiese napoletane, a confermare la posizione di
rilievo occupata dall’artista nel panorama figurativo napoletano
del primo decennio.
In seguito,
ostacolato dal Corenzio, sposterà la sua attività nel salernitano
e si dedicherà anche alla miniatura, come testimoniano le ultime
tre pagine del famoso Codice di Santa Marta e
particolarmente i due spettacolari stemmi del viceré Ruiz de
Castro e della moglie donna Caterina de Zuniga.
Nel campo della
decorazione lavorano centinaia di pittori napoletani, molti dei
quali ci saranno per sempre ignoti. Tra i nomi da ricordare
citiamo Simone Papa, Onofrio De Lione e Giulio dell’Oca.
Simone Papa,
documentato fino agli anni Trenta, in Santa Maria di
Monteverginella esegue degli affreschi originali con le Storie
di san Guglielmo ed in Santa Maria la Nova lavora nel
chiostro e nel coro. In tutte le sue opere egli appalesa un
linguaggio esuberante, ricco di toni drammatici e di colori
violenti, che accendono arditi scorci prospettici.
Onofrio De
Lione, collaboratore fidato del più noto fratello Andrea nelle
imprese decorative, lavora in numerose chiese napoletane e nella
sua produzione di mediocre qualità segnaliamo un’Andata al
Calvario nella chiesa della Pietà dei Turchini, due riquadri
nella cappella di San Sebastiano in San Pietro a Maiella eseguiti
nel 1643 ed una serie di affreschi firmati del 1651 nella
sacrestia dei Ss. Severino e Sossio,
Giulio dell’Oca,
documentato fino al 1644, negli affreschi è influenzato dalla
maniera tenera di Giovannangelo D’Amato, mentre nei dipinti segue
un arido impianto devozionale. Fu pittore prediletto dai Gesuiti
per i quali, nel Collegio di Lecce, dipinse nel 1608 ben 100
quadri raffiguranti Martiri dell’Ordine. La critica gli
attribuisce la pala dell’altare maggiore nella chiesa di Santa
Maria Apparente.
A partire dai
primi anni del secolo, senza attendere il prorompente arrivo in
città del Caravaggio, si avverte nell’aria che qualche cosa sta
succedendo e lentamente tutti gli artisti, anche quelli di
prestigio cominciano a rivedere le loro posizioni cercando di
aggiornarsi. Il grande giubileo del 1600 ha condotto a Roma turbe
di fedeli e tra questi, anche se non è documentato con precisione,
sicuramente molti pittori, i quali non avevano difficoltà ad
ammirare le principali opere del grande lombardo, in gran parte a
collocazione pubblica.
Una lampante
dimostrazione di quanto asserito è rappresentata da un disegno del
Corenzio, conservato nel museo di Capodimonte, copia con varianti
di una delle tele laterali della cappella Contarelli in San Luigi
dei Francesi :”La chiamata di San Matteo”. Il foglio risente
ancora della fase manieristica di Belisario, un artista che
notoriamente non venne influenzato dalle nuove mode e continuò
imperterrito sulla sua strada, ras incontrastato nelle grandi
imprese decorative a Napoli e nel vice regno fino al 1643, quando,
ultra ottantenne, chiuse in gloria la sua attività , precipitando
da imponenti impalcature nella chiesa dei Ss. Severino e Sossio.
Più volte la
critica è andata alla ricerca di precursori meridionali del
Caravaggio ed alcuni autori hanno creduto di trovare in alcune
opere di Aert Mytens , un fiammingo conosciuto anche come Rinaldo
Fiammingo, dei segni inequivocabili del nuovo verbo. In
particolare un Cristo deriso, iniziato a Napoli e
completato a Roma, certamente prima del 1602, anno di morte del
pittore, presenta effetti chiaroscurali così manifesti ed
un’azione drammatica talmente incalzante, da far credere ad occhi
non smaliziati di trovarsi innanzi a sconvolgenti novità.
L’effetto di lume notturno adoperato dal Mytens richiama però Luca
Cambiaso e non è adoperato con fini naturalistici, mentre la
carica di realtà rappresentata sulla tela è assolutamente
generica. Ed inoltre il modo di contornare i personaggi con
precisione disegnativa ci dimostra che la pittura del fiammingo è
perfettamente in linea con i dettami del Manierismo internazionale
di Spranger e di Goltius, uno stile di grande successo che
imperversò all’epoca in tutta Europa.
Ma sarà soltanto
la sconvolgente lettura diretta della realtà e la novità di una
luce che viene dall’alto, a definire, con il magistrale gioco del
chiaro scuro, i personaggi. L’arrivo in città di questa
rivoluzione ci farà apparire all’improvviso ridicole caricature,
ai limiti del grottesco, le opere degli artisti all’ora in auge in
città, dal Curia all’Imparato, dal Rodriguez al Corenzio, dal
Borghese all’Azzolino.
Tutti si
convincono di colpo che il modo di rappresentare la pittura sacra
ha subito una svolta definitiva e gli artisti cercano di correre
ai ripari, calcando le ombre e dando agli sfondi una consistenza
più tangibile, ma per i tardo manieristi partenopei è una
battaglia persa in partenza. La ricchezza del mercato napoletano è
però ampia e differenziata e molti pittori continueranno
tranquillamente a lavorare a pieno ritmo fino a metà secolo,
soddisfacendo decorosamente una committenza devozionale.
E veniamo
all’avventura napoletana del Caravaggio, il quale, da giovane
apprendista, giunto a Roma all’età di 18 anni, seppe “costruirsi,
crescere, straripare dalle zone basse di piazza Navona, oltre
Tevere, oltralpe, oltre il suo secolo ed i secoli successivi”(Guttuso),
arrivando fino a noi come uno dei massimi pittori di tutti i tempi
e trasmettendoci il messaggio di una pittura intesa come
affermazione della verità delle cose e come coscienza della vita e
della morte.
La sua grande
capacità creativa e la sua energia innovativa seppero proporsi
come fonte d’acqua viva nell’ambiente pittorico napoletano, dove
egli trovò i suoi nuovi e più motivati seguaci. I suoi dipinti
realizzati nella capitale vicereale produssero sull’ambiente
artistico conseguenze immediate, profonde e durature.
Egli giunse in
città al culmine della sua maturità, dopo aver penetrato le
ragioni più autentiche del cristianesimo e nei suoi schemi
compositivi, spesso rifiutati dai committenti perché ritenuti poco
decorosi, gli eroi sono gli umili, i vinti, la gente della strada.
Egli nelle sue opere, col pretesto dell’iconografia religiosa, si
compiace di rappresentarci il dramma della condizione umana.
Arriva a Napoli in
fuga da Roma, che mai più rivedrà, dove in una rissa ha ucciso un
uomo, Ranuccio Tomassoni. Il Caravaggio, uomo dal carattere forte
ed irascibile era abile nelle armi quanto col pennello e la sua
spada divenne un simbolo, quasi una metafora della sua azione
incontenibile.
I due soggiorni
vanno, dal settembre 1606 al giugno del 1607, il primo,
dall’ottobre del 1609 al luglio 1610 il secondo, nuove
acquisizioni di opere napoletane sono sempre possibili, come pure
variazioni nella cronologia e nel riparto dei dipinti tra i due
distinti soggiorni.
La prima opera
documentata risale al settembre 1606, è la famosa pala Radulovic,
di cui si sono perse le tracce, mentre il 9 gennaio del 1607, tra
lo stupore e l’ammirazione generale, cade il telone che ricopriva
le Sette Opere di Misericordia nella chiesa del Pio Monte,
opera memorabile nella quale convivono la più disperata visione di
un’umanità elementare associata ad una fedele rappresentazione
didascalica dei precetti morali della Chiesa. Sembra di percepire
il fragore quasi fisico di vita passionale che prorompe dalla
tela. Alcuni brani sono indimenticabili, come la Madonna che si
affaccia al balcone della notte o la popolana che offre il seno a
nutrimento del padre carcerato, su tutto aleggia una risonanza
antica di Grecia e di Pompei.
E poi la
Flagellazione per la chiesa di San Domenico, per cui
Caravaggio riceve pagamenti nel maggio del 1607, dipinto
essenziale con una struttura compositiva di una semplicità
assoluta: due carnefici, scaricatori di porto, preparano la
vittima e dal corpo di questa si espande una luce, un biancore di
carne umana, come non ne aveva mai dato la pittura, una massa di
candore che sta per crollare, il bianco vello dell’Agnus Dei, che
a contatto con le masse muscolose dei lazzari provoca un
impressionante scatto di verità.
Tra le opere
napoletane la critica colloca anche la Madonna del Rosario
oggi a Vienna, che influenzò molti maestri locali con le sue
novità ed i suoi espedienti teatrali, atti ad imprimere un tono
solenne alla rappresentazione, come il grande tendone rosso
annodato alla colonna scanalata.
Altre opere del
primo periodo sono la Crocefissione del museo di Cleveland
e l’Incoronazione di spine del Kunsthinstoriches,
che presentano lo stesso personaggio barbuto. Ed inoltre la
Flagellazione del museo di Rouen e la Salomè con la testa
del Battista della National Gallery di Londra, che
entrambe utilizzano lo stesso modello dal volto patibolare
utilizzato nella più celebre Flagellazione oggi a
Capodimonte.
A Napoli è stata
presente in vendita per molto tempo anche una Giuditta ed
Oloferne, ora smarrita, di cui vi sono copie antiche, la più
bella al museo del Banco di Napoli, che ce ne trasmettono la
potente iconografia.
Dopo una
permanenza a Malta ed in Sicilia il pittore è di nuovo a Napoli
dall’ottobre 1609 e come sempre febbrilmente al lavoro.
L’accoglienza non è delle più festose, infatti sulla porta della
locanda del Cerriglio, dove egli alloggiava, viene sorpreso dai
sicari di Ranuccio, che lo bastonarono fino a renderlo
irriconoscibile.
Quasi tutti i
dipinti della seconda fase sono contrassegnati da uno spiccato
luminismo e da uno stravolgimento delle forme.
Un’importante
commissione fu costituita dall’esecuzione di tre tele per la
cappella Fenaroli in Sant’Anna dei Lombardi: la Resurrezione
posta sull’altare e ripetutamente citata dalle fonti antiche e dai
viaggiatori di passaggio per la sua bellezza e per la novità
dell’iconografia, che rappresentava il Cristo risorto non
spaventato ma abbagliato dalla luce che colpisce i suoi occhi
tanto a lungo immersi nelle tenebre, vi erano poi un San
Francesco che riceve le stimmate ed un San Giovanni
Battista. I quadri dopo secoli di successo ed ammirazione
furono distrutti dal terremoto del 1805.
Sono da ricordare
inoltre la Salomè con la testa del Battista del Palazzo
Reale di Madrid, i due David e Golia della Galleria
Borghese e di Vienna, la Negazione di Pietro di antica
collezione napoletana esportato clandestinamente all’estero ed
oggi al Metropolitan di New York, l’Annunciazione del museo
di Nancy ed il San Giovannino della Borghese.
Per ultimo
bisognerà accennare al Martirio di Sant’Orsola, già della
Banca Commerciale, conservato a palazzo Zevallos, che rappresenta
l’estrema testimonianza del Caravaggio prima della partenza da
Napoli e della triste morte sulla spiaggia di Porto Ercole.
Il merito della
scoperta di questo ultimo quadro, che giaceva dimenticato sotto
un’attribuzione a Mattia Preti e che perfino il Longhi riteneva
potesse trattarsi al massimo di un’opera del Manfredi, spetta in
egual misura al Bologna che, giovane ispettore negli anni
Cinquanta, ne avanzò per primo la corretta attribuzione, a Mina
Gregori che lo ha caparbiamente ritenuto opera autografa,
facendolo acquistare all’ultimo proprietario ed a Pacelli, che ha
scoperto negli archivi tutte le carte relative e ne ha
identificato la precisa iconografia nella Sant’Orsola confitta dal
tiranno, facendo sì che il dipinto sia oggi l’opera più
documentata del Caravaggio.
A Battistello
Caracciolo spetta sembra ombra di dubbio il titolo di primo
interprete del caravaggismo a Napoli. In tempi di modelli svestiti
e di lumi alzati, egli fu l’artefice ed il massimo corifeo, dopo
un decennio di pratica in ambito manieristico, in stretto contatto
e collaborazione con Belisario Corenzio, dell’introduzione di un
nuovo linguaggio figurativo, basato sull’essenzialità del
racconto, sulla drammaticità della scena fissata da squarci di
luce abbagliante, sulla messa a fuoco dei personaggi, pur
conservando una certa cura nella definizione dei contorni.
La sua
Immacolata Concezione, affollato telone di inquietante
vitalità, nella chiesa di Santa Maria della Stella, documentata al
1607, ci mostra un pittore già maturo nel trattamento della luce e
nella resa del dato naturale, pochi mesi dopo la sfolgorante
apparizione delle Sette opere di Misericordia del
Caravaggio nella chiesa del Pio Monte, segno evidente che
Battistello aveva già attinto a Roma in precedenza la lezione del
luminismo, che continuerà ad esprimere in altri dipinti di
altissima qualità quali il Battesimo di Cristo dei
Gerolamini, la serie degli Ecce Homo e la Crocefissione
del museo civico di Castelnuovo.
Dopo un soggiorno
di studio a Roma, nel 1615, data del suo ritorno a Napoli, ecco
che Battistello nella Liberazione di San Pietro dal carcere
ottiene raffinati effetti di luce di un chiarore limpidissimo
associati ad un rigoroso trattamento degli aspetti cromatici.
Seguono altre opere importanti come la Trinitas terrestris
della Pietà dei Turchini, documentata al 1617 e poi, dopo il
soggiorno fiorentino, con la Lavanda dei piedi, la
grande tela che il Caracciolo nel 1622 dipinge per il coro della
chiesa della certosa di San Martino, termina la fase luministica
ed inizia il processo di involuzione, vera marcia a ritroso verso
le sue origini manieristiche quasi neo corenziane. L’audace
sperimentatore volge la bussola verso nuove soluzioni formali, pur
senza tradire del tutto la lezione caravaggesca; comincerà la
definizioni di ampie composizioni a carattere monumentale, con una
grande cura della definizione spaziale ed una luce bronzea
dominerà la tavolozza di tutta la sua ultima produzione. Il
Battistello riuscì così a dimostrare quali effetti di pacata
commozione si potessero trarre da una luce che contrastasse con
l’ombra sul filo di una linea sinuosa e melodica.
Appartengono a
questi anni la Sacra famiglia e San Giovannino, conservato
nel Liechtenstein, il San Sebastiano del Fogg Art Museum di
Harvard, il bozzetto di Sant’Ignazio in gloria del Correale
di Sorrento e la Gloria di San Gennaro tra i santi
patroni di Napoli della chiesa della certosa di San
Martino.
A differenza del
Caravaggio il Caracciolo si dedicò all’affresco, ove le sue
pregevoli doti di disegnatore rifulgono nella resa volumetrica e
nella calibratura delle composizioni.
Un lungo processo
sostanzialmente uniforme nella qualità, sempre molto alta, da San
Martino a Santa Maria la Nova, da Santa Teresa agli studi a San
Diego all’Ospedaletto, ove si dedica anche alla pittura di
paesaggio, dal palazzo Reale all’Oratorio dei Nobili al Gesù
Nuovo, ove lavorerà con il Lanfranco poco prima della sua morte.
Sulla sua bottega
non sappiamo molto, conosciamo pochi nomi di artisti mediocri:
Carlo Mercurio, Giacomo Di Castro, Marc’Antonio del Santo, i due
figli Carlo e Pompeo, Giuseppe Guido ed il Maestro di Fontanarosa.
Carlo Mercurio,
ricordato dall’Ortolani, esegue nel 1657 una Nascita della
Vergine per la chiesa di Monteverginella e quattro tele nel
transetto destro in San Pietro Martire con episodi della vita del
santo.
Giacomo Di
Castro viene indicato dal De Dominici tra i suoi allievi e più
che pittore fu restauratore e faccendiero. Gli appartengono alcuni
dipinti nelle chiese di San Michele e Sant’Agnello a Sorrento. Nel
Pio Monte Causa gli assegnò una tela raffigurante la Vergine e
Sant’Anna, che si conserva a due passi dalla celebre opera del
Caravaggio.
Marc’Antonio
del Santo esegue nella chiesa della Trinità dei Pellegrini
un’Immacolata Concezione databile al 1651- 1652.
Di Pompeo
Caracciolo abbiamo una Visione di San Tommaso, firmata
e datata 1645 nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di
Sorrento.
Giuseppe Guido
è l’autore nel 1632 della parte bassa dell’Assunzione della
Vergine nel soffitto cassettonato di San Gregorio Armeno e si
può pensare a lui per il Maestro di Fontanarosa, un
pittore che prende il nome dall’Ultima cena della
parrocchiale di Fontanarosa alla quale si possono collegare
numerosi altri dipinti in precedenza assegnati al Battistello ed a
Filippo Vitale dal San Bartolomeo dei Gerolamini al San
Giovanni Battista di collezioni Pisani a Napoli oltre a
numerosi dipinti transitati sul mercato.
Tra i pittori
napoletani che tributarono al Merisi l’accoglienza più
entusiastica vi è in prima fila Carlo Sellitto, nato
culturalmente in ambito tardo manierista filtrato
dall’insegnamento del fiammingo Lois Croise, per accogliere poi il
nuovo messaggio e dar luogo a composizioni drammatiche, animate da
un’intensa tensione emotiva e da una spasmodica ricerca di verità,
con un dominio della luce che modella le immagini attraverso un
sottile gioco di ombre patognomonico del suo stile.
La sua prima
opera documentata, unica firmata, è del 1606 e si trova in
provincia ad Aliano. Essa raffigura una Madonna in gloria con
donatore e nonostante l’impronta manieristica baroccesca
presenta in basso un’immagine del committente dalla precisione
ottica stupefacente, a lampante dimostrazione dell’abilità
dell’artista come ritrattista. Sempre in Basilicata, terra natia
del pittore, è conservata a Melfi una Madonna del suffragio con
anime purganti, intrisa di naturalismo con la luce che
evidenzia le figure ed i gesti, sottolineando la drammaticità
della scena.
In ambiente
napoletano la sua più importante commissione lo impegnerà dal 1608
al 1612 in Sant’Anna dei Lombardi nella cappella Cortone,
nell’esecuzione di un ciclo su San Pietro, dove ha l’occasione di
lavorare al fianco di Caravaggio attivo nella cappella Fenaroli e
del Caracciolo operante nella cappella Noris Correggio. Un
cataclisma, distruggendo la chiesa nel Settecento, non ci ha
permesso un confronto tra le opere in gran parte distrutte. Delle
cinque eseguite dal Sellitto se ne sono salvate soltanto due,
segnate da un fascio luminoso potente che scandisce i corpi nel
ritagliarsi violento delle ombre.
In seguito egli
esegue, tra il 1610 ed il 1613, il San Carlo per la chiesa
di Sant’Antoniello a Caponapoli e la splendida Santa Cecilia
all’organo per la chiesa della Solitaria, entrambe oggi a
Capodimonte, l’Adorazione dei pastori per la chiesa degli
Incurabili e la Visione di Santa Candida per Sant’Angelo al
Nilo, percorsa da un brivido di luce calda e avvolgente.
Altre opere da
aggiungere al suo scarno catalogo sono la Santa Lucia del
museo di Messina ed il David e Golia del museo nazionale
della Rhodesia.
Un segno
tangibile del prestigio raggiunto dal pittore presso la
committenza fu l’incarico, nel 1613, di eseguire una
Liberazione di San Pietro da collocare su un altare del Pio
Monte della Misericordia, ma l’opera per l’improvvisa morte del
Sellitto fu poi affidata al Battistello.
Egli lasciò nella
sua bottega numerose tele incompiute, tra cui il Crocefisso
per la chiesa di Portanova, oggi purtroppo scomparso per un
ignobile furto ed il Sant’Antonio da Padova per i
governatori di San Nicola alla Dogana, ricco di un gioco luminoso
sui volti ed in cui si può leggere come segno distintivo, quasi
una firma nascosta del pittore, il classico tocco di luce sulle
fisionomie dei personaggi, che si può apprezzare anche nella
famosa tela di Santa Cecilia all’organo.
Nel suo atelier
vi erano anche una serie di quadri di natura morta, di paesaggio
ed è inoltre noto dai documenti che fu celebre ritrattista,
ricercato da nobili e borghesi, una produzione al momento
completamente sconosciuta agli studi eccetto poche esempi. Tra
questi possiamo segnalare il Ritratto di gentildonna in vesti
di Santa Cecilia, transitato più volte sul mercato, nel
quale si avverte un contemperamento dei caratteri caravaggeschi
con intenerimenti classicistici e preziosismi cromatici di matrice
reniana, consentaneo alla presenza a Napoli nel 1612 del divino
Guido.
Il Bacco
del museo di Francoforte, variamente attribuito negli anni, è
certamente opera del Sellitto, intorno al 1610, per le stringenti
affinità nel gioco delle ombre con l’angioletto della Santa
Cecilia, clone perfetto che richiama a viva voce lo stesso
pennello e per lo splendido brano di natura morta ci conduce agli
esordi della pittura di genere in area napoletana.
Alla fase
luministica del caravaggismo appartiene l’attività giovanile di
Filippo Vitale, un artista di rilievo, quasi completamente
trascurato dalle fonti antiche e la cui personalità è stata
ricostruita solo negli ultimi decenni.
Egli è
imparentato con Annella e Pacecco De Rosa di cui è patrigno, con
Giovanni Do, Agostino Beltrano ed Aniello Falcone di cui è
suocero. Un tipico esempio di quella ragnatela di parentele che
lega molti altri pittori napoletani del primo Seicento, i quali
abitarono quasi tutti nella zona delimitata tra piazza Carità e lo
Spirito Santo, vera Montmartre dell’epoca. Su tanti intrecci ci ha
illuminato la ricerca durata un’intera vita di un benemerito
erudito, il Prota Giurleo, il quale con certosino lavoro di
spulcio di processetti matrimoniali, testamenti, fedi di
battesimo, polizze di pagamento ed inventari, ha fornito ai
critici una mole enorme di dati e di documenti sulla quale
lavorare per ricostruire la personalità di tanti artisti.
Vitale è allievo
di Sellitto del quale completa il Crocefisso di Santa Maria
in Portanova ed anche lui lavora in Santa Anna dei Lombardi, dove
riceve dai Noris Correggio per un San Carlo Borromeo un compenso
molto alto di duecento ducati.
Dipinge poi la
Liberazione di San Pietro dal carcere del museo di Nantes, il
San Sebastiano conservato a Dublino e il
Sacrificio di Isacco del museo di Capodimonte Tra il 1617 ed
il ’18 è impegnato ad eseguire otto tele per il soffitto
dell’Annunziata di Capua, che purtroppo versano oggi in pessimo
stato di conservazione.
Successiva è la
grande pala dei Santi vescovi, già in San Nicola alle
Sacramentine di un intenso naturalismo impregnato dalla lezione
caravaggesca, nella quale si possono ipotizzare anche scambi
culturali con Tanzio da Varallo dotato di un più intenso senso
luministico.
In seguito si
avvicina ai modi di Ribera raggiungendo il culmine del suo
percorso naturalistico con il San Sebastiano della chiesa
dei Sette dolori e l’Angelo custode della Pietà dei Turchini, il
suo capolavoro, uno dei quadri più importanti del Seicento
napoletano, dal poderoso impianto compositivo, nel quale al
ricordo del valenzano si impongono suggestioni di rigoroso
naturalismo, potente creazione in cui è facile leggere nel volto
dei personaggi la rabbia e il disappunto, la serenità e la
giustizia, il candore e l’innocenza.
La Deposizione
della chiesa di Regina Coeli, firmata e databile intorno al 1635
apre una fase di crescente inclinazione prima in senso
pittoricistico e poi decisamente classicista, che sfocerà
nell’ultimo decennio in una fase pacecchiana, dopo un lungo
periodo di collaborazione col figliastro. La sua tavolozza divenne
sempre più smaltata e ricca di colori luminosi e vivaci come si
avverte nella Fuga di Loth da Sodoma, firmato e
datato 1650, di collezione privata pendant di un Rachele e
Giacobbe realizzato dal De Rosa.
Numerose sono le
tele a quattro mani che la critica, progredite le cognizioni sui
due artisti, ha identificato, dalla Madonna e San Carlo di
San Domenico Maggiore alla Gloria di Sant’Antonio
conservato nell’eponima arciconfraternita in San Lorenzo, mentre
molti dipinti risentono ancora di scambi nella paternità tra i due
parenti e necessitano di percorrere un arduo sentiero attributivo
avvolto ancora più da ombre che da luce.
Tra i
caravaggisti minori attivi a Napoli bisognerà ricordare Tanzio da
Varallo, Alonso Rodriguez, ed Antiveduto Grammatica.
Tanzio da
Varallo, provinciale nordico di cultura manieristica e di
spirito controriformato, ingegno vivo ed ardente di passione,
raggiunge già intorno al 1612 un così alto grado di severità
iconica espressa in forma naturalistica da prefigurare ed
anticipare lo Zurbaran più ispirato. Scoperta relativamente
recente è la sua attività in Abruzzo, ma anche nella capitale
vicereale dove gli sono state assegnate prima dal Longhi e poi dal
Bologna le due grandi pale di Pescocostanzo e di Fara San Martino
ed a Napoli i frammenti di Santa Restituta. Palpabile è la
tangenza fra le sue opere prima del 1616 e vari dipinti napoletani
specialmente di Filippo Vitale, sul quale un influsso notevole è
consistito nell’accentuata asprezza del linguaggio e nella
lucidità di espressione.
Su Alonzo
Rodriguez, dopo l’attenzione dedicatagli dal Causa, che cercò,
nel 1972, sulla guida delle precedenti ricerche del Moir e sulle
notizie fornite dal biografo siciliano Sisinno, di ricostruire la
sua attività a Napoli, Negri Arnoldi è ritornato sull’argomento.
Rilevando l’intensità dell’ascendente caravaggesco nei dipinti
messinesi, riferibili alla fase più antica del maestro ed
ipotizzando che egli, dopo un primo soggiorno nell’ultimo decennio
del secolo presso il fratello Luigi, anche egli pittore,
ritornasse nella capitale vicereale a cavallo del 1606 - ’07, in
contemporanea al Caravaggio. Tali considerazioni accrescono
l’importanza dell’innesto di Alonzo Rodriguez nel momento cruciale
del caravaggismo napoletano subito dopo la scomparsa del Sellitto
e la sua influenza non solo sulla pittura partenopea, ma anche su
quella iberica, perché molte sue opere raggiunsero in quel periodo
la Spagna, dove funsero da modello nei primi tempi del naturalismo
iberico.
Tutt’altra
vicenda toccò invece ad Antiveduto Gramatica, di una
generazione più anziano degli altri. Al quale l’aver avuto nella
propria bottega, intorno al 1590, nientemeno che Caravaggio in
persona, non impedì di continuare a dipingere stancamente ed a
lungo con moduli tardo manieristici appena sfiorati dal lume. Ma
quando infine, all’improvviso, poco prima degli anni Venti, si
convertì al caravaggismo, il risultato fu una serie di opere sulla
vita di San Romualdo, tra Frascati e l’eremo dei Camaldoli a
Napoli, con i suoi bianchi luminosi di una luce chiarissima, che
intensifica i volumi fino alla sublimazione, in un clima di estasi
mistica, che regge il confronto con le tele del massimo pittore
religioso del secolo, lo spagnolo Zurbaran.
Per completare il
panorama sul corteo di seguaci della lezione caravaggesca in area
meridionale bisogna accennare a quel gruppo di stranieri,
prevalentemente nordici, spesso noti con nome di convenzione,
alcuni di livello molto alto, sui quali gli studi sono in ritardo
anche per la scarsità di documenti di pagamento.
Mentre
un coacervo di personalità maggiori e minori lavora a stretto
contatto di gomito nell’ultima fase del luminismo napoletano,
intorno al terzo decennio, va segnalata l’opera di Paolo
Finoglia, che con i suoi primi lavori dimostra già una grande
maturità tale da farlo considerare uno dei più importanti tra gli
antichi maestri.
Il De
Dominici lo include tra gli stanzioneschi, ma noi preferiamo
trattarne sull'onda delle ultime battute del caravaggismo in area
napoletana.
Una
formazione tardo manierista, all’ombra di Ippolito Borghese, che
lentamente si trasforma in una piena adesione ai fatti del
caravaggismo, sotto l’influsso del Battistello, ma soprattutto di
Antiveduto Gramatica, le cui tele del 1620 per l’eremo dei
Camaldoli rappresentano il prototipo ispiratore per la serie di
lunette con i dieci santi fondatori di ordini religiosi per la
sala del Capitolo a San Martino. È documentata al 1626 la
Circoncisione, sempre nel Capitolo di San Martino, la quale
sembra già opera più matura delle lunette, alto esempio di
luminismo rischiarato in contiguità alle esperienze del Vouet e
del Battistello della Liberazione di San Pietro dal
carcere. Scandaglio minuzioso dei particolari, asciuttezza e
rigore nella rappresentazione, ricercatezza del disegno ed un
cromatismo pieno ed abbagliante fanno la grandezza del Finoglia,
che in seguito nell’Immacolata di San Lorenzo Maggiore del
1629 seppe fornirci in un «miracoloso fruscio di sete e di rasi
nella notte» (Causa), un’immagine di grande monumentalità.
Altro
suo capolavoro della maturità è il «Giuseppe con la moglie di
Putifarre» del Fogg Museum di Cambridge, in cui egli aggiorna la
sua tecnica pittorica, sotto la suggestione di Artemisia
Gentileschi, prendendo definitivamente congedo dalle prime
esperienze tardo manieriste e giungendo alla esperienza di
«materie cromatiche luminose ed iridiscenti come rasi fruscianti»
(Spinosa).
Quando
già è un artista di successo il Finoglia si trasferisce in Puglia,
chiamato dalla nobile famiglia degli Acquaviva d’Aragona e lì per
il castello del conte esegue una serie di dieci tele con episodi
della Gerusalemme Liberata oltre a numerose pale d’altare per
varie chiese tra Monopoli e Conversano.
Il
livello qualitativo delle sue opere rimane molto alto, oggi che la
critica ha sfrondato, grazie alle ricerche del D’Elia, la sua
produzione in terra di Puglia dall’apporto spurio di allievi ed
imitatori, contraddicendo all’ipotesi che il Finoglia si fosse
ritirato in provincia per un calo di tensione artistica: anzi la
sua pittura acquisisce rari impreziosimenti grazie all’apporto di
nuovi fermenti vandyckiani e neoveneti.
Il
Miracolo di San Domenico della chiesa dei SS. Cosma e Damiano
a Conversano, una delle sue ultime opere è da considerare tra i
risultati più alti di tutto il naturalismo napoletano ad indirizzo
luministico.
Tra i
suoi allievi in terra di Puglia degno di menzione è Carlo Rosa
nativo di Giovinazzo già attivo a Napoli a Santa Maria della
Sapienza ed ai Santissimi Apostoli, quindi, ritornato in patria
per divulgare il verbo stanzionesco, e postosi al seguito del
Finoglia ne porta a compimento dopo la sua morte gli affreschi
nella chiesa dei Santissimi Cosma e Damiano. Molto bella è la sua
Battaglia di Clavijo nella cattedrale di Monopoli vicino
Bari. Francesco Antonio Altobello è a sua volta suo allievo
e porta da Napoli in Puglia il messaggio giordanesco giungendo a
discreti risultati.
Dei
due artisti daremo un più dettagliato profilo quando parleremo
degli stanzioneschi.
Tra gli stranieri
attivi a Napoli Louis Finson è da tempo noto alla critica,
non solo come artista ma anche come mercante di quadri; egli fu
infatti proprietario della Madonna del Rosario, rifiutata
dai committenti perché giudicata indecorosa ed oggi a Vienna e di
una perduta Giuditta ed Oloferne, della quale ci ha
lasciato una copia conservata nel museo del Banco di Napoli. Egli
prese per moglie una napoletana e fu presente in città a partire
dal 1604 e certamente fino al 1612, quando firma l’Annunciazione
di Capodimonte con la dizione fecit in Neapoli. La sua
pittura è secca ed elementare, compendiaria nel disegno e poco
attenta ai problemi della luce, con una predilezione per il
dettaglio aneddotico. Egli aveva, come pochi altri pittori, libero
accesso allo studio del Caravaggio e tra le sue tele replicò
numerose volte la Maddalena Klain, nella quale aggiunse il
dettaglio di un teschio assente nell’originale. Ebbe come socio
Abraham Vinck, celebre ritrattista a giudicare dai numerosi
documenti di pagamento che coprono tutto il primo decennio, ma che
attendono ancora di essere collegati ai rispettivi dipinti. Il
loro soggiorno in città incise sulla loro formazione al punto che
quando si trasferirono ad Amsterdam erano definiti napoletani.
Un altro collaboratore napoletano del Finson, tra il 1611 ed il
’12, fu Marten Hermans Faber, personaggio estroso e
multiforme, attivo anche come ingegnere ed architetto, del quale
non sono stati ancora identificati opere certe
Tra i nomi di
convenzione il più antico è il Maestro di Resina, un
pittore transalpino, forse lorenese, attivo in città nel secondo
decennio del secolo XVII, il quale fece la sua apparizione con una
pala d’altare raffigurante una Fuga in Egitto alla mostra
tenutasi nel 1954 sulla Madonna nella pittura del Seicento a
Napoli. La scena di una intensa commozione presenta delle
trasparenti preziosità nella veste della Vergine, il tutto immerso
in un’atmosfera di pacato sentimento. In seguito il catalogo
dell’anonimo pittore si è accresciuto con l’identificazione, da
parte del Bologna, della stessa mano nel Cristo che lava i
piedi di palazzo Spinola a Genova e nel Sacrificio
di Isacco di collezione privata bolognese; le stesse
inconfondibili teste di vecchi dalle stanche mani anchilosate, la
stessa geometria luminosa.
Il Maestro
dell’Emmaus di Pau è una figura di primo piano nel panorama
del primo caravaggismo a Napoli, ricostruita dal Bologna attorno
ad una Cena in Emmaus già presso l’antiquario Heim, dove
era stata studiata da Longhi ed acquistata in seguito dal museo
della cittadina francese. Affianco a questa tela sono associabili
un Martirio di San Sebastiano di collezione privata, un
Santo condotto al martirio di raccolta napoletana, già
presentato alla rassegna di Civiltà del Seicento come Finson, un
Astronomo del museo di Montargis e di recente una
Negazione di Pietro di collezione milanese. Tutti dipinti
segnati da una crudezza arcaica nell’impaginazione e dalla
medesima qualità nel sintetismo luministico e formale.
L’utilizzo comune
di alcuni modelli presenti in opere di Filippo Vitale ha fatto
ipotizzare a qualche studioso di trovarsi al cospetto di una fase
antica dell’artista, come pure una traccia da perseguire nella
ricerca di un nome per lo sconosciuto maestro è di reperire
qualche tela attribuibile ad Abraham Vinck, noto come celebre
ritrattista e fornito di innumerevoli documenti di pagamento.
Infatti una caratteristica fondamentale di questo anonimo maestro,
precorrendo Ribera, è l’abilità di compiere una profonda
introspezione psicologica dei personaggi raffigurati, indagati
spietatamente nella debolezza e nel decadimento della carne, al
punto da farne uno dei più abili ritrattisti del primo decennio.
Di altri artisti,
prevalentemente stranieri, per i quali è stato coniato il termine
di amici nordici del Caravaggio, il Bologna ha delineato alcune
figure: il Maestro dell’Emmaus di Sarasota ed il Maestro
del San Pietro liberato di Aurillac, ma nuovi studi
sono necessari per illuminare le loro personalità artistiche e per
cercare un nome a questi nuovi ed ancora poco conosciuti
comprimari del caravaggismo napoletano. Del Maestro del Gesù dei
dottori accenneremo a proposito del Do.
Tra questi
artisti stranieri un posto a sé, del tutto originale, spetta a due
pittori lorenesi, presenti a Napoli nei primi decenni del secolo
ed in passato confusi sotto la stessa denominazione di Monsù
Desiderio. Parliamo di Didier Barra e di Francoise De Nomè, di
due anni più giovane.
Didier Barra
è un vedutista scrupoloso ed attento ai particolari topografici,
acuto illustratore dei panorami della città e dei dintorni, che
egli documenta fedelmente con una tecnica personalissima, detta a
volo d’uccello. Egli collabora con alcuni pittori napoletani e
bellissima è la veduta della città di Napoli eseguita nella parte
inferiore della famosa tela di Onofrio Palumbo, conservata nella
chiesa della Trinità dei Pellegrini.
Francois De
Nomè viceversa è pittore di cataclismi propenso alla
divagazione fantastica, all’estro ed alla stravaganza inventiva,
specializzato in capricci architettonici dominati da una tensione
surreale metafisica, che ha dato luogo a più di un tentativo di
spiegazione in chiave psicoanalitica.
Amante del
meraviglioso e del sorprendente egli trasfuse tutto ciò nella sua
pittura fantastica. Intenso fu il rapporto di scambio culturale
con la colonia fiamminga di Napoli, con il Croise, maestro del
Sellitto e con vari manieristi nordici quali il Lawers e lo
Swanenburgh conosciuto a Napoli.
Nella sua scia
lavorano una serie di seguaci ed imitatori che solo gli ultra
specialisti riescono a distinguere e tra i quali segnaliamo il
Maestro di Malta.
Una volta
distinte le diverse caratteristiche dei due pittori è stato
possibile ridefinire il loro catalogo ed è stata precisata anche
l’opera e la figura di Cornelio Brusco, che spesso completa
con vivaci figurine le fantastiche architetture del De Nomè e che
oggi la critica tende ad identificare col Filippo D’angeli, sotto
la cui denominazione il Longhi nel 1957 raccolse una serie di
opere denotanti la stessa mano.
Nel 1616 giunge a
Napoli Jusepe Ribera che rappresenterà una delle figure più
importanti del Seicento europeo; valenzano di nascita, ma
napoletano a tutti gli effetti per scelta culturale, interessi
familiari, affinità di sentimenti. A Napoli avrà residenza,
affetti, lavoro, protezione e per alcuni anni sarà protagonista
assoluto e punto di riferimento indiscusso.
La sua bottega
che forgerà alcuni dei maggiori pittori del secolo dal Maestro
degli Annunci ai due Fracanzano, dal Falcone a Salvator Rosa, allo
stesso Giordano, sarà un punto di riferimento e di scambio
culturale anche verso la Spagna, ove giungerà gran parte della sua
produzione, mentre dal Murillo allo Zurbaran, fino allo stesso
Velazquez, ospite del Ribera per alcuni mesi nel 1630, perverrà a
Napoli l’eco della migliore pittura spagnola, il cui influsso
possiamo cogliere agevolmente da un’attenta lettura di molte opere
del Finoglia, del Falcone, del Vaccaro, del Guarino e di tanti
altri ancora.
Le sue opere
ebbero una notevole diffusione anche per la sua abilità di
incisore, grazie alla quale egli riproduceva e moltiplicava le sue
opere più significative.
Poco sappiamo
della sua giovinezza, la tradizione gli assegna come maestro il
Ribalta, dal 1611 al 1616 è a Roma, dove con i caravaggisti
stranieri, legati da un realismo descrittivo dagli effetti
caricati, ci sarà uno scambio fecondo di idee e di esperienze. Di
recente è stata proposta una diversa ricostruzione della sua
produzione romana con lo spostamento nel suo catalogo dei dipinti
precedentemente assegnati al Maestro del Giudizio di
Salomone, ipotesi che per il momento non ha convinto gran
parte degli studiosi. Certamente da respingere la pretesa di
attribuire al Ribera la Negazione di Pietro della sacrestia
della Certosa di San Martino che è opera di un ignoto caravaggista
nordico attivo intorno al 1620.
Al periodo romano
intorno al 1614 – 1615 è da collocare la serie di dipinti
personificanti i cinque sensi, nota inizialmente da copie
seicentesche e per il racconto delle fonti (Mancini) ed in seguito
identificata in tele certe del Ribera: dal Gusto di
Hartford al Tatto di Los Angeles, dalla Vista di
Città del Messico all’Olfatto di una collezione madrilena.
A quegli anni appartiene anche, per evidenti affinità stilistiche,
lo splendido Democrito presso Pietro Corsini a New York.
Giunto nel maggio
del 1616 a Napoli egli sposerà la figlia del pittore Giovan
Bernardo Azzolino ed entrerà nelle grazie del viceré, il duca di
Osuna, che diventerà il suo protettore, come lo saranno in seguito
tutti i potenti di Spagna, presso i quali il suo prestigio sarà
illimitato. Egli del luminismo diede una sua personale
interpretazione: il realismo caravaggesco fu infatti profondamente
drammatico e sintetico, quello di Ribera fu analitico,
caricaturale fino al grottesco.
Il Ribera si
abbandona ad un verismo esasperato al di là di ogni limite
convenzionale col suo pennello intriso di una densa materia
cromatica, con un vigore di impasto che ricorda l’accesa
policromia delle più crude immagini sacre della pittura spagnola
coeva, segno indefettibile della sua mai tradita hispanidad,
ignara dei risultati della pittura rinascimentale italiana. Ed
ecco rappresentato un infinito campionario di umanità disperata e
dolente, ripresa dalla realtà dei vicoli bui della Napoli
vicereale con un’aspra e compiaciuta ostentazione del dato
naturale.
Con una tavolozza
accesa vengono rappresentati con enfasi appassionata e senza
alcuna pietà santi ed eremiti penitenti, sadicamente indagati
nella smagrita decadenza dei corpi consunti, dalla epidermide
incartapecorita e grinzosa, dagli occhi lucidi e brillanti,
martirii efferati e spettacolari, giganti contorti in
esasperazioni anatomiche, repellenti esempi di curiosità naturali:
donne barbute e bambini storpi dal sorriso ebete; tipizzazioni
mitologiche spinte fino all’osceno, come la ripugnante figura del
Sileno nella dilagante rotondità dell’enorme ventre pendulo; il
tutto con un tono superbo e crudele e con accenti di grottesca
ironia e di cupa drammaticità.
Lentamente la
brutalità delle sue prime composizioni che fece esclamare al Byron
che il Ribera”imbeveva il suo pennello con il sangue di tutti i
santi” cedette ad una maggiore ricerca di introspezione
psicologica dei personaggi e ad un lento allontanamento dal
tenebrismo per approdare, sotto l’influsso della grande pittura
veneziana e dal contatto con la pittura fiamminga di radice
rubensiana e vandychiana, a nuove soluzioni di “chiarezza
pittorica e di rinnovata cordialità espressiva che culmineranno
nello splendido Matrimonio di Santa Caterina del
Metropolitan di New York “sintesi superba di naturalismo,
classicismo e pittoricismo in una sublime armonia di luci e
colori” (Spinosa).
Dopo il 1640 una
grave malattia limitò di molto la sua attività, anche se la
collaborazione di una bottega molto valida gli permise di
immettere sul mercato ancora molte opere, spesso da lui firmate
anche se eseguite solo in parte.
Anche nella piena
maturità Ribera non rinuncia a certi effetti ottenibili solo
attraverso contrasti di luce ed ombra e con la grande Comunione
degli apostoli completata nel 1651 per i monaci della certosa
di San martino egli ci regala la sua ultima opera, che esprime la
summa del suo stile, perché ad una visione naturalista del volto
degli apostoli si accoppia una solenne scenografia di puro stampo
veronesiano.
La bottega del
valenzano assunse a Napoli un’importanza fondamentale e fu un polo
di riferimento culturale per un’intera generazione di pittori,
alcuni direttamente suoi allievi, altri come il Giordano, che si
formò giovanissimo sui suoi esempi, esercitandosi nell’imitazione
a tal punto da sconfinare nel plagio. Il messaggio riberesco si
irradiò non solo a Napoli ed in Italia ma in tutta Europa,
principalmente in Spagna e fu rappresentato da una pittura che,
nata sotto l’influsso del luminismo caravaggesco, seppe cogliere e
tradusse in immagini la realtà più intima degli uomini e volle
parlare più al cuore che alla mente.
Tra i suoi
allievi il più contiguo al suo stile fu il suo conterraneo
Giovanni Do, il quale, come ci racconta il De Dominici, fu
“tanto verace imitatore del Ribera suo maestro, che le copie erano
prese per originali…massimamente alcune figure di filosofi e di
san Girolamo, che nel maneggio del colore e nel girar dell’impasto
eran tutt’uno”.
Il catalogo
dell’artista, è ancora tutto da definire perché al momento l’unica
sua opera certa e l’Adorazione dei pastori conservata nella
sacrestia della chiesa della Pietà dei Turchini, quadro di
altissima qualità, che ce lo rivela come una personalità vigorosa
dalla complessa cultura figurativa.
I documenti ci
rammentano che fu a Napoli dal 1623, sposò tre anni dopo una
sorella di Pacecco de Rosa ed ebbe dieci figli. Fu autore di molte
opere, ricordate in numerosi inventari sia a Napoli che in Spagna,
ma allo stato degli studi la critica ha solo avanzato qualche
ipotesi attributiva segnalando alcuni dipinti che denunciano
lampanti somiglianze col quadro napoletano. Essi sono la
Vergine con il Bambino del Louvre e due Adorazioni dei
pastori, una presso la National Gallery di Londra e l’altra
dell’Accademia di San Fernando di Madrid.
Da espungere il
Cristo tra i dottori di collezione Recchi a Torino, che
Longhi nel 1968 attribuì al Do e che il Bologna ha ritenuto di
farne l’opera capofila da cui ricostruire il catalogo di un
artista ancora anonimo, attivo a Napoli negli anni Trenta, che si
espresse con opere di altissima qualità e che per il momento
bisognerà accontentarsi di definire come Maestro del Gesù dei
dottori.
Di recente il De
Vito ha ripetutamente proposto di assegnare tutte le opere del
Maestro dell’Annuncio ai pastori al Do sulla base di una
controversa lettura della firma del pittore su alcuni dipinti.
Tale ipotesi è stata accolta favorevolmente da una parte della
critica, ma necessita di nuove e più probanti conferme.
Giovanni Do vivrà
fino alla peste e sarà stato certamente in prima fila nel momento
di ripresa naturalistica che a Napoli fiorirà nel quarto decennio
ed avrà tra i suoi esponenti, oltre al Guarino, anche artisti
stranieri come i due Van Somer e lo Stomer e personalità minori in
corso di definizione come il Ricca ed il Manecchia.
Hendrick Van
Somer è, tra gli allievi del Ribera ricordati dal De Dominici,
un artista dalla forte anche se disordinata personalità. La
definizione del suo catalogo è particolarmente difficile per la
contemporanea presenza a Napoli di due artisti con uguale nome e
cognome, uno, figlio di Barent ed un secondo, figlio di Gil. Il
primo nato nel 1615 e morto ad Amsterdam nel 1684, il secondo,
nato nel 1607 e scomparso forse durante la peste del 1656,
presente in città dal 1624.
Al primo la
critica assegna il Battesimo di Cristo, eseguito per la
chiesa della Sapienza nel 1641 ed un Martirio di San Bartolomeo,
gia in collezione Astarita a Napoli.
Per il secondo
Bologna e Spinosa hanno ricostruito un percorso artistico più
articolato con dipinti che, dopo un periodo di osservanza
riberiana, sfociano nel nuovo clima pittoricistico di matrice
neoveneta che maturò a Napoli intorno alla metà degli anni Trenta,
un momento in cui cominciò a prevalere il cromatismo sul
luminismo. La sua pittura, che tradisce l’origine fiamminga e la
dimestichezza con i caravaggisti nordici, è caratterizzata dal
viraggio della luce verso una pacatezza dei colori ed un contenuto
iconografico severo.
Le opere che
possono essergli attribuite sono oramai numerose dal Sant’Onofrio
della collezione Cicogna di Milano alla Guarigione di Tobia
del museo del Banco di Napoli, dall’Estasi sul tamburo, già
presso l’antiquario Lucano di Roma alla Decollazione del
Battista della collezione Bernardini di Padova.
In seguito il Van
Somer impreziosisce la sua tavolozza alla ricerca di esiti sempre
più spinti di raffinatezza formale ed è il periodo del Sansone
e Dalila già nella raccolta dei principi Firrao, del Loth e
le figlie già presso Heim a Londra, del David con la
testa di Golia, siglato di una raccolta romana e dello
stupendo Venere ed Adone di una collezione napoletana.
Del 1635 è la
Carità già nella collezione Bosco, siglata, mentre le sue
ultime opere sono il San Girolamo della Trafalgar Galleries
di Londra e della Galleria Borghese di Roma, rispettivamente
siglato 1651 e firmato 1652.
Matthias
Stomer fa parte della seconda ondata del caravaggismo a Napoli
e nelle sue opere è tangibile il riferimento al naturalismo di
Ribera.
Egli nasce ad
Amersfoort, ma trascorre quasi tutta la sua vita in Italia, prima
a Roma, ove intorno al 1630 eseguì dipinti caratterizzati da
grande nobiltà di composizione, quindi a Napoli, per circa dieci
anni e poi in Sicilia dove concluse la sua attività e si
specializzò in notturni dai toni caldi e vigorosi.
Fu allievo dell’Honthorst,
ma molto evidenti sono gli esperimenti che egli eseguì sulle
illuminazioni artificiali, ove raggiunse una tecnica eccelsa sulla
scia dell’esperienza di Rubens, Jordaens e Van Dyck.
Il suo soggiorno
napoletano è collocabile dal 1632 al 1641, durante il quale
produsse molti dipinti, una parte conservata oggi tra Capodimonte
e la quadreria dei Gerolamini.
Il suo stile è
talmente caratteristico da far sì che le sue opere si riconoscano
a prima vista per gli effetti di luce notturna e di illuminazione
artificiale. La sua tecnica rappresenta una sorta di traduzione
solidificata dell’impasto con una resa materia degli oggetti e dei
panneggi molto accurata ed un prevalere delle tinte bruno rossicce
e delle fisionomie raggrinzite ed intense dei vecchi e degli
umili, che lo accosta al naturalismo più brutale del Ribera, come
nel Sant’Onofrio conservato ai Gerolamini, che costituisce
uno dei risultati più alti della sua attività, nella
raffigurazione estatica ma serena del santo, giunto al termine
della sua vita dopo settant’anni di solitaria meditazione compiuta
nella più completa astinenza da qualsiasi richiamo mondano.
Lo Stomer allargò
molto a Napoli i suoi orizzonti culturali, recependo varie novità
che si manifestavano nella pittura e talune sue opere dimostrano
chiaramente lo studio ed i prelievi che egli fece da quadri
napoletani prevalentemente dal Vitale.
Giovanni Ricca,
documentato nel 1641 per una Trasfigurazione nella chiesa
della Sapienza ed al quale di recente è stata restituita un’Adorazione
dei pastori firmata a Potenza, in precedenza assegnata ad
Onofrio Palombo, comincia la sua attività artistica sotto l’ala
del naturalismo riberesco più tenebroso, per sciogliersi poi
lentamente, ma decisamente, nel pittoricismo sotto l’influsso del
Van Dyck, la cui cultura viene mediata nell’area napoletana dal
siciliano Pietro Novelli detto il Monrealese e da Giovan Battista
Castiglione detto il Grechetto.
La sua pennellata
rada e veloce, ma stesa con incisività sulla tela ci richiama alle
opere del grande fiammingo.
Sua è anche una
serie di severe Teste di filosofi, in cui è ravvisabile
chiaramente la matrice riberiana, conservate a Capodimonte in
piccole tele di forma rotonda, ricordate dalle fonti ed oggi
attribuibili al Ricca con certezza, alla luce della migliore
conoscenza della sua personalità artistica.
Poche parole per
Giovan Giacomo Mannecchia, figlio e fratello di pittori, attivo
fino alla fine degli anni Quaranta, anche lui nella chiesa della
Sapienza, su commissione della famosa suor Angela Carafa, priora
del monastero, con due grosse tele: un’Adorazione dei pastori
ed un Miracolo di Cana, firmate e datate.
La sua data di
nascita, il 1597, scoperta dal Prota Giurleo, ci fa presupporre
che egli possa essere già attivo dagli anni Venti o Trenta, ma
mancano i riscontri; infatti di recente sono state identificate
alcune sue opere in collezioni private, che hanno permesso di
allargare il suo catalogo, ma esse sono da assegnare chiaramente
agli anni Quaranta e ci permettono di inquadrare il Manecchia al
fianco del Van Somer e del Ricca come tra i primi a raccogliere il
messaggio vandychiano di desinenza genovese portato a Napoli dal
Grechetto.
Altri importanti
allievi del Ribera, prima del 1630, sono i fratelli Fracanzano,
pugliesi di nascita.
Cesare
Fracanzano, nato nel 1605 a Bisceglie, comincia a dipingere
suggestionato dall’ambiente tardo manieristico pugliese come
dimostrano i teloni dell’Episcopio di Barletta ed anche giunto a
Napoli del naturalismo avrà una visione superficiale ed
accademica. I suoi primi dipinti sono il San Giovanni Battista
del museo di Capodimonte e le due splendide tele conservate nella
quadreria del Pio Monte: Pietà e Guarigione di un
indemoniato.
Attratto poi
dalle suggestioni pittoricistiche legate alle correnti vandychiane
si allontana dal luminismo ed esegue opere come il San Michele
Arcangelo nella Certosa di San Martino ed il Cristo
confortato dagli angeli conservato nella quadreria dei
Gerolamini. Si dedicherà anche alla decorazione imitando i modi
lanfranchiani e realizza un ciclo nel coro della chiesa della
Sapienza nel 1940 ed uno nella chiesa dei Santi Cosma e Damiano a
Conversano.
Aderisce poi ai
modelli classicistici desunti dal Reni e giunge ad una maniera
delicata con una tavolozza calda e luminosa, come si evince nella
tela, firmata, dei Due lottatori conservata al Prado.
Nell’ultima fase
della sua attività tornerà in Puglia, intensificando sempre più
gli aspetti pittoricistici ed applicando moduli accademici di
derivazione stanzionesca in commissioni a carattere devozionale
stancamente ripetute.
Francesco
Fracanzano, possiede una personalità artistica più ricca ed
articolata del fratello, di cui è più giovane di sette anni ed il
suo percorso attende ancora uno studio approfondito che dirima
dubbi ed incertezze attributive, soprattutto della fase giovanile.
A Napoli sposò la sorella di Salvator Rosa ed ebbe un figlio,
Michelangelo, anche egli pittore, il cui catalogo è ancora tutto
da definire.
Il Bologna nel
ricostruire il suo catalogo gli ha assegnato, tra il 1630 ed il
1632, una serie di dipinti precedentemente assegnati al Maestro
dell’Annuncio ai pastori, dal Figliuol prodigo del museo di
Capodimonte all’Uomo leggente del museo Castromediano di
Lecce, ma questa proposta non è stata accolta unanimemente, per
cui la questione è ancora sub iudice.
La sua prima
opera documentata, di recente identificata è il San Paolo
eremita e Sant’Antonio Abate della chiesa di Sant’Onofrio dei
Vecchi, firmato e datato 1634, di chiara ispirazione riberiana.
Generalmente al
1635 sono collocate le tele con Storie di re Tiridate,
conservate nella chiesa di San Gregorio Armeno, anche se per via
documentaria debbono essere spostate in avanti di alcuni anni,
come già supposto da alcuni studiosi in base a mere considerazioni
stilistiche. I dipinti rappresentano senza dubbio il suo
capolavoro e sono tra i vertici del Seicento napoletano. In esse
il Fracanzano si mostra già padrone di una tecnica matura, con una
forza di rappresentazione della realtà che, pur discendendo da
Ribera, è però già diluita in un pittoricismo caldo di ascendenza
neoveneta e cortonesca. Appartengono a questo periodo d’oro anche
altri due dipinti firmati: la Santa Caterina d’Alessandria
della sede romana dell’Inps ed il Bacco di Capodimonte, del
quale esistono numerose altre versioni autografe tutte di
altissima qualità.
Un contatto con
l’ambiente dei caravaggisti francesi e fiamminghi operanti a Roma
si apprezza in opere come la Negazione di Pietro, in
collezione Boblot a Parigi o nella Vocazione di San Matteo
di collezione romana, mentre un’altra tela interessante è l’Ecce
homo, firmato e datato 1647, in collezione Harris a New York.
Tra le opere
pugliesi, da ricordare una serie di Apostoli nel convento
di San Pasquale a Taranto.
Negli ultimi anni
la sua produzione subisce un’involuzione ed egli si ripeterà con
moduli di stanca accademia ad eccezione del Transito di San
Giuseppe, eseguito nel 1652 per la chiesa della Trinità dei
Pellegrini, nel quale è evidente un rinnovato vigore espressivo.
A cavallo della
produzione dei due fratelli la critica ha definito la figura di un
Anonimo fracanzaniano sotto la cui etichetta ha raccolto un
corpus di quadri, alcuni di notevole qualità, quali il Cristo
nell’orto di Pozzuoli, la Scena di cucina di
Capodimonte e il San Gennaro azzannato dai mastini della
Galleria Borghese di Roma. Tutte tele segnate da una pennellata
grassa ed impastata di colore e nelle quali i dettagli del viso e
delle vesti sono resi con effetto di superficie violentemente
marcato. Progrediti gli studi il catalogo si è svuotato con
l’assegnazione di gran parte dei dipinti allo stesso Francesco
Fracanzano ed a Nunzio Rossi.
Nel solco del
naturalismo di lontana matrice caravaggesca e sempre nell’orbita
del Ribera sanguigno e dal tremendo impasto è da collocare, tra la
fine del secondo decennio e l’inizio del successivo, la comparsa
sulla scena artistica napoletana di un pittore dal fascino
singolare e dalla tematica originalissima, che gli studiosi
collocano sotto il nome convenzionale di Maestro degli Annunci
ai pastori dal soggetto di suoi numerosi dipinti conservati
in vari musei e raccolte private da Capodimonte a Birmingham, da
Brooklyn a Monaco di Baviera.
La critica ha
tentato di identificare l’anonimo pittore prima con Bartolomeo
Passante, da non confondersi con Bartolomeo Bassante,
brindisino di nascita, citato dalle fonti ed autore di due famosi
quadri firmati:l’Adorazione dei pastori del
Prado ed un Matrimonio mistico di Santa Caterina a Napoli
in collezione privata, pittore non eccelso dai modi tra De Bellis
ed il Cavallino. In seguito dal De Vito è stato ripetutamente
proposto il nome di Juan Do, forzando l’interpretazione di alcune
firme poste sotto più di un dipinto dell’ignoto artista.
Un’ipotesi che inizialmente aveva raccolto qualificati consensi,
ma che ha un punto debole mai sottolineato dalla critica: il
pittore amava ritrarsi ripetutamente nei suoi quadri come un
vecchio dai folti capelli bianchi, la cui età non corrisponde
minimamente a quella del Do, del quale conosciamo vagamente i dati
anagrafici. Altre proposte come Nunzio Rossi, sempre avanzata dal
De Vito e Beato, fantasticando su una presunta iniziale posta
sotto un celebre dipinto, sono assolutamente fuori luogo.
Il Maestro degli
Annunci ai pastori va collocato idealmente in quel gruppo di
artisti di cui in seguito faranno parte Domenico Gargiulo, Aniello
Falcone, Francesco Fracanzano e soprattutto Francesco Guarino, i
quali saranno impegnati in un’accorata denuncia delle misere
condizioni della plebe, dei contadini e delle classi popolari e
subalterne. Una sorta di introspezione sociologica ante litteram
della questione meridionale, indagata nei volti smarriti dei
pastori, dalla faccia annerita dal sole e dal vento, dei cafoni
sperduti negli sterminati latifondi come servi della gleba;
immagine di un mondo contadino e pastorale arcaico ma innocente e
la cui speranza è legata ad un riscatto sociale e materiale, che
solo dal cielo può venire, come simbolicamente è rappresentato
dall’annuncio ai pastori, il cui sostrato e l’iconografia
religiosa sono solo un pretesto di cui il pittore si serve per
lanciare il suo messaggio laico di fratellanza ed uguaglianza.
L’attività del
Maestro degli Annunci copre un arco di poco meno di trenta anni,
durante i quali vi fu un lungo periodo di vigorosa e rigorosa
adesione al dato naturale, spinto oltre i limiti raggiunti dallo
stesso Ribera, con una tavolozza densa e grumosa e con una serie
di prelievi dal vero, dal volgo più disperato: una lunga serie di
piedi sporchi, di calzari rotti e di vestiti impregnati dal puzzo
delle pecore.
Sul finire della
sua carriera egli addolcì e rischiarò in parte la sua gamma
cromatica, dandoci più di un esempio di impreziosimento
pittoricistico sotto l’impulso del neovenetismo allora imperante a
Roma ed indebolì la sua denuncia sociale. Di questo periodo sono
da ricordare l’Atelier dell’artista di recente comparso sul
mercato antiquariale con uno spettacolare brano di natura morta,
la Morte di Sant’Alessio del castello di Opocno, per finire
con la Natività di Maria della chiesa della Pace di
Castellammare di Stabia, unica commissione pubblica del maestro, e
solo quando eventualmente ne troveremo i documenti di pagamento
riusciremo a scoprire la vera identità di questo straordinario
artista, tra i massimi del seicento europeo, che ancora ci sfugge.
Un altro allievo
di Ribera è Salvator Rosa, il quale entra nella sua bottega
grazie all’interessamento del cognato Francesco Fracanzano,
passerà poi in quella di un altro ex allievo Aniello Falcone,
quando questi diventa autonomo e vi rimarrà per tre anni.
Dal Ribera egli
eredita il vezzo per i tipi volgari, l’amore per le espressioni
tragiche e la gioia nel rappresentare le sofferenze umane, mentre
dal Falcone recepisce la simpatia per la macchietta e la grande
abilità nel dipingere le battaglie.
Presto lascerà
Napoli, che rimarrà sempre nel suo cuore e conserverà il suo
spirito partenopeo e la sua vena naturalistica, anche quando
divenne una delle maggiori personalità del Seicento italiano e
l’eco della sua fama percorse fino al Settecento tutta l’Europa.
Nel 1635 si
trasferisce a Roma dove ha contatti con l’ambiente dei
Bamboccianti, con Claude Lorrain e Nicolas Poussin e comincia a
cogliere del paesaggio il suo aspetto pittoresco. Di questo
periodo sono l’Erminia e Tancredi e la Veduta di una
baia conservati nella Galleria estense di Modena e
l’Incredulità di San Tommaso del museo civico di Viterbo.
Costretto a
fuggire da Roma per le sue pungenti recite satiriche sotto la
maschera napoletana di Pascariello Formica, nel 1640 il Rosa si
rifugiò a Firenze sotto la protezione del cardinale De Medici, in
un ambiente culturale di scienziati e letterati nel quale si
rinfocolarono le sue ambizioni di umanista e filosofo stoico.
Scrive le sue Satire e viene influenzato da artisti come
Jacques Callot e Filippo Napoletano. Il paesaggio naturale,
spoglio, selvaggio e carico di mistero, diventa scenario per la
rappresentazione idealizzata di episodi della vita di grandi
filosofi e di grandi personaggi storici, come nel Cincinnato
chiamato alla fattoria e nell’Alessandro e Diogene,
entrambi nella prestigiosa collezione Spencer ad Althorp o nella
Selva dei filosofi conservata a Firenze a Palazzo
Pitti.
Contemporaneamente dipinge grandiose scene di battaglie che nella
loro monumentalità si risolvono anche esse in solenni
rappresentazioni ideali. Uno spirito epico anima le sue tele come
una fiamma, una torrida febbre percorre le sue composizioni di
grandi dimensioni, dotate di un ricco paesaggio con città sullo
sfondo, ruderi di templi ed edifici lontani che smorzano in parte
la tragicità delle scene. Nelle mischie furibonde si riesce a
cogliere il senso di un dramma cosmico come quello della guerra.
Negli ultimi anni
del suo soggiorno fiorentino i suoi interessi artistici si
allargano ai temi esoterici della magia e della stregoneria,
infatuato dalla cultura magico filosofica di Giovan Battista Della
Porta, ricordiamo Streghe ed incantesimi, eseguito nel
1646, alla National Gallery, mentre la sua pittura sempre più
scura nei toni si concentra sulla rappresentazione allegorica di
temi morali ed idee filosofiche come nella Fortuna
conservata al Paul Getty museum di Malibu.
Animo estroso e
bizzoso il Rosa fu pittore e disegnatore, incisore e poeta,
letterato e polemista, teatrante ed erudito, un personaggio
veramente complesso, dal temperamento vivace ed animoso,
insofferente della società del suo tempo, sdegnoso del volere dei
committenti, ma nello stesso tempo ansioso di essere ammirato.
Tornato a Roma
nel 1649 è ambito da facoltosi committenti ed è richiesto dalle
maggiori corti europee principalmente per i suoi paesaggi, spesso
animati da vivaci figurine ed imitati fino alla fine del
Settecento. Lo scenario è spesso quello del sud con le sue rocce
ed i suoi panorami aspri e severi, resi con una certa dose di
libertà espressiva e di fantasia, che non permette mai di
identificare con precisione i luoghi rappresentati. Il fogliame è
reso con grande accuratezza e spesso sono presenti le
caratteristiche torri di avvistamento presenti in tutte le nostre
coste flagellate dalle incursioni dei saraceni. Le figure dei
contadini sono riprese nell’atto di animare la conversazione con
una gestualità tipica delle popolazioni meridionali. La scelta dei
colori cupi ed ombrosi è una costante della paesaggistica rosiana
che tende a rappresentare le sue scene al tramonto, per rendere
l’atmosfera più raccolta e più intimo il discorrere dei
personaggi.
Oltre al
paesaggio si dedicò a dipinti di soggetto filosofico e mitologico
come l’Humana fragilitas del Fitzwilliam museum di
Cambridge e lo Spirito di Samuele evocato davanti a Saul
acquistato da Luigi XIV ed oggi al Louvre. Negli ultimi anni della
sua attività ritornò al paesaggio, dipingendo una natura spoglia e
solitaria come gli eremiti ed i filosofi che l’abitavano.
La maggior parte
dei dipinti di Salvator Rosa è conservata dal Settecento in
Inghilterra, dove la sua fama giunse all’apice grazie ad una
biografia romanzata scritta nel 1824 da una fervente ammiratrice
dell’artista Lady Morgan. Oltre manica egli fu apprezzato più che
in Italia e molti videro in lui un precursore di Byron e del
romantico ultra pittoresco. L’influsso del pittore italiano sugli
artisti inglesi e sulla pittura olandese di paesaggio fu molto
grande ed il paesaggio alla Salvator Rosa fu diffuso per molti
anni dopo la sua morte grazie ad una serie di epigoni ed imitatori
ed acquistò il carattere distintivo di un genere.
L’artista come è
noto non ebbe allievi diretti, ma si servì soltanto di aiuti che
sbozzavano le sue tele. Il De Dominici indica alcuni nomi come
seguaci, mentre il grande successo dell’artista giunse fino al
secolo successivo con un corteo di imitatori a volte anche molto
modesti.
Notevole fu anche
la sua attività di incisore attraverso la quale diffondeva le sue
opere e di disegnatore, la cui abilità si apprezza anche per la
precisione dei suoi schemi compositivi.
Oggi la critica,
pur se ha in parte ridimensionato la figura artistica di Salvator
Rosa, comunque gli riserva una posizione significativa nel
panorama figurativo non solo italiano ma europeo.
Il costante
interesse di Aniello Falcone per la grafica ci testimonia,
al di là del racconto del De Dominici, che anche lui fu a bottega
dal Ribera per qualche anno prima di divenire a sua volta punto di
riferimento certo per numerosi suoi allievi.
Pittore, anzi
Oracolo di battaglie, di soggetti sacri e profani, di tele a
passo ridotto e secondo le fonti anche di natura morta, il Falcone
è una complessa personalità che attende ancora dalla critica una
corretta valutazione ed una consacrazione più adeguata al suo
ruolo di caposcuola.
Giovanissimo, la
sua pittura manifesta elementi di naturalismo di derivazione
riberiana combinati con suggestioni derivanti dai Bamboccianti,
attivi con successo a Roma, ma notevole è anche l’influenza del
Velazquez, che il Falcone conosce a Napoli nel 1630 e dal quale
apprende l’essenzialità del racconto ed i sottili giochi di luce
sulle armature dei soldati.
Negli anni
successivi vi è una svolta nella sua produzione artistica, che si
orienta verso il classicismo romano bolognese, per arricchirsi in
seguito delle conoscenze della scuola neoveneta, della pittura del
Grechetto, delle ricerche del Poussin e per ultimo, inevitabile a
Napoli, per risentire dell’influsso di Massimo Stanzione e di
Artemisia Gentileschi.
La grande
notorietà del Falcone è legata alla pittura di battaglia, un
genere che ebbe molto successo a Napoli nel Seicento, con una
grande domanda da parte di una committenza laica e borghese ed una
benevolenza da parte della Chiesa, con alcuni ordini, come i
Domenicani, che richiedono agli artisti dipinti raffiguranti
episodi di vittorie della Cristianità contro gli infedeli.
L’Oracolo fu il
soprannome che si meritò il Falcone, autore di un particolare
tipo di battaglia senza eroi, estrema personalissima
interpretazione del messaggio caravaggesco in cui la mischia è la
vera dominatrice della scena, ove si esprime sovrana
l’inestinguibile ferocia degli uomini, il tutto espresso con una
tavolozza dai colori vivi e marcati, che danno l’impressione che
il nostro artista abbia voluto con essi ricalcare l’asprezza dei
combattimenti e l’animosità dei cavalieri.
Il suo successo
internazionale fu favorito dall’opera di Gaspare Roomer, il suo
mercante, grande collezionista d’arte, che inondò l’Europa con le
sue battaglie, facendo crescere a dismisura la sua notorietà, il
che gli permise di ottenere una prestigiosa commissione di una
serie di tele con scene dell’antico mondo romano, oggi conservata
al Prado. L’ordine gli fu affidato dal viceré, duca di Medina, per
conto di Filippo IV e con lui collaborò la sua bottega quasi al
completo: De Lione, Codazzi, Micco Spadaro, De Simone, nonché
Cesare Fracanzano. Le tele seguendo un non ben identificato
progetto iconografico, rappresentano l’apice del classicismo
napoletano e risentono dell’influsso del Poussin e della sua
cerchia romana.
Il riconoscimento
e l’onore furono pari a quelli ottenuti alcuni anni prima da
artisti del calibro di Lanfranco, Stanzione, Romanelli e
Domenichino, chiamati ad abbellire il complesso del Buen Ritiro a
Madrid.
Nell’ambito della
pittura di battaglia molto ancora è il lavoro che la critica deve
svolgere per datare con precisione molte tele e per discernere la
produzione falconiana da quella di altri famosi battaglisti, quali
il suo allievo De Lione, il Borgognone e lo stesso Salvator Rosa.
Tuttora dibattuta
è la questione di Falcone pittore di natura morta, che da taluni
critici è stata sollevata, a tal punto che in passato si è creduto
che potesse essere lui l’artista celato sotto la denominazione di
Maestro di palazzo San Gervasio. Oggi questo anonimo pittore è
ritenuto non più di area napoletana, per cui cade anche l’ipotesi
che possa essere stato un frequentatore della sua bottega.
Numerosi sono gli inserti di natura morta che si ammirano nei suoi
quadri, anche molto belli come quello celebre del Concerto
del Prado.
L’esame
dettagliato delle sue opere ci permette di seguire gradualmente lo
svolgimento della sua attività artistica.
La Maestra di
scuola, già presso le prestigiose collezioni Spencer ad
Althorp House e Wildestein a New York ed oggi finalmente a
Capodimonte, è forse la sua opera più antica nella quale è
tangibile, come già rivelò Longhi, la conoscenza del Velazquez e
lo stile dei caravaggisti a passo ridotto.
Di poco
successiva la Battaglia del Louvre, datata 1631,
costituisce un’autentica silloge della pittura naturalistica del
terzo decennio a Napoli.
Dopo il 1635
l’influsso del Grechetto, presente in città, mutò notevolmente lo
stile del Falcone, tanto che il suo famoso Concerto fu a
lungo creduto opera dello stesso Castiglione.
La Fuga in
Egitto del Duomo di Napoli, firmata e datata 1641, ci rivela
l’influsso stanzionesco, anzi più precisamente guariniano
stanzionesco come ben rivelò il Causa, che nell’Elemosina di
Santa Lucia di Capodimonte ravvisò “un unicum della pittura
napoletana, quasi un Le Nain di più smagliante e decantata
tessitura cromatica, oltre che di ben diversamente marcata
qualificazione plastica”.
E poi il
Martirio di San Gennaro nella Solfatara, ricordato
dettagliatamente dalle fonti, solo da poco ricomparso sul mercato
antiquariale ed oggi in collezione privata napoletana. Dipinto di
eccezionale qualità, tra i più importanti del Seicento napoletano,
per la monumentalità dell’impianto compositivo, per la definizione
dei personaggi e per la ricchezza dei particolari.
Abile e prolifico
come disegnatore, il Falcone è stato inoltre l’artefice a Napoli
di numerose serie di affreschi: nel 1640 lavora nella cappella
Sant’Agata in San Paolo Maggiore con risultati stilisticamente
vicini alla Battaglia del Louvre; quindi esegue una serie di
combattimenti e Storie di Mosè sulle pareti della villa Bisignano
a Barra, in passato sfarzosa dimora estiva del suo mecenate
Gaspare Roomer, il ricchissimo banchiere fiammingo, mercante di
opere d’arte. Ed in tali affreschi, datati al 1647 e di recente
riportati all’antico splendore, evidente è l’influsso del Poussin,
a rafforzare l’ipotesi, in passato avanzata dalla critica, della
presenza ispiratrice di numerosi lavori dell’artista francese
nelle più famose collezioni napoletane. Il ciclo di affreschi con
la Storia di Sant’Ignazio nella sacrestia del Gesù Nuovo,
purtroppo gravemente danneggiati da un incendio del 1963, è
collocabile nella piena maturità dell’artista entro il 1652 ed
infine recentissima la scoperta nella chiesa di San Giorgio
Maggiore, nascosto per quasi tre secoli dietro vecchi teloni
settecenteschi di uno splendido affresco raffigurante San
Giorgio che, in groppa ad un cavallo impennato, lancia alla
mano, affronta ed uccide il perfido drago.
La bottega del
Falcone, in cui dal 1638 si tenne anche una vera e propria
accademia di nudo, fu fucina di talenti e frequentata da quella
folta schiera di artisti che divennero specialisti nella tematica
del martirio dei santi a figure terzine, nei capricci
architettonici, nei quadri di paesaggio e di battaglia e, secondo
studi recenti, fu importante anche per la nascita e lo sviluppo
della natura morta napoletana, perché frequentata oltre che dal
Porpora, anche da Luca Forte. Un gruppo molto unito sia sul lavoro
che fuori di esso, intrecciato da rapporti di amicizia e di
parentela e che, secondo il fantasioso racconto del De Dominici
organizzò nei giorni antecedenti la rivoluzione di Masaniello la
cosiddetta Compagnia della morte, una setta segreta sorta
con lo scopo di vendicarsi degli spagnoli che avevano abusato
delle giovani donne napoletane.
Numerosi erano
gli artisti che componevano questa allegra e variegata brigata:
Andrea ed Onofrio De Lione, Carlo Coppola, Niccolò De Simone,
Salvator Rosa, Marzio Masturzo, Domenico Gargiulo, Paolo Porpora,
Giuseppe Marullo, Cesare e Francesco Fracanzano, Andrea e Nicola
Vaccaro e il bergamasco Viviano Codazzi. I componenti di questo
gruppo avrebbero,”armati di spada e di pugnale”, vendicato i torti
subiti dalle giovani pulzelle napoletane, mentre di notte”ritirati
in casa a dipingere con forza di lume artificiale, per lo quale
Carlo Coppola ne restò cieco” (De Dominici).
Il racconto del
biografo settecentesco è molto probabilmente inventato o quanto
meno esagerato, però testimonia dello spirito di corpo che animava
questo gruppo di pittori, che lavorava in un settore non
trascurabile della committenza laica cittadina, che richiedeva in
gran copia quadri di genere, stanca di soggetti religiosi e
devozionali.
Nell’affollata
bottega falconiana la prima figura da considerare è quella di
Andrea De Lione, famoso battaglista, al quale la critica in
tempi recenti ha restituito numerose opere prima attribuite al
maestro ed ha reso giustizia del parere negativo col quale era
stato definito nel 1938 dall’Ortolani:”un brutto esemplatore di
modi corenziani, poi discepolo del Falcone nella forma primitiva,
per finire poi seguace del Gargiulo in alcuni paesaggi”.
Egli in vita
godette di grande successo e della generale ammirazione e ciò è
testimoniato dall’importanza dei suoi committenti, che furono,
oltre al famoso mercante Gaspare Roomer, i principi di Sant’Agata,
di Tarsia e di Ischitella.
Come pittore di
battaglie ancora insufficiente è la datazione del suo catalogo che
comprende al momento una trentina di quadri sicuri eseguiti
nell’arco di circa mezzo secolo.
I suoi inizi nel
genere furono nella bottega del Corenzio autore di maestose
composizioni con finalità eminentemente decorative, in seguito
aderì alla salda impostazione naturalistica del Falcone, per
assimilare poi, a partire dal 1635, l’estrosa eleganza pittorica
del Grechetto, estrinsecatesi in una maggiore libertà espressiva
ed in una preziosità della gamma cromatica con colori squillanti
dal rosso acceso al giallo spento, con delicati tocchi di verde,
bruno e azzurro.
Un’altra
fondamentale differenza coi modelli falconiani, nei quali le
spaziature geometriche sono sempre ampie e ben calcolate, è
costituita dall’incastro tormentato dei piani e
dall’aggrovigliarsi spasmodico delle figure dei contendenti.
Un’opera
fondamentale nel suo percorso è la Battaglia contro i Turchi
del Louvre, firmata e datata 1641, suddivisa su vari piani
espositivi e frazionata in vari episodi.
Precedenti,
intorno al 1630 – ’35, sono le due tele pendant, siglate, in
collezione Nicolis a Torino e la Battaglia con David e
Golia conservata a Capodimonte. Contemporanee alla tela
parigina sono la Battaglia con due cavalieri in primo piano a
sinistra di collezione privata napoletana, già attribuita
erroneamente al Falcone ed il San Giacomo alla battaglia di
Clavjo, transitata sul mercato antiquariale.
Oltre la metà del
secolo va collocata la Battaglia biblica di collezione
privata romana, mentre alla piena maturità sono collocabili
diversi dipinti contrassegnati da un’impaginazione orizzontale con
una contrapposizione tra figure emergenti in primo piano ed una
rappresentazione sullo sfondo dell’evento bellico, in rinnovata
sintonia con i modi falconiani. Un esempio tipico di questa fase
finale è rappresentato dalla Battaglia tra Ebrei ed Amalachiti
del museo di Capodimonte, alla quale va collegata la replica
autografa con varianti, di collezione privata napoletana, resa
nota dal Sestieri, nella quale “il drammatico impeto barocco degli
scontri appare quasi raggelato, con bizzarri effetti di gusto neo
manieristico”.
Egli partecipò
tra il 1637 ed il 1644 alla nota commissione del viceré di Napoli,
il duca di Medina, con opere di grande bellezza come i Quattro
elefanti al circo di chiara ispirazione grechettiana.
Celebre il suo
Ritratto di Masaniello, firmato, del 1647 e dopo la rivolta il
De Lione lascia Napoli e, con ogni probabilità, si trasferisce a
Roma, dove fino al 1660 realizza alcuni dei suoi capolavori nel
campo delle scene bucoliche, nel quale il Soria lo riconobbe
indiscusso maestro. Nella città eterna entra in contatto con il
Poussin ed il Bourdon, oltre al Castiglione, già conosciuto a
Napoli ed anche egli a Roma dal 1647 al 1651.
I modelli di
scene pastorali del pittore genovese sono riletti dall’artista
napoletano introducendo una nota classicheggiante ed in questo
contesto nascono alcuni capolavori come il Venere ed Adone,
firmato, già nelle collezioni Moffo Lanfranchi a New York e
Mondadori a Milano, il Diana alla tomba di Endimione di una
raccolta inglese ed il Tobia seppellisce i morti del
Metropolitan, a lungo attribuito al Poussin prima che Anthony
Blunt lo riconducesse al pennello del De Lione.
In questo gruppo
di opere l’imitazione dei modelli del pittore francese è quanto
mai accurata: il paesaggio, popolato da rovine classiche, gioca un
ruolo di primo piano, in esso si muovono figure che sembrano
parenti stretti delle opere più marcatamente neovenete del Poussin
e tutta la stesura pittorica mostra una raffinatezza ed una
precisione coniugata ad una sensibilità tesa e vibrante, rara in
altre opere certe dell’artista.
Il De Lione ebbe
una vivace produzione grafica ed una notevole attività come
affrescatore, spesso confusa dalla collaborazione con il più
anziano e ben più modesto fratello Onofrio: nella chiesa di
Monteverginella, in Santa Maria la Nova, in San Paolo Maggiore
(dove collabora con Andrea Vaccaro) e nella cappella Galeota del
Duomo.
Del tutto recente
l’ipotesi avanzata da Federico Zeri di Andrea De Lione pittore di
natura morta con l’identificazione di una tela firmata in
collezione privata a Ginevra, alla quale possono affiancarsi due
dipinti di frutta del museo di Pau in Francia.
L’ipotesi
richiede ulteriori conferme anche se nell’ inventario del principe
di Ischitella, pubblicato dal Pacelli, figurano ben 17 quadri del
nostro artista con soggetti di animali.
La complessità
della questione è resa più intricata da un passo del De Dominici,
che, dopo aver parlato di Andrea De Lione allievo di Belisario
Corenzio, cita tra i pittori di natura morta un monsù Andrea Di
Lione, cioè uno straniero, famoso per i suoi dipinti di animali ed
acquafortista. Il biografo parrebbe alludere a due distinti
artisti dallo stesso nome e cognome, una combinazione non rara
nella pittura napoletana seicentesca, da Bartolomeo P(B)assante ad
Hendrick Van Somer.
Onofrio De
Lione, a volte collaboratore negli affreschi di Andrea, fu uno
stanco ripetitore di formule corenziane ed arpinati prive di ogni
originalità, che rivelano a pieno tutti i limiti culturali
dell’artista. Le sue composizioni spesso sono una serie di figure
di repertorio assemblate con mestiere senza drammaticità negli
atteggiamenti, né impeto, né vigore.
Altro battaglista
della cerchia falconiana fu Carlo Coppola, abile anche
nelle scene di martirio ed in quadri storici e di vedute.
Impregnato della
cultura tardo manierista di Belisario Corenzio egli ebbe due sfere
di attrazione: il Falcone ed il Gargiulo. Nelle battaglie gli
esempi del suo maestro sono utilizzati come repertorio di immagini
stereotipate, mentre nei martirii e nei quadri storici le
soluzioni di maggiore libertà pittorica e chiaroscurale del
Gargiulo sono molto marcate. Prelievi culturali sono evidenti
anche dal Callot, dal Tempesta, dal Compagno e da Andrea De Lione.
Fu attivo per circa venti anni dal 1640 al 1660 ed il catalogo
delle sue opere, interessanti perché testimonianza di un
particolare momento storico e dei gusti della committenza privata,
è ancora da definire con precisione, anche se molti suoi lavori
sono siglati.
Niccolò De
Simone, “geniale eclettico” dalle molteplici componenti
culturali, può rientrare nella cerchia falconiana, in parte per il
racconto fantasioso del De Dominici, che ce lo descrive
partecipante alla Compagnia della morte, ma precipuamente per un
evidente rapporto stilistico con la produzione di Aniello Falcone,
di Andrea De Lione e di Domenico Gargiulo, da cui prendono
ispirazione le sue opere.
Originario di
Liegi, come si evince nella sua firma, in passato sfuggita alla
critica, sotto il Baccanale di collezione privata genovese,
De Simone è documentato a Napoli dal 1636 al 1655 e non al 1677
come erroneamente indicato in tanti testi autorevoli, incluso
anche il catalogo sulla Civiltà del ‘600.
I suoi esordi
sembrano affondare nella cultura tardo manierista dominata dal
Corenzio, in seguito egli nei suoi dipinti, oltre al marchio della
cerchia falconiana risente dell’influsso del Poussin e del
Grechetto dai quali trae spunto anche per particolari tipi di
paesaggio, tematiche preferenziali, fisionomie caratteristiche.
Oggi la critica,
grazie ai contributi prima della Novelli Radice e poi della
Creazzo, conosce più che bene i caratteri distintivi del suo stile
pittorico: anatomie sommarie, tipica concitazione delle scene,
caratteristico volto delle donne, tutte mediterranee dai pungenti
occhi scuri, assenza di profondità spaziale con bruschi passaggi
di scala (evidentissimi nell’affresco dell’Educazione della
Vergine), folle in preda ad un’intensa agitazione, cieli
tempestosi e baluginanti, squisita sensibilità da espressionista
nordico, ripetitività nella costruzione dell’impianto generale
della scena, personalissima resa cromatica nell’uso di colori
stridenti ed incarnati rossicci.
Il De Simone si
dedicò con impegno anche all’affresco e la sua più importante
produzione è in Santa Teresa degli Studi, ove la figura della
Vergine bambina richiama lo stile di Cesare Fracanzano, mentre gli
effetti di luce sulla sua veste sono chiaramente vandychiani e
Niccolò per la sua origine nordica dimostra una particolare
propensione a recepirne il messaggio.
Molte sono anche
le piccole telette a mezzo busto di donne, molte ancora da
identificare ed attribuire con precisione, in cui palese è il
modulo di riferimento a Vaccaro, Stanzione e Cavallino.
De Simone si
distinse anche nel popolare settore delle scene di martirii di
santi, che apparve intorno al secondo decennio nelle scenografie
del De Nomè e divenne in seguito molto comune nella pittura
napoletana con l’evento drammatico che acquista sempre più
preminenza rispetto all’ambiente circostante.
Domenico
Gargiulo, detto Spadaro dal mestiere del padre, che fabbricava
spade, è senza dubbio l’allievo più importante del Falcone nella
cui bottega entrò nel 1628.
Molto apprezzato
in vita e molto richiesto per i suoi quadri di cavalletto, di
recente grazie alla monografia ed alla mostra dedicatagli dalla
Daprà, l’artista ha goduto di un rinnovato interesse per la sua
multiforme attività e per la posizione che ebbe la sua produzione
sul panorama figurativo dell’epoca. In alcuni filoni iconografici
infatti, quali le scene di martirio, le favole narrate in figure
terzine nei palcoscenici inventati dal Codazzi, nei quadri di
storia e cronaca cittadina e principalmente nella pittura di
paesaggio è da considerarsi, oltre che un innovatore, un vero e
proprio caposcuola, la cui opera troverà epigoni ed imitatori ben
oltre il secolo XVII.
Egli amava
ritrarre i tumultuosi avvenimenti della Napoli vicereale:
eruzioni, epidemie e rivolte, indagati con occhio attento al più
piccolo dettaglio ed alle stesse fisionomie dei protagonisti,
inoltre paesaggi intricati e misteriosi rappresentati con rara
maestria, angoli suggestivi di rocce, marine brulicanti di barche
e pescatori.
Dall’attento
studio delle stampe del Callot e di Stefano della Bella, che
circolavano nell’ambiente falconiano, prese ispirazione per le sue
caratteristiche figurine allungate con la testa piccola e per il
modo di assemblare i personaggi nelle composizioni più affollate.
Seppur da
collocare tra i minori in un secolo ricco di superstar, bisogna
almeno concedergli il privilegio di essere considerato il
“Maggiore dei minori”.
La presenza al
suo fianco nella bottega del Falcone del giovane Salvator Rosa lo
incoraggiò a dipingere i suoi primi paesaggi e le sue prime
vedute. Egli inoltre entrò in contatto con la pittura fiamminga ed
olandese, che poté conoscere sia a Napoli nelle grandi collezioni
private, oppure in un ipotetico viaggio a Roma non documentato.
Prende ispirazione dalla cerchia dei Bamboccianti: Cerquozzi,
Sweerts e Miel, come certa è la sua conoscenza di Lorrain, Dughet
e del giovane Poussin.
Da quest’amalgama
nasce il Gargiulo paesaggista, tra i massimi del secolo, con
un’attività durata quasi quarant’anni e quindi attraversando tutte
le correnti pittoriche dell’epoca dal naturalismo al pittoricismo.
Dal 1635 al 1647
il Gargiulo collaborò col Codazzi, bergamasco, specialista in
architetture fantastiche, che il nostro pittore animerà con
figurine vivacissime. Un sodalizio durato quasi quindici anni,
cementato da una fraterna amicizia, che riscosse un enorme
successo tra una folta clientela di collezionisti privati ansiosi
di abbellire le proprie dimore con quadri di piccolo formato dei
due pittori.
Nel quinto
decennio un vicendevole scambio culturale si ebbe tra il Gargiulo
e lo Schonfeld, un pittore tedesco che soggiornò a Napoli per
oltre dieci anni, specializzato in soggetti biblici e scene di
martirio.
Un lungo rapporto
di lavoro è documentato tra lo Spadaro ed i frati della certosa di
San Martino: nel 1638 affresca il coro con Scene bibliche e
Storie dei Certosini su finti arazzi, in seguito, dal 1642
al 1647, è incaricato di affrescare il Quarto del Priore con una
serie di paesaggi in cui si nota l’influsso della pittura nordica.
Il Gargiulo continuerà ad avere un rapporto preferenziale con i
monaci della certosa, ove troverà rifugio e salvezza durante la
terribile peste del 1656, che decimò la popolazione napoletana e
spazzò via un’intera generazione di pittori.
Al termine del
calamitoso morbo volle rappresentare lo scampato pericolo in un
gigantesco ex voto Rendimento di grazia, ricco di sessantotto
personaggi tutti rappresentati con precisione fisionomica, dal
cardinale Filomarino allo stesso pittore, che ci fornisce in
questa tela il suo unico autoritratto, ai monaci dai volti rubizzi
e giocondi e dallo sguardo stralunato.
Fece parte anche
lui, nel 1635, come altri artisti della cerchia falconiana, della
grande commissione per abbellire il palazzo del Buen Retiro di
Filippo IV a Madrid, ove lasciò più di un dipinto e numerosi
disegni, con soggetti di storia dell’antica Roma, oggi conservati
al Prado.
Nelle pale
d’altare a figure grandi il Gargiulo non si espresse a grossi
livelli e nelle poche con certezza attribuitegli dalla critica
quali l’Ultima cena del 1641 nella chiesa della Sapienza e
la Madonna con Bambino e Santi per Donnaromita è da
considerarsi semplicemente un minore stanzionesco.
Ben altra qualità
il Gargiulo raggiunge nei quadri di storia e cronaca napoletana,
popolati da santi, eroi e gente della plebe, prelevati dalla
coloratissima realtà dei vicoli napoletani. Tra questi ricordiamo
la Rivolta di Masaniello, Piazza Mercatello
durante la peste del 1656, l’Eruzione del Vesuvio, il
Largo di Mercato e tanti altri quasi tutti conservati nel
museo di San Martino. In tutte queste tele il pittore ebbe modo di
manifestare le sue doti di brillante illustratore della vita
cittadina ed una partecipazione sentimentale ai destini di Napoli
e dei napoletani; il tutto attraverso un uso raffinatissimo e
personale di macchie cromatiche, dal denso impasto con una
pennellata libera, grassa, estrosa, efficace nel descrivere i
tempestosi sentimenti dell’animo umano e lo scorrere ineluttabile
degli avvenimenti.
Scampato alla
peste il Gargiulo lasciò la certosa ed il De Dominici racconta che
frequentò la bottega di Aniello Mele, commerciante di quadri, dove
ebbe modo di frequentare Andrea Vaccaro, Giovan Battista Ruoppolo
e soprattutto Luca Giordano da cui trasse alcuni elementi neo
veneti, che gli fecero ingentilire la sua pittura, che acquistò
colori più luminosi e caldi. Le opere dell’ultimo periodo
identificate dalla critica non sono numerose come nei primi anni
della sua attività, tra queste la più famosa è la Circoncisione
della collezione Molinari Pradelli.
Egli proseguì la
sua attività fino agli ultimi anni della sua vita come è
testimoniato da una polizza di pagamento del 1670, reperita
nell’archivio del Banco di Napoli, in cui il pittore riceve trenta
ducati per un quadro raffigurante San Gennaro, di palmi 4x5, forse
quello oggi in collezione della Ragione a Napoli.
Alla fine della
trattazione sulla vita e sulle opere di Domenico Gargiulo
bisognerà cominciare a correggere la sua data di morte,
tradizionalmente ritenuta il 1675, da una lettera informativa
sullo stato delle arti a Napoli fatta conoscere dal Ceci, che
Pietro Andreini inviò al cardinale Leopoldo De Medici, in cui
dichiarava che” Micco Spadaro, pittore di figurine e paesi, morì
che sono tre anni”. Il Ceci riteneva che tale nota fosse stata
inviata nel 1678, ma grazie alle ricerche del Ruotolo (1982) si è
identificata la data esatta nel 20 settembre 1675, per cui l’anno
della morte deve retrocedere al 1672.
Discepoli ed
imitatori il Gargiulo ne ebbe tanti, a giudicare anche dall’enorme
numero di quadri che continuamente ed erroneamente gli vengono
attribuiti.
Il De Dominici
nell’affermare che”lo Spadaro ebbe molti discepoli” si sofferma su
quelli ritenuti da lui più significativi: Ignazio Oliva che
“imitò il maestro nel fare paesi e marine”, il “superbo”
Francesco Salernitano, che “attese alle figure grandi”,
Giuseppe Piscopo che dalla bottega di Aniello Falcone era
passato a quella di Domenico dedicandosi”alle figure piccole,
insino alla misura di circa un palmo” essendo negato per quelle
più grandi(di lui il De Dominici non citò alcun dipinto in
particolare, affermando invece che piccole “Istoriette e belle
tavolette” di Piscopo si potevano trovare in collezioni private);
nel cappellone sinistro della chiesa dei Girolamini c’è un dipinto
a lui attribuito, datato al 1647, che raffigura i Santi martiri
Felice, Cosma Alepanto e compagni. Sembra comunque che
l’artista fosse soprattutto pittore di piccole battaglie come le
due dipinte nel 1649 per la collezione di Antonio Ruffo a Messina
e di soggetti vetero testamentari come il Tobia e l’angelo
e la Rebecca al pozzo ricordati nel 1725 nell’inventario
della collezione di Francesco Gambacorta duca di Limatola. Ed
infine Pietro Pesce, “che ne conseguì tutti i generi e
modi” e del quale la critica ha identificato alcune sue opere
firmate, di recente passate ad un’asta Finarte a Napoli, di
ambientazione notturna, come ne erano presenti altre nella
raccolta del principe Ettore Capecelatro identificate in un
inventario da Labrot.
Collegata alla
produzione del Gargiulo nel quinto decennio del secolo è
l’attività di Heinrich Schonfeld, uno svevo dalle raffinate
qualità pittoriche, in passato spesso confuso con Cavallino e con
lo stesso Spadaro, capace di squisite preziosità di luce e di
colore, nelle calde tonalità del giallo, del rosso vivo e del
rosa, presente a Napoli tra il ’38 ed il ’49, dopo aver
soggiornato a Roma dal 1633.
Impregnato
dell’ambiente tardo manieristico tedesco, egli porta in Italia
l’esperienza dei fiamminghi italianizzati Poelemburg e Swanevelt e
quando giunge a Napoli è ancora permeato della cultura romana di
impronta classicistica.
Comincia col
dipingere soggetti derivanti dal Vecchio Testamento, dalla storia
antica e dalla mitologia, quindi trae ispirazione come il Gargiulo
dalle stampe del Callot per i quadri di battaglia e per le scene
di trionfi. Lentamente si napoletanizza curando l’effetto scenico
ed il dinamismo della composizione.
Intorno al 1643 –
’44, a seguito di una crisi religiosa, dovuta ad alcuni gravi
incidenti che gli fanno perdere un occhio e l’uso di una mano,
viene attratto irresistibilmente dalla pittura religiosa ed egli
che è di confessione protestante rimane infatuato dalle tematiche
cattoliche, con un predilezione per i soggetti relativi alla
morte, alle scene di martirio ed alla fugacità dell’esistenza.
Sono di questo
periodo la Morte di Santa Rosalia di Augsburg ed i due
martirii di Marianella conservati nella casa natale di Sant’Alfonso
de Liguori. La sua tavolozza vira verso i colori cupi del grigio,
del marrone e del viola ed il taglio della luce diviene
caravaggesco. La pennellata è nervosa, le figure dai lunghi colli,
danno una sensazione di fragilità e leggerezza.
Negli ultimi due
anni della sua permanenza a Napoli prima di ritornare in Germania,
attraverso una nuova sosta a Roma, lo Schonfeld abbandona la sua
fase mistica e ritorna a composizioni dal gusto teatrale con una
tavolozza luminosa grondante di colore, aderendo al neo venetismo
emergente nella realtà figurativa napoletana ed elaborandolo in
modo personale nelle sue opere, che saranno prodotte dopo il suo
ritorno in patria nel 1650.
Altro artista
strettamente legato al Gargiulo è Viviano Codazzi,
bergamasco, presente a Napoli dal 1634 al 1647, fraterno amico e
collaboratore dello Spadaro, con il quale esegue numerosi lavori a
due pennelli. La loro collaborazione è ricordata dal De
Dominici che erroneamente lo indicava come Codegora: ”Moltissimi
sono in Napoli i dipinti con architetture dell’eccellente Viviano,
e con figure di Micco Spadaro…vissero questi due virtuosi insieme
con tanto amore che la morte solo poté separarli”.
L’Ortolani,
dispregiandone l’opera, definì il Codazzi un “ mediocrissimo
pratico”, ma in seguito la critica, prima attraverso le ricerche
di Longhi e della Brunetti, e poi con la recente esaustiva
monografia del Marshall, ha rivalutato appieno il suo lavoro ed ha
riconosciuto l’importanza delle sue architetture luminose e ben
disegnate e dotate di effetti di profondità spaziale e volumetria
ben dosate.
La sua conoscenza
dei monumenti romani fa presupporre una lunga permanenza a Roma,
prima della sua venuta a Napoli; un periodo di studio, come era
abitudine all’epoca di tutti i pittori, probabilmente
nell’ambiente di Agostino Tassi e della sua bottega. Giunto a
Napoli nel 1634, dopo poco si sposa con una napoletana ed entra in
contatto con gli artisti della cerchia falconiana e ciò è
testimoniato dalla sua partecipazione, nel 1639, col Gargiulo, il
Falcone, il De Lione, De Simone e Cesare Fracanzano alla stesura
delle grandi tele di soggetto romano destinate al palazzo del Buen
Retiro di Madrid. Entra poi in contatto col suo conterraneo Cosimo
Fanzago, che lo proteggerà e lo farà lavorare alle grandi
prospettive per la chiesa e la sacrestia nella certosa di San
Martino, che in quel periodo è una vera e propria palestra per gli
artisti napoletani.
Oltre ad una
proficua collaborazione col Gargiulo egli nella certosa lavora ad
un originale Colonnato con delle scale che farà da sfondo
alle figure di Massimo Stanzione in un Cristo che esce dalla
casa di Pilato nella sacrestia della chiesa.
Ricordata dalle
fonti, anche se messa in dubbio dalla critica, una sua
collaborazione al grande affresco della Probatica piscina
eseguita dal Lanfranco ai Ss. Apostoli.
Al periodo della
rivolta di Masaniello nel 1647, il Codazzi lasciò Napoli per Roma,
ove cominciò a collaborare col Cerquozzi.
Capolavoro di
questo sodalizio è, del 1648, la Rivolta di Masaniello,
commissionata dal cardinale Spada, una delle più lucide
interpretazioni della celebre sollevazione popolare.
Egli, pur
risiedendo a Roma, non dovette rompere del tutto i contatti con
Napoli, come testimonia il suo rientro documentato nella capitale
vicereale nel 1653 ed il ritrovamento di quadri datati oltre il
1647, in cui è evidente la collaborazione col Gargiulo rimasto a
Napoli, come ad esempio nella splendida tela Davanti ad una
locanda del museo di Baltimora.
A Roma collaborò
inoltre saltuariamente anche con Jan Miel, Giacinto Brandi e con
Filippo Lauri. Il riconoscere la mano del figurinista permette
alla critica un preciso inquadramento cronologico del dipinto in
esame.
A Napoli
seguiranno le orme del Codazzi Francesco Magliulo ed Ascanio
Luciano, quest’ultimo ritenuto un suo seguace dall’Ortolani e dal
De Rinaldis e a sua volta precursore di Leonardo Coccorante e di
Gaetano Martoriello, i grandi paesaggisti della successiva
generazione.
Di Francesco
Magliulo conosciamo ben poche notizie. Il D’Addosio reperì
nell’Archivio storico del Banco di Napoli una polizza di pagamento
del 1666 nella quale si riferiva che il pittore era capitato nelle
grinfie di uno di quei mercanti d’arte, che lo faceva lavorare a
mesata in casa sua sfruttandolo. Dal documento si evidenzia
anche che il Magliulo fosse abile nel dipingere le figure oltre
che le prospettive architettoniche. L’Ortolani segnalò un suo
dipinto di rovine già in collezione Messinger a Monaco ed oggi ad
ubicazione sconosciuta, nel quale l’Ozzola aveva chiaramente
identificato la firma dell’autore ed aveva ritenuto il pittore
allievo del Ghisolfi a Roma. Ed infine nel 1993 presso Sotheby’s è
passata una tela con Cristo che scaccia i mercanti dal tempio
ambientata tra antiche rovine per la quale il Marshall ha
suggestivamente proposto il Magliulo come autore.
Ascanio
Luciano fu uno specialista nel genere delle rovine
monumentali, dipinte in piena luce solare o sotto un bel chiaro di
luna, molto richiesto all’epoca dai collezionisti, che
utilizzarono questi quadri per decorare le ampie antisale dei loro
nobili appartamenti. Vi era anche una certa richiesta da parte
degli stranieri, che, in ricordo delle pittoresche ed imponenti
rovine da essi ammirate nei dintorni di Napoli, amavano portarsi
nei loro tristi e nebbiosi paesi un po’ del nostro sole e il
ricordo dei nostri monumenti.
I dati biografici
sono scarni: nato a Napoli nel 1621, nel 1665 risulta iscritto
alla Congregazione di Ss. Anna e Luca dei pittori, vive a lungo
fino al 1706, avendo modo così di trascorrere tutta la stagione
del barocco napoletano.
Disprezzato
dall’Ortolani, che lo definisce mediocre discepolo di Viviano
Codazzi, è viceversa trattato con passione dal De Rinaldis che gli
dedica un articolo elogiativo nella leggendaria rivista Napoli
Nobilissima. La critica moderna gli riconosce, di volta in volta
che si scoprono nuove tele spesso firmate, una posizione
preminente nel campo dei capricci architettonici ove svolse un
ruolo di cerniera tra il Codazzi e il De Nomè e gli specialisti
settecenteschi del genere.
Egli elabora un
tipo di composizione in cui gli elementi architettonici, quasi
sempre rovine, sono immersi in un paesaggio, spesso marino, dal
vasto orizzonte e di buona fattura. Le sue architetture hanno una
luce irreale, sfumante in un’atmosfera lirica, con un gusto
marcato nel ricalcare la decorazione scultorea, derivante dallo
stile fantasioso del De Nomè.
Molto curato è
l’aspetto paesaggistico con aperture di rara bellezza, come il
maestoso Rovine di un edificio classico presso una costa
eseguito in collaborazione con Luca Giordano, con il quale il
Luciano aveva eseguito anche la grande tela di Cristo e
l’adultera, esposta alla celebre mostra sulla pittura italiana
di Palazzo Pitti nel 1922 ed oggi in collezione privata milanese.
Altre opere
famose a lui attribuite sono la Veduta della Vicaria del
museo di San Martino, eseguita in una accezione molto vicina ai
modi pittorici del Coppola ed il San Pietro che risana lo
storpio della collezione Molinari Pradelli, in cui le
allungate figurine derivano direttamente dal Gargiulo. Un’opera
tarda del Luciano, che ci permette di riconoscere il suo stile
nella maturità, è l’originale dipinto Scene di
melodramma entro ruderi antichi, nel quale è presente forse
anche l’autoritratto del pittore ed oltre all’influenza di Giacomo
Del Po si evidenzia, come ha sottolineato il Lattuada,
un’allusione al mondo teatrale, rendendo plausibile un’esperienza
nel campo della scenografia e stabilendo un ponte tra l’esperienza
della pittura e quella del teatro.
Di Marzio
Masturzo le poche notizie che abbiamo intorno alla sua vita ne
fanno risalire l’apprendistato prima presso Paolo Greco, zio di
Salvator Rosa, e poi nella bottega di Aniello Falcone insieme al
Mercurio e allo stesso Rosa.
Lo stretto
rapporto che lo legava al Rosa lo spinse a seguirlo a Roma, dove
ne divenne fedele imitatore. Il De Dominici ci narra,
probabilmente attingendo a qualche leggendaria tradizione, che il
Masturzo dipingeva dal vero in compagnia del Rosa e del Gargiulo,
divenendo un così perfetto imitatore da venir scambiato per lo
stesso Salvator Rosa. Il biografo, che dedica all’artista ben due
pagine, si peccava di saperli distinguere, identificando il
maestro per quel ”bel tocco di colore adoperato con bizzarria”.
Una sua splendida
battaglia, documentata negli inventari, è presso la Galleria
Corsini a Roma. Spesso in aste nazionali ed internazionali
compaiono dipinti attribuiti al Masturzo, ma bisogna essere molto
cauti perché il catalogo dell’artista è ancora tutto da definire
ed in esso potrebbero confluire due tele siglate MM, una presente
sul mercato antiquariale di Milano e l’altra in collezione privata
a Reggio Emilia, entrambe studiate e pubblicate dal Sestieri.
Altro scolaro del
Falcone è Perez Sciarra o Sierra, nato a Napoli da padre
spagnolo, specializzato in battaglie, bambocciate e fiori. Tornato
in Spagna collaborò con Juan De Toledo, il noto battaglista, ben
rappresentato al Prado.
Giuseppe
Trombatore fu a bottega dal Falcone per alcuni anni, quindi le
fonti affermano che dal 1656 al ’60 passò alla scuola di Mattia
Preti, dove si specializzò alla fine come ritrattista e fu attivo
almeno fino al 1685, data di una polizza di pagamento in suo
favore.
All’artista si
può assegnare, per il monogramma TG ben visibile sulla coscia del
cavallo a sinistra, l’Assedio, già nella collezione del
barone Carelli a Napoli, una tela creduta dal De Rinaldis del
Falcone, un pittore al quale il Trombatore si ispirava, come
sottolineò l’Ortolani, che, pomposamente parlava di groppa del
cavallo”sfericamente plasticata dalla luce”.
Si dovrebbe ora
parlare di Paolo Porpora e di Luca Forte, sicuri frequentatori
della bottega del Falcone, ma di loro parleremo diffusamente nel
capitolo sulla natura morta.
Il cosiddetto
Maestro dei martirii è una personalità ancora misteriosa dai
contorni ancora non ben definiti, collocabile tra i modi pittorici
di Scipione Compagno e di Carlo Coppola e cronologicamente attivo
intorno al quarto decennio del secolo, il cui corpus pittorico
ancora esiguo è prodotto escludendo l’attribuzione di scene di
martirio ad artisti dai caratteri più riconoscibili dalla critica.
Ignazio
Compagno lavorava nella bottega del fratello Scipione ed era
specializzato nelle repliche di soggetti richiesti dalla
committenza e, secondo il De Dominici, era particolarmente versato
nell’esecuzione delle figure grandi.
Il Salerno ha
ipotizzato una sua partecipazione nei quadri del fratello, perché
nel catalogo di questi sono presenti quadri di impostazione ed
esecuzione diversa, che, se non dipendono da un’evoluzione
stilistica dell’artista, possono presupporre l’intervento di un
collaboratore.
Scipione
Compagno nasce secondo lo Zani nel 1624 e muore dopo il 1680,
è documentato tra il 1638 ed il 1644. Il De Dominici lo cita come
pittore di paesaggi e di marine, una veste nella quale ci è ancora
sconosciuto. Egli è influenzato dai modi del Corenzio e di Filippo
D’Angeli e mostra inoltre il marchio delle architetture
fantastiche del De Nomè, oltre a risentire dell’impronta del Brill
e di pittori olandesi come Breenbergh e Polenburgh. Il Causa, dal
carattere arcaico delle sue scenografie, aveva ipotizzato che egli
appartenesse alla generazione precedente a Micco Spadaro, ma i
documenti ed i dati anagrafici scoperti di recente hanno
dimostrato che trattasi di pittori coevi.
Anche per il
Compagno la massa anonima diventa la protagonista dei suoi quadri
nei quali è abile a collocare gran popolo in poco spazio e ad
immergere gli avvenimenti in un’atmosfera fantastica e surreale.
Fino agli anni
Settanta gli erano riconosciute poche opere, poi il Salerno
ritenne di aggiungere al suo corpus tutto il gruppo di
dipinti che il Longhi, riconoscendone la stessa mano, aveva
attribuito a Filippo Napoletano, di cui allora poco si conosceva.
Nel suo catalogo
così ampliato, con l’aggiunta di varie tele firmate, si possono
distinguere chiaramente due tendenze, che come abbiamo detto in
precedenza hanno fatto ipotizzare la mano di due diversi pittori,
una caratterizzata dai colori chiari e dall’esecuzione più
accurata, l’altra di un fare sciolto e compendiarlo, con impasti
cromatici più sostanziosi e con una tavolozza di colori più scuri.
Le sue opere di
maggior successo furono più volte replicate, spesso su rame ed
alcune sono molto suggestive come l’Eruzione del Vesuvio
del 1631 del Kunsthistoriches di Vienna, nella quale oltre
all’interesse documentario per un luogo famoso della città di
Napoli oggi scomparso, molto ben rappresentata è la folla
formicolante in preda al panico, espressa con una vivacità di
tocco rara a vedersi negli altri specialisti del genere.
La sua produzione
anche se inferiore qualitativamente e quantitativamente a quella
del Gargiulo, a cui può essere paragonato, esercitò ad ogni modo
un influsso su altri pittori tra cui Nicola Viso ed il tedesco
Franz Joachim Beich, presente a Napoli all’inizio del Settecento.
Dopo aver
vagliato la personalità di due grandi specialisti nella pittura di
paesaggio come Salvator Rosa e Domenico Gargiulo, non si può
trascurare la complessa ed ancora sfuggente personalità di
Filippo D’Angeli, detto Filippo Napoletano, il più
antico di tutti, precursore ed autentico creatore del vedutismo
locale, ricordando che il Filippo D’Angeli ricostruito dal
Chiarini è una personalità diversa dall’artista ipotizzato dal
Longhi, che raggruppò una serie di tele che denotavano la stessa
mano, confluite poi nel catalogo di Scipione Compagno.
Egli nasce a
Napoli nel 1587, secondo il Mancini ”di padre spagnolo e di madre
romana” e soggiornò nella capitale vicereale fino al 1614.
Attraverso il Sellitto ebbe modo di venire a contatto con tutta la
folta schiera di nordici, dal Cruys al De Nomè, attiva in città e
che tanta parte ebbe nella sua formazione artistica.
Da questi pittori
derivò il carattere nordico della sua cultura figurativa, tra cui
l’attenzione al dato naturale del paesaggio, il tipo di taglio
compositivo e la particolare resa della luce. Con i modi pittorici
di questi artisti, come con quelli di Elsheimer e Brill,
conosciuti a Roma e Breembergh e Poelemburgh, conosciuti a
Firenze, si possono apprezzare stringenti assonanze non solo
tematiche, ma anche stilistiche.
Nel 1617 Filippo
Napoletano fu chiamato a Firenze da Cosimo II e lì egli sviluppò
un nuovo tipo di paesaggio realistico ricco di effetti tonali, dai
colori brillanti e creò numerose tele con soggetto fluviale o
campestre, animate da vivaci figurine rese con straordinaria
freschezza.
Secondo il
Mancini, biografo ed estimatore dell’artista, “si applicò
precocemente a tutta una serie di generi: composizioni d’historie,
battaglie, scene di martirio e simili”. Da collocare a questo
periodo è anche la sua produzione di natura morta, ignorata dalle
fonti e di recente restituitagli attraverso il rinvenimento di un
Rinfrescatoio nei depositi di Palazzo Pitti, già segnalato
in antichi inventari medicei citati da Longhi nel 1957. Del
periodo fiorentino sono altre nature morte: Due cedri e Due
conchiglie derivanti dagli interessi scientifico naturalistici
maturati in Filippo Napoletano a seguito delle richieste da parte
del celebre medico Giovanni Faber, amico di Galilei, che fece da
tramite con il pittore, di allestire una serie di scheletri e di
preparati botanici per finalità didattiche. Questi scheletri,
rappresentati in maniera originale tra lo stregonesco ed il
fantastico, esprimono una tendenza del tutto aliena alla cultura
figurativa italiana ed ebbero sicuramente un influsso su Salvator
Rosa, presente a Firenze dal 1640 al 1649, che dovette trarne
spunto per la sua folta produzione di stregonerie, oltre ad
apprezzare tutto ciò che di partenopeo era percepibile nella
pittura di Filippo, tra cui principalmente un linguaggio
accuratamente aderente alla realtà.
Dopo la morte di
Cosimo II nel 1621, Filippo si trasferì a Roma, ove soggiornò fino
alla morte avvenuta nel 1629, ad eccezione di due anni trascorsi a
Napoli dal 1624 al ’26. Durante gli anni trascorsi nella città
eterna egli eseguì dal vero alcuni paesaggi molto importanti per
la formazione dei paesaggisti italianizzati come Jan Both.
La critica negli
ultimi anni sta delineando con sempre maggiore precisione la sua
personalità artistica, che risulta rilevante nei riguardi della
cultura figurativa della prima metà del Seicento non solo di
Napoli, ma anche di Roma e di Firenze.
Abbiamo già delineato la personalità di numerosi artisti stranieri
attivi a Napoli nella prima metà del secolo XVII da Barra a De
Nomè, da Finson a Schöenfeld, da Van Somer a Stomer e tantissimi
altri; non era forse spagnolo il Ribera? Tutti costoro, per il
lungo periodo di permanenza nella città e per la rapida
acquisizione di caratteri tipicamente partenopei nella loro cifra
stilistica, sono però da considerare napoletanizzati, anche perché
è molto più quello che recepiscono dalla nostra cultura che quello
che danno.
Alcuni, di ritorno nei loro paesi, saranno un ulteriore strumento
di diffusione della pittura napoletana.
Discorso ben diverso da affrontare riguarda alcuni «grandi» del
Seicento europeo da Velázquez a Poussin, da Van Dyck a Rubens, da
Vouet a Mellin, a tutti i paesaggisti olandesi ed i caravaggisti
francesi di stanza a Roma, che influenzarono prepotentemente, chi
più chi meno, chi direttamente chi tramite seguaci o viaggi di
aggiornamento a Roma dei nostri artisti, il decorso delle arti
figurative napoletane.
Il
quarto decennio del Seicento fu il periodo di più intenso
rinnovamento e di più vivace emancipazione culturale per gli
artisti napoletani. Per anni le esperienze pittoriche più svariate
si affrontarono e si confrontarono come in un grande crogiolo per
dar luogo agli orientamenti dei decenni successivi.
Tutti
i pittori aggiornarono e modificarono il loro linguaggio al
confronto di nuove forme espressive facendo tesoro degli apporti
esterni, dall’esaltante colorismo barocco di Rubens e van Dyck,
alle severe inquadrature del Velázquez, dall’aulico classicismo
del Reni e del Domenichino al vernacolo quotidiano dei generisti
romani; e poi ancora, dal sogno lucidamente evocativo del ritorno
all’antico di Poussin, tinteggiato di preziose cadenze
veneteggianti alle movimentate aperture del Lanfranco verso più
dilatate soluzioni visive, senza considerare le sofisticate
risposte al problema del rapporto forma luce colore suggerite in
quegli anni da Artemisia Gentileschi.
Di
questi influssi, oggi scandagliati a sufficienza dalla critica,
risentirono vistosamente anche i caposcuola napoletani. Ribera e
tutto il suo entourage furono attratti dal pittoricismo, giunto a
Napoli attraverso le tele del Van Dyck e dei suoi seguaci genovesi
e siciliani; mentre Stanzione, partito da un luminismo moderato e
filtrato dalla lezione dei caravaggisti romani della seconda
ondata, smorzò il suo retaggio naturalista entro toni lirico
accademici di pacata narrazione e di grande luminosità sotto gli
esempi degli emiliani e di Artemisia Gentileschi e fu seguito in
questa conversione da tutta la schiera dei suoi seguaci.
L’influsso più importante sulla pittura napoletana fu costituito
dal classicismo bolognese, il quale si esercitò in tre distinte
maniere: attraverso le visite di aggiornamento dei pittori
napoletani a Roma ed in Emilia, tramite l’opera degli Emiliani a
Napoli, e con l’arrivo in città nelle grandi collezioni private,
quali quella del cardinale Filomarino, di opere emiliane eseguite
da Annibale Carracci a Lanfranco, da Albani al Domenichino ed al
Reni.
Le due
decadi fortemente dominate dall’influenza del classicismo
bolognese vanno dal 1635 al 1656 e corrispondono al periodo di
emergenza dello stile maturo di Stanzione, il «Guido napoletano»,
anche se prima di quella data lo stesso Reni era stato due volte a
Napoli nel ’12 e nel ’21, mentre gli arrivi in città per lunghe
permanenze del Domenichino e del Lanfranco risalgono
rispettivamente al 1631 ed al 1634.
La
diffusione della cultura classicista in ambito naturalistico a
Napoli, grazie all’opera di Guido Reni e del Domenichino prima e
del Lanfranco dopo, riveste grande rilievo, perché gli Emiliani,
presenti numerosi a Roma, non solo dipingono, ma teorizzano con
energia, dando una nuova dimensione alla pittura seicentesca.
I loro
raffinati capolavori alla Galleria Farnese a Roma sono la meta di
studio più ambita per tutti i pittori napoletani, Stanzione in
primis, che ne traggono suggestioni, linfa vitale ed energia da
trasferire sulle tele. Tutti tornano a Napoli con negli occhi e
nella mente la grande lezione degli Emiliani.La grandiosa
monumentalità della composizione e la delicata tenerezza nella
espressione, unite al carattere melodrammatico dell’azione,
rappresentarono una vera e propria rivoluzione per l’arte
napoletana degli anni Venti.
Il
primo ad arrivare a Napoli fu Guido Reni, già in città nel
1612, per il quale è stata già da tempo sottolineata dalla critica
l’importanza ricoperta dalla lezione che egli ha svolto nei
confronti di taluni aspetti della cultura figurativa napoletana.
Non è
certo accettabile l’ipotesi, in passato avanzata dal Bologna,
secondo il quale, già nel 1612, la sua presenza in città avrebbe
insinuato i primi dubbi nella fede caravaggista degli artisti
napoletani, fede che, come giustamente sottolineava il Causa,
soltanto allora cominciava a trovare i primi proseliti. Ma senza
dubbio negli anni successivi le sue opere influenzarono un’ampia
cerchia di pittori napoletani da Cavallino a Stanzione, da Vaccaro
al Falcone, e tale influsso, così profondo, non è imputabile
unicamente alle poche sue tele prodotte a Napoli, ma anche alla
conoscenza che tutti gli artisti avevano della sua produzione
presente a Roma ed altrove.
Diverso discorso deve farsi per l’Adorazione dei pastori
della Certosa di San Martino, che giunse tardi in città dopo la
morte dell’artista ed esercitò una sua particolare suggestione sul
Giordano e su tutti i giordaneschi fino agli anni di attività del
De Mura ed anche oltre. La tela di San Martino è tra le opere più
importanti del Reni, nella piena maturità dei suoi mezzi
espressivi, e ben rappresentativa di quella tendenza a raggiungere
esiti di pittura astratta quasi smaterializzata in «gamme
paradisiache, contrappunti sempre più trepidi del tocco,
digitazioni sempre più lievi ... un anelito ad estasiarsi, dove il
corpo non è che un ricordo mormorato, un’impronta» (Longhi).
Il gruppo dei dipinti conservati nella chiesa e nella quadreria
dei Girolamini ha una data di esecuzione controversa, forse non
coincidente con il primo passaggio dell’artista a Napoli, come
pure la Fuga in Egitto, la cui autografia è stata messa a
volte in dubbio, anche se trattasi di una copia antica, ebbe
chiaramente una sua efficacia educativa sulla schiera di giovani
pittori che poterono ammirarla ai Girolamini.
Della
celeberrima Atalanta ed Ippomene, che in passato era
ritenuta un acquisto ottocentesco, sono oggi noti i documenti che
dimostrano la presenza ab antiquo a Napoli della tela, nella
celebre raccolta dei Serra di Cassano, per cui l’influsso della
stessa sugli artisti che ebbero la ventura di ammirarla sarà stato
certamente considerevole.
Il
Reni fu a Napoli per un secondo soggiorno dal dicembre del 1620
fino all’aprile dell’anno successivo, per l’impegnativa
commissione della decorazione della Cappella del Tesoro nel Duomo.
Tale lavoro fu, assieme alla decorazione di San Martino, la
committenza più importante disponibile in città nella prima metà
del secolo XVII. In entrambi i casi la parte del leone andò ad
artisti stranieri, agli emiliani Lanfranco e Domenichino.
Tale circostanza scatenò le ire degli indigeni, con a capo
Belisario Corenzio, ras incontrastato degli artisti locali, il
quale armò la mano di un sicario che ferì un allievo del Reni,
provocando la repentina fuga dalla città del divino Guido, che era
venuto a Napoli in compagnia dei suoi discepoli Gessi e Sementi,
con un contratto record per quei tempi di 130 ducati per figura.
In
seguito alla sua rinuncia l’onere dell’impresa fu dato nel 1630 ad
un altro bolognese, il Domenichino e poi, alla morte di questi nel
1641, al parmense Lanfranco.
Sulla
fuga del Reni si vociferò a lungo e molto dovette pesare anche il
carattere non facile dell’artista; ad ogni modo il Corenzio,
ritenuto vox populi responsabile, fu condannato
all’incarcerazione.
In
seguito il Reni, al culmine della fama, contesissimo e di
indiscusso prestigio internazionale, non tornò più in città, ma
continuò ad influire sulla cultura figurativa locale attraverso la
sua opera, la cui fama non aveva più confini.
Alla
figura del Reni sono collegati i suoi due allievi che lo seguirono
nel suo secondo soggiorno napoletano: Giacomo Sementi,
mediocre artista, dai modi pittorici strettamente aderenti allo
stile del maestro, il quale non ha lasciato a Napoli alcuna opera
e Francesco Gessi, al quale il Reni aveva promesso un
incarico indipendente nella Cappella del Tesoro del Duomo e la
possibilità di assumere commissioni private. Egli, quando il Reni
fuggì da Napoli, fu costretto a seguirlo, quindi fece ritorno di
nascosto con la speranza di ottenere un incarico personale
nell’esecuzione dei lavori che nel frattempo erano stati affidati
a Fabrizio Santafede. Eseguì un affresco in un angolone
della cupola che fu ritenuto insoddisfacente dalla Deputazione, «fusse
d’assai più esquisita perfettione», per cui l’8 febbraio del 1625
venne liquidato senza aver conquistato la fama sperata.
Risale a questo periodo, o al precedente soggiorno nel 1621, la
commissione da parte degli Oratoriani di Napoli per due dipinti
poi non eseguiti e convertiti in seguito nel solo San Girolamo
della chiesa dei Girolamini, quadro dal solido impianto
naturalistico, in cui le figure dei protagonisti sembrano
decantare in un’atmosfera luminosa entro una sapienza di stesura
di fonte inequivocabilmente bolognese.
A questa tela più famosa bisogna aggiungere una Sacra famiglia
con San Giovannino conservata nella quadreria dei Girolamini,
in passato ritenuta opera di un artista francese seguace del
Poussin e che viceversa, per i particolari aspetti di grazia ed
equilibrio e per i caratteri di classicismo maturo in cui
l’ascendente reniano appare del tutto assorbito, è da ascrivere
alla mano del Gessi, che probabilmente eseguì il dipinto, dalle
piccole dimensioni e dal raccolto tono intimista, per devozione
personale di qualcuno dei padri oratoriani che lo conservò nella
propria stanza.
Dopo
il ritorno a Bologna, il Gessi portò con sé l’esperienza, anche se
breve, di lavoro al fianco del Santafede e del Caracciolo,
producendo incosciamente nella sua attività successiva dei frutti
che furono messi in luce da Andrea Emiliani, il quale notò larvate
tangenze con la cultura napoletana nei quadroni per la Certosa di
Bologna eseguiti nel 1645.
Importanza ben maggiore riveste la figura di Domenico Zampieri
detto il Domenichino, presente a Napoli per 10 anni, dal
1631 fino alla morte, avvenuta il 6 aprile del 1641.
Egli
fu, assieme ad Annibale Carracci e Guido Reni, uno dei grandi
pittori bolognesi del Seicento appartenente a quella scuola
pittorica che rinnovò il linguaggio artistico del XVII secolo.
Il
Domenichino fu con lo stesso Reni e con l’Albani il vessillifero
di quella riforma classicista dominante nella Roma di Clemente
VIII, di Paolo V e di Gregorio XV.
Egli
fu il più sofisticato pittore del XVII secolo e svolse un
importante ruolo culturale anche sotto il profilo della
teorizzazione dell’arte, nella cui stesura fu coadiuvato
dall’Agucchi, allievo dei Carracci, prima a Bologna e poi a Roma,
dove partecipò ai lavori della Galleria Farnese. Egli fu come
rapito dalla bellezza semplice, classica ed elegante dell’arte di
Raffaello e dei grandi maestri del primo Cinquecento.
Tutta
la sua carriera è dedicata alla rievocazione della luminosa
stagione del pieno Rinascimento, rivisitato alla luce di una
consapevolezza critica e intellettuale aggiornata e tutto comincia
nel clima della Galleria Farnese, palestra ed esempio imperituro
per generazioni di pittori, saturo di cultura classica e
ammirazione per Raffaello, ma anche di inquietudine e di
sensualità, ove maturava il seme da cui sarebbe sbocciato lo
stile, significativamente aborrito dai classicisti, che in pochi
decenni avrebbe guadagnato l’intera arte europea, ossia il
Barocco.
La sua
fama ha oscillato per tre secoli tra l’ammirazione e il disprezzo:
osannato dai contemporanei, che lo ritennero secondo solo al
Raffaello, nel Settecento ebbe un momento di oblio, per ritornare
in auge con la critica moderna, che è pervenuta ad una più chiara
valutazione dell’età barocca e del suo primo momento classico.
Egli
tese a fissare in immagini di statuaria evidenza le passioni
fondamentali dell’uomo, piegando a volte le regole del più puro
classicismo ed accostando i modelli di bellezza idealizzati alle
corde più impalpabili degli umani sentimenti.
Talune
volte ricadeva nell’imitazione pedissequa dell’antico ed in alcuni
affreschi come il Sacrificio d’Ifigenia o il Rifiuto
dell’Idolatria l’impressione è quella di trovarsi davanti ad
una metopa greca dell’età di Fidia, più che ad una pittura.
Egli
raggiunse le vette più eccelse della sua arte nel ’17, anno della
celebre Caccia di Diana della Galleria Borghese, che
segue il punto poeticamente più alto di tutta la pittura
mitologica classicista del Seicento italiano e nei primi anni
Venti in cui esegue le sue enigmatiche Sibille, simboli di
bellezza ideale dall’espressione inquietante nei volti attoniti,
come bambole di alabastro.
Dopo
tanti anni di successo, il Domenichino, quando giunse a Napoli,
era da tempo nella fase calante della sua espressione artistica ed
il motivo principale del suo tracollo fu costituito dalla fortuna
crescente di Giovanni Lanfranco, che di lì a poco verrà anche lui
a Napoli per soggiornarvi molti anni.
Lo
scontro decisivo avvenne nella chiesa di Sant’Andrea della Valle,
dove, mentre il Domenichino «dipingeva faticosamente storie di
Santi, ristrette in quadrature prospettiche rinascimentali con
andamenti e ritmi da arazzi di Raffaello, il Lanfranco si
arrampicava fulmineo nella cupola antistante riempiendola in pochi
mesi d’un vortice di corpi aerei alla scalata del cielo» (Borea).
Era il 1627, anno della nascita ufficiale del Barocco nella
pittura e il pubblico, levando il capo alla cupola radiosa, rimase
a bocca aperta per lo stupore. La vicenda artistica del
Domenichino era irrimediabilmente finita, il pittore decise di
lasciare Roma e firmò l’11 novembre del 1630 il contratto che lo
impegnerà per il resto dei suoi anni nei lavori per la decorazione
della Cappella del Tesoro nel Duomo di Napoli.
Il
compenso stabilito fu da record: 18.000 scudi che riuscirono a
stemperare gli indugi e le perplessità del Domenichino, timoroso
di lavorare nella difficile realtà napoletana, dove gli artisti
stranieri non erano ben accolti dall’entourage dei pittori locali,
come testimoniavano l’agguato a Guido Reni e le storie di
avvelenamenti, associate alle minacce, più o meno sottili, che
venivano propinate ad ogni occasione. Ma infine, l’ambizione per
l’esecuzione di un’impresa che si annunciava colossale prevalse
sulle paure e sulle riluttanze ed il pittore giunse a Napoli dove
visse anni difficili per la rivalità dei colleghi e per un senso
di solitudine ed isolamento che aumentarono nel tempo.
Egli
si buttò anima e corpo nell’esecuzione degli affreschi e delle
pale d’altare, certo di divenire l’artefice di una grande impresa:
l’intera opera consisterà di quattro pennacchi, tre lunette,
dodici riquadri nei sottarchi e cinque pale d’altare, una delle
quali non completa, mentre la cupola, che egli riuscì appena a
cominciare, fu lasciata incompiuta e quel poco che aveva fatto a
tempo a dipingere fu «buttato a terra» come ci ricorda il biografo
Giovan Battista Passeri e la decorazione ricreata interamente dal
suo acerrimo antagonista Giovanni Lanfranco.
Il
Domenichino aveva tradito da tempo le sue inclinazioni e, resosi
conto che la committenza richiedeva grandi pale d’altare e vistose
decorazioni, con cui adornare i grandiosi templi del mondo
cattolico trionfante, si era adeguato ed egli, pittore di
Historie e di paesi, accettò di dipingere estasi
mistiche ed ascese celesti, glorificazioni ed allegorie.
Già a
Roma egli si era convertito dal paesaggio al sacro, ma con ben
diversa energia, fermezza e dispiegamento di mezzi espressivi. A
Napoli i suoi affreschi, pur compenetrati dalla necessità storica
di rappresentare glorie e paradisi, recano il segno drammatico di
una grande impresa mancata: le sue nuvole sembrano sacconi
imbottiti ed i suoi santi in levitazione arrancano disperatamente
nel vuoto. Tutta l’opera procede lentamente come in preda ad una
disperata agonia. Il Domenichino insegue un progetto di astrazione
con gli stessi mezzi espressivi di un manierista di cinquant’anni
prima ed il risultato è ancora più sorprendente alla luce della
considerazione che in quegli anni a Napoli germoglia fruttifera la
pianta del naturalismo e si vedono all’opera fior di artisti dal
Battistello al Ribera.
Costretto a lavorare senza sosta dai suoi committenti che gli
vietano di assumere qualsiasi altro incarico, tentò per qualche
tempo la fuga, rifugiandosi presso la famiglia degli Aldobrandini,
suoi antichi protettori, a Roma. Ma dopo poco fece ritorno, anche
se di malavoglia, a Napoli, dove, sempre sotto le forti minacce
fattegli dai suoi colleghi continuò pigramente a lavorare fino al
1641, quando morì, forse avvelenato, lasciando incompiuta la sua
impresa, che fu proseguita dal Lanfranco, al quale si deve la
realizzazione della splendida cupola e, per le pale d’altare, a
Massimo Stanzione, cui spetta il vigoroso e drammatico Miracolo
dell’Ossessa ed a Ribera artefice del celebre e spettacolare
San Gennaro che esce illeso dal fuoco della fornace, un
immenso rame che, restaurato per l’occasione, fu il gioiello della
mostra sulla Civiltà del Seicento ed il cui dramma miracoloso si
compie sotto un cielo azzurro come da sempre è quello napoletano.
Al
Domenichino va collegata la figura di un suo gregario,
Francesco Cozza, nativo di Stilo in Calabria nel 1605, il
quale, come ci riferisce il Pascoli, si recò giovane a Roma per
studiare pittura col bolognese prima del 1631.
Successivamente seguì a Napoli il Domenichino di cui fu
collaboratore per alcuni anni; fu anche lui oggetto di
intimidazione da parte dei corenziani, tanto da fare ritorno a
Roma, forse nel 1634 o poco dopo, ove operò fino alla morte nel
1682.
Molte
sue opere denotano la sua formazione domenichiniana e la piena
adesione agli stilemi del classicismo bolognese.
Le
opere riferibili al soggiorno napoletano dell’artista, la
Madonna del cucito in San Bernardino e la Sacra famiglia
a Capodimonte, indicano il contatto con la corrente classicista
napoletana ed in particolare con Pacecco De Rosa.
Celebri sono le sue repliche della Madonna del cucito: una
di queste venne esposta nel 1938 alla grande mostra tenutasi a
Napoli sulla pittura di tre secoli e l’Ortolani nel suo acuto
articolo introduttivo seppe ben delineare per primo i rapporti
intercorsi tra il Cozza e la corrente purista, cui tanto
cooperarono i pittori napoletani, da Pacecco, in primis, fino allo
stesso Stanzione. L’Ortolani inoltre apprezzò molto il suo tipico
gusto nella definizione meticolosa del panneggio: «quel suo
rappreso e arricciato cartoccio che ne definisce tanto
caratteristicamente la maniera». Sottolineò inoltre i prelievi ed
i debiti che il Cozza aveva contratto con Artemisia Gentileschi,
presente a Napoli in quegli anni, dalla quale aveva ricavato «le
pure teste ovoidi fasciate d’ombre» della Madonna dell’Annunciazione
e quel luminismo chiaro che ripeterà poi anche nella sua
produzione romana.
In
seguito altri studiosi dalla Mortari al D’Elia hanno confermato
l’opinione di un ripetuto rapporto del Cozza con l’area pittorica
napoletana; anche il Ferrari, per quanto concerneva gli anni
Quaranta, ha parlato di «naturalissima osmosi tra Cozza e
Guarino», affacciando l’ipotesi di un secondo soggiorno
napoletano. Lo studio dettagliato della sua Madonna del cucito
nella redazione conservata a Molfetta aveva indotto alcuni
critici, come la Lo Presti, a parlare di miracolo artistico
nella originalità di quelle biancherie, di quegli spigoli e piani
inclinati, di quei cincischi a dorso di conchiglia, apparenze di
manierismo nordico e düreriano che definivano un’ampia quota di
autonomia dallo stile del Domenichino.
Altri
autori hanno supposto che il Cozza, giovanissimo, prima di recarsi
a Roma sia stato a Napoli nell’ambito naturalista tra Sellitto,
Battistello e Finoglia; ma su questa ipotesi, come su altri punti
oscuri della sua attività, saranno i critici futuri ad esprimersi.
Parmense di nascita, ma bolognese per educazione artistica,
Giovanni Lanfranco è il terzo grosso personaggio che si
affaccia a Napoli, chiamato a realizzare imponenti cicli
decorativi.
Dopo
la calma riflessione del freddo e religioso Domenichino, dopo la
sublime ed astratta idealizzazione del Reni, ecco sulla scena
l’inventore dell’illusionismo in pittura, dei famosi sottinsù
che renderanno celebri tante cupole: con lui si schiudono nuovi
orizzonti per la pittura settecentesca, «le leggi della
prospettiva cedono all’illusione di uno spazio infinito, le forme,
rese con rapidi tocchi, acquistano una nuova intensa vitalità»
(Novelli).
A
Napoli, roccaforte dei tenebrosi, erano programmate grandi imprese
decorative, per le quali i più famosi artisti locali, non molto
esperti nella tecnica dell’affresco, erano ritenuti inadeguati.
La
Chiesa cattolica, negli anni della controriforma, in opposizione
ai protestanti, che volevano spogli e disadorni gli edifici del
culto, predisponeva fastose imprese decorative, mirando ad
esaltare i santi e ad illustrare e semplificare i dogmi con
l’ausilio delle immagini.
Questa
opera di esaltazione vi fu a Roma come a Napoli, anche se da noi,
per la presenza degli Spagnoli che gradivano forme di emulazione
quasi mistica e per il carattere estroverso dei napoletani, alieno
a formulazioni di astratta idealizzazione e di retorica
celebrativa, le soluzioni stilistiche di tipo devozionale adottate
furono più facilmente percepibili e collaborarono ad educare gli
animi e ad «annullare ogni distanza tra Dio e l’uomo, tra il cielo
e la terra, tra il trascendente e l’immanente» (Spinosa).
Il
Lanfranco ebbe a Parma come primo maestro Agostino Carracci,
quindi dopo la morte di questi, nel 1602, passò a Roma, dove
studiò con Annibale nella grande palestra della Galleria Farnese.
Nel
1609 ritornò in Emilia per due anni e lavorò molto a Piacenza,
dove realizzò numerose pale d’altare. Gran parte della sua
produzione di quegli anni è oggi al Museo di Capodimonte, dove
giunse nel 1734, insieme alle Collezioni Farnese.
Al suo
ritorno a Roma vi era un grande dissidio tra la corrente
classicistica carraccesca e quella naturalistica caravaggesca, ai
cui richiami il Lanfranco non rimase del tutto insensibile,
principalmente nell’uso della luce, che lo collocò in relazione
con alcuni artisti della cerchia caravaggesca, quali il Vouet e lo
stesso Caracciolo presente a Roma in quel periodo.
E
siamo agli anni della sua più famosa impresa decorativa, che
impegnerà il pittore dal 1625 al ’27: la realizzazione di un
affresco nella cupola della chiesa di S. Andrea della Valle a
Roma.
Il
Lanfranco si gettò nel lavoro con impeto e foga inesauribili,
avendo come modello la soluzione adottata dal Correggio nelle due
cupole di Parma, ove il limite materiale della struttura muraria
aveva ceduto all’illusionismo aereo di uno spazio infinito.
Egli
dipinge a colpi di spugna in una atmosferica animazione barocca
che esalta la vibrazione del colore come un polline dorato, mentre
«le figure si moltiplicano quasi all’infinito e si innalzano in un
vortice di nuvole a cerchi concentrici verso la luminosa figura
del Cristo dipinta nella lanterna» (Novelli).
Il
Bellori, biografo dell’epoca, paragonò questa pittura alla musica,
quando tutti i colori concorrono a formare l’armonia, come tutti i
suoni si sublimano nel canto.
Il
Passeri affermò, senza tema di smentite, che Lanfranco «fu il
primo a delucidare l’apertura di una gloria celeste con la viva
espressione di un immenso luminoso splendore».
Nonostante la gloria conquistata, negli anni successivi, a Roma,
alla corte dei Barberini cominciarono lentamente ad affermarsi
altri artisti quali Sacchi, Bernini e Pietro da Cortona; di
conseguenza le commissioni pubbliche diminuirono, per cui il
Lanfranco accettò volentieri l’invito dei Gesuiti di dipingere la
vasta cupola del Gesù Nuovo a Napoli, seguendo in tal modo le orme
del Domenichino, che si era trasferito all’ombra del Vesuvio già
dal 1631.
Gli
anni trascorsi a Napoli, dal 1634 al ’46, furono quanto mai
fecondi per l’artista il quale, oltre che al Gesù Nuovo lavorò
anche nella chiesa dei SS. Apostoli, nella Certosa di San Martino,
nella Cappella del Tesoro del Duomo e nell’Oratorio dei nobili.
Tra una decorazione e l’altra trovò anche il tempo di dipingere
sontuose pale d’altare, da inviare in altre città italiane o
all’estero come la grandiosa Annunciazione per la chiesa De
Las Agustinas descalzas a Salamanca e partecipare ad importanti
committenze al fianco dei principali artisti dell’epoca, non solo
napoletani. Tra il 1634 ed il ’37 con Stanzione, Camassi,
Romanelli e Domenichino inviò in Spagna alcuni dipinti con scene
di vita dell’antica Roma per adornare il Palazzo Reale del Buen
Retiro, mentre tra il 1635 ed il ’40 con Codazzi, Stanzione,
Finoglia, Francanzano, Beltrano e la Gentileschi fu impegnato
nell’esecuzione delle numerose pale d’altare richieste per
arricchire il Duomo di Pozzuoli. La tela da lui eseguita, lo
Sbarco di S. Paolo, è tra le sue «immagini più potenti e
nuove, per l’originale effetto scenico del luminismo abbagliante e
contrastante nel primo piano, la pittoresca fantasia del fondale
con la nave che ammaina la vela, e nelle figure di contorno
qualche accenno a soluzioni pittoriche della sua foga di
freschista, in senso pre-piazzettesco» (Ortolani).
Notevole è la sua produzione grafica: abile come disegnatore, al
pari di tutti i grandi specialisti nell’affresco, che necessitano
di una mappa accurata per organizzare il lavoro dei propri
collaboratori. Attraverso i suoi numerosi disegni, più di 500, in
gran parte conservati a Capodimonte, è possibile seguire tutto il
processo creativo che portò all’esecuzione delle sue grandi
imprese decorative.
Nel
1646 fece ritorno a Roma per eseguire la decorazione del catino
absidale in San Carlo ai Catinari. L’anno successivo si spegneva e
con lui scompariva il maggiore protagonista della prima fase del
barocco nella pittura italiana.
La
lunga permanenza del Lanfranco a Napoli ebbe una grande influenza
sulla pittura locale ancora incerta tra manierismo, naturalismo e
classicismo. Tra i suoi allievi diretti vi fu forse Nunzio Rossi,
mentre il Beinaschi, per evidenti motivi anagrafici, non fu suo
discepolo, come si legge in tanti libri, bensì si ispirò ai suoi
modi pittorici. Molti altri artisti come Domenico Gargiulo e
Bernardo Cavallino trassero linfa ed ispirazione dalla sua
produzione; il Battistello, transfuga oramai dalla schiera
caravaggesca, attraverso il suo esempio si convertirà all’affresco
e lo stesso Stanzione irrorerà la sua pittura di una verità più
dolcemente espressa.
Ma le
sue opere, all’avanguardia sui tempi, esercitarono un forte
ascendente più che sui contemporanei, sugli artisti sopravvissuti
alla grande cesura rappresentata dall’epidemia di peste che colpì
la città nel 1656.
Alla
sua lezione si richiamarono per tutto il Seicento ed il Settecento
il Preti, il Giordano, il Solimena e tanti altri pittori minori,
che diedero vita alla grande stagione della decorazione barocca
napoletana.
Oltre
a quella del classicismo bolognese, un’altra corrente figurativa
molto importante, che giunse e si sviluppò a Napoli intorno alla
metà degli anni Trenta, fu il vandychismo, con le sue nuove,
splendenti ed impreziosite intensità cromatiche, che ebbe grande
popolarità e diffusione in città, sia per la probabile presenza di
originali del Maestro, non documentati, sia per le numerose copie
dovute al fertile pennello di Andrea Vaccaro.
Tali
novità giunsero a Napoli, in parte attraverso la pittura genovese,
sede di una tappa del viaggio in Italia del grande maestro
anversano, ma principalmente grazie alla permanenza in città dal
1631 al ’33 del monrealese Pietro Novelli, soggiorno
accettato unanimamente dalla critica, anche se non documentato, in
conseguenza del quale la pittura napoletana poté comprendere ed
apprezzare il nuovo messaggio di luminoso e caldo pittoricismo,
che determinò lentamente una svolta nel gusto ed una crisi del
naturalismo fino ad allora imperante.
Tali
tendenze risulteranno poi maggiormente evidenti con l’arrivo del
Grechetto.
Il
Van Dyck nel suo viaggio attraverso l’Italia tocca Genova,
Roma, Venezia per giungere nel 1624 a Palermo ove si reca alla
corte del viceré Emanuele Filiberto di Savoia per eseguirne il
ritratto e reca il soffio del rinnovamento, in veste europea,
l’esuberanza dei colori del Rubens suo conterraneo ed il colorismo
veneto da lui assimilato in Italia. Egli portò con sé «il mistero
di quelle ineffabili velature, di quei toni di bruno coibente,
quel bruno indimenticabile, caldo, fluido, in fusione» (Delogu).
Da
allora la lezione del grande pittore fiammingo penetrerà
profondamente nell’arte del Novelli, con la sua forma elegante,
«la sua vivissima sensibilità pittorica di ascendenza neoveneta,
la raffinatezza della tessitura cromatica e l’eleganza delle
soluzioni compositive» (Petrelli).
Nei
pochi mesi in cui il Van Dyck fu in Sicilia, tra la primavera e
l’autunno del 1624, prima che la peste lo facesse fuggire via, il
Novelli ne fu singolarmente attratto e ciò gli permise di
oltrepassare i limiti del manierismo provinciale del padre,
modesto pittore di un’arte essenzialmente illustrativa ed
aneddotica e di risalire a fonti europee, divenendo a sua volta
divulgatore e diffusore di un nuovo linguaggio pittorico. Egli
prese dal grande anversano, come prelevò dagli spagnoli,
arricchendo il suo vocabolario formale. La sua pittura
chiesastica, fino a quel momento genuina e devota, divenne, anche
se sommessamente, garbatamente mondana ed egli seppe raggiungere,
nei momenti di felicità creativa, espressioni di austera e
malinconica umanità, anche se non mancano tra tanti colori
sgargianti, quelli cupi del dolore e della tristezza.
A
Napoli con il Ribera ci fu scambio reciproco, dare ed avere in
eguale misura, mentre il nuovo linguaggio pittoricista,
riverberato dalla sua presenza in città, diede una svolta luminosa
all’attività del Vaccaro e del Cavallino, di Cesare Fracanzano e
di Giuseppe Ricca. Le tele napoletane del Novelli acquistano più
lucentezza, filtrate attraverso l’uso modulato del colore e la
raffinata ed elegante resa compositiva d’impronta vandychiana.
In
seguito, a questo crogiolo espressivo si aggiungeranno, creando un
giusto equilibrio, le esperienze dei neoveneti romani.
Nel
1613 era giunto a Roma un giovane destinato a grandi cose:
Pietro Berrettini da Cortona, languido cantore di dolci sere
d’estate, di ciocche brune che si intrecciano su candide nuche di
donna. Egli darà un nuovo e fecondo impulso alla ricerca dei valori cromatici,
attraverso uno studio ed una profonda riflessione
sull’insegnamento dei Veneti, divenendo così uno dei maggiori
interpreti del barocco romano, che sarà esaltazione del colore,
espressione del virtuosismo come teatralità, fluido movimento
delle figure e straordinaria leggerezza del tocco. Egli sul
palcoscenico romano, il più vivo, il più articolato e ricco di
esperienza del tempo in Europa, formicolante fucina di artisti e
maniere diverse, superò i residui del classicismo bolognese,
portatovi da Annibale Carracci e da Guido Reni e del naturalismo
del Caravaggio e dei suoi numerosi seguaci italiani e stranieri e
cambiò «faccia allo stile del dipingere» come giustamente
proclamava Giovan Battista Passeri, il suo maggiore biografo. Ma
quel «fracasso», quelle «licenze» e «ondulazioni», quei
«frastagli», quella eccessiva molteplicità di figure, erano
l’espressione di un mutamento profondo nel gusto della società del
tempo o, per essere più precisi, delle sue classi dominanti.
Il
nuovo verbo, sfarzoso ed illusivo, frenesia di colore e tripudio
di forme librate nell’aria, si irradiò per tutta la penisola e
giunse anche a Napoli, attraverso sue realizzazioni e per mezzo
dei viaggi culturali che i pittori napoletani eseguivano
periodicamente a Roma. Il Giordano è l’artista che ha contratto il
maggior debito verso il Berrettini, da cui accoglie formule e
soluzioni compositive; l’ecclettismo della sua ispirazione
pittorica ed il suo sfrenato talento di colorista vanno ricondotte
nell’orbita dell’influsso del neo venetismo romano di cui è
paladino Pietro da Cortona, oltre che nello studio e
nell’assimilazione della grande lezione dei cinquecentisti
veneziani, in specie di Paolo Veronese.
Un
esempio paradigmatico dell’attenzione rivolta dal Giordano ai
prototipi dell’attività cortonesca possiamo osservarlo nel Sant'Alessio»
della chiesa del Purgatorio ad Arco, derivazione lampante della
tela eseguita a Roma dal Berrettini nel 1638 e quindi inviata a
Napoli alla chiesa dei Girolamini, dove costituì uno dei primi
esempi di barocco.
In
seguito anche Francesco Solimena dopo gli anni Ottanta seppe
produrre risultati di nuova ed esaltante bellezza pittorica,
attraverso l’originale ripresa e la brillante sintesi di formule e
soluzioni degli esempi di Pietro da Cortona.
In
precedenza abbiamo accennato al ruolo della pittura genovese, il
cui apporto come tramite per la diffusione del linguaggio
vandychiano nell’area napoletana non è da sottovalutare.
A tal
proposito dobbiamo inquadrare la figura di Domenico Fiasella
che, come ci ricorda il biografo Ratti, inviò molte sue opere a
Napoli per adornare la chiesa della sua nazione, San Giorgio dei
Genovesi, rimaneggiata nel 1620, che fino a pochi anni fa
conservava due sue tele, oggi alla Pietà dei Turchini, la
Crocifissione e la Madonna regina, che fu anche
esposta alla mostra sulla civiltà del ’600.
I
rapporti culturali tra Napoli e Genova in entrambe le direzioni
sono stati investigati negli ultimi anni da Pacelli, che ha
fornito l’inventario della quadreria di Marcantonio Doria e ha
documentato che molti artisti napoletani quali Battistello, Ribera,
Azzolino e Santafede inviarono numerose loro opere a Genova ed
alcuni di essi, come il Caracciolo soggiornarono nella città
ligure, per committenza e studio. Di recente Pesenti ha ipotizzato
un soggiorno a Napoli di Orazio De Ferrari. È così ragionevole
ipotizzare che tramite questi pittori, in aggiunta alle tele
inviateci da artisti genovesi, tra cui il Fiasella, giungesse a
noi il luminoso messaggio del grande anversano, a lungo attivo in
quella città ed anche le novità cromatiche del Rubens, del quale
numerose tele si conservavano non solo nelle corti nobiliari, ma
anche in numerose chiese di Genova.
In
quegli anni Napoli è una città protagonista in ogni settore ed
intesse rapporti commerciali con tutto il Mediterraneo. Il grande
impulso impresso alle attività mercantili aveva indotto molti
forestieri a venire da noi per intraprendere commerci ed aprire
uffici di rappresentanza.
«Lombardi, genovesi, fiorentini, fiamminghi, siciliani, mercanti,
artigiani nei vari ambiti di attività, artisti, cambiavalute e
banchieri, tutti si stabilirono nel cuore della Napoli secentesca,
diventando un punto di riferimento. Questi forestieri si
ritrovavano intorno alla chiesa della loro comunità, che
arricchivano con opere commissionate nella patria di origine o
fatte eseguire in loco da artisti che condividevano aspetti della
loro cultura» (Pacelli).
I
genovesi, uniti intorno alla loro chiesa di San Giorgio
nell’attuale via Medina, commissionarono opere ai loro
connazionali, principalmente al Fiasella, o ad artisti come il
Caracciolo, che aveva soggiornato nella loro città.
Il
Fiasella negli anni Trenta, dopo la partenza dello Strozzi e del
Castiglione, divenne a Genova il pittore più importante, con
numerosi allievi, alcuni dei quali divennero famosi come Valerio
Castello, Domenico Piola e Gregorio De Ferrari e dalla sua bottega
inviava opere a Napoli, Messina, in Spagna e dovunque ci fossero
comunità di suoi concittadini.
La
corrente pittoricistica che prende quota a Napoli nella seconda
metà degli anni Trenta, oltre ai modelli del Van Dyck e del neo
venetismo, trae spunto dal lavoro incessante di Pieter Paul
Rubens, l’artista più spettacolare e rappresentativo del
gusto barocco, il cui messaggio gioioso ed irrefrenabile si
irradia su tutta la pittura europea.
Nel
1640 giunge a Napoli nella collezione di Gaspare Romer il suo
Banchetto di Erode, oggi ad Edimburgo, gemma della National
Gallery of Scotland in un tripudio di colori, una musica soffusa
nella fermentante vitalità degli accordi cromatici.
Il De
Dominici ci parla dell’influsso che questo dipinto ebbe sul
Cavallino che «accorso con altri pittori per vedere cosa di cui
erasi sparsa così gran fama, e tanto bella gli parve, che quasi
incantato dalla magia di que’ vivi e sanguigni colori con
meravigliosa maestria adoperati, si propose imitarla».
È da
questa pittura, luminosa e dilagante, che nascerà quella barocca,
che troverà negli anni a venire in Luca Giordano il protagonista
assoluto.
E
diamo di nuovo la parola al De Dominici il quale ci rammenta che
nelle case dei più grandi collezionisti napoletani, abitualmente
frequentate dal Giordano, era possibile ammirare capolavori del
Rubens: «opera non mai abbastanza lodata, essendo dipinta col più
vivo colore che mai adoperasse quell’ammirabile pittore».
Il
messaggio del Rubens, che da Venezia a Genova, città dove visse
più a lungo, si irradiò per tutta la penisola, fu pregno di
novità: intensità, calore e ricchezza cromatica, briosità di
esecuzione, abbandono del chiaroscuro a vantaggio di colori vivi e
vibranti di luce che cangiando muta i colori, caldi e ricchi di
materia, massima libertà di esecuzione, con una pennellata grassa
e fluida.
Tutti
questi caratteri furono lentamente assimilati da generazioni di
pittori, che ne fecero parte integrante della propria cifra
stilistica.
L’adesione a questi nuovi messaggi linguistici da parte
dell’ambiente artistico napoletano non significò un rifiuto della
precedente esperienza naturalista bensì un arricchimento culturale
ed un’occasione per sperimentare nuovi mezzi espressivi più ricchi
e variegati, in grado di esprimere i sentimenti e le emozioni più
profonde, in un clima di cordiale comunicatività e di naturalezza
espressiva.
I
soggiorni a Roma, anche brevi, erano frequenti e tutti gli artisti
tornavano dalla città eterna con negli occhi un mondo tumultante
di immagini in volo vorticoso negli spazi illusori di cieli
infiniti, tra il dilagare di luci solari e di materie preziose.
Nell’aria si respiravano le creazioni dai colori squillanti che
Rubens, tra una missione diplomatica e l’altra, ci donava,
immagini di gioia, archetipo di mondi di felicità travolgente o si
potevano ammirare le solenni composizioni di Poussin immerse in
una calma serafica di un mondo regolato da leggi al di fuori del
tempo e dello spazio; ma questa è la meraviglia dell’arte che ci
offre il conforto di grandi certezze, di punti di riferimento
sereni e sicuri e, nello stesso tempo, lascia libero spazio alla
fantasia ed alla sensibilità di ciascuno di noi nel percepire il
messaggio che l’artista ci invia e ci invita a raccogliere.
I
rapporti tra Nicolas Poussin e la cerchia di artisti
napoletani più influenzati dai suoi modi pittorici, da Andrea De
Lione a Salvator Rosa, da Aniello Falcone a Micco Spadaro, sono
accettati da tempo dalla critica più avvertita, anche se non è
documentato alcun viaggio del francese a Napoli.
Nessuna sua opera è specifico punto di riferimento per analoghi
soggetti eseguiti dai nostri artisti, ma sono i contenuti
stilistici e formali dei suoi dipinti e la chiarezza di tono che
riflette la particolare sensibilità del Poussin alla pittura
veneta, in specie del Veronese e l’interpretazione personale che
egli ne dà, ad influenzare quella ampia cerchia di artisti che
comprendono il Grechetto, Andrea De Lione, Salvator Rosa e tanti
altri.
Le
grandi collezioni napoletane dell’epoca, da quella del cardinale
Filomarino, a quella del mecenate Vandeneynden, alle meno famose
dei Cellammare e dei Della Torre, possedevano alcuni dipinti di
Poussin, mentre un altro punto di contatto è costituito senza
dubbio dal viaggio di studio che negli anni Venti e Trenta i
pittori napoletani erano soliti compiere nell'ambiente artistico
romano, dove in breve Poussin era assurto a figura dominante.
Egli
diede vita ad un modello di classicismo che, travalicando i tempi,
è giunto fino ai nostri giorni e si fa apprezzare anche dal nostro
gusto di moderni.
Il suo
mecenate fu il poeta Giovan Battista Marino, il più grande dei
letterati italiani attivo in Francia al tempo della sua giovinezza
ed è merito suo se egli intraprese il suo viaggio in Italia; come
pure è ai suoi dettami filosofici e morali che il Poussin si
ispirò nella elaborazione del suo credo di artista impegnato.
Egli
volle incarnare la figura dell’artista moderno, che non lavora più
esclusivamente per committenze religiose o nobiliari.
Il
Poussin, pur subendo l’influsso del fervido e variegato ambiente
romano del secondo decennio del Seicento, fu creatore di una
pittura personale, simbolo della più alta e solenne quiete e
meditazione, attraverso la quale egli si calò in una straordinaria
avventura intellettuale nella immensa dimensione di un passato che
è insieme storia e mito.
Egli
contribuì inoltre alla crescita ed alla diffusione della pittura
di paesaggio e ciò rappresentò sicuramente un modello per taluni
pittori napoletani, quali ad esempio Domenico Gargiulo, che prese
spunto dai suoi quadri per l’esecuzione della lunetta con
paesaggi, dipinta nel 1638 nel coro di San Martino.
Anche
nel genere delle battaglie precorse un gusto che a Napoli avrà
celebri epigoni in Aniello Falcone, Andrea De Lione e Salvator
Rosa.
Nelle
scene mitologiche, che furono il suo cavallo di battaglia, ebbe
modo di incidere su Lanfranco, Domenichino, Falcone e sugli altri
artisti napoletani che con lui parteciparono alla grande
commissione di Filippo IV per abbellire il Buen Retiro a Madrid.
Solo
con artisti come Guarino, Cavallino e De Bellis la critica non ha
inquadrato ancora del tutto i rapporti, perché regna incertezza
nella cronologia delle loro opere.
«Rispetto a Pietro da Cortona che vive, in quel tempo, esperienze
affini nell’ottica della assoluta estroversione, Poussin
rappresenta un polo dialettico di pura introversione, improntata
all’idea della sollecitudine, dell’amicizia, della comprensione
reciproca, dell’appartenenza ad un’ideale confraternita di
sapienti» (Strinati).
Questi
due diversi indirizzi ideologici giunsero fino a Napoli ed
improntarono il destino delle arti figurative in un momento di
grandi trasformazioni e di rimodellamento del gusto.
Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, uno dei maggiori pittori del Seicento
italiano, è stato viaggiatore instancabile e nelle sue
peregrinazioni è presente a Napoli dopo il carnevale del 1635 per
alcuni anni.
In
città i suoi dipinti non passarono inosservati, infatti possono
essere rivelate diverse coincidenze stilistiche ed iconografiche
tra le sue opere e quelle degli artisti che generalmente vengono
assegnati alla bottega di Aniello Falcone. Egli possedeva una
grande abilità nel dipingere animali e nature morte, tecnica
acquisita da giovane a Genova a contatto con i pittori del nord
Europa. Il motivo della sua venuta a Napoli è stato in passato
collegato ad una rissa in cui fu coinvolto, ma non è da escludere
che il Domenichino, arrivato poco prima, abbia avuto un ruolo nel
suo trasferimento, perché come ci riferisce il Malvasia, aveva
considerazione ed una grande ammirazione per i suoi colori, resi
con impasti cromatici densi e caldi.
Il
Grechetto nelle sue composizioni classiche è abile ad immettere un
movimento barocco, che aumenta il dinamismo della scena; mentre
per l’aspetto cromatico fu essenziale la sua conoscenza del Rubens
e del Van Dyck col quale fu a contatto intorno al 1620. Egli più
che nelle ariose decorazioni di sapore barocco, dà il meglio di sé
nelle composizioni a sapore naturalistico, nelle pitture con
animali e nella natura morta.
Sfortunatamente il suo periodo napoletano rimane ancora in gran
parte oscuro, perché non possediamo documentazione precisa dei
suoi dipinti realizzati in loco, anche se sappiamo che molti di
essi, oltre a vari disegni, specialità in cui era molto abile,
erano raccolti nella celebre collezione del mercante Roomer, dove
molti pittori erano di casa, per cui potevano trarre dalle sue
composizioni elementi per affinare la loro tecnica.
Tra le
sue opere conservate a Napoli ab antico ricordiamo una splendida
Isacco e Rebecca nel museo di San Martino, una Donna con
Bambino e natura morta nel Rettorato dell’Università,
identificata dal De Rinaldis e già attribuita al Castiglione negli
inventari ottocenteschi, nella quale alcuni dettagli come il
piatto colmo di frutta, i panni damascati e la delicatezza
cromatica nella descrizione dei fiori derivano chiaramente da
modelli fiamminghi e fanno ipotizzare ad un possibile apporto del
Castiglione al filone napoletano della natura morta seicentesca.
Inoltre altri due capolavori in collezione Pisani, uno dei quali
firmato, un Orfeo ed un Mosè che fa scaturire l’acqua
dalla rupe, segnalati dal Bologna, nei quali l’artista si
sofferma sullo studio minuzioso degli animali, delle suppellettili
metalliche e del paesaggio, fornendo un valido spunto ai Petits
Maitres napoletani come Andrea De Lione, Niccolò De Simone ed
Aniello Falcone.
Il
1630 è la data del viaggio in Italia di Diego Velázquez
durato 18 mesi di cui 12 trascorsi a Roma. La sosta a Napoli,
ospite del Ribera, fu breve, ma certamente feconda per l’ambiente
artistico locale, recettivo al messaggio di freschezza di immagini
e sincerità di scrittura con la quale il grande pittore spagnolo
aveva ritratto a Siviglia la gente della strada e quella delle
taverne.
La
complessa problematica velazqueziana dell’accordo luce spazio
colore trovò presso di noi discepoli pronti ad approfondire il suo
linguaggio moderno ed originale che è quanto di più ardito e
moderno abbia prodotto dopo Caravaggio, la pittura europea.
Un’opera che sicuramente il Velázquez ha eseguito a Napoli è il
Ritratto dell’infanta Maria sorella di Filippo IV, che
fu di passaggio nella nostra città nel viaggio verso l’Ungheria
ove si sposerà con Ferdinando III. Questa opera sarà stata
sicuramente ammirata dai frequentatori della bottega del Ribera,
presso cui il sivigliano alloggiava e tra questi il Falcone, che
certamente lo conobbe e da lui ha tratto la caratteristica
dell’essenzialità del racconto, in opere come la spettacolare
Maestra di Scuola, che sembra discendere direttamente dal
pennello del Velázquez.
Un
altro dipinto, oggi a Capodimonte, presente a Napoli dal Seicento,
da taluni ritenuta copia di ottima fattura, da altri autografo è
rappresentato da quella straordinaria trasgressione che infrange
tutti i rigidi dettami accademici della pittura ufficiale,
costituita dai Borrachos.
Riguardo al Falcone, oltre che sulla già riferita Maestra
influssi tangibili si apprezzano in più di una battaglia ispirata
al più rigoroso naturalismo e nella Elemosina di Santa Lucia,
che secondo la definizione che ne diede il Longhi «viene più
vicina a Velázquez che non possano i bambocciari di Roma, per
osservanza caravaggesca sempre più contrastanti di lume».
Non
ancora definitivo il parere della critica su quanto il Guarino ed
il Maestro degli Annunci ai pastori, artisti attenti alla realtà
ed alla vita popolare abbiano potuto prelevare dal bagaglio
culturale del grande sivigliano, grazie al quale penetra
finalmente nella pittura il palpito dell'osservazione diretta, in
un clima di fresca visione naturale al di là delle convenzioni
ideali e dei programmi teorici ed in questa frase possiamo
riscontrare una conferma di ciò che asseriva il Berenson, che il
Velázquez, fu non solo il più glorioso, ma per molti lati il più
fedele dei seguaci del Caravaggio. Nel 1630, anno della presenza
del Sivigliano a Roma il mondo delle arti è sotto pressione in un
crogiolo infuocato di idee e di modi formali più diversi.
Caravaggio è morto oramai da vent’anni e la linea del Piave del
caravaggismo è affidata oramai al fervoroso e pittoresco manipolo
di pittori che sono identificati sotto il nome di Bamboccianti.
Il
Velázquez, forte del tirocinio naturalistico degli anni trascorsi
nella sua città natale, interagisce con questa nuova realtà con la
quale stabilisce un’immediata facilità di comprensione e talune
volte di rifrazione.
I
Bamboccianti ci offrono quella che, secondo la felice frase
coniata dal Longhi, fu ritenuto un «caravaggismo a passo ridotto»,
una moda commerciale senza dubbio, ma anche, per alcuni degli
artisti più rappresentativi del gruppo come Sweerts e Van Laer, un
pretesto per ritrarre al fianco del riposo dei contadini e di
altre immagini di vita quotidiana delle classi più umili, il
superbo incontro con la delicata luce della sera, che suffonde
un’atmosfera, in cui la vita appare come sogno fuori del tempo,
nell’eternità del ripetersi di tutte le piccole cose.
Il
forte richiamo esercitato da questi pittori fu ascoltato da
Domenico Gargiulo e da Aniello Falcone; ed il merito precipuo si
deve, oltre ai viaggi di studio dei nostri artisti a Roma,
assegnare a Michelangelo Cerquozzi, presente per
alcuni anni nella nostra città e considerato dalla critica il più
attivo propulsore di immissione di cultura romana a Napoli. Egli
collabora a Napoli con il Codazzi, col quale esegue la famosa
Rivolta di Masaniello, nella quale con puntigliosa
precisione ci racconta in tanti episodi la celebre insurrezione
del 1647, con una ricostruzione fedele di piazza Mercato.
Questa
sua cura nella descrizione degli ambienti circostanti e la
capacità di evitare quella maniera convenzionale e pittoresca di
narrare la scena di genere distinguono le sue opere maggiori da
quelle più correnti degli altri bamboccianti.
Una
posizione di primo piano conseguì anche nel campo della natura
morta, come ci dimostrano le sue attuali altissime quotazioni
nelle grandi aste internazionali, dove spesso compaiono sue opere
di altissima qualità.
Altri
bamboccianti attivi nella capitale vicereale furono Jan
Asselijn, Thomas Wijk e Johannes Lingelbach, del quale
si conservano in collezioni private alcuni suoi dipinti
raffiguranti il porto di Napoli col Vesuvio eruttante.
Altri
artisti napoletani che furono influenzati dai loro esempi furono
Viviano Codazzi, Scipione Compagno, Carlo Coppola e forse anche
Marzio Masturzo ed Ascanio Luciani, quei pittori cioè che sulle
orme dello Spadaro si fecero illustratori della vita quotidiana e
di cronaca della vita cittadina.
In
contiguità con i bamboccianti vanno considerati i paesaggisti
olandesi italianizzati, anch’essi attivi a Roma lungo tutto il
Seicento, alcuni dei quali influiscono con le loro opere sugli
specialisti napoletani del genere: Domenico Gargiulo, Filippo
D’Angeli e Salvator Rosa.
I
primi ad arrivare sono Cornelius van Poelenburgh e
Bartholomeus Breenbergh, il primo abile a
trasfondere l’effetto del sole del sud sui colori, il secondo
amante di un paesaggio con rovine fatto di intuizione e di rapide
annotazioni.
Alla
seconda ondata appartiene Herman Van Swanevelt,
attivo tra 1630 ed il ’50, il quale non dipinge più rovine, ma
paesaggi e la campagna romana, con effetti di luce delicata che ci
rendono le sottigliezze dell’atmosfera rarefatta e quasi
impalpabile.
Minore
importanza rivestono i pittori della seconda metà del secolo e
quasi nullo è il loro influsso sui nostri artisti.
Al
fianco degli olandesi sono presenti a Roma i paesaggisti francesi:
Lorrain, Poussin e Dughet.
Claude Lorrain, il più grande ed il più moderno dei tre realizza a Roma
i paesaggi più lirici mai visti fino ad allora. Egli ha
l’abitudine di trattenersi in campagna fino a notte fonda per
poter ritrarre con precisione il tramonto e le ore della sera, il
sorgere del sole ed il cielo rosso dell’alba. Egli è in grado di
donarci l’ebbrezza del «sogno allo stato puro per il ritmo
melodico, la sensibilità elegiaca, la concezione grandiosa, il
sentimento lirico e l’evocazione della profondità dello spazio che
generano e nutrono i nostri sogni» (Brejon De Lavargnée). A lui
sono debitori non solo i pittori suoi contemporanei, ma gran parte
dei moderni.
Di
Poussin abbiamo già delineato la prepotente personalità, con lui
la natura si rivela in tutta la sua bellezza ed il paesaggio
assurge ad una considerazione mai raggiunta prima. Suo cognato
Gaspard Dughet, nasce lo stesso anno di Salvator Rosa e ci
descrive la solitudine della campagna con accenti preromantici;
secondo il Baldinucci soggiorna un anno a Napoli tra il 1641 ed il
1644.
Dai
suoi modi pittorici, derivano alcuni paesaggi spadariani
caratterizzati da una grande apertura di orizzonte e da una ampia
vastità di cieli.
Un
maestro da non trascurare è Goffredo Wals, attivo nella
prima metà del secolo XVII, nato forse a Colonia e morto a Napoli
dove fu a lungo operoso, avendo tra i suoi allievi anche Claude
Lorrain.
Il
Capaccio riferisce che nella celebre collezione di Gaspare Roomer
si trovassero ben 60 tele con suoi paesaggi. Egli introdusse un
nuovo linguaggio pittorico in cui venivano valorizzati taluni
effetti visivi: «Luci, riflessi, cadenze spaziali in immagini
paesistiche, spesso silenziose ed incantate, prive di figure»
(Salerno).
Egli
influì certamente su Jacobus Mancadan, un pittore
poco noto, che fu presente a Napoli, come è dimostrato dalla
presenza di ben 168 suoi paesaggi nella collezione del Roomer.
Il
caravaggismo a Roma, per quanto il grande lombardo non avesse una
scuola o una bottega, fu un linguaggio ben presto adottato da
schiere di artisti fiamminghi, olandesi, spagnoli e francesi, che
ne assicurarono il successo, diffondendone lo stile al di là dei
confini italiani. Per la prima volta viene a crearsi e si sviluppa
ampiamente una pittura laica da cavalletto, destinata ad una
clientela privata. Tra i caravaggeschi interessanti ai fini di
valutare collegamenti con la pittura napoletana ci sono i francesi
e su questo argomento già nel 1968 vi è stato uno studio del
Rosenberg, direttore del Louvre, il quale ha raffrontato l’opera
del Tassel, del Mellin e del Bourdon, oltre naturalmente del Vouet,
nella cui arte, a suo parere, i rapporti con la pittura napoletana
sono «impressionanti».
Simon
Vouet con i suoi numerosi allievi rappresenta a Roma tutta
un’ala del caravaggismo francese, di cui divenne ben presto
leader. Trascorse in Italia 15 anni importanti della sua carriera
ed i suoi dipinti, inviati in molte città, arricchirono le
collezioni più prestigiose del tempo.
Egli
fu fautore di un caravaggismo di seconda battuta, filtrato
dall’interpretazione che ne diedero Carlo Saraceni e Bartolomeo
Manfredi, così che, nel giro di alcuni anni, esso non rappresentò
più per lui «un mito, una religione, una disciplina» (Causa),
bensì un momento di riflessione e di comparazione verso altri
modi espressivi, dall’arte del Poussin a quella di Pietro da
Cortona, dai quali eclettico ed avido di studiare ed assimilare
tutto, prese soluzioni che fece proprie.
In
seguito il contatto che il Vouet ebbe a Genova con Artemisia
Gentileschi produsse una tavolozza più luminosa ed una maggiore
attenzione al dettaglio decorativo, in adesione alla nuova
sensibilità barocca che andava diffondendosi.
Probabilmente egli non si spinse mai fino a Napoli all’epoca
satellite della Spagna e quindi anti francese, ebbe però due
commissioni importanti per chiese della città. Due pale di altare
La circoncisione per S. Angelo a Segno e San Bruno che
riceve la regola dell’ordine per la Certosa di San Martino.
Opere
collocabili al 1622 ed al 1626, che furono eseguite a Roma e da lì
spedite a Napoli, dove suscitarono notevoli consensi per il loro
modo originale di concepire il caravaggismo, non più scuro, ma
vicino alla gamma cromatica della Gentileschi.
La
critica ha già da tempo investigato sulle strette affinità tra
Vouet ed i napoletani; con lo Stanzione il contatto si stabilisce
a Roma negli anni in cui Massimo collabora col francese, tra il
1623 ed il ’25, alla decorazione della chiesa di San Lorenzo in
Lucina; Prohaska uno dei tanti napoletanisti stranieri, ha
sottolineato scambi e parallelismi tra le opere del Vouet del 1622
- 25, sia a Roma che a Napoli e l’attività di Battistello
Caracciolo oltre a suggestioni che possono evidenziarsi anche in
alcuni dipinti del Finoglia, antecedenti al 1630.
Sotto
il profilo iconografico il Vouet degli anni 1625 - 30, come lo
Stanzione dello stesso periodo ed il Guarino ed il Cavallino degli
anni Quaranta esegue numerose figure femminili, allegorie, eroine
del Vecchio Testamento, sante, raffigurate spesso a mezzo busto,
intense ed aggraziatamente decorative al tempo stesso.
E
possiamo definirle, prendendo a prestito le parole del massimo
cantore della nostra pittura «Sante che potevano all’occasione
farsi figure simboliche, la Musica, la Poesia, il Canto, sante,
martiri acconciatissime, fiorite come gemme di miniera, fiori di
serra inattesi e sconosciuti, sin qui, nella loro bellezza tutta
profana» (Causa).
Numerosi erano i quadri del Vouet nelle collezioni private
napoletane, di molti dei quali si sono da tempo perse le tracce.
La serie di tele più famosa è quella raffigurante Angeli con i
simboli della Passione, già riferita dal Cochin presso il
principe della Rocca suddivisa oggi tra due antiche collezioni di
case nobiliari discendenti da quella dei principi d’Ottaviano, nel
museo di Capodimonte e presso l’Institute of Arts di Minneapolis.
Il
Celano riferisce di opere del Vouet nelle raccolte del principe di
Bisignano, dei Sanseverino e del cardinale Filomarino.
In
ambito caravaggista un’altra figura da considerare, fino ad ora
negletta dalla critica, ad eccezione di alcune acute riflessioni
del Leone De Castris, è quella di Giovanni Antonio Galli, detto
lo Spadarino.
Egli è
all’opera nella Sala Regia del Quirinale e lì probabilmente offre
spunti al Caracciolo, che nel 1617 vi lavora al fianco del Tassi e
del Saraceni.
Non è
noto un suo soggiorno napoletano, anche se la presenza di suoi
dipinti in prestigiose collezioni cittadine da quella del Roomer a
quella degli Spinelli, lo rende molto probabile.
Oltre
al Battistello, altri artisti dal Cavallino allo Stanzione
«trassero spunti dalle sue raffinatezze e dall’accorto connubio
tra naturalismo e preziosità classicista alla Reni, alla
Domenichino, alla Lorrain» (Leone De Castris) per l’esecuzione
delle loro opere.
Suggestiva è anche l’ipotesi che la sua caratteristica di inserire
ali e colombe in molti suoi dipinti possa aver colpito la cerchia
falconiana, che lavorò a lungo presso gli Spinelli ed in
particolare il Maestro di Palazzo San Gervasio, anche lui incline
ad inserire spesso dei volatili nelle sue nature morte.
L’ultima personalità «straniera» che prendiamo in esame è
Charles Mellin, lorenese, i cui primi contatti con l’ambiente
artistico meridionale risalgono al 1636, quando cominciò a
lavorare alla decorazione della volta e delle pareti del coro
dell’Abbazia di Montecassino, che furono completate entro l’anno
successivo ed erano costituite da 15 composizioni, purtroppo
distrutte dalla furia devastatrice dell’ultimo conflitto mondiale
e delle quali possediamo soltanto una parziale e modesta
documentazione fotografica. Di questo ciclo abbiamo oltre al
ricordo delle fonti una serie di disegni preparatori relativi ad
alcune scene.
Unico
lavoro dell’artista presente oggi a Montecassino, nel refettorio,
è un suo modesto dipinto, un Sacrificio di Abele, un tema
biblico inconsueto, ricordato dalle fonti e che si credeva
perduto, viceversa identificato da Spinosa, che ne ha riconosciuto
anche un bozzetto nel museo di Nancy.
Nel
1643 il Mellin è documentato a Napoli ove si stabilirà fino al
1647, anno della rivolta di Masaniello, che indusse il pittore a
ritornare precipitosamente a Roma.
Il
Mellin, dotato di uno stile caratterizzato da pennellate fluide ed
ampie stesure cromatiche, si distinse come uno degli interpreti
più significativi di una corrente classicista, promossa dal
cardinale filo francese Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli
dal 1641, il quale gli procurò alcune committenze per importanti
ordini religiosi. Tale movimento purista, chiaro e solare nella
luce e nei colori, produsse un’immissione fresca e vigorosa di
ricchezza nei colori, scandita in preziose desinenze neo-venete,
che suggestionarono sia Pacecco De Rosa che il Vaccaro ed infine
lo stesso Cavallino, i cui quadri degli ultimi anni interagiscono
all’unisono con le calde luminosità delle opere dell’artista
francese.
Appena
arrivato a Napoli il Mellin eseguì una Purificazione della
Vergine per l’altare maggiore della chiesa dell’Annunziata,
dipinto perduto nel 1757 a causa di un incendio, ricordato dal
Cochin nel suo famoso ed attento diario di viaggio e del quale
rimane un’acquaforte del secolo XVII.
Nella
collezione del cardinale Filomarino vi era un San Pietro e
l’angelo scomparso come gli altri dipinti della raccolta nei
tumultuosi giorni della repubblica napoletana del 1799.
Le uniche due tele che oggi conserviamo nella
chiesa di S. Maria Donnaregina Nuova sono
un’Immacolata Concezione
eseguita nel 1646, un tema iconografico caro alla devozione
napoletana, straripante di simboli mariani, immersi in una gamma
di tonalità scure ed un’Annunciazione datata 1647, nella
quale i modi pittorici melliniani manifestano palesemente elementi
di tangenza con lo stile stanzionesco.
Dal
1627 - 30 fino alla morte per oltre vent’anni è presente a Napoli
Artemisia Gentileschi, che più che straniera (pittrice
romana amava definirsi) bisognerebbe correttamente considerarla
napoletanizzata a tutti gli effetti, come il Ribera e tanti altri
pittori che, nati lontano, acquistano da noi la fama in lunghi
anni di attività che incidono sensibilmente, a contatto con la
realtà figurativa locale, nel variare i caratteri della loro
pittura originaria.
Ella
compare sulla scena artistica napoletana alcuni anni prima del
1630 e la sua influenza, in un reciproco rapporto di dare ed avere
con la cultura figurativa indigena, è molto intensa.
Le sue notevoli capacità ricettive e di adattamento all'ambiente
sono tali che la sua cifra stilistica in poco tempo diviene
partenopea, la sua tavolozza si imbrunisce, acquisendo tonalità
più squisitamente naturaliste in consonanza con la tradizione
locale portata avanti dal Battistello ed anche la fisionomia di
alcuni personaggi si «meridionalizza», la modella dell’Annunciazione
sembra scelta tra le ragazze del popolo per i suoi colori
spiccatamente mediterranei, i re che si prostrano nell’Adorazione
dei Magi sono quanto di più spagnoleggiante si possa
immaginare.
A
lungo la critica ha ritenuto che Artemisia abbia dato più che
ricevuto, ma oggi possiamo ritenere il bilancio in parità alla
luce del fatto che la pittrice raggiunge la sua piena maturità e
trascorre gran parte della sua carriera alle falde del Vesuvio.
I suoi
rapporti con gli artisti napoletani sono molteplici dallo
Stanzione al Finoglia, dal Guarino a Francesco Fracanzano, fino al
Cavallino ed allo stesso Spinelli.
Il suo arrivo a Napoli offrì allo Stanzione più d’un motivo di
verifica e di conferma della bontà dell’indirizzo stilistico
intrapreso e favorirà una consonanza
che si manifesterà in maniera esplicita
quando i due lavoreranno
assieme in importanti commissioni dalle Storie del Battista
per il Buen Retiro, oggi al Prado, alle pale per il Duomo di
Pozzuoli. Artemisia trasmise a Massimo la sua accentuata finezza
coloristica che proveniva da una cultura pittorica temprata negli
anni romani sotto l’influsso del Vouet. La Gentileschi fu
«ravvivatrice del caravaggismo a Napoli dal ’30 e maestra a
Massimo di giochi luministici di superficie, sia negli sfoggiati
capricci dei panneggi, artificiati cartocci barocchi, sia nei
tipici pezzati di tinte locali, dove ai bassi bruni e marroni del
Merisi contrastano i solferini, i vermigli, i verdoni, i turchini»
(Ortolani).
Paolo
Finoglia è pittore dalle piacevolezze cromatiche, influenzato da
Artemisia a tal punto che è difficile distinguerlo nei quadri non
siglati.
Cavallino attraverso la Gentileschi risale direttamente alla fonte
primigenia, costituita dalle opere del padre Orazio, come pure per
via di Artemisia sfocia nella dolcezza e nella delicatezza del
Vouet, affascinato da atteggiamenti, colori, inquadrature.
Qualche consonanza stilistica si apprezza anche in molte tele di
Pacecco De Rosa e di Filippo Vitale, in particolare nel
Giudizio di Paride della pinacoteca di Vienna, nel quale gli
intricati nessi con la cultura artemisiesca fanno quasi ipotizzare
l’ispirazione ad un prototipo della pittrice.
Ancora
da esplorare a fondo e da definire con precisione le
interconnessioni con Guarino, con Spinelli e con Francesco
Fracanzano.
All’incontrario bisogna sottolineare le trasformazioni che la
pittura di Artemisia subisce a contatto della cultura figurativa
napoletana: «la tavolozza si scurisce, l’impasto si riscalda,
l’epidermide si arrossa, si sporca, i panni spesseggiano»
(Contini).
L’Ortolani era del parere che nei riguardi dello Stanzione il
rapporto di dare ed avere fosse nei primi anni a tutto vantaggio
di Massimo dal quale Artemisia imparò a schiarire i suoi cupi toni
bruni, fino a quando, indossata la nuova pelle combusta al sole di
Napoli, ella ci regala «i più nitidi campi di chiare tinte vivaci
e i suoi nudi e lenzuoli d’argento che essa accese come di bengala
in pronti gesti e in artificiose fogge, rubando a Reni lo
spalmarsi delle carni nella luce e giocando di traslucidità
epidermiche».
Non
bisogna infine dimenticare che la stessa Artemisia fu influenzata
profondamente dal classicismo bolognese che costituisce a Napoli
una corrente molto importante per la presenza del Domenichino e
del Lanfranco al cui fianco la Gentileschi lavorò nel Duomo di
Pozzuoli.
La committenza per il coro ed il
presbiterio della Cattedrale di Pozzuoli fu un lavoro molto
importante, che impegnò la pittrice per alcuni anni al fianco di
artisti famosi quali il Lanfranco, lo Stanzione ed Agostino
Beltrano.
Artemisia realizzò tre grandi pale
d’altare I Santi Procolo e Nicea, il Martirio di San
Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli e l’Adorazione dei
Magi. Opere collocabili cronologicamente tra il 1633, data che
si legge sulla lapide dedicatoria posta nei pressi della prima
tela, e il 1638, anno della partenza della Gentileschi per
l’Inghilterra, dove soggiornò presso il padre malato per alcuni
anni.
A queste pale va associata la
celebre Natività del Battista, forse precedente di qualche
anno e facente parte della commissione per adornare la residenza
di Filippo IV di Spagna. Essa rappresenta una delle risoluzioni
più attuali che l’arte italiana di quel tempo abbia dato di un
soggetto religioso. L’opera realizzata coi puri valori tonali,
atmosferici, della luce e sciogliendo il pretesto religioso
nell’intimo calore sentimentale d’un ambiente realistico e
familiare è uno stratificarsi dei panneggi in sfoglie sempre più
sottili ed esili, condotte con inedito, paziente calligrafismo.
Artemisia a Napoli, in un ambiente
prodigo di occasioni di lavoro, incontrò un grande successo, anche
se nel suo animo rimase sempre una straniera «Io so’ romana!» e
spesso soffrì per le condizioni di vita a volte disagiate della
città: «in Napoli non ho volontà de più starce, sì per li tumulti
di guerre, come ancora il male vivere, et delle cose care».
La Gentileschi, grazie al suo
talento artistico, godette di un’indipendenza quasi eccezionale
per una donna del suo secolo, diventando un simbolo
dell'emancipazione femminile.
Le sue quotazioni erano molto alte, giungendo ad essere pagata
fino a cento scudi per ogni figura dipinta.
Spesso si imbestialiva per
l’abitudine levantina dei committenti, già allora in auge a
Napoli, di tirare sul prezzo: «non fo all’usanza di Napoli quando
chiedo una cifra, che domandano trenta e po’ danno per quattro, Io
so’ romana e perciò voglio procedere sempre alla romana». Ella
eccezionalmente licenziava un dipinto che, oltre a quello del
committente, non incontrasse anche il suo gusto personale. Ad ogni
modo per conquistarsi un’ampia fetta di mercato edulcorò in parte
lo stile aggressivo dei suoi anni romani, recependo in parte la
corrente purista, sorta a Napoli dopo l’arrivo del Domenichino,
adottando toni più pacati nel suo linguaggio, condito di brillanti
eccipienti coloristici, esaltati dall’uso di una squillante gamma
cromatica.
Dopo il soggiorno londinese,
durato probabilmente fino al 1641, la Gentileschi tornò a Napoli,
dove lavorò incessantemente fino alla morte avvenuta nel 1652 o
1653.
Non potremmo concludere la
trattazione su Artemisia senza concedere qualcosa al
«pettegolezzo», che avvolse tutta la sua vita, pedaggio doloroso
per un’artista, che raggiunse un grado di emancipazione
assolutamente inconsueto per una donna del suo secolo.
Cominciato il suo apprendistato
artistico presso il padre Orazio, passò poi alla bottega di
Agostino Tassi, un pittore che era anche una sorta di imprenditore
degli ambienti artistici romani, capace di convogliare le energie
di vaste schiere di artisti in grosse imprese decorative. Egli era
un vanaglorioso, soprannominato lo smargiasso, approfittò
della sua giovane allieva e fu accusato dal padre Orazio di
stupro.
La vicenda,
molto romanzata, ebbe il suo epilogo in un tormentato processo, al
seguito del quale il Tassi fu condannato al carcere, ove dimorò
per soli otto mesi.
Un mese dopo il processo la
Gentileschi sposò un fiorentino, ma la sua reputazione rimase
macchiata per sempre per la natura libidinosa della vicenda.
Una conferma della gravità e della
perpetuità del giudizio storico riservato alla pittrice la
troviamo in questo singolare epitaffio comparso in un volume
stampato a Venezia nel 1653:
«Co’l dipinger la faccia a
questo, e a quello
nel mondo m’acquistai merto
infinito
nell’intagliar le corna a mio
marito
lasciai il pennello, e presi lo
scalpello
gentil’esca de’ cori a chi
vedermi
poteva sempre fui nel cieco
mondo;
hor, che tra questi marmi mi
nascondo,
son fatta gentil’esca de’
vermi».
Un anatema eccessivo riservato ad
Artemisia incredibilmente presentata come una maga del sesso,
piuttosto che delle arti figurative, spesso confinate ad un ruolo
marginale nelle sue biografie.
Siamo
agli inizi degli anni Trenta e da poco è ritornato da Roma
Massimo Stanzione, con ancora negli occhi e nella mente da un
lato la lezione degli emiliani, dall’altro gli esempi di
caravaggisti francesi, principalmente il Vouet, fautori di un
luminismo temperato dai colori chiari.
La sua
voce si farà sempre più sicura e salirà di tono fino a divenire
verbo ed egli sarà il cantore degli affetti familiari e della
dolcezza, delle raffinatezze sontuose e dei colori luminosi e
brillanti. Il suo linguaggio, aulico e raffinato, diverrà
accessibile a tutti per il tono calmo e pacato del linguaggio, che
declinerà nei termini di una ritrovata classicità e di una nuova
intensità espressiva, svolta con una spontanea vena aneddotica e
narrativa.
Egli
sarà il contraltare della drammaticità esasperata del Ribera e
costituirà la vera alternativa ai furori etici dei pittori dal
tremendo impasto, che pure in quegli anni erano all’apice del
successo. Non più l’aggressività caravaggesca con le sue gravi
ragioni morali, bensì una pittura appassionata, che non vuol
sorprendere, dimostrare, ma toccare il cuore, anche con le
accentuazioni patetiche, i trasalimenti, le note cupe e strazianti
del colore. Nel giro di pochi anni diverrà il faro per tutta una
generazione di pittori, un coagulo di giovani artisti, un pollone
che sgorga impetuoso, una «breccia attraverso la quale fiottano
secondo la più raffinata delle tastiere cromatiche,
rappresentazioni serene e gradevoli, di una religiosità
quotidiana, familiare» (Causa).
Per
10-15 anni diverrà il maestro per antonomasia, il Guido Reni
partenopeo, il dominatore della scena artistica napoletana;
eclettico, dotato di una vasta cultura figurativa, egli preleverà
da altri autori quanto basta, senza contrarre, come tutti i
grandi, debito con alcuno.
Saprà
essere libero nei suoi mezzi espressivi, che saprà modulare a
piacimento, intonando una sinfonia dalle dolci note e dal registro
quanto mai ampio: «Andante, andante mosso, patetico, cantabile,
appassionato» (Causa).
È una
vera e propria rivoluzione, anche se incruenta, anzi combattuta
contro le rappresentazioni colleriche del Ribera o le astrazioni
intellettualistiche dell’anziano Battistello con le armi
dell’amore, delle tenerezze familiari, della struggente
malinconia. È una visione gioiosa, precorritrice di una luminosa
parabola che negli anni sapranno portare avanti i suoi allievi, i
suoi seguaci, i suoi imitatori; un successo straripante senza
precedenti che non conoscerà soste o tentennamenti fino ai nostri
giorni.
I dati
biografici sullo Stanzione sono ancora avvolti dal mistero e si
basano unicamente su quanto asserito dal De Dominici, il quale
riferisce che egli nacque ad Orta di Atella nel 1585 (ma
probabilmente la data va spostata in avanti di qualche anno) e
muore durante la peste del 1656, in contrasto con quanto segnalato
da numerose guide ottocentesche (Catalani, Nobile) che parlano di
una tela del pittore siglata e datata 1658, ancora oggi presente
nella chiesa di S. Pietro in Vinculis, anche se purtroppo mutila
nella parte inferiore.
La sua
produzione giovanile e la sua formazione artistica sono ancora
poco note alla critica, mentre non possediamo alcuna notizia prima
del 1615. Questa circostanza sembrerebbe avallare il racconto del
De Dominici, il quale riferisce che lo Stanzione cominciasse a
dipingere già avanti negli anni, dopo una lunga preparazione nel
disegno espletata prima presso la bottega del Santafede e poi alla
scuola del Caracciolo.
Massimo doveva essere poco più che ventenne quando il Caravaggio
fu a Napoli e la sua immaturità non gli permise di recepire nella
fantasia l’urto potente impresso da quegli alle forme.
Un
dato contraddittorio è costituito dal fatto che il Basile già nel
1617 intesse le lodi di Stanzione definendolo «Massimo pittore»,
dedicandogli un madrigale in cui elogia un dipinto raffigurante
Venere e Amore ed una lunga ode in cui sono descritte tre
tele, oggi disperse, Ero e Leandro, Achille che combatte
Ettore e la Gigantomachia.
A
Roma, per la sua maestria, ottenne in breve tempo due titoli di «Eques»,
qualifica con la quale amerà fregiarsi quasi sempre nelle sue tele
firmate, un capriccio da contrapporre al «Ribera Espanol» o «Valenzianus»
del suo antagonista.
I
titoli di Cavaliere per la precisione saranno quelli dello «Speron
D’oro» nel 1621 ad opera di Gregorio XV e dell’«Ordine di Cristo»
nel 1627 concesso da Urbano VIII. Tra il 1617 ed il ’18 Stanzione
lavora a Roma nella chiesa di Santa Maria della Scala ma il suo
lavoro è andato perduto, mentre possediamo, anche se in condizioni
disastrate, una sua Presentazione al tempio nella
parrocchiale di Giugliano (Na) ove, pur nella difficoltà della
lettura, possiamo intravedere elementi manieristici, che lo
pongono ancora come piccolo provinciale ed un certo «ruvido sapore
battistelliano» (Leone De Castris).
La sua
attività fino al 1630 è, come abbiamo già detto, ancora nebulosa.
Poche sono le opere che gli possono essere assegnate con certezza,
partendo dal 1618, considerato dalla critica il termine post
quem.
Secondo il De Dominici, lo Stanzione all’inizio della sua
attività, quando ancora era discepolo del Santafede, avrebbe
eseguito principalmente ritratti, cosa confermata anche dai pochi
documenti relativi a quegli anni.
Negli
anni di difficile collocazione cronologica delle sue opere, va
considerato un secondo soggiorno romano alla metà degli anni
Venti, durante il quale oltre a quella del Vouet il nostro subisce
la suggestione dell’ancora anonimo Maestro del Giudizio di
Salomone e forse dello stesso Poussin.
Una
tela assegnabile con certezza a questo periodo è la Pietà
della Galleria Corsini, attribuita in precedenza al Battistello,
prima che il restauro evidenziasse la firma «Eques MS», opera di
fermo plasticismo che ci mostra un artista già pienamente formato,
uno dei capolavori del Seicento napoletano. L’Adorazione dei
pastori di San Martino può collocarsi al 1626; ed al primo
periodo appartengono anche il Martirio di Sant’Agata ed il
Sacrificio di Mosè di Capodimonte. Alla fine degli anni
Venti è collocabile anche la Santa Apollonia di collezione
Pellegrini a Cosenza, dipinto di alta qualità, intrisa di un crude
realismo stemperato dal volto sensuale ed accattivante della
martire.
Anche
se la critica non ha espresso un parere definitivo, alla fase
antica dovrebbe appartenere anche la serie di Storie del
Battista del museo del Prado, a cui collaborò Artemisia
Gentileschi, che sarà al fianco di Massimo anche nel 1635 - 37
nella committenza delle pale d’altare per il Duomo di Pozzuoli.
La
collaborazione con la pittrice romana sarà feconda per entrambi;
in particolare lo Stanzione recepì il gusto dell’elegante
definizione dei panneggi, «artificiati cartocci barocchi, sia nei
tipici pezzati di tinte locali» (Ortolani) e «si rinnovò al tocco
serico del corredo di Artemisia. Le sue sete gialle, le sue paste
auree e fuse ... tutta insomma la sua concezione cromatica e di
valore» (Longhi).
Dopo
il ritorno a Napoli da Roma negli anni Trenta è possibile seguire
più dettagliatamente il percorso stilistico dello Stanzione, che
in breve si trasforma in una marcia trionfale. Egli diventa il
pittore più acclamato della città, richiestissimo dai nobili, che
fanno a gara per accaparrarsi i suoi quadri da cavalletto e dalla
committenza ecclesiastica, per la quale spesso lavorava anche
nella tecnica dell’affresco: dai certosini di San Martino ai
teatini di San Paolo Maggiore, dai gesuiti del Gesù Nuovo ai
francescani di Santa Maria La Nova.
Egli
rischiara la sua tavolozza accostandosi spiritualmente alle
morbidezze degli emiliani, di cui subisce il fascino ed alle cui
cadenze compositive aderisce anche se in maniera originale ed
indipendente in una «ricerca che rende fini e luminose le carni e
fa torturata la superficie nel giuoco dei particolari, resa con
puntigliosa insistenza, filo per filo, gemma per gemma, in un
trompe l’oeil allucinante, drappi e tiare, paramenti liturgici
baculi e triregni, e il tutto con esplicite intenzioni di resa
luministica» (Causa).
A
Stanzione interessava il ricco mercato delle decorazioni delle
chiese, al cui splendore tanto tenevano i numerosi ordini
religiosi presenti a Napoli che, in piena epoca controriformista,
volevano glorificare una religione trionfante attraverso la
grandiosità delle opere d’arte, illustranti gli aspetti esteriori
della fede. A tale scopo si dedicò con impegno alla tecnica
dell’affresco, campo in cui fu ben più abile e sicuro del
Battistello e dove sperimentò gli effetti luministici
sull’intonaco bagnato, superando i risultati ottenuti dal Corenzio,
che fino ad allora era stato l’artista più richiesto.
A San
Martino, nella cappella di San Bruno, egli è ancora legato alla
lezione battistelliana, arcaica e chiusa nella visione
prospettica, mentre nel Gesù Nuovo ed a San Paolo Maggiore si
guadagna meritatamente la sua fama di «Guido Reni napoletano», con
la sua fresca vena decorativa, eclettica, improntata ai modelli
romani. Egli infine nella sacrestia del Tesoro e nella cappella
del Battista di nuovo a San Martino, si ispira ai modi pittorici
del Lanfranco, allungando ed inflettendo le figure in un macchiare
pittoresco e un po’ svagato.
E
siamo giunti agli anni d’oro dal ’35 al ’45, quando Stanzione,
lavorando freneticamente al cavalletto, ci fornisce una cospicua
produzione di tele a devozione privata, caratterizzata da una
religiosità intima e raccolta, ben accetta da quell’ampia fascia
di borghesia, economicamente robusta e desiderosa di arricchire le
proprie case, in concorrenza con la committenza ecclesiastica, di
opere di un’artista così bravo ed affermato.
Sono
anni di lavoro fecondo che abbracceranno, oltre al settore della
decorazione, in cui ci fornisce opere, tutte celebratissime, di
grande ricchezza cromatica, anche se talvolta pervase da una
palpabile stanchezza compositiva, le tele di argomento profano e
la ritrattistica richieste dai collezionisti privati, in aggiunta
alla pittura sacra con l’esecuzione di numerose pale d’altare.
Senza trascurare le grandi commissioni pubbliche, Stanzione esegue
indefessamente quadri di piccolo formato, rappresentanti Madonne o
singole figure, quasi sempre femminili, a mezzo busto o a figura
intera, che riproducono sante, ma anche personaggi storici come
Cleopatra o Lucrezia, o religiosi come San Giovanni Battista.
Destinati ad una clientela dai gusti raffinati, spesso raggiungono
un’elevata qualità, e fanno emergere singoli aspetti del suo
eccezionale talento creativo, come la cura particolare dedicata
alla definizione delle mani, delicate, dalle dita affusolate,
quasi una sigla dell’artista, o la singolare attenzione
all’espressione dei volti.
Si
tratta di quadri di grande suggestione come la Santa Dorotea
di Buenos Aires, La donna con gallo di San Francisco, la
Lucrezia e la Cleopatra di Palazzo Durazzo-Pallavicini,
la Sant’Orsola di collezione Pellegrini a Cosenza.
L’eleganza della resa cromatica e la capacità di rendere
minuziosamente la vasta gamma di varietà dei tessuti lo fanno
rivaleggiare con la celebrata Artemisia.
Spesso
in queste tele come la Santa Dorotea o il Ritratto di
donna figurano eccellenti inserti di natura morta, segno
evidente che nella sua nutrita bottega si è associato un abile
specialista di fiori e frutta. E lo Stanzione concederà sempre più
spazi nell’economia dei suoi dipinti a questo ignoto
collaboratore, accedendo ad una visione dello spazio dilatata,
decisamente in chiave pre barocca. E questo suo atteggiamento
continuerà sino alle sue ultime fatiche, come nella famosa
Annunciazione di Marcianise, datata 1655, con i suoi fiori
bianchi, simbolo di purezza.
Tra i
soggetti ad iconografia religiosa per devozione privata molto
belle sono le Madonnine di Trapani, della Galleria Corsini
di Roma e delle Trafalgar Galleries di Londra, nelle quali
Stanzione si esprime con una pennellata più morbida rispetto alle
coeve pale d’altare.
Immagini di profonda religiosità possiamo cogliere nella Santa
Maddalena e nel San Giovanni di private collezioni.
Nella
stupenda Strage degli innocenti della Galleria Harrach di
Vienna, di cui esistono più redazioni autografe, giunge «ad una
invenzione di alta drammaticità e grande perfezione formale» (Schütze)
ed è uno «staccarsi dalle forme, vivamente intarsiate di specchi
di luce e d’ombra, nei piani di colore lavati dal getto d’argento»
(Ortolani).
Tra le
pale d’altare bisogna ricordare l’importante committenza del Duomo
di Pozzuoli, ove lavora a lungo al fianco della Gentileschi
realizzando la Predica di San Patroba. In seguito esegue
altre cone d’altare a San Giovanniello delle Monache, a San Pietro
a Maiella, nella cappella della Purità a San Paolo Maggiore.
Opere
di qualità discontinua fino a giungere al capolavoro del
Miracolo dell’ossessa, ordinato, dopo la morte del
Domenichino, dalla Deputazione del Tesoro del Duomo, immerso in
un’atmosfera mielosa ed in cui si evidenzia l’influsso del
neovenetismo e di Pietro da Cortona.
Nell’ambito della ritrattistica bisogna ricordare dalla severa
impostazione grafica della Dama anziana del Prado, alle
aperture di taglio e scioltezza vandychiana del Viceré conte di
Oñate e del Jerome Bankes.
E
siamo agli anni dopo il 1650 quando, in epoca oramai barocca,
Stanzione cede alle suggestioni coloristiche ed alle atmosfere
melense dell’ultimo Reni. Produce ancora molte tele per i privati,
mentre si dedica alle sue ultime grandi pale d’altare: l’Immacolata
di S. Maria degli Angeli a Pizzofalcone, la Vestizione di S.
Aspreno per San Pietro ad Aram e la famosa Annunciazione
di Marcianise.
Dopo
poco muore, nel 1656, o forse nel 1658, come abbiamo già riferito
e con lui scompare il dominatore incontrastato della scena
artistica a Napoli, «l’inventore di una pittura sacra dalle
dimensioni domestiche e rassicuranti, di una immagine corretta e
senza errori, capace di far leva sugli affetti» (Leone De Castris),
mentre all’orizzonte prelude il trionfo del Barocco.
Lo
Stanzione fu, come abbiamo esposto, un caposcuola che trovò
seguito vasto ed immediato in tutto l’ambiente artistico
napoletano, convertendo alle sue tematiche anche pittori, come
Filippo Vitale e Francesco Guarino, che fino ad allora si erano
espressi nel solco della tradizione naturalista.
Molti
furono suoi allievi diretti o discepoli dei suoi allievi, ma per
molti altri rappresentò un punto di riferimento culturale ed il
suo repertorio stilistico un qualcosa da utilizzare, certi di
ottenere consenso e successo commerciale, fino a quando negli
artisti minori si ridusse ad «uno stanco formulario di soluzioni
ripetitive senza autentica emozione visiva» (Spinosa).
Alcuni
discepoli raggiunsero una identità ben precisa ed una notevole
autonomia artistica e proiettarono la parabola luminosa del suo
insegnamento nella tradizione napoletana fino agli albori del
Settecento.
Questa
scuola, dal timbro napoletano per antonomasia, si distinse per i
suoi caratteri peculiari dalle correnti artistiche coeve delle
altre città italiane e pur nei limiti del suo «linguaggio gergale»
(Causa), rappresentò una nota di vitalità, che rinvigorì tutto
l’ambiente dal cui seno sboccerà uno dei geni indiscussi del
secolo: Bernardo Cavallino, il cantore affascinante e
raffinatissimo, nelle sue modulazioni preziose di luce, delle
emozioni e delle tenerezze, degli affetti e delle passioni.
Il De
Dominici ci traccia una mappa dettagliata degli allievi dello
Stanzione e ad alcuni di essi, come Annella De Rosa o Bernardo
Cavallino, dedica un capitolo specifico.
Egli
ci dà notizia di sei discepoli diretti: il pozzuolano detto
Lionardo, Muzio Rossi (Nunzio), Francesco Gaetano, Giuseppe
Piscopo, Santillo Sannini e Giovan Battista Spinelli.
Nel
trattare la vita di Pacecco De Rosa sono elencate le biografie di
altri 9 scolari: Francesco Guarino, Giuseppe Marullo, con a sua
volta l’allievo Nicola Marigliano, Antonio De Bellis, Agostino
Beltrano, Giuseppe Beltrano (suo fratello), Carlo Rosa, Domenico
Finoglia, Giacinto De Popoli ed Andrea Malinconico.
In
seguito altri biografi aggiungono il nome di qualche altro
artista. Giannone ci ricorda Andrea Vaccaro, mentre il Dalbono
segnalò il pittore siciliano Giovanni Fulco, Niccolò Malinconico
(figlio di Andrea), Francesco Altobello (allievo di Carlo Rosa),
Nicolò De Simone e Carlo Sellitto, del quale noi oggi conosciamo i
dati biografici: muore precocemente nel 1614, per cui non può
assolutamente essere stato allievo dello Stanzione.
A
questa visione statica, la critica più recente da De Rinaldis a
Raffaello Causa ha contrapposto una lettura stilistica del
problema ed ha aggiunto alcuni nomi di allievi da Onofrio Palumbo
a Domenico Gargiulo, da Francesco De Benedictis a Giovanni Ricca.
Noi
seguiremo la classificazione proposta dal Willette nella sua
monografia su Stanzione, ove è presente un capitolo specifico
dedicato alla sua scuola, nel quale vengono distinti allievi
diretti ed artisti che per motivi stilistici ed ispirativi vanno
messi in connessione con lo Stanzione.
Tra
gli allievi diretti, secondo la definizione del De Dominici,
alcuni artisti oggi ci appaiono poco più che dei carneadi, mentre
altri come Spinelli hanno, con il progredire degli studi,
acquisito una personalità autonoma ben definita, mentre Nunzio
Rossi si tende oggi a ritenerlo maturato nell’ambito della bottega
del Beinaschi.
Il
Pozzuolano «detto Lionardo» era, secondo il biografo
settecentesco, l’allievo di Stanzione che completò la cona con la
Visitazione al Gesù Nuovo nella cappella Merlino e tale
notizia è già attestata dal Celano, che nel 1692 riferisce nella
sua celebre guida che l’opera in questione fu completata dal
Pozzuolano. I documenti di pagamento reperiti in seguito hanno
viceversa identificato tale allievo con Santillo Sannini, per cui
è da sospettare che i due pittori possano essere la stessa
persona.
Di
Giuseppe Piscopo, attivo a Napoli verso la metà del XVII secolo,
abbiamo già discettato parlando della bottega di Domenico Gargiulo.
Ricordiamo che Piscopo, dopo aver mosso i primi passi alla scuola
dello Stanzione, passò poi alle dipendenze del Falcone ed infine
del Gargiulo.
Di
Francesco Gaetano sappiamo che fu attivo in città dopo la metà
del XVII secolo; è uno dei pochi pittori sopravvissuti al flagello
della peste, che nel 1656 decimò non solo la popolazione, ma
annientò quasi del tutto una intera generazione di artisti.
Lo
troviamo iscritto dal 1664 come «consultore» alla neonata
Congregazione dei Santi Anna e Luca, mentre era «prefetto» Andrea
Vaccaro. Nel 1687 donò ad un’istituzione benefica (Monte), fondata
dalla congregazione, una Madonna e San Domenico Soriano, di
cui non abbiamo più traccia.
Il De
Dominici, nella breve nota su di lui, fu avaro di notizie e ci
riferì unicamente di altri due dipinti eseguiti per la chiesa di
San Nicola a Pistaso: una Sacra Famiglia ed un’Immacolata
tra San Biagio e San Gregorio Taumaturgo, opere in seguito
citate come suoi lavori in quasi tutte le guide degli anni
successivi, quali il Sigismondo (1788-89) e l’Aspreno Galante
(1872).
A
Santillo Sannini (Napoli ? - circa 1685) il De Dominici dedicò
la più lunga delle note fra i discepoli più diretti del divino
Massimo ed infatti dall’esame dei documenti ci rendiamo conto
della circostanza che spesso i soldi per gli aiutanti venivano
girati a lui con l’impegno di dividerli con gli altri
collaboratori. La sua figura negli ultimi anni di attività della
bottega dello Stanzione è perciò da configurarsi come di un aiuto
stabile.
Probabilmente egli collabora con il maestro nell’Annunciazione
di Marcianise nel 1655. Lavora nella chiesa di Santa Maria la Nova
nella cappella di San Bonaventura e di San Pietro d’Alcantara nel
1669; come pure esegue vari dipinti per la chiesa di San Tommaso
D’Aquino. Le sue opere migliori sono per la chiesa di Gesù e Maria,
ove esegue delle tele raffiguranti miracoli di San Vincenzo
Ferreri, con uno stile pittorico molto vicino a Stanzione.
Di
Nunzio Rossi parleremo in seguito quando tratteremo del Beinaschi,
nella cui orbita oggi la critica più avvertita ritiene che egli si
sia formato.
Per
quel che riguarda Giovan Battista Spinelli, dopo le fondamentali
ricerche del Longhi e di Spinosa, la sua figura di artista ha
acquisito una nuova dimensione, risultando tra le personalità più
alte del Seicento napoletano. Nello stesso tempo le informazioni
del De Dominici sono risultate spesso imprecise, come la stessa
data di morte, che va collocata molti anni più avanti. Abbiamo
ritenuto di conseguenza più corretto porlo tra gli artisti in
relazione con Stanzione senza essere stati necessariamente suoi
allievi diretti, gruppo di cui discorreremo più avanti.
Francesco De Rosa,
detto Pacecco, nasce a Napoli nel 1607 ed attraverso una
ragnatela molto complessa, scoperta grazie alle diligenti ricerche
del Prota-Giurleo, ha rapporti di parentela con molti pittori
attivi in città nella prima metà del XVII secolo. È fratello della
famosa Annella, moglie di Agostino Beltrano e secondo le
malelingue «amica» di Massimo Stanzione, mentre un’altra sorella è
moglie di Juan Do. La madre, diventata vedova, sposa in seconde
nozze Filippo Vitale, presso la cui bottega il Nostro apprese i
primi rudimenti del mestiere. Il padre Tommaso era anch’egli
pittore, ancora tutto da riscoprire, in rapporto con Venceslao
Coebergher e ciò potrebbe essere una buona traccia per comprendere
certe nostalgie puriste di timbro manieristico che si riscontrano
lungo tutta l’opera di Pacecco.
Gli
antichi biografi indotti dalla convergenza di stile tra i due
pittori ritenevano il De Rosa allievo di Massimo Stanzione, ma
oggi la critica tende a credere che più che un vero e proprio
discepolato è più probabile che il «divino Guido» per Pacecco
abbia costituito una base puramente ispirativa.
Dallo
Stanzione il Nostro derivò molti modelli compositivi e si nutrì
della linfa classicistica di matrice emiliana che tendeva ad
addolcire il naturalismo caravaggesco.
Maggiore importanza riveste viceversa l’alunnato presso il
patrigno, la cui influenza è molto marcata nella giovanile
Deposizione conservata al museo di San Martino, derivata dal
noto dipinto di Filippo Vitale sito nella Chiesa di S. Maria
Regina Coeli.
Documentate sono anche opere eseguite in collaborazione dai due
artisti nel 1636 come la Gloria di Sant’Antonio da Padova
dell’Arciconfraternita di Sant’Antonio in San Lorenzo Maggiore ed
la Madonna del Rosario con S. Domenico e S. Carlo Borromeo
di San Domenico Maggiore.
Sempre
del 1636 è il San Nicola e il garzone Basilio della Certosa
di San Martino, la sua prima tela documentata, in cui ancora
evidente è la sua prima formazione naturalistica mutuata dal
patrigno, ma l’impatto del dipinto è quasi una parafrasi da
Stanzione, che ha prodotto un San Nicola per la chiesetta
di San Nicolao a Milano. I modelli ed il gusto del colore derivano
dall’opera del Domenichino presente a Napoli dal 1631, mentre i
giochi di luce e le preziosità delle vesti sono tratti
dall’«armamentario» della Gentileschi, giunta in città prima degli
anni Trenta.
Da
questi anni Pacecco entra a pieno titolo tra gli «stanzionisti»,
che si distinguono per una pittura piacevole e discorsiva, ove
l’impegno ed il rigore formale cede alla quantità ed alla
rapidità, mentre tutte le voci presenti in città vengono assorbite
ed amalgamate da Artemisia al Monreale, dal Lanfranco al
Domenichino.
In
particolare Pacecco risente dell’insegnamento del Domenichino,
divenendo così in città il più convinto assertore del filone
classicistico di matrice bolognese romana, un classicismo che,
dapprima di stampo più domenichiniano che reniano, si convaliderà
sulla «percezione degli esempi di Poussin, attraverso la rarefatta
mediazione di Charles Mellin attivo a Napoli dal 1643 al 1647» (Ferrari).
Pacecco diviene così il fondatore di una corrente purista, un
caposcuola, anche se minore, alla ricerca di toni cromatici
lucenti, di atteggiamenti di grazia manierata, leziosa ed a volte
stucchevole, con un’attenzione minuziosa alla resa dei particolari
preziosi delle vesti, produttore di incarnati alabastrini di
bellezza idealizzata dalle vivide tinte, con un gusto formale
assai prossimo agli esempi del Sassoferrato.
Immanente su tutta la sua opera «la grande ombra del Domenichino,
dall’alto dei pennacchi del Tesoro di San Gennaro, a Napoli, ma
soprattutto da Palazzo Farnese a Roma e dall’abbazia di
Grottaferrata» (Causa). Divenne allora uno dei dominatori
nell’affollato «limbo di provinciali orbitanti» che si
contendevano a Napoli commissioni pubbliche e lavori privati. In
questo settore Pacecco ottenne un notevole successo, poiché fu
sempre molto richiesto dalla clientela laica, innamorata delle sue
figure femminili nude, di grande bellezza, tratte da modelle
«dotate di fascino e grazia tipicamente partenopea di colorito
bruno nelle carni e di capelli neri» (Pacelli).
Ortolani non apprezzò a sufficienza i suoi soggetti laici e parlò
di «tornita fiacchezza dei nudi di maniera». Egli a nostro parere
non seppe cogliere a pieno la modernità che sottende a molte
figure femminili di Pacecco: basta pensare alla donna in primo
piano di spalle nel Bagno di Diana del Museo di Capodimonte,
ripresa dal vero in cui pare di precorrere Ingres, per il
neoclassico voluttuoso purismo da cui traspare in modo pungente la
moderna emozione dal vivo oppure tutta la modernità dei colori che
si evince dall’attento esame della Castità di San Tommaso
della Chiesa di Santa Maria della Sanità dove «il bleu metallico,
elettrico delle stoffe richiama ed anticipa soluzioni poi di
Mondrian e Kandinskj» (Pacelli).
Una
ricognizione, anche se veloce, del «corpus» di Pacecco, esaminando
nel dettaglio alcune tra le sue principali opere, ci permetterà di
cogliere i segni distintivi del suo stile e di apprezzare gli
orientamenti poetici e le tematiche espressive dell’artista.
L’inizio della sua attività è da identificare seguendo il parere
espresso dal De Vito, in due quadri rappresentanti la Madonna
delle Purità conservati nel Duomo di Salerno e nel museo
Lazzaro Galdiano in Spagna.
Opere
giovanili sono senza ombra di dubbio la Deposizione del
museo di San Martino in cui notevole è l’influsso luminista del
patrigno Filippo Vitale ed un’Adorazione dei pastori
di collezione privata, in cui palese è il riscontro del
naturalismo caravaggesco, che solo in seguito subirà un processo
di smussamento e addolcimento.
E
giungiamo così alla sua prima opera documentata da un pagamento
del 1636: San Nicola e il garzone Basilio della
sacristiola della Certosa di San Martino, in cui, pur se ancora
evidente l’influsso del Vitale, già nei modelli e nel gusto per il
colore si percepisce l’esempio del Domenichino, a Napoli dal 1631.
Da questa data e lungo tutti gli anni Quaranta l’influsso del
pittore bolognese sarà costante con le sue composizioni serene, i
suoi personaggi idealizzati ed innocenti, il suo linguaggio
poetico etereo e tutte le tele di Pacecco De Rosa presentano un
equilibrio armonico della scena, un inconfondibile timbro
cromatico ed un ritmo fluido ed incisivo dei contorni dei
personaggi, facendo tesoro del paradigmatico dettame del
Domenichino: «il disegno dà l’essere e non v’è che abbia forma
fuor dai suoi termini precisi ... il colore senza disegno non ha
sussistenza alcuna».
Sono
di questi anni le sue opere più importanti: Diana e Atteone
e Venere e Marte, conservati a Capodimonte Il giudizio
di Paride del Kunsthistorisches di Vienna e Giuseppe e la
moglie di Putifarre in collezione Molinari Pradelli.
Molti
dipinti sono purtroppo da anni lontani dall’Italia in musei e
raccolte private americane come la grandiosa Strage degli
innnocenti del museo di Filadelfia o il Martirio di San
Lorenzo nella Bob Jones University nel South Carolina.
In
tutte queste tele il «purismo» dello stile è giunto ad una
sublimazione tale che l’evento narrato è trasposto nei limiti di
cadenze musicali di puro impreziosimento cromatico.
I
personaggi, anche nell’acme del martirio, non manifestano dolore o
raccapriccio, bensì esprimono un’emozione gaia e serena, paghi di
immolarsi per la propria fede, in quella particolare esaltazione
narcisistica che accompagna sempre quel gesto eroico.
Poche
le opere di Pacecco firmate e datate, come pochi sono i documenti
di pagamento, riferentisi al lavoro svolto per commissioni
ecclesiastiche; tra queste un’Annunciazione del 1644 per la
chiesa di San Gregorio Armeno, un San Tommaso di Aquino che
riceve il cingolo della castità firmato e datato 1652
nella chiesa di Santa Maria della Sanità ed un Battesimo di
Santa Candida, per la chiesa di S. Pietro ad Aran, documentato
al 1654.
La sua
corrente «purista» rimase attiva anche nel secondo scorcio del
secolo ed avrà come protagonista indiscusso Francesco Di Maria, il
«rivale» del grande Luca Giordano.
Negli ultimi anni della sua attività la tavolozza di Pacecco perse
i toni squillanti, gli stridenti contrasti di colore, il luccicore
vetroso dei dipinti della piena maturità, mentre molte sue tele
presero la via della Puglia anche se non è documentato un suo
viaggio in quella regione. Carlo Rosa, pugliese, frequentatore per
anni della scuola stazionesca, collaborò a diffondere nella sua
regione la maniera di Pacecco.
La
presenza in Puglia di numerose tele di una certa qualità affini
allo stile di Pacecco ha fatto confluire una serie di opere sotto
la paternità di un artista dall’appellativo convenzionale di
Maestro di Bovino dal nome della località dauna ove era
conservata la prima delle tele assegnategli: Il martirio di S.
Pietro.
In
seguito altri quadri oltre ai primi tre proposti sono stati
collocati dalla critica sotto la paternità di questo misterioso
artista del quale è stato posto in risalto anche un momento
parafiglionesco.
La
critica più autorevole negli ultimi anni ha però provato a
collocare tali opere nel corpus di vari autori dal Maestro degli
annunci ai pastori al Guarino o allo stesso De Rosa, anche se
l’argomento necessita di ulteriori studi per una definitiva
chiarificazione.
Alterne fortune ha incontrato l’opera di Andrea Vaccaro
presso la critica: artista di successo in vita, principalmente
negli anni tra la morte di Stanzione e l’avvio del giovane
Giordano, ricercato da una committenza religiosa, a cui dispensa
pale d’altare dal rigoroso e severo impianto pietistico e da una
clientela laica che sapeva ben apprezzare le sue mezze figure di
sante avvolte da una intrigante e palpabile sensualità, lodato dal
De Dominici, nell’Ottocento la sua stella si eclissa per risorgere
prepotentemente alla ribalta degli studi ai principi di questo
secolo, raggiungendo una quotazione sempre molto alta come si
evince anche dai confortanti risultati ottenuti dai suoi dipinti
migliori nelle aste internazionali.
Secondo la tradizione fu avviato dal padre agli studi letterari,
ma fu ben presto folgorato dal demone della pittura.
Il suo apprendistato non
avvenne, come a lungo ha creduto la critica, presso Girolamo
Imparato, pittore manierista deceduto nel 1607, quando il Nostro
aveva appena 3 anni, bensì, come ci segnala un documento
identificato di recente da Delfino nell’Archivio storico del Banco
di Napoli, presso la bottega di Tommaso Passaro, oscuro pittore,
di orbita santafediana, ma abile copista delle opere di Caravaggio
e Ribera, dal quale con tutta probabilità il Vaccaro derivò la sua
grande abilità di falsario che ci viene tramandata dal De Dominici.
Il
biografo settecentesco nutriva grande stima del Vaccaro e ci
racconta che Raimondo De Dominici, suo padre, acquistate dieci
tele del Vaccaro, le vendette a Malta ad un cavaliere francese
spacciandole per opere del Caravaggio, senza alcuno scrupolo di
coscienza poiché dichiarava che «il valore del Vaccaro non è punto
inferiore a quello dell’Amerigi».
Tra i
suoi primi lavori vi è la copia, famosissima, della
Flagellazione di Caravaggio, attualmente a San Domenico
Maggiore, sede primaria della tela del Merisi oggi a Capodimonte,
nella quale, pur con decorosa modestia, sfida il confronto diretto
con l’originale, uscendone sconfitto principalmente nella cura del
chiaro scuro applicato con rigidezza quasi scolastica. Tutta la
sua prima fase è nell’orbita della pittura naturalistica, alla
quale egli si accosta già nel corso degli anni Venti in
un’accezione battistelliana, applicando sistematicamente un
chiaroscuro monocromo, senza trascurare uno sguardo ai maestri più
antichi dal Sellitto al Vitale.
La sua
prima opera documentata è del 1621, una Madonna di
Costantinopoli eseguita per la chiesa della Trinità delle
Monache; del 1636 è viceversa la famosa Maddalena del coro
dei Conversi della Certosa di San Martino. Altre opere giovanili
da prendere in esame sono lo splendido San Sebastiano del
museo di Capodimonte, dai toni cupi e dal solido impianto
compositivo ed il Calvario della Trinità dei Pellegrini.
Dal
1636, scomparso Battistello dalla scena, si accentua a Napoli quel
movimento culturale in cui si avrà la prevalenza del cromatismo
sul luminismo, indicato dalla critica come movimento vandyckiano e
che avrà tra i suoi esponenti il Vaccaro, il quale in «un
compromesso di aulici moduli bolognesi» si farà «volgarizzatore
del Reni nel carnoso e patetico dialetto partenopeo» e si farà
fautore di una «sintesi del luminismo battistelliano e della
classica formula stanzionesca» (Ortolani).
Nascerà così uno stile inconfondibile ed una formula di grande
successo che gli permise più di una volta di toccare le note alte
della buona pittura.
I suoi
personaggi dal volto sereno non sono agitati dalle passioni e sono
rappresentati da colori chiari, fermi e delineati, che pacatamente
sfumano nel buio dello sfondo.
La
qualità della sua produzione è discontinua come in Luca Giordano
che notoriamente adoperava «pennelli diversi» a seconda della
retribuzione percepita.
Egli,
per la pacatezza del suo linguaggio che ne faceva uno degli
interpreti più attivi della perdurante fase controriformistica, è
richiestissimo dalla committenza ecclesiastica, che esige in gran
copia cone d’altare non solo a Napoli, ma anche in provincia e su
tutto il territorio del viceregno.
Per la clientela laica sia napoletana che spagnola egli, in una
tavolozza monotona con facili accordi di bruni e di rossicci, crea
scene bibliche e mitologiche e le sue celebri mezze figure di
donne nelle quali persegue un’ideale femminile di sensualità
latente e dove raggiunge i suoi toni più elevati nel ritratto di
Annella De Rosa, giudicato anche dall’Ortolani, che non aveva di
lui una grande opinione, come il suo capolavoro.
Il
Vaccaro diviene il pittore della «quotidianità appagante,
tranquilla, a volte accattivante, in grado di soddisfare le
esigenze di una classe paga della propria condizione, attenta al
decoro, poco incline a lasciarsi coinvolgere in stilemi,
filosofici letterari, o mode repentine, misurato nel disegno,
intonato nei colori, consolante nell’illustrazione; Andrea ottenne
il suo maggior indice di gradimento in quella fascia della società
spagnola più austera e di consolidate opinioni e per converso in
quelle napoletane di pari stato ed inclinazione» (De Vito).
Il
periodo più felice nella produzione del Vaccaro fu il decennio dal
1635 al 1645 in cui fu in stretta simbiosi col più giovane
Bernardo Cavallino che gli trasmise in parte la sua raffinata
cultura.
Tra
gli esempi più importanti di «prelievi» dai modi cavalliniani
vanno ricordati il Transito di San Giuseppe della chiesa
del Purgatorio ad Arco, Erminia fra i pastori e Abramo e
i tre angeli di collezione privata napoletana.
I due
pittori scoprirono assieme il Reni sotto l’egida dello Stanzione
ed ampliarono il loro bagaglio di esperienze con un nuovo modo di
operare attraverso una delicata scelta dei toni e dei colori. Il
Vaccaro in particolare «raggentilisce e pittoricizza le sue forme
accogliendole con nuovo garbo in scene per lo più profane e
narrative» (Ortolani).
Sintomatico della collaborazione tra i due pittori alla fine degli
anni Quaranta è il ciclo biblico di raffinati rametti, ab antiquo
nella stessa collezione in Spagna, oggi disperso tra i musei di
Mosca, Fort Worth e Malibù, nel quale il quarto rame della serie,
il Giona che predica a Ninive, opera di Andrea
Vaccaro a dimostrazione di una comune commissione ed a conferma
delle parole del De Dominici, che descriveva i due artisti spesso
impegnati nell’espletamento di importanti commissioni.
Negli
anni successivi il Vaccaro alterna importanti pale d’altare a
dipinti profani i quali ottengono un grande successo commerciale
in Spagna, trasformando il Nostro nel pittore più «esportato»,
circostanza che meravigliava grandemente il Causa, il quale, pur
riconoscendogli un «talentaccio», non lo riteneva un grande
artista.
Tra i
suoi dipinti «laici», alcuni, di elevata qualità, sembrano animati
da un’agitazione barocca che raggiunge talune volte un coro da
melodramma.
Nell’ambito della produzione ecclesiastica da ricordare:
Madonna e Santi della chiesa di Santa Maria delle Grazie a
Caponapoli, le Storie di Sant’Ugo del museo di San Martino
e le tele di Santa Maria del Pianto, ove riuscì ad ottenere una
collocazione migliore del Giordano.
Le sue
sante, martiri o non, in sofferenza o in estasi che siano, sono
donne vive, senza odore di sacrestia, a volte perfino provocanti
nel turgore delle forme e nell’espressione di attesa non solo di
sposalizio mistico, «col bel girare degli occhi al cielo» (De
Dominici) e con le splendide mani dalle dita affusolate a
ricoprire i ridondanti seni.
Il
Vaccaro fu artista abile nel dipingere donne, sante che fossero,
pervase da una vena di sottile erotismo, d’epidermide dorata, dai
capelli bruni o biondi, di una carnalità desiderabile sulle cui
forme egli indugiò spesso compiaciuto col suo pennello, a
stuzzicare e lusingare il gusto dei committenti, più sensibili a
piacevolezze di soggetto, che a recepire il messaggio devozionale
che ne era alla base.
Dopo aver girato e rigirato attorno a tematiche chiaroscurali di
derivazione caravaggesca, senza sentirle profondamente e dopo aver
assimilato dal plasticismo riberiano quanto gli era necessario per
modificare il suo stile pittorico, nel pieno della sua attività si
ispirò ai modi pittorici di Guido Reni, da cui derivò, oltre al
piacere delle immagini dolciastre, anche la padronanza di schemi
compositivi di sicuro successo.
Egli
si ripeté spesso su due o tre modelli femminili ben scelti, di
lusinghiere nudità, che gli servirono a fornire mezze figure di
sante martiri a dovizia tutte piacevoli da guardare, percepite con
un’affettuosa partecipazione terrena, velata da una punta di
erotismo, con i loro capelli d’oro luccicanti, con le morbide mani
carnose e affusolate nelle dita, con le loro vesti blu scollate,
tanto da mostrare le grazie di una spalla pallida, ma
desiderabile. I volti velati da una sottile malinconia e con un
caldo languore nei grandi occhi umidi e bruni, che aggiungono
qualcosa di più acuto alla sensazione visiva delle carni plasmate
con amore e compiacimento.
Nel
1666 il Vaccaro partecipò alla fondazione della Accademia dei
pittori, una corporazione dislocata nella chiesa di San Giovanni
Maggiore delle Monache, di cui fu il primo prefetto per 2 anni,
avendo a latere Luca Giordano e Francesco De Maria. A tale neonata
consorteria egli donò un San Luca che ritrae la Madonna in
cui è palpabile una sorta di sottile autocelebrazione «che nella
figura dell’evangelista pittore mostra una scioltezza di tocco,
una vivacità di espressione e di colori in linea coi tempi» (De
Vito).
La sua
folta produzione richiestissima anche in Puglia e in Sicilia
diviene col tempo sempre più scontata, rendendosi via via
inattuale e meramente descrittiva; nell’ultimo decennio egli si
rifugia spesso in angusti spazi tematici e figurativi, ripetitive
le immagini, limitati i contrasti di colore con una tavolozza che
vira monotonamente sui bruni e sui marroni.
Egli
dà l’impressione di utilizzare schemi acquisiti, di grande
successo commerciale, amministrando con parsimonia un grande
capitale di esperienza acquisita negli anni.
In definitiva il Vaccaro, per un certo numero di opere, anche se
non per tutta la produzione, deve essere considerato un pittore di
rilievo (il Causa gli riconosceva almeno un quarto di nobiltà
artistica), il più noto in vita per ricchezza di produzione,
moltiplicarsi di firme e semplicità nel variare il proprio stile
al mutare della moda.
Un
artista facilmente riconoscibile, anche se molto versato nelle
«copie alla maniera di», fino a spingersi alle falsificazioni, più
abile di un Giordano in vena di «esercitazioni».
La sua
produzione molto disuguale copre un arco di tempo molto ampio,
perché fu uno dei pochi scampati alla peste e poté lavorare a
lungo anche al fianco dei pittori della nuova generazione.
Le sue
opere ed alcune sue tele non finite furono proseguite da suo
figlio Nicola, anche egli valido pittore, abile nei quadri a
figure piccole narranti fiabe e baccanali.
Girolamo dello Mastro (De Magistro)
è pittore collocabile per affinità stilistiche tra i collaboratori
o quanto meno tra i seguaci di Stanzione; di recente, grazie al
Nappi, si è scoperta la sua data di nascita, 1612 e la data di
esecuzione del suo San Michele, 1650. Egli fino a pochi
anni fa ci era noto unicamente per la sua firma: «Hyeronimus De
Magistro» reperita la prima volta dal Causa tra vecchie
incrostazioni sotto la Santa Lucia della chiesa di Santa
Maria della Sanità.
In
seguito è stata ritrovata, in occasione di un restauro, un’altra
sua opera firmata: il San Michele che schiaccia i diavoli
ribelli della chiesa del Purgatorio ad Arco, tradizionalmente
assegnato all’altrettanto misteriosa e sfuggente Annella De Rosa.
La
critica ha cercato di avvicinare la Santa Lucia al gruppo
radunato attorno all’Ultima cena della parrocchiale di
Fontanarosa per le analogie molto evidenti tra il volto del Cristo
e quello della santa, come pure il Bologna ha segnalato diversi
quadri da confrontare, anche se taluni manifestano, per la loro
disomogeneità, delle perplessità, esternate in una recente
pubblicazione dalla Vega De Martini.
I suoi due dipinti fino ad ora assegnati con certezza posseggono
una validità di impianto ed una accuratezza pittorica che rivelano
la mano di un maestro di estrazione solida ed antica, per cui
quanto prima, se si riuscirà a reperire qualche altro quadro
firmato, si potrà registrare più a fuoco la personalità di questo
ancora misterioso pittore, che potrà entrare così a pieno titolo
nella storia del secolo d’oro della pittura napoletana.
Al suo pennello, a nostro parere, dovrebbe essere assegnata anche
una Santa Agnese passata di recente sul mercato
antiquariale napoletano.
Gli
studi su Agostino Beltrano continuano a vagare da decenni
ai margini delle ricerche sullo Stanzione. Un tentativo serio di
ricostruzione critica lo si deve alla Novelli e più di recente a
Luisa Ambrosio, ma ancora molte ombre aleggiano su questo «stanzionesco
da riabilitare», anzi, più correttamente "stanzionesco falconiano".
Per lui, nato a Napoli nel 1607, definito da De Dominici «uno de’
migliori scolari del Cavaliere Massimo», la critica per anni ha
ritenuto fosse stato Filippo Vitale il punto di riferimento più
certo per la sua formazione, anche se pochi dubbi sotto il profilo
stilistico possono esserci sul suo legame con Stanzione.
Di
recente, il ritrovamento di documenti asserenti la sua presenza
nel 1621 presso la bottega di Gaspare De Populo ha creato un nuovo
orientamento, per cui è necessario tenere conto della fitta
ragnatela di parentela nella quale quasi tutti gli artisti
operanti a Napoli nel III e IV decennio del secolo sono
invischiati. Beltrano ha infatti per zia la madre di Andrea
Vaccaro, sposa nel 1626 Diana De Rosa, la famigerata Annella Di
Massimo figliastra di Filippo Vitale, anch’ella pittrice e
collaboratrice sua e di Massimo Stanzione; è cognato di Aniello
Falcone, Juan Do e Pacecco De Rosa.
Questi
intrecci parentali si trasformano in influssi reciproci, per cui
possiamo oggi ben dire, parafrasando il parere dell’Ortolani, di
un Beltrano combinatore di stanzionismo con forme lanfranchiane.
Importante per la maturazione stilistica del pittore fu senza
dubbio la vicinanza, in occasione dei lavori nella cattedrale di
Pozzuoli, che, cominciati nel 1635 si protrassero per molti anni,
con il Lanfranco, con Artemisia Gentileschi e Massimo Stanzione.
Secondo un fantasioso aneddoto riferito dal De Dominici, il
Beltrano, geloso della moglie e delle attenzioni premurose che
verso di lei nutriva Massimo Stanzione, in un impeto di collera
trafisse a fil di spada la consorte, per cui dovette rifugiarsi
prima a Venezia e poi in Francia da dove fece ritorno a Napoli
soltanto nel 1659.
È
stato compito del Prota Giurleo, attraverso documenti, dimostrare
l’infondatezza dell’episodio.
La sua
prima opera documentata è, nel Duomo di Pozzuoli, il Martirio
dei Santi Procolo e Gennaro collocabile al 1634 - 35.
L'impaginazione delle sue tele è in stretta dipendenza con
l’insegnamento stanzionesco, del quale assimila l’elegante
fraseggio «con vaste campiture cromatiche e giochi luministici di
superficie» (Ambrosio) e tale maniera persisterà per vari anni,
pur aperta a suggestioni pittoricistiche di matrice classicista,
di derivazione romana bolognese, con influssi palpabili anche del
Grechetto e del Monrealese.
Talune
sue figure tradiscono però lievi accentuazioni naturalistiche,
anche se temperate, mentre l’articolazione narrativa risente in
parte anche delle ricerche più avanzate del cognato Aniello
Falcone.
Altre opere da segnalare dopo la tela per il Duomo di
Pozzuoli sono gli affreschi, con soggetti tratti dal Vecchio
Testamento, per la chiesa di Santa Maria degli Angeli a
Pizzofalcone, da datare agli anni 1644 -
45, in contrasto con ciò che riferisce il De Dominici, che li
voleva eseguiti nel 1659 dopo lo pseudo ritorno dalla Francia; il
Ritratto equestre di Carlo Di Tocco conservato al Pio Monte
della Misericordia, che occupa un peso di rilievo per il suo
formato e per le sue caratteristiche che richiamano i modelli
illustri, all’epoca tanto in voga in terra di Spagna; il celebre
Lot e le figlie di collezione Molinari Pradelli, che
raggiunge un alto livello di poesia con un andamento brioso che
tende ad avvicinarsi alle raffinate fascinazioni del Cavallino,
entro cadenze liriche di inusitata dolcezza; il Sacrificio di
Isacco del Museo di Capodimonte ove arricchisce la sua
esperienza naturalista di più intensi preziosismi cromatici
giungendo ad eleganti soluzioni compositive; infine il San
Biagio fra i Santi Antonino e Raimondo della chiesa di Santa
Maria della Sanità, in cui si avverte un naturalismo temperato
alle suggestioni pittoricistiche ed alle prime soluzioni del
classicismo romano bolognese, che in quel periodo cominciava ad
avvertirsi nell’ambiente napoletano. Tale dipinto, collocabile da
documenti al 1655, è stato a lungo ritenuto essere l’ultima opera
del Beltrano, che assunse l'impegno di decorare con dipinti e
affreschi anche tutto il restante ambiente della cappella.
Viceversa esiste in Spagna, in collezione privata, una tela, un
S. Agostino che reca la firma per esteso dell'artista e
la data 1656 ed inoltre
un’Immacolata
Concezione con Alessandro VII e Filippo IV, posta sulla
parte destra delle tribune di Santa Maria la Nova, databile per
motivi iconografici a dopo il 1662 ed in passato assegnata dalla
critica al fratello Giuseppe, la quale è senza dubbio opera di
Agostino, per cui la sua data di morte, collocata generalmente al
1656, anno della terribile pestilenza che falciò a Napoli, assieme
a quasi metà della popolazione, una intera generazione di artisti.
va spostata in avanti, forse al 1665 indicato dal De Dominici.
Giuseppe Beltrano,
fratello di Agostino, è pittore quasi del tutto ignoto alla
critica, anche se di lui parla il De Dominici nelle sue «Vite»,
assegnandogli il completamento delle decorazioni iniziate da
Agostino nella cappella del Beato Salvatore d’Orta in Santa Maria
la Nova, lavori oggi non più visibili, inoltre nell’Ottocento era
ritenuto da alcuni studiosi autore della tela nel soffitto e degli
affreschi fra i finestroni della chiesa di Santa Maria della
Scala.
Alla
figura di Agostino Beltrano è indissolubilmente legata quella di
Diana De Rosa, la famigerata Annella di Massimo del
racconto dedominiciano, moglie del pittore e pittrice anch’ella,
nell’ambito della scuola stanzionesca.
Diana
era sorella di Pacecco De Rosa e, secondo il De Dominci, allieva
dello Stanzione «cara al maestro come collaboratrice in pittura e,
per la sua bellezza, come modella».
Anche
le sue sorelle Lucrezia e Maria Grazia, la quale sposò Juan Do,
erano molto belle e con Diana furono soprannominate le «tre Grazie
napoletane», vezzeggiativo che fu poi ereditato dalle tre figlie
di Maria Grazia, anch’esse bellissime.
Pur se
citata dalle fonti e resa famosa dall’aneddoto sulla sua morte
violenta, «Annella» è a tutt’oggi «una pittrice senza opere» che
possano esserle attribuite con certezza. Sicuri sono i dati
anagrafici, 1602-1643, resi noti dal Prota-Giurleo.
Il De Dominici ciarlava che Annella, allieva di Massimo Stanzione,
fosse la pupilla del maestro, il quale si recava spesso da lei,
anche in assenza del marito per controllare i suoi lavori e per
elogiarla. Una serva della pittrice, che più volte era stata
redarguita dalla padrona per la sua impudicizia, incollerita da
ciò, avrebbe riferito, ingigantendone i dettagli, della
benevolenza dimostrata dal «Cavaliere» verso la discepola,
scatenando la gelosia di Agostino, il marito, il quale accecato
dall’ira, sguainata la spada, spietatamente le avrebbe trafitto il
seno. A seguito di questo episodio il Beltrano, pentito
dell’enormità del suo gesto ed inseguito dall’ira dei parenti di
Annella, si rifugiò prima a Venezia e poi in Francia dove visse
molti anni prima di ritornare a Napoli.
Oggi
la critica, confortata da dati documentari, non crede più a tale
favoletta, anche se il nomignolo di «Annella di Massimo» che dal
Croce al Prota Giurleo, dal Causa a Ferdinando Bologna
unanimemente si credeva fosse stato inventato in pieno Settecento
dal De Dominici è viceversa dell’«epoca», essendo stato rinvenuto
in alcuni antichi inventari: in quello di Giuseppe Carafa dei
duchi di Maddaloni nel 1648 ed in quello del principe Capece Zurlo
del 1715. In entrambi vengono riferiti dipinti assegnati alla mano
di «Annella di Massimo».
Questa nuova constatazione fa giustizia della vecchia diatriba tra
il Comune di Napoli ed il Prota Giurleo, indispettito che una
strada della città fosse dedicata ad un nome inesistente e
convinto che dovesse ritornare all’antico toponimo di via Vomero
Vecchio. Come pure, alcune contraddizioni inducevano Raffaello
Causa a respingere a priori la tesi di Roberto Longhi, pur con la
diplomatica frase «segno distintivo di sicuro riconoscimento», di
ravvisare nella sigla «ADR», scoperta sotto uno straordinario
dipinto, oggi ad ubicazione sconosciuta, le iniziali della
pittrice, perché ella si chiamava Dianella e non Annella.
Anche
il Bologna, di recente, ribadendo che «è storicamente impossibile
prima della pubblicazione e della fortuna della biografia
dedominiciana» l’autenticità della sigla, ha ritenuto che essa
fosse apocrifa, «anche nel ductus grafico» ricollocando, come è
opinione anche del Pacelli, le opere di Annella nel catalogo di
Filippo Vitale e della sua cerchia.
Il
Longhi fu il primo che tentò una ricostruzione ragionata del
corpus di Diana De Rosa sulla guida di una sigla da lui
identificata sotto un pregevole quadro, rappresentante l’Ebrezza
di Noè, già in collezione Calabrese a Roma ed oggi purtroppo
ad ubicazione sconosciuta. Per affinità stilistica egli assegnò
così altre tele alla pittrice, il cui catalogo è stato più di
recente ampliato fantasiosamente dal Fiorillo in una pubblicazione
molto criticata.
La tradizione assegna alla De Rosa, oltre ai lavori nel soffitto
della Pietà dei Turchini, anche un dipinto per la chiesa di Monte
Oliveto, oggi S. Anna dei Lombardi, ed uno nella sacrestia della
chiesa di Santa Maria degli Angeli a Pizzofalcone: tutte opere di
cui oggi non v’è più traccia. La difficoltà maggiore
nell’identificare opere sicure di Annella dipende, in base a ciò
che raccontava il De Dominici e come suggeriva anche il Causa
alcuni anni fa, dalla circostanza che ella collaborava attivamente
ad opere sia dello Stanzione che del Beltrano, senza però quasi
mai completarle.
Oggi le uniche opere che ragionevolmente possono essere assegnate
alla De Rosa sono, come invita a considerare anche il Bologna, le
due tele che entrando nella chiesa della Pietà dei Turchini si
possono vedere ai lati dell’altare e che probabilmente sono le
stesse che il De Dominici collocava nel soffitto, che come vuole
la tradizione e le antiche guide napoletane, era decorato da una
serie di dipinti su tela commissionati entro il
1646 a Giuseppe Marullo, particolare confermato anche da
documenti reperiti da Nappi. Le due tele rappresentano la
Nascita e la Morte della Vergine ed il De Dominici con
una precisione dettagliata dei temi rappresentati le assegna ad
Annella De Rosa, per la cui commissione presso i governatori della
chiesa si era mobilitato lo Stanzione in persona.
L’affinità stilistica delle due opere con la produzione
stanzionesca degli anni Quaranta è fuori discussione, come la sua
qualità elevata, per cui per i futuri studi bisognerà decidersi a
partire da questi due dipinti.
Bernardo Cavallino
(Napoli 1616 - 1656) è il più napoletano tra i «nostri» pittori,
nato e morto nella capitale vicereale, luminosa stella cadente nel
firmamento della pittura non solo partenopea, ma italiana,
europea, del suo secolo, ed oltre, fino ai nostri giorni. Anche i
suoi maestri ed i suoi ispiratori più significativi, da Stanzione
ad Andrea Vaccaro, sono l’espressione più genuina della
napoletanità. La sua vita si consuma in un breve lasso di tempo,
come la sua frenetica attività, durata poco più di un ventennio,
per fermarsi nel 1656, anno della peste. Nessuna notizia di viaggi
di istruzione fuori da Napoli, non pervenutaci una produzione
grafica, che pur dovette esistere ed essere cospicua, assenza di
qualsiasi informazione riguardo l’esistenza di una bottega o di
allievi. Le poche cose che sappiano sulla sua vita le dobbiamo al
De Dominici, come sempre condite da molti particolari fantasiosi.
Il biografo settecentesco, pur includendolo tra gli allievi di
Stanzione, gli dedica un capitolo a sé stante, avendo intuito
l’autonomia del suo linguaggio e la grandezza della sua arte,
della quale fu il primo estimatore.
De
Dominici narra, e bisognerà crederci, che nel 1640, quando giunse
a Napoli, presso la dimora del banchiere Roomer, il celebre
«Banchetto di Erode» del Rubens, il Cavallino fu tra quelli che
più ammirarono la grande opera «e tanto bella gli parve, che quasi
incantato dalla magia di que’ vivi e sanguigni colori, con
meravigliosa maestria adoperati, si propose imitarla».
Oggi
la critica riconosce più di ottanta dipinti al Cavallino,
pochissimi siglati, uno soltanto firmato e datato, 1645, la
Santa Cecilia, che funge da spartiacque tra l’attività
giovanile e la maturità dell’artista. I pochi elementi certi sulla
sua vita, frutto di ricerche d’archivio, ci fanno apparire il
pittore come una figura ancora misteriosa, eppure tanto vicina
alla nostra moderna sensibilità per la sua lettura laica dei fasti
e dei miti del passato, per l’indifferenza ad ogni remora
chiesastica, osservanza liturgica o amplificazione devozionale.
Egli rifiuta l’affresco, ed è attento ed appassionato lettore di
storia antica e delle sacre scritture, così come del Tasso, di
Ovidio e della letteratura mitologica. Le sue favole antiche si
sublimano a riprova di una universalità atemporale dei sentimenti.
I suoi soggetti sacri, santi o sante che fossero, sono umanizzati
e ridotti, anche grazie alla sua pittura di piccolo formato ed a
figure terzine, in chiave familiare, con nel volto il segno delle
passioni umane, anche se sublimate dall’amore e dalla bellezza.
Sacro e profano trovano così una sintesi ideale in un sottile e
raffinato gioco di cadenze interiori.
Le sue
sante, tutte espressioni di una terrena beatitudine, sono «fiorite
come gemme di miniera, fiori di serra inattesi e sconosciuti,
nella loro bellezza tutta profana» (Causa).
L’idea
del martirio e della penitenza è sottintesa ad un malizioso
compiacimento e venata da una appena percettibile punta di
erotismo. Queste eterne bellezze mediterranee dal volto sensuale
ed accattivante fanno mostra del loro martirio con indifferenza e
con lo sguardo trasognato, incuranti degli affanni terreni e con
gli occhi che, pur fissando lo spettatore, sembrano proiettati
fuori dal tempo e dallo spazio. Dalle tele promana una dolcezza
languida, serena, rassicurante, che ci fa comprendere con quanta
calma queste sante, avvolte nelle sete rare delle loro vesti
acconciatissime, abbiano affrontato il martirio, sicure della
bontà delle loro decisioni, placando e spegnendo ogni sentimento e
sensazione negativa quali il dolore, la sofferenza, lo sdegno ed
esaltando la calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza
di una scelta adamantina. La pittura in queste immagini dolcissime
e sdolcinate cede il passo alla poesia, che si fa canto soave
anche nella rappresentazione delle «flessuose signorine napoletane
del suo tempo e per le loro fogge lussuose, fresche di seriche
gale o pingui di velluti, che la luce coglie furtiva come fiori
dalla notte» (Ortolani).
Anche
se incluso dal De Dominici tra gli allievi di Stanzione, il
Cavallino fu influenzato nei suoi primi anni di attività dalle
esperienze del Ribera, che già volgeva attenzione al nascente
pittoricismo in area napoletana e da quelle del Maestro degli
annunci ai pastori, con il quale collabora in qualche opera
giovanile come nei pendants, già in collezione Gualtieri. Anche
Aniello Falcone e la sua cerchia catalizzeranno gli iniziali
interessi del Cavallino verso il naturalismo, pur al di fuori di
qualsivoglia riferimento ad episodi di crudo realismo.
Le sue
prime esperienze vanno ricondotte ad opere di grandi dimensioni e
di moderata tensione naturalista, come il Martirio di San
Bartolomeo di Capodimonte, l’Incontro di Sant’Anna con San
Gioacchino del Museo di Budapest e l’Adorazione dei pastori
conservata a Braunschweig; «ma lo scenario prediletto da Cavallino
non è né quello dei duri campi di battaglia di Falcone, né quello
dei torvi martirî di Ribera, ma è un ambiente rarefatto e
raffinato dove figure regali elegantemente vestite ostentano i
colli e le caviglie più snelle, dove le teste delicate si piegano
graziosamente in avanti e si librano le mani dei danzatori, dove
tutto si concentra sulle interrelazioni intensamente emotive delle
dramatis personae» (Percy).
A
partire dagli anni Quaranta il Cavallino, recependo gli esiti del
neovenetismo in chiave grechettesca e gli insegnamenti impartiti
dal Van Dyck attraverso il suo periplo tirrenico, propone
soluzioni cromatiche più accese ed esaltanti, con un raffinato
gioco di trapassi chiaroscurali e di luci risplendenti, in un
getto veemente di bagliori improvvisi, che tagliano le forme in un
lampeggiare di lame argentee, che sgorgano come in sogno in
un’atmosfera irreale di estasi liriche espresse con una raffinata
emotività.
Il
colore, steso in maniera fine e ricercata e spesso esaltato dal
rame adoperato come supporto, una scelta tecnica che giova ad
ulteriori impreziosimenti cromatici, diventa il mezzo espressivo
attraverso il quale l’artista si esprime in maniera personale.
La
gamma cromatica, dai gialli dorati ai marroni profondi, dai serici
azzurri agli iridescenti argenti, diventa un timbro originalissimo
con il quale il Cavallino canta a pieni polmoni e si impone con
aperta baldanza; e quelle stesse tinte che adoperate da altri
producono appena un labile tintinnio, trasfuse nel suo pennello è
come se acquisissero una prodigiosa cassa armonica che le perora e
le avvampa.
La
variazione di luminosità nella resa degli incarnati con ombre più
trasparenti mostra gradualmente il passaggio dalle sue prime
opere, intrise di tenebrismo, alla delicata tastiera cromatica
della metà degli anni Quaranta, quando è collocata l’unica sua
opera datata, la Santa Cecilia, che possiede una pennellata più
fluida e l’abbandono dei fondali rigorosamente scuri in favore di
quinte più rischiarate, contraddistinte da una modulazione tonale
e da un trattamento delle ombre più delicato e traslucido.
«Il
colore si impreziosisce in puri accenti lirici, carpiti da
reconditi raggi all’ombra» (Ortolani), mentre l’artista tenta
nuove corde e registri, prendendo ispirazione anche fuori della
cultura napoletana da artisti come il Vouet, Poussin e Charles
Mellin.
Le sue
figure allungate, sinuose, dai volti teneri e patetici esprimono
un’atmosfera raccolta e familiare, sospesa tra l’idillio e
l’elegia. Giunto alla piena maturità il Cavallino ci fa dono di
immagini delicatissime «di intenerita grazia sentimentale e di
raffinata eleganza formale. Una pittura di solare luminosità,
dalle tinte calde e preziose, dai modi eleganti e contenuti, che
esprimeva ideali di raffinata grazia mondana e di una coltivata
emotività» (Spinosa).
Nelle composizioni di questi anni il Cavallino è abile anche nel
calibrare le figure nello spazio e nell’articolare gli sguardi ed
i gesti dei protagonisti, che vengono spesso effigiati in pose
teatrali, toccati da una luce dal timbro argentino ingegnosamente
collocata allo scopo di accentuare gli effetti drammatici e
riscattare volumetricamente l’immagine. Anche nel cromatismo vi è
uno studiato contrasto tra l’uso di colori pallidi o brillanti e
tonalità più sorde o terrose. Le ultime opere del Cavallino sono i
tre piccoli rami oggi dispersi tra i musei di Mosca, Fort Worth e
Malibu, il David e Abigail ed il Ritrovamento di Mosè
conservati a Braunschweig e la spettacolare Giuditta con la
testa di Oloferne del museo di Stoccolma. Queste ultime
fatiche sono caratterizzate da un ulteriore allargamento della
gamma cromatica: blu chiari e tersi, acidi timbri di verde
pallido, rossi vivi, grigi argentei, gialli oro e tenui arancioni.
«Le ombre cupe delle prime opere si sono gradualmente trasformate
in ombre trasparenti e luminose ed il naturalismo di resa di
figure ed oggetti è più leggero e più fluente nel tocco, ma non
meno efficace» (Percy), mentre il registro espressivo acquisisce
la massima individualità.
Il
livello di rifinitura delle tele assume una compattezza di
tessitura pittorica quasi vetrosa, da simulare la consistenza
della porcellana, in una «visione di archetipi di irraggiungibile
nitore», (Causa) in cui si prelude già al Settecento, al mondo
dell’Arcadia e del melodramma.
Poi,
all’improvviso, nel ’56 a Napoli scoppia la peste e Cavallino,
assieme ad una intera generazione di pittori, scompare, mentre era
nel pieno del suo svolgimento artistico, solitario uccello di
paradiso, in volo verso le vette più alte dell’arte e della
poesia.
Antonio De Bellis
è un altro degli allievi di Stanzione, secondo il De Dominici, che
lo fa morire nel 1656, mentre a Napoli divampa la peste.
Figura
fino a trenta anni fa quasi sconosciuta alla critica e della quale
non possediamo alcun dato biografico certo, essendosi dimostrato
mendace il referto dedominiciano della data di morte, il De Bellis
si staglia prepotentemente tra i più alti pittori del Seicento non
solo «nostro» ma italiano. Un altro dei grandi del nuovo
naturalismo napoletano, che medita ed opera, inizialmente, tra il
Maestro degli annunci e Guarino, per poi virare verso Stanzione ed
il Cavallino pittoricista. Intuizione già felicemente avanzata dal
Causa nella sua brillante e precorritrice esegesi del 1972
sull’allora ignoto pittore e sulla base dell’unica opera che gli
veniva assegnata, il ciclo carolino nella chiesa napoletana di San
Carlo alle Mortelle, che si riteneva eseguita in coincidenza con
l’infuriare della peste.
Un artista minore nel limbo dei provinciali orbitanti
nell’universo stanzionesco? Troppo ricco è il panorama della
pittura napoletana di questi anni per poter assurgere ad una
posizione di preminenza, ma per De Bellis, alla luce delle recenti
scoperte del De Vito e di Spinosa, si deve almeno parlare del
«maggiore tra i minori».
De
Dominici ci narra che egli elaborò il suo stile miscelando «il
dolce colorito» del suo maestro Stanzione alla «nuova terribile
maniera» del Guercino, la cui Resurrezione di Lazzaro
oggi al Louvre, si trovava allora nella collezione Garofalo a
Napoli. Essa fu copiata dal De Bellis e collocata nella chiesa
della Pietà dei Turchini, dove attualmente non è più presente. In
nessuna delle opere che oggi la critica assegna all’artista sono
visibili riflessi dello stile del grande bolognese, per cui
l’affermazione del biografo settecentesco non ci è di alcuna
utilità.
Il
Causa, nel suo monumentale saggio sulla pittura napoletana del
Seicento, annusò nel De Bellis la stoffa del pittore di razza, «sivigliano»
a metà strada tra il Velázquez e lo Zurbaran delle Storie di
San Bonaventura. Egli esaminò i quadri della serie carolina
con le storie del santo, nella chiesa dei Barnabiti di San Carlo
alle Mortelle. Credette, sulla falsariga del racconto
dedominiciano, che i dipinti fossero stati realizzati durante la
peste, per il crudo realismo di alcune scene quasi da reportage
fotografico e per la constatazione di alcune tele lasciate
incompiute: «non tutti siano di una stessa perfezione, perciocché,
alcuni di essi non furono terminati ma dipinti alla prima, così
restarono per sua immatura morte» (De Dominici). Il Causa ritenne
di grande livello il San Carlo che comunica gli appestati e
il San Carlo che visita gli infermi. Stupendi brani di
pittura tra i documenti più icastici della peste e tali da poter
gareggiare con i celebri bozzetti del Preti eseguiti per le porte
della città. «Una figura, un ritratto, un gioco compositivo che
rivela l’indipendente di gran classe, punto zenitale di una
continuità di grande cultura locale» (Causa).
L’iconografia della serie è nuova ed originale ed alcuni episodi
sono stati interpretati solo grazie al contributo conoscitivo che
fornì Boris Ulianich, indiscusso pontefice degli studi
agiografici. Alcune immagini sono straordinarie e soffuse da una
struggente aria di malinconia e di tristezza, come il San Carlo
in preghiera con una caterva di cadaveri alle spalle, che
rendeva ridicolo al confronto l’analogo soggetto «caramelloso e
azzimato», dipinto quarant’anni prima dalla pittrice Fede Galizia
per l’altare maggiore. E che dire del dipinto ove il santo dà in
carità il suo oro per sfamare i poveri, nel quale «il ritratto del
prelato col sacchetto di scudi d’oro entra a buon diritto tra i
personaggi più incisivi della pittura seicentesca» (Causa).
La
meteora del De Bellis sembrava che dovesse sparire in un attimo
nei giorni tumultuosi dell’epidemia, ma il rinvenimento di alcune
sue opere siglate e collocabili con certezza agli anni successivi
alla peste, tra il 1657 e il 1658, ci hanno dato la certezza che
l’artista aveva continuato a lavorare.
Il
Bologna, sulla base di considerazioni stilistiche, aveva già da
tempo predatato di un ventennio il ciclo carolino, che in seguito,
grazie a dei documenti reperiti dal De Vito presso l’archivio dei
padri Barnabiti di Milano, ha trovato una definitiva collocazione
cronologica agli anni 1636-39.
La
formazione del De Bellis viene spostata quindi alla metà degli
anni Trenta, con un percorso del tutto affine a quello seguito dal
Cavallino, del quale è probabilmente coetaneo. In seguito dopo le
esperienze vigorosamente naturaliste, negli anni Quaranta sulla
guida delle soluzioni di brillante e luminoso pittoricismo del
Grechetto e del Poussin giunse a risultati di così alta eleganza
formale e ricercatezza cromatica da essere a lungo, nelle sue
opere migliori, confuso con Cavallino.
Tra le
opere più significative di questo periodo sono da ricordare il
Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia del museo di
Budapest, a lungo assegnata a Stanzione o a Pacecco De Rosa, il
Sacrificio di Noè del museo di Houston ed il Sansone e
Dalila della collezione Rodinò a Napoli.
A
conferma dell’autografia e come guida per la collocazione
cronologica, vi è in molti dipinti il particolare curioso che
l’artista, al pari del Cavallino, ha la civetteria di
auto-ritrarsi più volte e nelle fogge più disparate, con tratti
somatici che variano con lo scorrere implacabile degli anni.
Nello
stile del De Bellis vi è negli anni «un processo costante di
assestamento compositivo e di più studiata definizione dei volumi,
un accrescimento in senso pittoricistico delle originarie
propensioni naturalistiche con un intenerimento del dato
espressivo anche per sottigliezza di resa formale» (Spinosa).
Le
stringenti affinità che intercorrono nella scelta delle soluzioni
compositive e nella tipologia dei personaggi raffigurati, e le
notevoli analogie con la Natività firmata Bartolomeo
Bassante del Prado, avevano indotto il Prohaska a trasferire a
questo autore una grossa parte della produzione del De Bellis.
L’identificazione della sigla «ADB» su di una roccia nel dipinto
Lot e le figlie, oggi a Milano presso la Compagnia di Belle
Arti, ha fugato ogni dubbio ed ha permesso di assegnare
definitivamente al nostro artista tutto quel gruppo di opere che
il Prohaska riteneva di Bartolomeo Bassante.
Negli
ultimi anni della sua attività, il De Bellis, per soddisfare le
esigenze di una committenza pubblica legata a soluzioni
convenzionali di pittura religiosa di carattere devozionale,
dovette variare nuovamente il suo stile. Una progressiva
stanchezza ed uno scadimento di qualità si avvertono infatti nelle
sue ultime tele come la Trinitas terrestris, siglata, nel
santuario della Madonna di Sunj e la Madonna in gloria tra i
Santi Biagio e Francesco d’Assisi, anch’essa siglata e
conservata nella chiesa del convento dei Domenicani a Ragusa,
l’odierna Dubrovnjk, la quale per alcuni particolari topografici
nella dettagliata pianta della città è databile con precisione tra
il 1657 e il 1658.
Giovan Battista Spinelli,
attivo fra il 1630 ed il 1660 circa, viene citato dal De Dominici,
che poco lo conosceva, come l’ultimo dei sei discepoli dello
Stanzione.
La sua
personalità artistica ed il ricordo della sua opera si erano persi
nel nulla, e solo negli ultimi 30 anni grazie alle felici
intuizioni del Longhi, agli accaniti studi del Vitztuhm e, più di
recente, alla puntuale ricostruzione dello Spinosa è riemerso come
una delle figure di spicco del Seicento napoletano, facilmente
riconoscibile non solo per la sua marcata abilità di disegnatore,
ma principalmente per le caratteristiche fisiche e fisionomiche
delle sue figure: personaggi in preda a torsioni disperate ed alla
completa disarticolazione delle forme, immersi in un impasto
furente percorso di umori misteriosi, agitati da una elettrizzante
energia interiore e gesticolanti come marionette impazzite.
Le sue
donne, affascinanti e misteriose, si riconoscono tra mille per le
guance goffe e paffute, per il languore sentimentale e per il
sorriso beffardo, patognomonico, che le rende inconfondibili
mentre seducono maliziosamente volti mefistofelici ed eroi
vittoriosi in un gioco calibrato di sorrisi appena accennati,
grazie ben esposte e contorsioni esasperate delle membra.
Una
volta fissati nella mente questo «imprinting» femminile e le
località ove a lungo lavorò lo Spinelli, tra Chieti, Ortona e
Lanciano, è stato facile per gli studiosi identificare le sue
tele, frutto di committenze prevalentemente private, ma anche
ecclesiastiche.
Altra
caratteristica che distingue la pittura dello Spinelli è l’uso
appassionato di azzurri intensissimi e la scelta di giovani
modelle elegantemente vestite, che lo fecero caro, anche per lo
spirito laico che anima i temi proposti sebbene a derivazione
testamentaria, ai collezionisti privati napoletani, nelle cui
raccolte erano conservati molti suoi quadri.
Dopo
essere stato per secoli ignorato dalla critica, lo Spinelli (del
quale non conosciamo i dati biografici, ad eccezione di notizie
sulla sua famiglia, di origine bergamasca, ma residente a lungo a
Chieti) è riapparso come un’artista originale e fuori dagli schemi
convenzionali, suggestionato da un mondo di immagini antiche, che
gli pervenivano attraverso lo studio appassionato, anche se
disordinato, delle incisioni dei manieristi nordici, da Luca Di
Leyda a Goltius, da Matham ad Aldegrever.
Lo
Spinelli trasferiva questa sua ispirazione nella grafica, come
testimonia la presenza di un nucleo importante di 17 suoi disegni,
conservati fin dal 1673 presso Leopoldo dei Medici, in cui è
chiaro l’interesse verso importanti personalità nordiche che
diffusero il gusto manierista, a lungo attive nella corte di
Rodolfo II a Praga.
Il De
Dominici, che lo riferiva tra i discepoli dello Stanzione e dedito
ad esperimenti alchemici, in virtù dei quali lo dava per morto in
un incidente nel 1647, lo conosceva poco e probabilmente credette
a questo discepolato perché riscontrò in alcune sue opere quei
caratteri di luminosità e di modi compositivi distesi e sereni che
caratterizzano la produzione stanzionesca. L’esame attento sia dei
disegni che delle tele dimostra viceversa che i referenti
culturali dello Spinelli vanno ricercati nell'Europa del nord ed
in parte nell’Italia settentrionale, più che nelle tele del grande
artista napoletano, ad eccezione delle grandi composizioni oggi
agli Uffizi, capolavori assoluti del Seicento europeo: il
Trionfo di David accolto dalle ragazze ebree e David che
placa Saul, in cui stringenti affinità ispirative, come ben
intuì il Longhi, possono cogliersi con le tele stanzionesche con
Storie del Battista, oggi al Prado. Pittore eccentrico e
caricaturale è influenzato in alcuni dipinti precoci, come il
Santo Stefano di collezione privata napoletana, dalle
soluzioni artistiche dell’ultimo Battistello per i colori bronzei
e per il tentativo di determinare, attraverso la luce spiovente,
le ombre in maniera naturalistica. Vi è poi un momento in cui è
molto sensibile l’influsso di pittori stranieri attivi a Roma come
il Vouet e Gerrit van Honthorst, il famoso Gherardo delle notti, e
dello stesso Carlo Saraceni.
Ad un
certo punto del percorso artistico dello Spinelli vi è, come
abbiamo riferito, un chiaro richiamo a modelli compositivi
stanzioneschi con una pittura ampia e rischiarata, e questa
ripresa di elementi napoletani possiamo coglierla non soltanto
nelle già ricordate tele degli Uffizi, ma anche in pale d’altare
per chiese abruzzesi e dipinti da cavalletto per collezioni
napoletane.
Vi è
poi una serie di quadri, come il San Nicola di
Castellammare di Stabia, che stanno ad indicare un ulteriore
«processo evolutivo verso soluzioni accademiche di temperato
classicismo, in collegamento con il nuovo gusto diffuso in città
dagli artisti bolognesi e dalle opere dei francesi romanizzati»
(Pagano).
Questo
momento creativo è però sempre contraddistinto da marcati
caratteri di autonomia culturale e da segni di energico vigore
formale e di accentuata sensualità come se lo Spinelli, in preda
ad una eterna sovraeccitazione, desse luogo a stravolte
tipizzazioni fisionomiche, caratteristiche di un pittore inquieto,
bizzarro ed anticonvenzionale, capace di recepire influssi
diversi, ma di esprimere sempre una cifra stilistica personale
originalissima. E questo aspetto della sua pittura sarà sempre
molto evidente anche negli ultimi anni della sua attività, quando
più marcati si faranno gli slittamenti verso soluzioni di
temperato classicismo accademizzante.
Ricordato nella vita di Pacecco De Rosa, che include la biografia
di nove «scolari» dello Stanzione, incontriamo ora un provinciale
di lusso che continueremo a chiamare Guarino, in ossequio a come
indicato su tutti i libri di storia dell’arte, anche se come
attestano i documenti si tratta di Francesco Guarini, nato
a Sant’Agata Irpina nel 1611 e spentosi nel 1654 a Gravina o
Solofra.
A
lungo scarsamente considerato dalla critica, la sua personalità è
emersa sempre più prepotentemente grazie ai fondamentali studi del
Bologna negli anni Cinquanta, cui sono seguite le indagini di
Pavone, Pacelli e Lattuada, autore di una monografia esaustiva
sull’autore.
Francesco appartiene ad una dinastia di pittori, dal padre
Giovan Tommaso Guarini, che lavorò nel soffitto della
collegiata di Solofra, realizzando spente tele di stampo
corenziano, mentre già il nonno Felice Guarini era mediocre
pittore manierista, come possiamo avvederci in una sua opera
firmata e datata 1606, una festosa e pretenziosa tavola a
capoaltare nella dimenticata chiesetta di San Giuliano di Solofra.
Il
fratello maggiore Giuseppe Guarini collabora con Francesco
nel soffitto della collegiata, nel quale si possono notare le mani
di altri artisti della bottega e dove probabilmente lavorò anche
un altro fratello, Antonio Guarini.
Dello
stile di Giuseppe in particolare possiamo venire a conoscenza da
alcune sue tele sicuramente attribuitegli, come una firmata e
datata 1620 nella chiesa del Soccorso.
Questa
ed altre preziose notizie sulla famiglia Guarini ci provengono
dalle indagini del Grieco, uno studioso locale, che ha
pazientemente scandagliato per anni chiese ed archivi della zona.
La sua opera meritoria si affianca a quella di altri studiosi del
luogo che hanno dedicato anni di sacrifici per far emergere la
figura dell’artista: tra questi ricordiamo, già nell’Ottocento, il
Landolfi e poi, ad inizio secolo, il Garzilli, per finire, in anni
più recenti, al Guacci. I loro nomi sono degni di essere associati
a quelli degli studiosi più celebri, che si sono interessati
all’argomento.
L’attività del Guarino si svolge tra Solofra, la Puglia ed altre
zone periferiche quali il Molise, ove a Campobasso ottiene
un’importante commissione dalla Congregazione di Sant’Antonio
Abate. Nessuna opera pubblica gli viene affidata nella capitale,
probabilmente, come capitò anche al Maestro degli annunci ai
pastori, per la sottile denuncia sociale che sottendeva a molte
delle sue composizioni.
Unici
committenti, nella cerchia della nobiltà, furono gli Orsini di
Gravina e di Solofra, attraverso le cui collezioni molte delle sue
opere sono giunte nella capitale e lontano da Napoli, come è il
caso di quattro quadri ricordati in un inventario del 1666 nella
villa di Belrespiro dei Doria Pamphili a Roma. Fu soltanto una
borghesia, attratta da temi laici e stanca di pittura sacra a
carattere devozionale, a credere nell’arte del Guarino e questa
identità culturale più moderna, nel Seicento, la si trova nella
periferia del Regno più che nella stessa capitale.
Il
retroterra culturale è per Guarino schiettamente napoletano, come
abbiamo visto per il Cavallino. Formatosi nell’orbita dello
Stanzione, il Guarino recepisce elementi di naturalismo dallo
stesso Battistello e, come sottolineato dal Pacelli, dalle prime
esperienze di Filippo Vitale.
Nel
delicato momento in cui lo Stanzione propende verso un
caravaggismo più classicizzato, entra in crisi il rapporto tra
maestro ed allievo. Il solofrano non digerì più i gesti pacati e
rassicuranti dei personaggi stanzioneschi e fu rapito dalla
impetuosa e disperata denuncia sociale che da qualche tempo
portava avanti il Maestro degli annunci, con i suoi grossi teloni
che grondavano rabbia e disperazione con quei cafoni, pastori e
contadini dai piedi sporchi e callosi, che contendevano lo spazio
e si confondevano con cavalli e pecore in un mondo di
sottosviluppo e sottomissione, senza speranza di riscatto, senza
luce e con un opprimente lezzo di stallatico da far perdere i
sensi, che quasi si percepiva, accostandosi a quelle splendide
composizioni precorritrici di secoli la spinosa ed ancora
irrisolta questione meridionale. L’imprinting stanzionesco rimarrà
però una costante nel cammino artistico del Guarino, come si
evince da alcune tra le sue massime realizzazioni: l’Annuncio a
Zaccaria del 1637 e la successiva Morte di San Giuseppe
nella collegiata di Solofra o la Madonna delle anime del
Purgatorio di Gravina in Puglia, un’opera della piena e tarda
maturità del solofrano che è quasi una trasposizione letterale
della tela stanzionesca dello stesso soggetto, conservata
sull’altare maggiore della chiesa del Purgatorio ad Arco a Napoli
anche se il Guarino, pur soggiogato dalla composizione del
maestro, la rende con una cifra stilistica del tutto personale,
che si manifesta nella «forza d’impatto delle ombre, l’esaltata
corposità fisica della materia, panni, feltri, cieli, paese»
(Causa).
È a
metà degli anni Trenta che Francesco mette mano alla realizzazione
della sua opera più insigne: il ciclo di tele con storie di Cristo
e della Vergine nel transetto della collegiata di San Michele a
Solofra, che rappresenta per l’operosa cittadina irpina il
trapasso dallo stinto manierismo del padre dell’artista alla
subitanea affermazione del nuovo credo naturalista. Nella
collegiata facevano bella mostra di sé nella navata tele di Giovan
Tommaso, alcune delle quali di notevoli dimensioni, che
gareggiavano nei colori sgargianti e luminosi con i riflessi
dell’oro, che abili artigiani avevano posto nelle maestose
strutture di sostegno dei quadroni. È una successione di forme
geometriche regolari che si alternano armoniose a testine di
angeli e lesene con decorazioni floreali, il tutto scandito dal
trionfo di un sole fiammeggiante. «La fitta successione di
quadroni agresti, quasi un fosco repertorio di mitologia
testamentaria cala all’improvviso nella cronaca della più avvilita
provincia viceregnale» (Causa).
In
queste tele il Guarino si esprime ad altissimo livello con una
parlata originalissima, ricca di scansioni personali, che ce lo
fanno apparire, come più volte sottolineato dalla critica, il più
irregolare tra gli stanzioneschi.
Vi è
una «appassionata partecipazione alle tendenze rappresentate dal
Ribera ed una attenzione precisa nei confronti di Francesco
Fracanzano» (Lattuada), mentre ha fatto a lungo discutere un
inedito ed insospettabile prelievo dalla Morte di Germanico
del Poussin oggi a Minneapolis.
Le
ventuno tele del transetto sono di diverso formato: sei tondi, sei
ovali, sei quadrati piccoli, due quadrati grandi ed un rettangolo,
i quali creano un razionale impianto decorativo di grande
eleganza.
I
quadri non obbediscono ad un ordine cronologico nè rispettano una
impostazione iconografica, ma sono accomunati da un tema
unificante rappresentato dalla figura dell’angelo, che a volte
libera Pietro dal carcere, altre conforta Gesù nell’orto degli
ulivi o quando viene tentato dal demonio.
La
tematica svolta in alcuni di questi autentici documenti di storia
pittorica napoletana è resa dal Guarino con grande foga e
partecipazione.
Nell’Annuncio ai pastori si possono cogliere veri e propri
brani di natura morta velázqueziana «scarpe e terraglie sparse
sull’ammattonato al pari dei corpi degli uomini assonnati», mentre
nell’Avviso della fuga in Egitto egli si esprime con antica
potenza caravaggesca con una descrizione che sembra ritrarre un
eduardiano basso napoletano: «un torbido giovanottone, sbracciato,
con la ruvida delicatezza della povera gente, cerca invano di
riscuotere il vecchio scaricatore impietrito nel sonno; mentre,
sulla porta, una popolana, intenta sovrapensiero ad allattare il
figlio, sta salda in una naturale bellezza che la miseria ha
intristito ma non ha ancora disfatto». Magistrale descrizione di
un Bologna giovanissimo, con il Causa massimo aedo della pittura
napoletana.
Il
momento di massima tangenza tra il Guarino ed il Velázquez, al di
fuori del poderoso Annuncio ai pastori della Collegiata, lo
si può cogliere in due vivide tele con martirî di Sant’Agata
Irpina dove, nel Supplizio delle braci ardenti e nel
Supplizio del taglio dei seni, vi è il più puntuale
ricordo dei Borrachos, capolavoro rivoluzionario del
sivigliano e testo di riferimento per nuove generazioni di
pittori.
Dopo
l’impegno della Collegiata il Guarino recepisce con sempre
maggiore evidenza la maniera stanzionesca e le languide dolcezze
pittoriche del miglior Pacecco De Rosa, come pure è permeato dagli
impreziosimenti vandychiani e neoveneti, al pari di tutto
l’ambiente artistico napoletano.
Nello
stesso tempo l’artista sceglie sempre più spesso il piccolo
formato, che era stato portato al successo dal Cavallino e dialoga
alla pari con il Vouet, con il Domenichino e persino con Francesco
Cozza.
Nel 1643 la Congregazione di Sant’Antonio Abate a Campobasso gli
ordina una serie di nove Storiette con episodi della vita del
Santo per la chiesa omonima della città molisana. Nella cona
d’altare principale, che raffigura Sant’Antonio che libera
l’ossesso, vi è un riavvicinamento classicheggiante ai modi
stanzioneschi, che riscontreremo anche in altre importanti pale
degli anni successivi come la Madonna del Rosario del
1644 a
Solofra, la doppia redazione del Transito di San Giuseppe e
la già citata Madonna del suffragio di Gravina
collocabile al 1649. Molte opere del Guarino nei primi decenni del
secolo sono state a lungo attribuite allo Stanzione; tra queste
alcune delle sue realizzazioni più insigni come la Sant’Agata
del museo di San Martino, il San Giorgio della collezione
del Banco di Napoli e la Nascita della Vergine di
collezione Catello.
Solo
grazie al progredire degli studi la personalità dell’artista è
riemersa come quella di uno dei massimi pittori napoletani del
secolo. Napoletanissimo come pochi altri per discepolato, per
stile, per committenza e per le tematiche affrontate e napoletano
anche per il modo di morire, almeno a prestare fede al racconto
del De Dominici: infatti, mentre il solofrano era nel pieno della
maturità, a soli 43 anni, la sua vita ebbe un epilogo improvviso,
non per la peste, come avvenne per tanti suoi colleghi nel 1656,
bensì per un’esplosione di gelosia in cui sarebbe stato coinvolto
alla corte di Ferdinando Orsini a Gravina in Puglia. Sulle cause
del decesso vi possono essere dubbi, tenuto conto della fertile
fantasia del biografo settecentesco, mentre sulla data, fornitaci
da un documento, non vi è incertezza: 13 luglio 1654.
Altro
«scolaro» dello Stanzione incluso dal De Dominici nella vita di
Pacecco De Rosa è Giuseppe Marullo, la cui figura si è
persa a lungo nel limbo degli stanzioneschi minori, dove fu
collocato dal Causa, che lo definì un "ritardatario ispido e
legnoso". L'artista ha viceversa un suo spessore, che è stato
evidenziato di recente dal passaggio in aste internazionali di
alcune sue opere di qualità molto alta e dal contribuito di un'
esaustiva monografia che ha fatto ordine nel suo catalogo, nel
quale in precedenza si trovavano dipinti di Niccolò De Simone, di
Pacecco De Rosa e dello stesso Stanzione.
Alla figura del Marullo va agganciata quella di Nicola
Marigliano (1634ca - 1728), che fu suo allievo e che pare da
giovane avesse studiato anche con Stanzione. Il De Dominici lo
cita più volte come tramite di tradizioni orali e fonti scritte,
tra cui il famoso manoscritto «Vite e memorie» di Stanzione; non
ricorda però nessun quadro dell’artista ed in seguito soltanto il
Giannone nelle sue «Giunte» alle «Vite» del De Dominici scritte
tra il 1768 ed il 1773 sembra aver avuto notizie del Marigliano,
che non sarà mai citato da altri autori e per il quale i pur
fertili archivi napoletani non hanno ancora partorito alcun
documento, lasciandolo nel limbo degli «artisti senza opere».
La
biografia del Marullo è incerta, come il suo cammino artistico,
soprattutto negli ultimi anni della sua attività, ai quali fino
all'uscita della monografia la critica aveva dedicato poca
attenzione.
Parte
della sua produzione è caratterizzata «dal gesto teatrale e
dall’espressione talvolta carica in maniera artificiosa» (Ascione),
mentre in molte sue tele, come la Pesca miracolosa, il suo
capolavoro, o il San Pietro, di collezione privata, le
teste dei personaggi posseggono un imprinting caratteristico,
allungato e spigoloso, che richiama prepotentemente il tipico
stile del Greco pre-spagnolo, probabilmente studiato dall’artista
durante qualche visita di aggiornamento a Roma. Questa lampante
similitudine è rimasta sorprendentemente a lungo misconosciuta
dalla critica fino a quando non è stata evidenziata dal De Vito in
una breve nota del 1984.
Conosciamo numerose sue opere firmate, datate e spesso
documentate, che ci permettono di scandire il percorso della sua
attività. Ne ricordiamo alcune: la Sacra Famiglia del 1633,
per la chiesa dei SS. Severino e Sossio, ritenuta la sua prima
opera fino alla scoperta di una sua pala d'altare raffigurante
Madonna col Bambino e due Sante, firmata e datata 1631 nella
chiesa delle Pentite di Castrovillari in Calabria, la Caduta di
San Paolo del 1634 nella chiesa di San Paolo Maggiore, una
Immacolata Concezione per la chiesa di San Giacomo Maggiore,
collocabile agli anni Cinquanta ed una Santa Maria delle Grazie
nel ritiro di piazzetta Mondragone, che il De Dominici cita come
sua ultima opera.
Devono
essere ancora ricordati una inedita Carità romana siglata,
di spettacolare dolcezza, sul mercato antiquariale napoletano,
passata precedentemente in asta a Londra con una attribuzione a
Pacecco De Rosa, un Incontro di Rachele e Giacobbe di
collezione Luongo a Roma, firmata e documentabile al 1644, un
San Michele Arcangelo nella chiesa di San Michele a Portalba,
in cui si avverte un pesante influsso del Guarino, presente anche
nella spettacolare Ebbrezza di Noè, firmata e datata 1660,
già in collezione Baratta a Napoli ed una grandiosa Madonna
delle Grazie con le anime purganti già in S. Agostino alla
Zecca.
Nel
sesto decennio l’attività del Marullo, come capita a tanti artisti
nella fase calante della carriera, si svolge quasi tutta in
provincia, prevalentemente in Puglia, ove a Terlizzi troviamo un
Sant’Antonio in estasi firmato e datato 1660. Il suo stile
involve oramai in formule stanche e ripetitive e le sue
composizioni sono secche e legnose, estremamente piatte e spesso
il colorito è una pedissequa imitazione di quello del Reni. Nel
1685 il pittore muore senza soldi e senza amici e la sua ultima
dimora è, a detta del De Dominici, in San Giovanni Maggiore,
vicino a quella che fu la sua casa in via Mezzocannone, ma tra i
documenti della parrocchia, diligentemente conservati
nell'archivio diocesano, non compare il suo atto di morte.
Giacinto De Popoli
(Caserta 1631ca - Napoli 1675). Fu pittore modesto, dedito anche
all’affresco, ove descrisse episodi di storia sacra nell’arco
della sua attività che si svolse nella seconda metà del Seicento
tra Napoli e la provincia.
Fu un
classico pittore di mestiere, come a decine ne troviamo fra i
documenti di pagamento dell’archivio del Banco di Napoli. Il De
Dominici ci riferisce che visse onoratamente e, grazie ai buoni
uffici del cardinale Innico Caracciolo, suo protettore, ottenne
dal Papa il titolo di Cavaliere, del quale amava fregiarsi nella
firma dei suoi dipinti a partire dal 1660.
Tra le
sue opere citate dalle fonti ci sono giunti gli affreschi di
alcune cappelle in Santa Maria la Nova ed i dipinti per la chiesa
della Sapienza, che costituirono per l’artista la commissione più
importante alla quale si dedicò tra il 1667 ed il 1669.
Il De
Popoli nel 1664 risulta iscritto come «consultore» con Francesco
Gaetano e Santillo Sannini alla corporazione delle Sante Anna e
Lucia durante la prefettura di Andrea Vaccaro.
Egli
fu senza dubbio un artista minore, attento al lato commerciale del
suo lavoro, ed «è piacevole quando manifesta senza reticenze la
sua impostazione tardo manierista indulgendo in particolari
decorativi fini a se stessi» (Maietta).
Andrea Malinconico
(Napoli 1635 - 1698) è ricordato come «fra i più bravi allievi»
della bottega di Stanzione. La sua produzione più conosciuta è
quella degli anni Sessanta e Settanta, che, per la veste cromatica
densa di colorismo, ha fatto parlare di giordanismo della sua
pittura, anche se ad una analisi più attenta il suo stile, per la
cura dell’aspetto disegnativo, per i tratti fisionomici ed il
plasticismo delle figure, che spesso sono rappresentate in maniera
scultorea, deve collegarsi all’influsso del De Maria, tenace
antagonista di Luca Giordano.
Il
Malinconico sposò la sorella di Giacinto De Popoli, con il quale
assieme al Gaetano ed al Sannini fu tra i primi membri della
congregazione delle Sante Anna e Lucia.
Tra i
dipinti attribuitigli dal De Dominici l’unico ampio ciclo che gli
può essere assegnato con certezza è quello della chiesa di Santa
Maria dei Miracoli, dal colorito vagamente giordanesco.
Il
reperimento di documenti di pagamento ci ha permesso di
attribuirgli varie tele, tra le quali ricordiamo un Ritratto
del principe di Torella ed un Ritratto del principe di
Roccafiorita di Palermo nel 1696, una Assunzione della
Vergine a Calvizzano nel 1676 ed infine, realizzate nel 1685
per vari committenti, una Circoncisione, una Adorazione
dei Magi ed una Nascita di Gesù. Il De Dominici gli
assegnava una serie di 12 tele con Storie dell’antico
Testamento nella chiesa di San Francesco delle Monache, la
quale fu pesantemente bombardata durante l’ultimo conflitto e
rimase a lungo in dissesto. Le opere sono da ritenersi perdute, ma
tra esse ne era segnalata una raffigurante l’episodio di Lot e le
figlie, che potrebbe riconoscersi in un quadro oggi nei depositi
di Capodimonte.
Al
Malinconico il Bologna assegnò nel 1958 una Rebecca al pozzo
della pinacoteca di Bari, cui bisogna affiancare una meno nota
Susanna ed i vecchioni del Museo del Sannio, firmata, la quale
per le caratteristiche dei vecchioni ha indotto il Fiorillo ad
attribuire all’artista un gruppo di ottagoni con mezze figure di
filosofi dall’aspetto orientaleggiante, oggi nella stanza del
rettore dell’Università a Napoli.
Il
figlio di Andrea, Oronzo Malinconico (1664? - 1709) è
ricordato molto brevemente dal De Dominici, che ne descrive un
solo dipinto raffigurante le Sante Lucia, Apollonia,
Barbara e Agata del 1681, sito nella cappella D’Avalos a
Montesarchio, il quale si rifà vagamente alla maniera di Luca
Giordano e ricorda un po’ le tipologie e le fisionomie del Reni.
Di
Nicola Malinconico parleremo in seguito quando ci interesseremo
dei giordaneschi.
Un
altro stanzionesco ricordato dal De Dominici è Carlo Rosa, alla
cui figura, come confermato dal Dalbono nella sua opera del 1871
«Massimo. I suoi tempi e la sua scuola», va collegata quella del
suo allievo Francesco Altobello. Dei due artisti abbiamo già fatto
un breve cenno quando ci siamo interessati al Finoglia, del quale
il Rosa divenne allievo in terra di Puglia, ed ora li descriviamo
più diffusamente per l’importanza avuta dai due nella diffusione
in provincia del verbo stanzionesco.
Carlo Rosa
(Giovinazzo 1613 - Bitonto 1678), viene collocato dal De Dominici
tra gli allievi di Stanzione, ma la sua prima formazione deve
essere avvenuta senza dubbio nella sua Bitonto, probabilmente
presso il maestro locale Alonso De Corduba.
Trasferitosi nella capitale, grazie all’interessamento del vescovo
di Bitonto Fabrizio Carafa, napoletano di origine e dotato di
grande cultura, comincia la sua attività nelle chiese della
Sapienza e dei SS. Apostoli.
Nella
prima è documentato nel 1641 con una Guarigione dell’ossesso,
mentre il San Gregorio taumaturgo ed il San Carlo
Borromeo nella seconda chiesa, a lui attribuiti nel Seicento,
non sono più identificabili con chiarezza.
Nel
1643 egli si trasferisce in Puglia e concentra la sua attività
nella provincia di Bari, ove ancora oggi possiamo identificare
alcune sue splendide tele nel soffitto della basilica di San
Nicola.
Dà
luogo ad una vera e propria bottega detta «di Bitonto» creando una
generazione di artisti, tra i quali si distinsero Francesco
Antonio Altobello e Nicola Gliri.
Prese
forma una sua maniera originale che unì «la bella tinta di Guido
ed il gran chiaroscuro del Guercino, che egli seppe tradurre nelle
macchie luminose dei suoi dipinti».
Ebbe
il compito di completare il ciclo di affreschi nella chiesa dei
SS. Cosma e Damiano di Conversano lasciati incompiuti dal Finoglia
morto nel 1645.
Spesso le sue opere sono state tacciate di trascuratezza
nell’esecuzione, ma bisogna tener conto che le sue decorazioni a
volte erano definite sommariamente perché dovevano essere
osservate a grande distanza. Il suo alunnato presso lo Stanzione
addolcì la sua matrice manierista e si coniugò all’influsso che
sull’artista ebbero sia Mattia Preti che il Lanfranco, incontrato
nel periodo di attività ai SS. Apostoli.
Nel
1678 il Rosa chiude la sua esistenza a Bitonto e riposa nella
chiesa del Crocifisso che fu ideata da lui stesso.
Francesco Antonio Altobello
(Bitonto
1637 - 1695 ?). Comincia la sua attività presso la bottega di
Carlo Rosa a Bitonto e il suo percorso stilistico viene
ricostruito a partire da una Sacra Famiglia, firmata e
datata 1675, della chiesa di Santa Maria della Vittoria a
Barletta.
Il De
Dominici lo introduce nella storia della scuola di Stanzione
indirettamente come allievo di Carlo Rosa anche se distingue: «ma
seguì altro stile, usando oltramarino anche nelle tinte chiare
delle carnagioni», giudizio estetico ripreso in tempi successivi
dall’Ozzola che criticava l’Altobello per gli azzurri innaturali
dei suoi dipinti, confondendolo probabilmente con il De Matteis.
Oggi
che conosciamo meglio l’artista grazie agli studi del D’Elia e del
Wiedmann, riteniamo che il suo stile più moderno possa avvicinarsi
al Giordano sia per il disegno che per il colorito più che allo
Stanzione ed allo stesso Carlo Rosa. I suoi modi pittorici
sembrano rielaborare il pittoricismo di Cesare Fracanzano,
arrivando ad esiti confondibili con quelli del Farelli.
Ebbe a
Napoli vari committenti, tra cui il principe di Bisignano ed alti
esponenti della nobiltà come il reggente Stefano Carillo y Salsedo.
La sua
presenza a Napoli è stata sempre riferita ad una sola opera
ricordata dalle fonti e da tutte le guide locali: una
Apparizione di Cristo a Sant’Ignazio nel transetto destro
della Chiesa di San Ferdinando (già S. Francesco Saverio).
Successivamente, per accostamenti stilistici il Bologna gli ha
attribuito due grandi tele in Santa Maria la Nova, una
Visitazione ed una Visione di San Francesco d’Assisi.
Rientrato in provincia ove chiude la sua parabola, ritorna ai modi
pittorici tradizionali e realizza numerose pale d’altare firmate e
datate come la Vergine che appare a San Rocco a Montella ed
una Madonna nell’Episcopio di Bitonto.
L’ultimo dato documentario che gli si riferisce è del 1695,
probabilmente la sua data di morte.
Parlando di artisti attivi in Puglia entriamo in rotta di
collisione con una problematica fino ad oggi trascurata dalla
storiografia tradizionale che ha sempre considerato i «regnicoli»
come un’appendice culturale priva di originalità della pittura
napoletana espressa nella capitale. È notorio infatti che molti
artisti erano soliti, con il trascorrere degli anni e con
l’esaurirsi della vena creativa, trasferirsi nelle province a
concludere stancamente la propria attività, facendo ricorso al
mestiere ed a formule ripetitive.
La
forza propulsiva di una scuola di valore europeo da un lato
coagulò le espressioni figurative locali su di un verbo che
incontrava grande successo commerciale, ma altresì costituiva il
pabulum spontaneo nel quale potevano esprimersi energie indigene
con una parlata che si differenziava per impercettibili sfumature
di vernacolo stretto; soltanto un «orecchio» esperto e smaliziato
può oggi dirimere la matassa e distinguere le minime variazioni di
accento e di desinenza.
Volendo operare una suddivisione regionale la Sicilia, per il
progredire delle conoscenze critiche, ha da tempo trovato una sua
nicchia, con una trattazione autonoma negli studi, a differenza
della Puglia, la quale, nonostante ebbe numerosi polloni spontanei
di creatività artistica ed uno storico dell’arte della statura del
D’Elia, che ha dedicato anni di ricerche al problema, attende
ancora una valorizzazione adeguata della sua produzione pittorica,
che fu ampia e diffusa capillarmente sul territorio.
La
Basilicata, la Calabria (ad eccezione della figura del Preti) e
l’Abruzzo vivono ancora l’anno zero in campo
storiografico,nonostante le affannose ricerche di alcuni
volenterosi studiosi che cercano di fare luce, tra i quali è
doveroso segnalare il Pinto, noto per i suoi approfondimenti sui
pittori atellani.
Ritornando alla Puglia abbiamo accennato alla scuola bitontina con
l’Altobello, a figure ancora misteriose come quella del Maestro di
Bovino, bisognerà ora per completezza accennare, anche se
brevemente, alle esperienze gallipoline ove primeggiò la figura di
Giovanni Andrea Coppola ed all’attività di Antonio Verrio che si
esplicò nella zona di Lecce. Ne si può dimenticare un personaggio
scoperto di recente, Nicola Gliri, attivo tra il 1660 ed il
1680, il quale, partito dalla imitazione dei modi pittorici di
Carlo Rosa e Cesare Fracanzano riesce a sciogliere un nuovo
impasto cromatico in ottemperanza ad un luminismo più diffuso e
specchiato. Dell'artista ricordiamo nella chiesa di S. Anna a
Lavello una tela con i Quattro dottori della chiesa ed un
San Felice martire nell'Episcopio di Trani.
Giovanni Andrea Coppola
(Gallipoli 1597 - 1659) allievo del Catalano, pittore formatosi a
Napoli nell’ambito della pittura tardo manierista, si rese
protagonista a Gallipoli di un intelligente rinnovamento delle
arti figurative, grazie anche ad un aggiornamento che egli
raggiunse attraverso un viaggio di studio in alcune regioni centro
italiane quali la Toscana, ove a Lucca si conserva una sua opera,
una Pentecoste firmata e datata 1636.
Egli
fu l’artefice di «una pittura d’historia modulata secondo
grandi scansioni compositive e condotta secondo prospettive più
aggiornate e sensibili alle nuove esigenze di una comunicazione
figurativa oramai atteggiata sulla lunghezza d’onda di un barocco
classicamente concepito» (Pinto).
La
maggior parte delle sue tele è disseminata nelle chiese del
Salento, ma il D’Elia gli assegnava, anche se dubitativamente,
un’opera anche a Napoli: gli affreschi della cappella Di Somma in
San Giovanni a Carbonara.
Antonio Verrio
(Lecce 1639 - ? post 1672) è attivo a Lecce e la sua figura è
ancora avvolta nel mistero, tanto che per un periodo, nel 1964, il
D’Elia riteneva trattarsi di due cugini con lo stesso nome e
cognome.
Il De
Dominici ce lo descrive nel 1661 presente a Napoli intento appena
ventiduenne ad affrescare il soffitto, oggi perduto della farmacia
nel Gesù Vecchio.
Il
Verrio lavora per un periodo di tempo all’estero com’è documentato
da due tele firmate nel museo di Tolosa e da un’Adorazione dei
Pastori a Montpellier.
Intorno al 1672 si trasferisce in Inghilterra ove lascia opere di
magniloquente e accademica qualità, che si allontanano dalla
vivacità cromatica dei suoi lavori giovanili.
In
complesso dall’esame delle sue opere sicuramente autografe
possiamo riscontrare nella sua pittura gli echi di un «devozionismo
sciovinistico» con forti contrasti alternati a «profili taglienti
e suadenti in una vibrazione di toni che si apparenta strettamente
alle modalità di uno Zurbaran» (Pinto).
Anche se non citati dal De Dominici, altri artisti minori vanno
messi in relazione con l’insegnamento stanzionesco. Tra questi
Giovanni Fulco (Messina 1615 - Roma 1680 circa) che venne
aggiunto all’elenco dei discepoli dal Dalbono sulla scorta di una
tradizione siciliana riportata in alcune autorevoli fonti
manoscritte come quella del Susinno (1724), secondo il quale
l’artista divenne «celebre uomo del suo tempo» e fu fautore della
trasferta messinese di Nunzio Rossi.
Il
Fulco cominciò i suoi studi a Messina sotto la guida di Antonio
Catalano il giovane e si recò molto presto a Napoli per entrare
nella bottega dello Stanzione, dove probabilmente rimase fino al
1647, anno della rivolta di Masaniello, allorché, acquisita una
certa notorietà, fu richiamato a Messina per affrescare la chiesa
ed il convento della Santissima Annunziata oggi distrutti.
Non si conosce alcuna delle sue opere napoletane, mentre l’unica
sua tela firmata e datata, 1647, la Decollazione del Battista
del Museo di Messina, pur risentendo fortemente degli influssi
tardo manieristi del suo maestro Catalano il giovane, fa avvertire
anche, principalmente negli elementi naturalistici e luministici,
la lezione napoletana, più vicina in verità all’esempio riberesco
e vandichiano che al verbo stanzionesco, al quale rimanda
genericamente l’accurata trattazione dei tessuti preziosi. Nello
stesso tempo ad un attento esame l’osservatore può percepire un
tardo ricordo caravaggesco nella animazione drammatica dei
personaggi. La Venuta, studiosa del Fulco, ha constatato che verso
la metà del secolo, non oltre il sesto decennio, la personalità
del pittore si precisa in senso napoletano tra Stanzione e Nunzio
Rossi, parallelamente all’acquisizione di un plasticismo
classicista derivabile da contatti con Giovan Battista
Quagliata, del quale non c’è menzione di viaggi e contatti con
Napoli anche se nel 1983 Compagna Cicala ha ipotizzato una sua
sosta nella nostra città, nell’ambito dei contatti con Messina
negli anni Cinquanta, favoriti dalla famiglia Ruffo e
dall’arcivescovo Carafa di origine partenopea. Tale ipotesi è da
prendere in seria considerazione per alcuni «richiami napoletani»
che possono riscontrarsi in molte sue opere: al Caracciolo nell’Assunta
del 1657 oggi al Museo regionale di Messina, nella quale «la resa
arcaicizzante non può non richiamare alla mente lo stesso soggetto
di Battistello già a San Martino» (De Vito), a Micco Spadaro nelle
scene affollate e variopinte come nel Trionfo di Davide
della Galleria Corsini, a Francesco Guarino per le stringenti
affinità stilistiche riscontrabili con la Madonna degli angeli
della chiesa di Montevergine a Messina.
Francesco De Benedictis
(Piedimonte d’Alife 1607 - 1678 circa). Era noto al De Dominici
erroneamente come Domenico, sulla scorta dell’imprecisione
nell’interpretazione della sua firma, da parte del Celano, sul
comparto centrale dei suoi affreschi per il soffitto di
Donnaregina.
Egli
viene descritto come un infaticabile disegnatore che studiò prima
con il Santafede per poi divenire discepolo del Reni a Roma. Unica
sua opera, documentata al 1654, sono le decorazioni
precedentemente menzionate, le quali, nonostante un certo stampo
bolognese che tradiscono, indussero prima l’Ortolani nel 1938 e
poi il Causa nel 1972 (che parlava erroneamente di affreschi in
Santa Maria la Nova) a collocare il De Benedictis nel novero dei
diretti seguaci dello Stanzione, suscitando le perplessità del
Willette che ritiene difficile stabilire precisi rapporti
stilistici tra i due artisti.
Nel
limbo degli stanzioneschi minori dormono da secoli, in attesa di
una riscoperta da parte della critica, molti altri artisti, citati
di sfuggita dall’Ortolani e dal Causa e per i quali abbiamo poche
e frammentarie notizie.
Santillo Gaudino (? - 1685), noto per le sue tele di Santa Maria la Nova
del 1669; Nunzio Rossi, pittore di baccanali e di affreschi
decorativi e sacri, operante per i Ruffo di Messina, collocato dal
De Dominici tra i discepoli diretti, ma che oggi la critica
assimila nell’orbita dell’attività del Beinaschi; Carlo Mercurio,
nativo di Aversa, ricordato dall’Ortolani fu in verità un mediocre
battistelliano e del quale abbiamo già parlato.
Ed
infine, tra gli artisti citati da Ortolani, Giacomo De Castro
(? - 1687), restauratore e faccendiero più che pittore, del quale
rimangono opere in San Michele ed in Sant’Agnello di Sorrento,
anche lui trattato tra i seguaci di Battistello.
Un
artista, mescolante elementi battistelliani e stanzioneschi, che
viceversa negli ultimi decenni ha ricevuto da parte della critica
più di un riconoscimento e che grazie ai contributi del Bologna,
del Pacelli, della Pasculli Ferrara e di Stefano Causa è riemerso
dal buio come una personalità interessante è Onofrio Palumbo,
attivo prevalentemente intorno agli anni Quaranta.
Dopo
una prima formazione avvenuta secondo la tradizione presso la
bottega di Battistello Caracciolo, il pittore aderì in seguito
alle novità introdotte da Artemisia Gentileschi e fu influenzato
dalla pittura di Massimo Stanzione, come testimonia la sua opera
più importante: il San Gennaro che intercede per la città di
Napoli, eseguita intorno al 1652 per la chiesa della Trinità
dei Pellegrini, nella quale il Palumbo aderisce in pieno
all’insegnamento del grande Massimo con convinta ed intima
partecipazione sentimentale. Due importanti pale d’altare nella
chiesa di Santa Maria della Salute, una Annunciazione ed
una Adorazione dei pastori, fanno oramai parte del suo non
ampio catalogo, grazie ad una intuizione del Bologna confermata
nel 1990 dal ritrovamento di carte d’archivio che datano le due
opere al 1641.
Queste due tele, contrassegnate entrambe dai due angioletti
volanti, caratteristica sigla del pittore, erano state in passato
attribuite al Finoglia dal D’Orsi ed ad Antiveduto Gramatica dal
Longhi: artisti che in ogni caso fanno parte del bagaglio
culturale del Palumbo.
I
putti svolazzanti avevano indotto viceversa in errore la critica
che assegnava al Palumbo un’altra Adorazione dei pastori
nella chiesa di San Sepolcro a Potenza, presentata come autografa
anche alla mostra sulla Civiltà del Seicento, la quale ad un
restauro ha rivelato la firma di Ricca.
Poche
altre opere possono assegnarsi al Palumbo con sufficiente
sicurezza, sulla guida del riconoscimento di quell’accoglimento
dei modi stanzioneschi che costituirà la sua scelta definitiva.
Tra
queste una seconda pala d’altare nella chiesa della Trinità dei
Pellegrini, confermata dai documenti, rappresentante San
Filippo Neri che raccomanda alcuni confratelli ed una
Immacolata con San Giorgio e Santi nella chiesa di San Giorgio
a Pianura, assegnatagli da Spinosa.
Molto
convincente è la proposta del Loire di attribuire al Palumbo una
Venere ed Adone del Museo Granet di Aix-en-Provance, in
precedenza ritenuta del Vaccaro, per le spiccate similitudini
nella disposizione spaziale dei personaggi e per le corpose
assonanze tra la Venere e l’angelo dell’Annunciazione, che
presentano identici: drappeggio, modellato del viso ed
atteggiamento.
Altre proposte, autorevoli, anche se meno lampanti, sono state
avanzate dal Bologna che cita in particolare un Sant’Andrea
condotto al martirio della Galleria d’arte antica di Roma ed
una Cleopatra abbandonata della Nasjonal Galleriet di Oslo,
oltre ad altri quadri di santi e sante in collezioni private. Per
il momento un catalogo esiguo, quasi a confermare il racconto del
De Dominici il quale riferiva che l’artista non potette lavorare a
lungo perché impegnato in una lunghissima lite giudiziaria con
alcuni parenti, una controversia penosissima che pare abbia
provocato all’artista una malattia mentale.
Una storia probabilmente fantasiosa, come ci ha abituato il De
Dominici, si associa ad un recente rinvenimento documentario: un
contratto di discepolato del 1631 tra il Palumbo ed il Trombatore,
un atto notarile che ci fornisce dei nuovi dati biografici precisi
sui quali ricostruire lentamente l’attività dei due ancora così
sconosciuti pittori. Un piccolo tassello nella gloriosa storia del
secolo d’oro della pittura napoletana.
Mattia
Preti
nasce nel 1613 in un piccolo paesino montuoso della Calabria e da
lì percorrerà le tappe culturali più significative della penisola,
irradiando per decenni il suo linguaggio pittorico in Italia ed in
Europa e divenendo protagonista dei più importanti rivolgimenti
artistici. La sua è una famiglia agiata «di padre e madre honorati
e che non hanno mai esercitato arti meccaniche», la madre
Innocenza Schipani apparteneva ad una delle quattordici famiglie
nobili della città.
Non
possediamo una documentazione esauriente sulla sua iniziale
formazione culturale; il racconto del De Dominici, il cui padre fu
allievo del pittore, è infatti l’unico punto di riferimento e ci
fornisce le coordinate principali.
Nella
nativa Taverna il giovane Preti poteva osservare unicamente gli
esempi di tardo manierismo esplicati dalle opere dell’Azzolino,
del Balducci e del Santafede, per cui verso il 1630, appena
diciassettenne, per progredire, si recò a Roma, ove da due anni
era attivo suo fratello Gregorio, anche egli pittore. Probabile
una sosta a Napoli, tappa obbligata del viaggio, durante la quale
potrebbe aver avuto un primo contatto col luminismo caravaggesco
ed il classicismo bolognese.
Nella
città eterna non ebbe un vero e proprio maestro, per cui cominciò
a frequentare le chiese e ad osservare le opere più importanti,
cercando di imparare da sé. In questo comportamento possiamo già
percepire la sua somiglianza all’artista moderno e da taluni suoi
primi lavori, che tradiscono l’impaccio nella costruzione spaziale
delle immagini, capiamo anche il tributo che egli dovette pagare
alla sua inesperienza.
Il suo
punto di riferimento preferenziale fu il Caravaggio con le grandi
tele di San Luigi dei Francesi e di Santa Maria del Popolo dallo
spiccato luminismo, che arricchirà progressivamente la sua parlata
ancora acerba.
Negli
anni dal ’30 al ’40 forte fu l’influsso dei caravaggisti nordici
specialmente francesi quali Valentin, Tournier, Douffet, operanti
intorno a Bartolomeo Manfredi e seguaci della sua «manfrediana
methodus», uno stile di retroguardia oramai non più in linea con
le nuove esperienze figurative.
Questi
artisti possedevano formule consolidate tratte dal repertorio
caravaggesco che riproponevano con poche varianti. Son questi gli
anni in cui il Preti realizzerà una serie di tele, alcune in
collaborazione col fratello Gregorio, che hanno come soggetto i
Giocatori o il Concerto. Molto bella quella del museo
Thyssen-Bornemisza a Madrid, alla quale bisogna associare il suo
pendant Partita a carte, passato ad un’asta Semenzato nel
1989; mentre lo splendido Concerto di collezione privata
napoletana è di qualche anno successivo, come ben si evince dalla
più alta qualità.
Il suo
primo cimento in questo genere di rappresentazioni fu senza dubbio
la Riunione di musici e letterati conservato a Torino
presso l’Accademia Albertina, che il Longhi entusiasticamente
intitolò Tasso alla corte di Ferrara, dando luogo ad una
chiave di lettura romantica della successiva produzione pretiana.
In
seguito i suoi riferimenti culturali vanno ampliandosi e prendono
ispirazione dall’ambiente emiliano dai Carracci al Domenichino,
dal Lanfranco al Guercino attraverso la cui «macchia» il Preti
elabora un originale luminismo. Lentamente nel suo stile penetra
la monumentalità del Lanfranco cui egli imprime dinamicità e la
severa classicità del Domenichino, da cui trae il decoro delle sue
composizioni più solenni; mentre dal Guercino della fase più
antica ottiene i rigorosi effetti di luce della sua pittura
caravaggesca.
Ma la
sua ansia di arricchimento e di assimilazione non gli dà tregua ed
ecco una nuova fonte alla quale attingere: il colorismo neo-veneto
nelle calde e luminose soluzioni cromatiche di Sacchi, Mola, Testa
e Poussin, del quale la critica non ha ancora scandagliato a fondo
l’influenza, testimoniata anche dall’adozione, sempre più
frequente, di tematiche mitologiche. Dalla cultura veneta e dal
Veronese in particolare il Preti trarrà poi spunti di carattere
compositivo nelle grandi scene conviviali.
Il suo
stile eclettico, «plastico luminoso», secondo la felice
definizione di Mariella Utili, curatrice della grande mostra
napoletana sul Preti, si costruirà sulla luce, l’elemento più
caratterizzante del suo linguaggio, una luce che coordina i volumi
e lascia affiorare le masse, unificando in una sublime armonia
l’alternanza con l’ombra, sotto la regia di una vasta e corposa
gamma cromatica.
Naturalmente la sua carriera progredisce a piccoli passi: nel ’33
è iscritto con Gregorio quale praticante nella Congregazione di
San Luca. Nel ’40 affrancatosi dal fratello, mette bottega da solo
con un assistente, Bartolomeo Dardovini. Comincia anche la sua
caccia a riconoscimenti nobiliari ed il suo «cursus honorum»
comincia nel ’42 quando, grazie all’interessamento di Olimpia
Aldobrandini, il pittore viene nominato cavaliere di Obbedienza
dell’ordine Gerosolimitano. Nel 1645 il Preti abita ed ha studio
in piazza di Spagna, nel ’50 viene accolto tra i «virtuosi» del
Pantheon, nel ’59 ottiene il cavalierato di Grazia ed infine, nel
1661, viene nominato, per intercessione di Alessandro VII Chigi,
cavaliere di Giustizia dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, titolo
che precede di poco il suo definitivo trasferimento nella «piccola
isola dalla grande storia».
La
biografia del De Dominici ci fornisce l’idea di un pittore errante
che per accrescere il suo patrimonio culturale è in viaggio non
solo per l’Italia, ma anche nelle Fiandre ed in Spagna. Allo stato
degli studi molte tappe non sono documentate anche se oltre Roma e
Napoli, con certezza il Preti è stato a Firenze, Modena e quasi
certamente a Venezia.
A Roma
l’artista si dedica anche all’affresco lavorando in Sant’Andrea
della Valle tra l’ottobre del 1650 e l’aprile del 1651, terminando
l’opera incompiuta del Lanfranco e nella chiesa Barnabita di San
Carlo ai Catinari, dove è attivo nel 1652, data conosciuta grazie
ad un documento reperito dal De Vito, che sposta di molto
l’esecuzione di quest’opera che prima la critica collocava ai
primi anni Quaranta.
Tra
l’ottobre del 1651 e la primavera successiva, in soli sei mesi,
porta a termine altre due grosse imprese decorative a Modena.
Affresca infatti la cupola ed il coro della chiesa del Carmine,
oggi San Biagio e la Cappella delle Reliquie nel Duomo, opera
della quale, purtroppo, non resta più nulla dopo i restauri
ottocenteschi.
In
questi affreschi il Preti, oramai maturo artisticamente, manifestò
appieno il suo linguaggio pittorico, espresso in un formulario
personale, che rappresentò la summa delle sue conoscenze, tutte
assimilate e rielaborate in maniera originale. Egli si espresse
con una propensione al monumentale, pur senza tradire i cromosomi
della sua formazione luministica.
Nelle
decorazioni modenesi esplicito è il riferimento al Lanfranco,
mentre nelle opere romane è il punto di congiunzione Domenichino
Pietro da Cortona a dominare l’attenzione del pittore.
Il Preti è un artista affermato, la sua formula nata dal felice
connubio tra naturalismo, classicimo e neo venetismo ha dato luogo
al «suo inconfondibile barocco corposo e tonante, veristico ed
apocalittico» come fu giudicato con enfasi dal Longhi in una frase
famosa, breve ma esaustiva, entusiastica quanto veritiera e
definitiva.
Preti
nel 1653 è ancora a Roma dove si candida, senza essere eletto,
alla carica di principe dell’Accademia di San Luca, il «Senato»
dei pittori. La delusione per la mancata nomina fu probabilmente
la molla che lo indusse a trasferirsi a Napoli, ma non dovette
essere senza peso la considerazione del vuoto che aveva lasciato
la scomparsa del Ribera, fino ad allora mattatore nelle
committenze pubbliche e private.
Napoli
rappresentava una città molto ambita per gli artisti ed il Preti
si servì nei primi tempi dell’aiuto della comunità calabrese
presente in città, raccolta attorno alla chiesa di San Domenico
Soriano, ove sono documentati i suoi primi lavori.
A
lungo la critica ha creduto, seguendo il racconto del De Dominici,
che il Preti fosse giunto a Napoli nel 1656, durante la peste e vi
avesse dimorato per soli quattro anni, per quanto intensissimi.
Era difficile pertanto, non possedendo l’artista una bottega con
validi aiuti, riuscire a giustificare il numero sempre crescente
di dipinti che per caratteri stilistici andavano collocati
all’ombra del Vesuvio, fino a quando Clifton e Spike hanno
rinvenuto numerosi documenti bancari attestanti la presenza in
città del Preti già dal marzo 1653.
Gli
anni trascorsi a Napoli rappresentano l’età d’oro per l’arte
pretiana, che trasforma la sua tavolozza, dando risalto a taluni
colori come il nero cupo, l’azzurro splendente, i riflessi
argentei, i grigi bronzei, i toni lividi, cianotici
dell’incarnato, creando uno stile originalissimo improntato ad una
rigorosa severità di impianto. Una ventata barocca, che giunge in
ritardo sugli eventi romani e che innesta un fecondo scambio
linguistico con l’astro nascente, all’epoca giovanissimo, Luca
Giordano.
A
Napoli giunge a maturazione quel legame preferenziale che Preti ha
sempre nutrito nei riguardi del luminismo, rivisitato attraverso
il filtro guercinesco «giocato su un contrapporsi di zone d’ombra
e luce con intenti pittorici e di grande effetto compositivo, ben
lontano non solo dallo sperimentalismo ottico di Caravaggio, ma
estraneo anche alla cultura della manfrediana methodus» (Utili).
Il
Preti privilegia l’uso di gradazioni cromatiche scure folgorate da
improvvisi bagliori di luce. Le sue composizioni respirano aria
pura, coniugando felicemente impianti lanfranchiani e larghezze
veronesiane e restituendoci una «luce più calda ed avvolgente, un
senso più vero di spazi dilatati e concreti, entro cui si
dispongono salde immagini di florida bellezza» (Spinosa).
I
primi lavori napoletani sono un San Nicola di Bari per la
chiesa di San Domenico Soriano ove nel 1655 realizzerà gli
affreschi per la cupola, oggi perduti, ed il famoso San
Sebastiano ordinato dalle monache dell’omonimo convento e da
queste rifiutato con sdegno per le «tinte troppo scure» e per le
«fisionomie ignobili».
Un
destino simile avevano subito a Napoli alcune opere del Caravaggio,
rifiutate dai committenti per il loro crudo realismo; fortuna ha
voluto che la tela di Preti sia rimasta in città, trasferita dalle
monache alla chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori ed oggi a
Capodimonte.
Nel
1656 la peste imperversava ed in breve tempo la popolazione fu più
che dimezzata. Scompare un’intera generazione di pittori:
Cavallino, Guarino, Falcone, Fracanzano, mentre da poco era uscito
di scena il Ribera. Ogni giorno migliaia di vittime e solo verso
la fine di agosto, dopo una serie di piogge torrenziali si torna
lentamente a rivivere. Finito il morbo vi è un moltiplicarsi di
rendimenti di grazie e di ex voto; i pochi artisti sopravvissuti
sono sommersi dalla committenza.
Gli
Schipani, parenti calabresi del Preti, gli richiedono una pala
d’altare, la Madonna di Costantinopoli per la loro
cappella nella chiesa di Sant’Agostino degli Scalzi. È una delle
rare opere firmate e datate (1656), per la quale il pittore non
richiede alcun compenso e ci fornisce un pacato esempio di sacra
conversazione, un accorato colloquio tra i Santi e la Vergine.
E
siamo quindi alla grande commissione sulla quale tanto aveva
favoleggiato il De Dominici, intessendola di particolari
leggendarî. Il manifesto programmatico del nuovo corso della
pittura napoletana.
Il 27
novembre 1656 gli Eletti della città gli conferiscono l’incarico
di affrescare le sette porte più importanti con delle immagini di
ringraziamento rappresentanti l’Immacolata Concezione ed i Santi
protettori.
Nel
1657 vengono eseguiti quelli di Porta San Gennaro, del Carmine e
dello Spirito Santo e l’anno successivo si completano le altre
quattro porte: Capuana, Nolana, di Costantinopoli e di Chiaia.
Le
opere del Preti riscossero un grande entusiasmo e rappresentarono
un modo nuovo di fare storia in presa diretta, suscitando grande
emozione nella cittadinanza, per la «dinamica spazialità e
l’imponenza plastica delle figure e costituirono il manifesto
della concezione compositiva barocca a Napoli» (Utili). Esse
divennero un’importante fonte ispirativa per il poco più che
ventenne Giordano, il quale nel 1660 ritornò sullo stesso tema per
la grande tela della chiesa di Santa Maria del pianto.
Già ai
tempi del De Dominici gli affreschi si erano rovinati ed in pochi
anni scomparvero del tutto.
Solo
grazie alla tenacia e caparbietà della Sovrintendenza ai Beni
Artistici si è riusciti a recuperare parzialmente ed a restituire
alla vista della cittadinanza l’affresco di Porta San Gennaro, che
giaceva da secoli sotto una coltre di sudiciume.
Unica
testimonianza di tale impresa pittorica erano rimasti i due
bozzetti preparatorî conservati al museo di Capodimonte,
riferentisi alla Porta del Carmine con il carretto per prelevare
gli appestati ed alla Porta dello Spirito Santo, con il nudo della
madre morta col figlio al seno in primo piano, prelievo letterale
dalla celebre Peste di Azoth di Poussin; un brano di
estrema drammaticità e di grande enfasi lirica che sarà replicato
da tanti altri artisti, dal Gargiulo al Giordano e che sembra
precorrere il celebre Délacroix del Massacro di Scio.
L’altra memorabile impresa decorativa furono le 10 grandi tele per
adornare il soffitto della navata e del transetto della chiesa di
San Pietro a Majella, una delle più alte realizzazioni della
pittura europea del Seicento.
Le
tele narrano la storia di San Pietro Celestino salito al soglio
papale e da questo, caso unico nella storia, dimessosi e la vita e
la morte di Santa Caterina d’Alessandria.
Lo
splendido soffitto realizzato in due anni fu inaugurato il 18
maggio 1659 e riscosse un successo senza paragoni. Lo stesso
antagonista, Luca Giordano, ebbe ad esclamare «ch’essi sarebbero
stati per l’avvenire la scuola della radiosa gioventù». Nel 1913
il nostro più grande critico d’arte di tutti i tempi Roberto
Longhi asseriva entusiasta «gli scomparti di San Pietro a Majella
diventeranno, speriamo presto, qualcosa di più delle “Stanze” di
Raffaello per lo spirito dei migliori». Se questo augurio non si è
ancora realizzato la colpa è anche di noi napoletani, che non
apprezziamo e valorizziamo i nostri tesori.
L’armonica visione prospettica dell’intera composizione, la novità
iconografica che il Preti, da profondo teologo, seppe affrontare
con autorevolezza, e «la luce come unico ed essenziale elemento di
trasfigurazione e di sintesi lirica» suggellarono l’impresa del
Preti con «quegli accenti universali, che faranno di lui uno dei
genî del secolo» (Causa).
Nonostante l’impegno di tali cicli decorativi, l’artista, con
l’ausilio dei due suoi aiutanti, Domenico Viola e Giuseppe
Trombatore, si getta a capofitto ad esaudire commissioni pubbliche
e private. Nel ’57 dipinge due tele per i francescani di San
Lorenzo Maggiore, ma sono soprattutto i privati a richiedere la
sua opera. Dal ricchissimo mercante Roomer riceve due pagamenti
nel 1655, mentre per il Van den Eynden realizza una serie di
martirî in cui predominano le tonalità fredde e le tinte fosche
dal lividore esasperato, purtroppo oggi dispersa nei musei
stranieri di Birmingham, Houston e Manchester. Per il duca di
Maddaloni Diomede Carafa esegue 5 tele, riunite, dopo secoli, di
nuovo assieme nella grande mostra di Capodimonte.
Sicuramente ascrivibile al periodo napoletano è anche la grande
tela della Resurrezione di Lazzaro del museo
Barberini nella quale la figura seminuda del resuscitato, dai toni
cianotici, esaltati da un sapiente uso del chiaroscuro, domina
tutta la scena, incutendo un timore reverenziale ai saggi che lo
esaminano inebetiti.
Altre
due splendide e meno conosciute tele napoletane, rappresentanti le
Fatiche di Ercole, sono conservate in Calabria dalla
Pinacoteca Nazionale.
L’Ercole
che libera Teseo richiama i grandi nudi dei pestilenti nei
celebri bozzetti, trasfusi in un luminismo monocromatico di
bollenti metalli sdruccioli nel modellato dei lacerti, mentre
nell’Ercole che libera Prometeo il tenebrismo nel passaggio
tra luce ed ombra è ancora più accentuato nella tensione
drammatica di tutti i muscoli che evidenzia una tempra pittorica
degna del migliore Zurbaran.
Celeberrimi sono i due conviti di Capodimonte (di Assalonne e di
Baldassarre) dalla grande raffinatezza cromatica, nei quali si
respira la cultura veneta veronesiana nello schema compositivo
delle tele. Il Rolfs parlò di «un assassinio alla napoletana in un
banchetto alla Veronese»; oggi la critica più avvertita da Spike a
Ferrari li assegna per affinità stilistiche al primo periodo
maltese tra gli anni ’67 - 68.
E
giungiamo al 1660, quando sulla piazza napoletana la competitività
coll’emergente Giordano giunge al culmine. Il Preti comincia a
nutrire dubbi, «davanti ai quadroni grondanti luce, oro,
vibrazione atmosferica, esultante vitalità» del suo rivale. Lui
che precorreva di secoli la storia della pittura teme di essere
antiquato. «Il passato contro il futuro. Il nero della notte
contro l’oro della calura meridiana; l’introspezione sofferta e
meditata contro l’estemporaneità estrosa e provocatoria. Due mondi
inconciliabili, anche se destinati, inevitabilmente ad entrare in
una collusione che può anche apparire al segno di reciproche
interferenze marginali. Meglio partire. Lo aspettava Malta, una
carriera onorata, una escalation sicura nei gradi nobiliari
dell’Ordine, un lavoro tranquillo, con tanti assistenti, aiutanti,
ammiratori, ed il primato assoluto, e di conseguenza prestigio e
commissioni innumerevoli da ogni parte d’Italia e d’Europa»
(Causa).
Prima
di recarsi a Malta una breve sosta a Valmontone, vicino Roma, tra
il 1660 ed il 1661, dove affresca alcune allegorie nel palazzo
Pamphily.
Quindi
nel mese di settembre il Preti ottiene il titolo di Cavaliere di
Giustizia e propone di dipingere senza compenso l’immensa volta e
l’abside della Cocattedrale di La Valletta. Un’impresa decorativa
titanica incentrata sulla storia della vita di San Giovanni
Battista dipinta, grazie ad una caratteristica della pietra
maltese, direttamente ad olio. Cinque anni di duro lavoro e nel
1666 l’opera è terminata, con la sua sterminata cultura prodigata
in una decorazione che ha pochi paragoni nella pittura del
Seicento europeo.
Da Malta per quarant’anni spedisce senza sosta opere in Italia ed
in Europa, il talento lo accompagna ancora, ma è il «mestiere» che
lo sorregge nei momenti di pausa ispirativa, in cui spesso si
rifarà a sue precedenti composizioni di successo, facendo di sé
stesso modello.
Nel
1672 ritorna a Taverna per la morte del fratello Gregorio e sarà
probabilmente il suo solo ritorno sul continente, perché l’esame
attento dei documenti esclude altri viaggi che dovevano sottostare
a speciali autorizzazioni.
La
mano degli allievi si fa sempre più presente nelle sue opere nelle
quali è arduo districare le parti autografe. Unica bussola sono
talune caratteristiche peculiari assunte dal suo linguaggio
espressivo, come le ombreggiature verdazzurre ed alcuni toni
rossicci dell’incarnato facilmente riconoscibili.
Alcuni
capolavori da lui realizzati a Malta sono l’immensa Santa
Caterina della parrocchiale di Casal Zurrico e la Madonna e
Santi della Cappella Verdala a Rabat dai colori schiariti che
richiamano il fondo del mare.
Poche
le opere documentate da lui inviate sulla terraferma: nel 1674 una
pala d’altare per il Duomo di Siena ed a Napoli nel 1684 una
Adorazione dei Pastori per la chiesa di Monteverginella ed una
Vergine con Simone Stock per il Carmine Maggiore.
Lentamente la gamma cromatica prima così ricca si riduce a pochi
colori ed aumenta sempre più il ricorso alla bottega. «Solitudine,
malinconia, nostalgia, nel dorato esilio dell’Isola dei Cavalieri
che ormai sostituiva la pompa liturgica ai fasti avventurosi delle
scorrerie e delle guerre di fede» (Causa). Il 13 gennaio 1699 ad
ottantasei anni il Preti si spegne dopo tanto aver dato ad un
secolo pur ricco di fermenti e di espressioni figurative.
«Magnum
picturae decus» recita il sintetico epitaffio posto sulla sua
tomba nella chiesa de La Valletta a Malta ed in questa breve frase
è racchiusa la sua sterminata produzione, risultato di un
intelligente processo di assimilazione ed elaborazione di culture
diverse, sfociato in un linguaggio pittorico originale, al passo
con i tempi e con l’avvicendarsi dei gusti e delle mode.
Un
pensiero di ringraziamento agli autori che dal Longhi nei primi
anni del secolo hanno dedicato il loro studio a farci conoscere un
artista così grande e complesso, ed attivo in realtà così lontane
non solo geograficamente.
Un
grazie perciò al De Dominici ed al Frangipane, al Mitidieri ed
alla Recife Taschetta, a Causa ed a Spinosa, a Spike, autore di
una completa e tanto attesa monografia ed a Mariella Utili,
regista e regina della grande mostra a Capodimonte.
Parlando del Preti si deve ricordare la figura di Francesco
Manzini, attivo tra la seconda metà del secolo XVII ed il
primo quarto del successivo e morto nel 1733; ricordato dal De
Dominici come abile copista del Cavaliere calabrese.
Egli è
allievo di Giacomo Farelli e nella sua produzione sono state
identificate alcune tele firmate e datate.
Nel
museo civico di Castelnuovo è esposta una grande pala
rappresentante la Decollazione di San Paolo, copia
dell’omonima opera del Preti conservata a Houston, nella quale il
Manzini si esprime con una tale abilità che anche il Causa fu
tratto in inganno e ritenne il dipinto autografo. Solo il restauro
del quadro, che evidenziò la firma dell’autore, valse a
ristabilire la verità.
Luca Giordano
nacque a Napoli il 18 ottobre 1634, da Antonio, anche egli
pittore, pur se modesto, definito dal De Dominici «scolaro di niun
grido del Ribera che altro mai non fece che copiare alcuni santi
dipinti dal maestro»; il biografo ci riferisce inoltre che Luca
dall’età di otto anni frequentò la bottega del Valenzano per lo
spazio di nove anni a perfezionarsi nel disegno. Questa notizia,
anche se il De Dominici non conosceva l’esatta data di nascita del
Giordano, trova conferma negli scritti di altri biografi, tra cui
il Sandrat che ne parla nel 1683.
Il suo
talento fu precocissimo tanto da permettergli di terminare a soli
otto anni due putti, affrescati dal padre, in Santa Maria la Nova.
Negli
anni trascorsi nella bottega del Ribera, che si stava liberando
della sua fase più cupa e tenebrosa per avviarsi verso un più
limpido cromatismo, Luca ripercorse tutte le principali tappe
toccate dalla pittura napoletana del tempo, riesaminando con
spirito moderno le motivazioni che avevano giustificato il
graduale trapasso dal naturalismo al pittoricismo.
Dal
grande maestro il Giordano seppe trarre l’impronta pittorica,
quella sua capacità di spingere l’espressione dell’immagine fino
ai limiti più arditi e questa severa lezione costituirà un
imprinting culturale che comparirà più volte nel corso della
sua carriera, come la punta di un insopprimibile iceberg che
perennemente incombe maestoso.
Dopo il discepolato con il Ribera, Luca trascorse tre anni a Roma,
ove fecondante fu l’incontro con gli esiti di Pietro da Cortona,
che in quegli anni lavorava a palazzo Pamphily. Nella città eterna
si dedicò allo studio delle «opere di Raffaello, di Michelagnolo,
di Polidoro de’ Carracci», e disegnò «più e più volte le logge e
le stanze di Raffaello e ben dodici volte l’intera battaglia di
Costantino dipinta dall’eccellente Giulio Romano ed altrettante la
Galleria Farnese» (De Dominici).
È
questo il periodo in cui il Giordano acquisisce quei soprannomi
che lo accompagneranno per tutta la vita: Proteo della pittura
ed il ben più famoso Luca fa presto. Il padre infatti
istigava il ragazzo a realizzare senza sosta dei disegni dei
monumenti romani, da rivendere con buon profitto ai forestieri.
Il
ragazzo, in preda ad una frenetica capacità creativa, «inventò la
maniera di tingere la carta con la polvere che cadeva dalla matita
rossa lasciando il colore della carta per mezzo tinta e
lumeggiandola col lapis bianco, con pochi facili e maestrevoli
scuri e in tal guisa in poche ore terminava i disegni» (Vitzhum).
È il
momento in cui comincia anche la sua irrefrenata attività di
copista e di realizzatore di quadri alla maniera di, che
gli valsero la fama di portentoso falsificatore che in parte era
la conseguenza della sua innata libertà di intendere la ricerca
pittorica al genuino fuoco della sua prestigiosa e prodiga
fantasia.
Con le
sue esercitazioni… riuscì ad ingannare anche uno scaltro
collezionista come Gaspare Roomer, che però, intuita la precoce
genialità dell’artista, preferì perdonarlo. Famigerata una sua
tela la Discesa dalla croce di S. Andrea dell’Alte
Pinakothek di Monaco, che porta la firma falsificata «Josepe de
Ribera Espanol F. 1644», uno dei casi più emblematici e nello
stesso tempo di ragguardevole fattura, nella lunga serie di quadri
in cui il Giordano replica la maniera altrui.
Eclettico e imprevedibile, Giordano spinse più di una volta il suo
virtuosismo oltre i limiti del lecito, dando luogo a più di una
querelle, di cui si fece portavoce un suo rivale, il Di Castro,
che, mosso da invidia, nel 1664 scrisse a Messina a don Antonio
Ruffo, uno dei collezionisti più importanti di pittura napoletana
dell’epoca, per metterlo in guardia, anche se nella stessa lettera
ribadiva che in quel periodo l’unica novità che fosse presente sul
mercato era costituita da quei quadri «alla Tiziano ed alla Ribera»,
che venivano sfornati dal fertile pennello del Giordano, il quale
a sua volta affrontava con grande spregiudicatezza l’argomento,
se, nel redigere nel 1688 un’importante inventario, non aveva
timore ad indicare alcuni quadri con la qualifica «mano di Luca
Giordano alla maniera dello Spagnoletto».
Quindi, «non contento di ciò che vedeva» a Roma «del famoso
Correggio, di Tiziano, di Paolo Veronese, del Tintoretto e di
altri gran pittori della scuola lombarda», proseguì i suoi viaggi
di istruzione recandosi a Parma, Venezia e Firenze.
Egli
volle attingere personalmente alle fonti primigenie dell’arte
consultando i testi là dove erano stati prodotti, percorrendo a
ritroso quello che fu lo svolgimento artistico in Italia dal
Cinquecento al Seicento. E così, dopo l’incontro con i classici
del Rinascimento e della Maniera a Roma, il contatto con il Rubens
nella sua dilagante fantasmagoria di colori e di gioia al quale
renderà un esplicito omaggio con il celebre Pintando, oggi al
Prado, l’ultima tappa fu l’abbeverarsi alla sorgente del
cromatismo, radice di ogni novità della moderna pittura da
Correggio a Tiziano, dai Bassano al Veronese.
Egli
volle gareggiare in una sfida ideale con i grandi maestri del
passato e suggere instancabile al potente calice del fermento
cromatico: libero ed indifferente alla forma, il suo stile, al
contatto con esempi così preclari, diviene aereo e luminescente,
affrancandosi dal fardello della ingombrante materia e librandosi
lieve e soave nei campi riverberanti della più pura vibrazione.
È la
fine ed il superamento dell’arcaico concetto di bottega, o di
scuola locale che fonde e ricongiunge in una patria sublime
l’intero mondo ideale dell’arte, archetipo verso cui tendono i
suoi sforzi, nell’emulazione e nel superamento della lezione di
tutti i grandi maestri.
I suoi
riferimenti culturali non sono soltanto gli italiani, ma, oltre al
Rubens, il Dürer e Luca di Leida, il Greco ed il Velázquez.
Sono
anni di studio e di lavoro «matto e disperatissimo» che lo
liberano definitivamente dalle strettoie della scuola napoletana,
per la quale un mondo di immagini tenebrose e violente, nel quale
aveva vissuto per un secolo, si chiudeva per sempre, per aprirsi,
eterea ed abbagliante, l’epoca del barocco, che Luca saprà
trasfondere in un’atmosfera magica d’oro puro e di polvere iridata
che durerà per circa dieci anni fino al 1663. «Un fiume immenso di
colore e di luce sommerge gli spazi; è il sogno in cui sfocia il
Barocco, invadere di vibrazione e di vita ogni piano, ogni riposo
della forma» (Ortolani).
Tornato a Napoli, dal 1654 possiamo seguire adeguatamente il suo
cammino artistico grazie alle firme ed alle date con le quali il
pittore è uso corredare le sue opere ed attraverso una messe
veramente notevole di documenti, che gli antichi banchi napoletani
hanno generosamente sfornato su di lui.
In
pochi anni un fiume impetuoso di tele e pale d’altare adornerà
chiese e collezioni private.Non esiste luogo di culto a Napoli che
non possegga una sua opera: da San Pietro ad Aram a Santa Maria
del pianto, da San Giuseppe dei Ruffi a Santa Teresa a Chiaia, da
San Domenico Maggiore al Gesù Nuovo, da Sant’Agostino degli Scalzi
ai Gerolamini, dall’Ascensione a Chiaia a San Nicola a Nilo, da
San Gregorio Armeno a Santa Brigida, dal Purgatorio ad Arco al
Duomo, dai Santi Apostoli a Donna Regina, da S. Maria dei Miracoli
a S. Maria della Sanità, dalla chiesetta di San Giuseppe a
Pontecorvo alla Solitaria, a tante altre ancora e, naturalmente,
al tempio della pittura napoletana, la Certosa di San Martino. La
sua pennellata divenne frenetica, la fantasia senza limiti,
l’operosità inesausta; una pittura dove colore e luce acquistavano
una nuova dimensione eroica con un irrefrenabile moltiplicarsi
delle immagini «è insomma il trionfo, in pittura, di una nuova
cristianità controriformata, ricca e potente, che affrontava nella
certezza del messaggio terreno, oltre che di quello celeste, il
cammino dei secoli a venire, non immaginando, certo, quanto buia,
tortuosa e contrastata, si sarebbe presentata, di lì a poco, la
realtà che si profilava all’orizzonte» (Causa).
Il suo
primo lavoro documentato nel 1654 è costituito dai quadri del coro
in San Pietro ad Aram. Nel 1655 la pala di San Nicola di Bari
nella chiesa di Santa Brigida dall’invenzione tutta barocca. Nel
1656 all’infuriare della peste sappiamo da una lettera che il
pittore si rifugia a Roma dove copia i disegni di Luca Cambiaso,
quindi del 1657 è il San Michele dell’Ascensione a Chiaia e
la Madonna del Rosario della chiesa della Solitaria, oggi a
Capodimonte. Nel 1658 seguono l’Elemosina di San Tommaso di
Villanova e l’Estasi di Sant’Agostino a Sant’Agostino
degli Scalzi, nel 1660 la Madonna col Padreterno a San
Giuseppe a Pontecorvo e quindi nel 1661, un prelievo da Pietro da
Cortona, l’Estasi di Sant’Alessandro al Purgatorio ad Arco.
Naturalmente le opere citate sono una piccola miscellanea della
produzione del Giordano, che chiude il periodo «dorato» nel 1663,
al quale farà seguito un nuovo processo di sedimentazione e
d’assimilazione, soprattutto dei modi pittorici cortoneschi, dai
quali mutuerà valori cromatici e schemi compositivi ed in alcuni
casi veri e propri prelievi fisionomici dai grandi cicli di
palazzo Pamphily e palazzo Pitti.
Durante gli anni in cui il Preti è presente a Napoli, dal 1653 al
1660, vi è un fecondo scambio reciproco tra i due artisti,
catalizzante per entrambi, che sostanzialmente si chiude in
pareggio.
In
particolare il Preti dal Giordano recepì, filtrati, gli
straordinari esempi di grandiosità compositiva derivati dal
Veronese, mentre Luca, dal più anziano maestro, oltre ad una
rimeditazione sulla lezione del Lanfranco, colse la convinzione
che il gran libro ideale della storia dell’arte fosse un
territorio libero, dal quale trarre materiali per sempre nuove
esperienze.
Partito per Malta il Preti, il giovane artista si sentì investito
da solo di una grande missione: lo svecchiamento della cultura
figurativa locale e l’apertura di sempre nuovi orizzonti.
Il
barocco oramai trionfava ed il Giordano poteva «dar libero corso
alle ragioni del cuore più che della mente, a dar ascolto alle
voci varie e mutevoli dell’infinito Universo e a tradurre in
fantasie colorate le intense emozioni procurate dall’inarrestabile
spettacolo di luci, forme e colori in cui realtà naturale e
soprannaturale si manifestava al suo animo irrequieto e sognante»
(Spinosa).
La sua
pittura con successivi colpi d’ala giunge rapidamente ai più alti
livelli qualitativi. Egli è cosciente della varietà dei suoi
registri espressivi e della vastità dei suoi mezzi pittorici,
animati da un esaltato empito fantastico, che gli permette di
esprimersi con le note di una variegata tastiera cromatica in uno
spazio illimitato, come ben mise in risalto Roberto Longhi che
parlava di «una visione dove la trama inventiva e l’ordine
dell’immaginazione si accordano in un continuum di mondo in
abbozzo, in effetti quasi senza fine».
Scomparso il Preti, il lungo intervallo tra il 1660 ed il 1675
vede a Napoli l’attività del Giordano come unica espressione
artistica di rilievo, con l’artista che dilaga nel suo impegno
frenetico a soddisfare le numerose committenze pubbliche e private
e mentre il modesto Giacomo Di Castro scriveva, come abbiamo
visto, lettere velenose a don Antonio Ruffo, l’avversario più
quotato del Giordano, Francesco Di Maria, lanciava la sua famosa
invettiva, definendo il rivale come «la scuola ereticale, che
faceva traviare dal dritto sentiero con la dannata libertà di
coscienza: e ciò diceva in riguardo alla vaghezza del colorito».
Era la
ricomparsa dell’antica querelle tra disegno e colore, tra cultura
e fantasia, nella quale Luca aveva ben chiaramente espresso la sua
opinione.
Nel
1665, dopo una tappa a Firenze ove lavorò per i Medici e per altri
mecenati toscani, il pittore si reca a Venezia e licenzia una
serie di importanti pale d’altare, che a lungo gli storici avevano
collocato cronologicamente in un periodo precedente, intorno al
1654, nonostante la precisione delle fonti letterarie venete. Tra
queste realizzazioni ricordiamo la Deposizione della croce,
oggi nelle Gallerie dell’Accademia, e la Madonna con
Bambino e Santi pervenuta poi a Brera.
A
Venezia si trova anche la famosa cona Assunzione della Vergine,
nella chiesa della Salute, datata 1667, ma inviata da Napoli.
Il
rapporto economico che lo legò per alcuni anni a Venezia, oltre a
procurargli nuovi facoltosi committenti come il marchese Fonseca,
fu fecondo e stimolante per il contatto con opere di artisti
attivi nella città lagunare, come Bernardo Strozzi e Johann Liss;
nello stesso tempo la sua arte influenzò in maniera determinante
l’attività di artisti veneti ed anche toscani, quali Giovan
Battista Langetti e Antonio Zanchi, fino allo stesso Sebastiano
Ricci. È la prima volta che un nostro pittore influenza
consistentemente lo sviluppo della cultura artistica in alcune
delle grandi capitali dell’arte seicentesca, cosa non riuscita in
precedenza nè a Battistello Caracciolo, nè a Massimo Stanzione,
che, pur soggiornando a lungo in varie città italiane, non ebbero
seguaci.
I
committenti del Giordano diventano sempre più importanti e la sua
maniera si sviluppa in confini sempre più ampi. A Napoli il
cardinale Innico Caracciolo gli fa eseguire una lunga serie di
figure di santi per la navata ed il transetto del Duomo.
Il
marchese Del Carpio gli commissiona un gruppo di grandi tele e lo
nominerà in anni successivi coordinatore dei festeggiamenti per il
Corpus Domini, che vedranno il Giordano collaborare con i massimi
specialisti di natura morta napoletani in alcuni spettacolari
teloni, oggi sparpagliati per i quattro angoli della terra,
dall’Australia agli Stati Uniti.
Richiestissimo dall’aristocrazia genovese, Costantino Balbi gli
acquistò le tre drammatiche tele, soffuse di epos e pathos,
raffiguranti Perseo che combatte Fineo e i suoi compagni,
oggi alla National Gallery di Londra, La regina Jezabel
divorata dai cani in collezione Ambrosio a Napoli ed il
Ratto delle sabine, ancora a Genova nella raccolta Cattaneo
Adorno.
Anche
a Bergamo, per la chiesa di Santa Maria maggiore, vollero una sua
testimonianza e Luca li accontentò, inviando l’immensa tela
Passaggio del mar Rosso; non potè accogliere l’invito di
eseguire in loco decorazioni, ma mandò a tal uopo il suo fedele
seguace Nicola Malinconico.
Dopo
oltre venti anni di instancabile attività dopo aver realizzato
migliaia di tele, Giordano, come colto da folgorazione ispirativa,
ritenne che l’affresco costituisse il suo naturale campo di
espressione, con le sue vaste superfici, ove il brillante fuoco
d’artificio della sua fantasia potesse estrinsecarsi in maniera
più libera ed esaustiva ed è in questo campo che in maniera più
marcata possiamo cogliere i segni dei suoi principali referenti
culturali dal Lanfranco a Pietro da Cortona fino ai principali
protagonisti del neovenetismo romano.
Egli giunge a questa forma espressiva nella sua piena maturità e,
senza tralasciare la pittura da cavalletto, instancabilmente
produrrà chilometri e chilometri quadrati di volte e pareti, come
partecipe di un sacro furore creativo, esaltato da una sovraumana
vena ispirativa ed avendo come unica preoccupazione quella di
«liberare in un processo rapidissimo la rappresentazione dal peso
della materia, dalla sua grave essenza realistica ed innazzarla
nei campi della più libera epifania e della pura vibrazione
luminosa» (Causa).
I
principali complessi decorativi ai quali pose mano sono: gli
affreschi di Montecassino del 1677, ove ritornò a lavorare nel
1691, purtroppo oggi non più visibili, perché distrutti dal
criminale bombardamento che subì l’Abbazia durante la seconda
guerra mondiale; nel 1678 esegue la cupola di Santa Brigida; il
grandioso ciclo di storie di San Gregorio Armeno per la chiesa
omonima si conclude nel 1684; quindi nel 1682 esegue la cupola
della Cappella Corsini a Firenze e dal 1682 al 1685 la
spettacolare decorazione della biblioteca e della galleria di
palazzo Medici Riccardi, sempre a Firenze, capolavoro della sua
maturità che «segna un ulteriore sviluppo del suo stile e della
sua invenzione narrativa» (Ferrari); del 1684 è la grandiosa
controfacciata nella chiesa dei Gerolamini rappresentante Gesù
che caccia i mercanti dal tempio. Una tale oceanica superficie
decorativa fu possibile, non solo grazie alla sua leggendaria
velocità di esecuzione ed alla sua assoluta padronanza del
mestiere, ma anche grazie alla compartecipazione di una quantità
di allievi che non ebbe uguali.
Il
problema delle ampie collaborazioni nelle opere giordanesche è
delicato argomento che la critica ha esaminato più volte sotto
varie angolazioni. È impresa ardua infatti riconoscere una o più
mani nelle tele autografe, ancor più nei vasti cicli decorativi.
Oggi, e torneremo sul tema più avanti a proposito dei giordaneschi,
riusciamo a discernere alcuni allievi più famosi, a lungo sommersi
nella sterminata produzione di Luca e presto, agli occhi più
smaliziati, sarà possibile distinguere il pennello di un
collaboratore nel rifinire dettagli, più o meno secondari, in
un’opera sicuramente attribuibile al Giordano.
Un’altra questione, poco più che un pettegolezzo, è relativa alla
favola che il pittore fosse molto legato al denaro ed a seconda
della cifra pattuita si impegnasse in proporzione. Quest’ultima
diceria è in parte veritiera e la conferma la si può avere con una
attenta lettura dei numerosi documenti di pagamento,
confrontandoli con la qualità dei relativi lavori. Si può così
notare che spesso, a piccoli pagamenti corrispondono opere modeste
ed a cospicue elargizioni, dei capolavori!
Nel
1692 il Giordano è al culmine della fama ed il suo nome ha
risonanza internazionale: è tempo che per il magistero della sua
arte vi sia una cattedra più adeguata, dalla quale possa far
sentire con più forza la sua voce per l’Europa e quale sede
migliore che Madrid, all’epoca capitale di un impero dove non
tramontava mai il sole.Il re Carlo II chiama il pittore a corte e
gli assegna le prime committenze, rimanendo impressionato dai
risultati della sua sovraumana attività. Per un decennio fino al
1692 «egli è pronto a sbramare con la sua pittura feconda la
meraviglia che gli si volge, ansiosa di miracoli, come a un mostro
prodigioso» (Ortolani).
Il
pittore sessantenne non conosce pause ed esegue superfici
sterminate di affreschi e migliaia di tele; solo il Prado infatti
ne possiede, in gran parte esposte, più di cento.
La prima impresa è l’Escalera grande dell’Escorial, seguono gli
affreschi della chiesa di San Lorenzo, l’immensa volta del Casón
al Buen Retiro, la Sagrestia della Cattedrale di Toledo, lavori
per la Cappella dell’Alcázar di Madrid, poi andata distrutta, la
decorazione della chiesa della Madonna di Atòca, pure distrutta,
gli affreschi di Sant’Antonio de Los Portugueses, il Camerin di
Guadalupe ed un infinità di altre committenze pubbliche e private.
Il
Giordano è ora a suo agio, liberatosi dall’angusta arena
napoletana, può irradiare il suo messaggio di un nuovo corso della
pittura moderna, imprimendo il cammino di un incalzante processo
di aggiornamento formale che giungerà fino a Goya ed agli
impressionisti.
La sua
miracolosa attività potè contare su di uno stuolo di collaboratori
nelle grandi imprese decorative, che superò il numero di cento nei
lavori dell’Escorial ed alla Cattedrale di Toledo e ciò gli rese
possibile materialmente l’estrinsecarsi della sua fantasia senza
freni che lo collocò in una «area culturale ed ideale di sicura
ampiezza europea» (Spinosa).
In
Spagna spesso i collezionisti richiedevano al Giordano di
replicare le sue composizioni che avevano incontrato fama e
successo come la Morte di Seneca e la Sacra Famiglia con
i simboli della Passione.Il pittore operò in queste numerose
repliche autografe una decantazione in senso puristico della sua
maniera ed a volte utilizzò un colorismo più contenuto e denso di
effetti luministici. Egli era al corrente delle novità che il
Solimena stava introducendo nell’ambiente figurativo napoletano,
ma non appena ritornò in patria, riconquistò immediatamente
l’attenzione generale.
Luca
decise di lasciare la Spagna nel febbraio del 1702, dopo la morte
di Carlo II, fece tappa a Livorno e quindi appena giunto dilagò
come un’immensa iridescente marea, soddisfacendo committenti
ecclesiastici e laici e tra questi il nuovo viceré.
Realizzò le grandiose tele, soffuse di empito drammatico, come
Storie di Santa Maria Egiziaca per la chiesa omonima a
Forcella, quindi il Martirio di San Gennaro per la chiesa
dello Spirito Santo dei napoletani a Roma, i grossi teloni per
Santa Maria Donna Regina Nuova, che si contrapposero agli
affreschi che Solimena vi aveva dipinto circa venti anni prima, l’Incontro
di San Carlo Borromeo con San Filippo Neri, nella chiesa dei
Gerolamini, mentre le decorazioni della sacrestia di Santa Brigida
furono soltanto iniziate e proseguite, sulla guida dei suoi
bozzetti, dagli allievi dopo la sua morte.
La
ciliegina finale della sua interminabile carriera è costituita
dall’affresco nella cappella del Tesoro della Certosa di San
Martino, nel quale, rappresentando il Trionfo di Giuditta,
evocò il variopinto mondo immaginativo delle decorazioni di
palazzo Medici Riccardi a Firenze.
In
questa festa della luce e della vita, in questo inno gioioso alla
creatività ed alla libertà, il Giordano ci elargisce «la più
luminosa e dorata delle sue aeree fantasie, in cui il sogno di
levità, di delizia, di rapita eleganza del secolo nuovo s’esprime
come in una delicata spuma di veli. Ora il colore è tutto luce,
vibrante, aperta, e le forme sono quasi per sciogliervisi, rette
appena dal suo palpito.Ora le strutture compositive, le masse
d’ogni parte sfogano e si spalancano. In questo rapimento oblioso
e felice ogni forma si scorpora, si spersonalizza e come un tenero
miele del sole invisibile tutto scorre e bagna» (Ortolani).
«La
sua radiosa visione di un mondo infinito e continuo, rilevato dal
fluire inarrestabile di una luminosità chiara e dorata e dalla
brillante successione di materie cromatiche dai toni delicati e
lievi come quelli di teneri pastelli, fu il più appassionato
invito del maestro ultra settantenne alle generazioni degli
artisti a venire perché salvaguardassero sempre le ragioni
dell’arte e della libera fantasia creatrice dai limiti e dalle
necessità contingenti del reale e del quotidiano» (Spinosa).
I
contemporanei rimasero soggiogati da questa esplosione finale del
maestro che costituisce il suggello conclusivo del secolo d’oro
della pittura napoletana, ma pur sopraffatti da tanto ardimento,
non seppero coglierne appieno le indicazioni ed i significati più
pregnanti, che solo nei decenni successivi, variata la sensibilità
artistica, furono capiti nel pieno della loro magistrale
precognizione, inaugurando, già in pieno Settecento, la stagione
del Ricci e del Tiepolo, del Giaquinto e del Fragonard.
Il
giudizio critico sull’opera di Luca Giordano ha attraversato varie
fasi, da una fama strepitosa e senza riserve presso i
contemporanei, che lo idolatrarono e ne decretarono un successo
non più eguagliato da nessun pittore napoletano, alla reazione
negativa che, cominciata durante la vita dell’artista, da parte
della fazione accademizzante facente capo al Di Maria, si acuì per
il ritorno in auge delle memorie dell’arte classica, le quali,
osteggiando la confusionaria, ridondante e pacchiana moda barocca,
diedero luogo ad un ostracismo totale, che si concluse soltanto
alla fine dell’Ottocento.
La
nuova maniera introdotta dal Giordano nel Viceregno, permise
alle arti figurative di aprirsi alla luce, al colore, alla gioia,
dopo un lungo cinquantennio di cupo tenebrismo di ortodossa
ascendenza caravaggesca.
Un
chiaro segnale della variazione di gusto nell’arco di pochi
decenni è dato dal parere del conte Shaftesbury, il quale da
giovane, intorno al 1686 - 89, considera il Giordano, assieme a
Carlo Maratta, il più famoso pittore italiano, per cambiare in
seguito radicalmente opinione nel 1712 quando, abitando nella
nostra città, egli parla di Luca come di «un pittore plebeo, non
soltanto perché dipinge la plebe meglio di qualsiasi altro
soggetto, ma anche perché trova egli stesso il suo posto migliore
nella massa, nella confusione e nella varietà delle tinte e delle
figure stravaganti».
In
quegli anni gli studiosi avevano infatti maturato una critica
negativa dell’arte barocca, che dal Bellori si trascinerà fino al
giudizio espresso da Benedetto Croce.
Il più
antico documento critico sull’opera di Luca Giordano è ritenuta la
lettera che Giacomo Di Castro indirizzò nel 1664 al famoso
collezionista messinese don Antonio Ruffo, nella quale egli si
limitò a sottolineare la straordinaria capacità dell’artista a
falsificare la maniera altrui: «contraffacendo ora Tiziano ora
Paolo Veronese».
Dieci
anni dopo torna sull’argomento Marco Boschini, ritenuto dal Longhi
«il più grande tra i critici del Seicento», il quale raffigura il
Giordano abile «a sugger le poppe delle pitture veneziane nelle
scuole di Paolo e di Tiziano», ma gli riconosce un linguaggio
pittorico già inequivocabilmente moderno.
Il
Palomino, i cui scritti tradotti in inglese nel 1739 ed in
francese nel 1749, contribuirono a diffondere in tutta Europa la
fama del nostro pittore, ebbe espressioni di viva ammirazione per
l’opera di Luca, accompagnate da osservazioni denotanti un
giudizio molto sottile, il tutto sull’onda del clamoroso e
crescente successo incontrato dal Giordano in Spagna a partire dal
1692.
Un
altro biografo che si interessò al Giordano fu il Baldinucci
junior, il quale si servì, nell’emettere il suo parere, di una
scheda fornita a suo padre dallo stesso artista nel 1690 e di
appunti inviatigli da Bernardo De Dominici: due manoscritti
«Notizie della vita dello eccellentissimo pittore Luca Giordano
napoletano» e «Notizie della vita del cavalier D. Luca Giordano»,
due quadernetti oggi conservati nel fondo Baldinucci della
Biblioteca Nazionale di Firenze.
Il
biografo fiorentino non fu avaro di giudizi e frasi lusinghiere
«geniale e bizzarra maniera... correttissimo disegno... colorito
maraviglioso... veloce e maestrevole mano».
Il De
Dominici, sommo biografo delle arti figurative partenopee, scrive
le sue «Vite» vari decenni dopo aver fornito le sue informazioni
al Baldinucci, sottolineando l’inattualità della fase riberesca
del Giordano, del quale apprezza complessivamente l’opera, pur
essendo mutato il suo gusto, che ora è molto attratto dallo stile
del Solimena, col quale crea una sorta di equilibrio critico.
La
fase di giudizio negativo sull’opera giordanesca dura oltre un
secolo e sfumerà solo nel tardo Ottocento, quando tutta l’arte
barocca subisce un’ampia e duratura rivalutazione da parte degli
studiosi che cominciano a rivedere Luca, con il Rubens e Pietro da
Cortona, come il campione indiscusso del virtuosismo e
dell’esaltazione dei valori cromatici.
I
giudizi positivi più importanti furono quelli del Posse, che curò
l’ampia voce riguardante l’artista sul prestigioso Thieme Bekers e
del Longhi, che tornò più volte sull’artista stimolando ulteriori
studi e ricerche.
Già
all’inizio del secolo la critica aveva cominiciato a superare le
vecchie remore verso il Barocco, sviluppando una nuova sensibilità
di completa rivalutazione delle arti figurative napoletane.
Il
segnale del cambiamento nel giudizio degli studiosi lo si coglie
nell’opera del Mayer, che nel 1908 discerne, con acuto rigore
filologico, le opere riberesche di Luca dagli autografi del
Valenzano e nella monografia del Rolfs sulla pittura napoletana
che, nel 1910, dà al Giordano il giusto posto di rilievo nel
panorama artistico della seconda metà del secolo XVII.
L’esaustiva monografia su Luca Giordano a cura del Ferrari e dello
Scavizzi, nelle due edizioni pubblicate nel 1966 e nel 1992, ha
contribuito ad accrescere notevolmente la mole di documentazioni
sull’artista, mentre la consacrazione mondiale della sua opera è
stata suggellata dalla gigantesca mostra itinerante che la
benemerita Sovrintendenza napoletana ha organizzato nel 2001 e che
ha fatto tappa nelle capitali dell'arte di tutto il mondo.
La
nascita della natura morta in Italia è legata al genio
rivoluzionario del Caravaggio che con la sua esplosiva
dichiarazione: «che tanta fatica gli era a fare un quadro di
figure che uno di frutta» distrusse quel principium
distinctionis che relegava come in un ghetto la pittura di
genere considerata un’attività meno nobile.
Ai
primi del Seicento infatti era ferrea legge che l’importanza di un
dipinto fosse commisurata in base al soggetto raffigurato. L’idea
che presiedeva al concetto di bellezza di un’opera d’arte era
quella dell’estetica classica che si basava su modelli metafisici,
archetipi irraggiungibili della realtà oggettiva.
Caravaggio, creando un dipinto impostato sulla sola composizione
di oggetti, affrontò con fermezza il problema della
rappresentazione ed attraverso la famosissima Fiscella,
oggi all’Ambrosiana, fornì una nuova chiave di lettura della
verità naturale, «quasi un manifesto, prova baldanzosa da
polemista che non teme paragoni» (Causa).
La
Fiscella non è un frammento, ma un’opera finita, che vive e
respira una sua vita autonoma, è la creazione di un artista che
non credeva più ai canoni della bellezza antica ma soltanto alla
realtà che gli derivava dall’esperienza dei sensi, della quale la
pittura doveva essere uno specchio fedele.
La
natura morta ebbe successo là dove la cultura era laica e
borghese, aperta ed antidogmatica, in Olanda, un paese estraneo
all’area cattolica. Ben altre difficoltà incontrò il genere per
affermarsi in Italia, in Spagna, in Francia.
Il
lungo periodo durante il quale la natura morta, anche se
accettata, è stata considerata un genere minore dalla cultura
accademica ha influito sulle nostre conoscenze, perché per secoli
è stata tenuta ai margini degli studi e dei musei. Amata soltanto
da una classe di collezionisti privati, ha risentito gravemente
della dispersione e della polverizzazione di tante raccolte,
causate dalla estinzione delle casate, da maldestre divisioni
ereditarie seguite all’abolizione del maggiorascato, dal semplice
declino economico che constringeva a malincuore a vendere i
gioielli di famiglia.
Le
origini primigenie della natura morta napoletana continuano
pervicacemente a sfuggire alle indagini più accurate, come in gran
parte sfuggivano allo stesso De Dominici, che principiava il suo
capitolo sull’argomento a discorso già iniziato, parlando di Luca
Forte e del Porpora e confessando candidamente di non aver notizie
sufficienti sui maestri più antichi.
Una
testimonianza su questi sconosciuti iniziatori del genere ce la
fornisce il Tutini, il quale asserisce: «in pinger poi fiori e
frutti dal naturale celebri assai furono Luca Forte, Jacopo Russo
et Ambrosiello e tutti furono napoletani et altri celeberrimi
pittori». Ed in un secondo manoscritto aggiunge un altro nome:
«cito Angelo Mariano da Napoli celebre pittore», al quale gli
studiosi debbono affiancare, tra i primissimi, Angelo Turcofella,
cui si riferisce un documento di pagamento del 1620.
Nomi
senza opere, ancora alla ricerca di una fisionomia artistica che
ce li renda più familiari.
Ambrosiello Faro
compare in un «notamento» del 1648, pubblicato dal Ruffo nel 1916
e nella grande mostra sulla natura morta tenutasi a Napoli nel
1964 fu presente con un dipinto di frutta assegnatogli
ipoteticamente per i suoi caratteri arcaici dal Causa,
attribuzione che negli anni successivi lo studioso ritenne non
potesse essere più sostenuta.
Antonio Mariano,
dopo la citazione nel manoscritto del Tutini, non è mai più
ricomparso nelle fonti successive, né ci è nota alcuna sua opera.
Angelo Turcofella
è venuto a galla grazie ad un documento di pagamento che gli si
riferisce del 21 gennaio del 1620, nel quale gli vengono pagati 80
ducati «in conto di certi quadri che fa di pittura ad oglio di
certi fiori».
Se
questi generisti minori sono ancora poco più che un nome per gli
studiosi, ben diversa è la situazione per Luca Forte e Jacopo
Recco (erroneamente indicato come Russo nel manoscritto
autografo). Nelle opere di questi artisti possiamo cominciare a
distinguere, perché ben delineati, i caratteri precipui della
natura morta napoletana che sottopone il caravaggismo ad un bagno
di visionarietà romantica con i frutti: mele, uva, fichi,
melograne ed i fiori più disparati sottoposti ad una spietata
indagine luministica, che ci restituisce la rappresentazione nella
compattezza della sua piena volumetria, con una cura meticolosa
nella definizione dell’esteriorità delle forme, rese con
precisione nelle loro rugosità, nelle variazioni cromatiche tanto
raffinate da fare apprezzare la vita palpitante che è racchiusa
all’interno della materia, con la linfa che sgorga copiosa dando
vitalità ed energia ai sapori ed agli odori, che miracolosamente
sembrano manifestarsi e potersi cogliere con lo sguardo attento e
non più con il gusto o con l’odorato.
Gli
studi sulla natura morta napoletana debbono, come sempre, partire
dalle notizie che ci fornisce il De Dominici, preziose e a volte
bussola indispensabile per le ulteriori ricerche.
Quasi
nulli sono i contributi degli altri storici, fino agli anni tra le
due guerre che vedono i brevi saggi del Marangoni, del Cecconi e
dell’Ortolani, in occasione della stesura del catalogo per la
grande mostra del 1938.
Ci
sarà poi l’infaticabile ed originale avventura di quella complessa
figura di ricercatore di documenti che fu Ulisse Prota Giurleo, al
quale tanto debbono gli studi sulle arti figurative, e non solo
quelli: «talpa paziente di null’altro interessata, nei cunicoli
scuri degli archivi, che di imbrigliare contratti matrimoniali e
fedi di battesimo, e qui ripescare d’intuito quei segni esterni
che potessero restituirci come persone vive le scolorite larve di
nomi oramai privi di consistenza storica» (Causa).
Le
ricerche degli specialisti, dopo i saggi pioneristici dei primi
anni Sessanta e la grande mostra tematica tenutasi a Napoli nel
1964, ebbero una impennata nel 1972 con la pubblicazione del
saggio del Causa, vera bibbia sull’argomento, alla quale hanno
attinto tutti gli studiosi successivi.
Molti
i contributi e le precisazioni del Bologna, spesso attraverso
schede esaustive a corredo di rassegne antiquarie, dato il grande
interesse commerciale che ha suscitato il genere presso i
collezionisti privati.
La
grande monografia sull’argomento, coordinata da Federico Zeri e
per la parte napoletana curata da Nicola Spinosa, vede la luce nel
1989. Nell’ultimo decennio pochi i contributi, tra cui stimolanti
quelli del De Vito, che tante polemiche hanno suscitato per le
rivoluzionarie tesi a volte sostenute.
Nel
certame attribuzionistico molte certezze hanno vacillato, nuove
ipotesi, suggerimenti, proposte, riclassificazioni sono state
avanzate, il corpus di alcuni artisti è stato ridotto o ampliato,
mentre alcuni maestri sono stati trasferiti da un’area geografica
all’altra. Tra gli emigranti di lusso il Verruchius, il Maestro
del Metropolitan. il Maestro della Floridiana e, pronto a fare le
valigie, anche il tanto osannato Maestro di Palazzo San Gervasio.
Molte
incertezze regnano ancora sulla materia e molti sono i dubbi
attributivi e le questioni che attendono una più puntuale
precisazione documentaria, tanto da far auspicare, anche se da
prendere come una provocazione, «un’azzeramento quasi totale delle
conclusioni critiche e storiografiche passate ed una nuova ripresa
degli studi sull’argomento con occhi nuovi e con mente sgombra da
ipotesi precostituite e da pregiudizi di parte» (Spinosa).
Per
far progredire gli studi sarebbe quanto mai opportuno organizzare
un grande mostra sulla natura morta napoletana, ponendo gli uni
vicino agli altri i soli dipinti firmati o documentati, per poter
operare gli opportuni confronti; un'impresa non facile per la
dispersione di tali tele in raccolte private, difficili da
identificare e spesso situate all'estero.
Nonostante le incertezze attributive ed il ritardo degli studi, la
natura morta napoletana, risorta dopo un oblìo di secoli,
rappresenta oggi una realtà estetica indiscutibile e costituisce
uno dei patrimoni più cospicui che il genere abbia prodotto in
Europa nel corso del Seicento, indefettibile testimonianza di un
primato nelle arti figurative che la nostra città ed i suoi
abitanti, smarriti nelle tristi tribolazioni della dura realtà
odierna, faticano e quasi dubitano di avere per così lungo tempo
esercitato.
L’avvio, nei primi decenni del secolo, risente del fecondante
messaggio che i fiamminghi irradiano in tutta Europa, sedimentato
dall’esperienza caravaggesca, che ci perviene da Roma, divenuta di
nuovo centro propulsore del nuovo verbo. Anche dalla Spagna
giungono gli echi del successo che il genere sta riscuotendo, ma
gli scambi non saranno a senso unico, come lentamente gli studi
stanno dimostrando. A Napoli si costituiranno vere e proprie
consorterie con dinastie di specialisti legati da vincoli di
sangue come i Recco e i Ruoppolo, che monopolizzeranno per decenni
il mercato, divenuto cospicuo per le richieste crescenti da parte
di una borghesia laica, che considera la natura morta uno
status symbol da esibire e di cui compiacersi, né più né meno
di come era accaduto nel nord Europa alla nascita del genere.
Nei
primi tempi la natura morta a Napoli fece una timida comparsa
prevalentemente attraverso brani, anche cospicui, ai margini di
composizioni di carattere sacro o profano che fossero, spesso con
inserti d’altissima qualità e con caratteristiche di intensità e
verità visiva da sfidare le più brillanti prestazioni dei pittori
«maggiori». Nei quadri del Falcone e dello Stanzione cominciano ad
apparire sempre più ampi ed articolati stralci di natura morta, di
pregnante corposità, sui quali si sono arrovellate senza trovare
una risposta soddisfacente generazioni di studiosi, ansiosi di
decifrare la mano di un misterioso collaboratore specialista.
Ed
argomento da non trascurare per gli studi futuri è l’accertamento
della possibilità che artisti, anche famosi, non disdegnassero di
cimentarsi in un genere allora considerato minore.
A
dimostrazione di questo assunto ci sono l’inventario dell’eredità
di Sellitto, tra i più antichi seguaci del Caravaggio, morto nel
1614, nel quale erano descritti numerosi quadri non proprio sacri:
«nove quadri piccoli di frutta con peschi e altre cose ... sei
quadri di frutta et animali ... due quadri uno con l’orologio et
l’altro con la giara». Ed inoltre con grande stupore è stata
accolta la scoperta da parte di Federico Zeri di un Andrea De
Lione pittore di natura morta; che dire poi del Filippo Napoletano
di cui parla il De Vito?
L’enigmatica figura del Maestro di Palazzo San Gervasio,
delineata dal Causa nel 1972 e per lungo tempo considerata una
delle più antiche nell’ambito della nascita del genere a Napoli, è
tuttora sub iudice.
La
Tecce, nella scheda relativa del catalogo della mostra sulla
civiltà del Seicento, oltre a ripercorrerne puntigliosamente la
vicenda attributiva, concludeva, senza tema di smentite, che la
grande natura morta da cui prende il nome convenzionale l’artista
andava ascritta all’ambito napoletano, ribadendo l’intuizione del
Causa che riteneva il pittore attivo non solo nel vicereame, ma
anche a Roma ed in Spagna, a partire dal secondo decennio del
secolo.
Il Bologna viceversa, nel corso di una memorabile conferenza
tenuta a Villa Pignatelli nel 1984, asseriva la non appartenenza
del maestro all’area napoletana e la sua collocazione cronologica
successiva a Luca Forte ed ai primi tempi del genere a Napoli, pur
escludendo recisamente ogni riferimento a Giovan Battista
Crescenzi, ipotesi propugnata, anche in anni successivi, dalla
Gregori.
Nella
monografia del 1990 sulla natura morta Spinosa, pur cauto sulla
questione, non dedica un paragrafo al Maestro di Palazzo San
Gervasio, mentre alcune sue opere, che Causa faticosamente gli
aveva riferito, si trovano aggruppate sotto altre aree geografiche
ed altri nomi, tra cui quello di Pietro Paolini, un artista di
scuola lucchese.
Tenuto
conto delle reali difficoltà di individuazione non solo dell’area
geografica, ma anche dell’esatto momento di esecuzione dell’opera
principale che gli viene attribuita, Natura morta di frutta e
fiori con una colomba in volo, conservata nel municipio del
comune di Palazzo San Gervasio in Lucania, riteniamo opportuna per
il momento una sospensione del giudizio, pur essendo del parere di
considerare ancora attualissima e pregnante l’ipotesi del Causa,
che si basava su una lettura dell’opera come sempre acuta e
puntuale: «un maestro intento a monumentali esercitazioni di
stile, impostate con semplicità primigenia e possente, nel sogno
di una particolare fiscella che ingrandisce a dismisura,
trabocca, si moltiplica in tanti episodi successivi
sostanzialmente univoci, stratificandosi come in una primigenia
concrezione di rocce, schisti e basalti, e pietre rare di
miniera».
Come
pure il Causa seppe cogliere il carattere arcaico della
composizione di poco posteriore alle esperienze caravaggesche:
«questo scandire delle ombre che potenzia il giuoco cromatico,
questa sapienza compositiva entro il modulo arcaico
dell’allineamento, ... il giuoco di frutta, foglie e fiori, il
bouquet esplosivo, la caraffa trafitta di luce, il ramicello
proteso nel vuoto».
Avvolto ancora nell’ombra l’itinerario artistico di Giacomo Recco
e ridimensionato dagli studi più recenti, oltre che spostato
cronologicamente in avanti, il ruolo di Paolo Porpora, Luca
Forte, (Napoli? 1600/1605 circa - prima del 1670) risulta oggi
la più antica personalità delineata storicamente tra i pittori
napoletani dediti alla natura morta. Le poche notizie che
possediamo ci permettono di ricostruire approssimativamente la sua
data di nascita e di morte.
Il De
Dominici ce ne parla nella biografia del Porpora, che sappiamo
nato nel 1617, del quale deve essere senz’altro più vecchio,
inoltre dal Prota Giurleo veniamo a sapere che presenzia come
testimone al matrimonio di Aniello Falcone, nato nel 1607, di cui
perciò deve essere più anziano, per inveterate consuetudini.
Viceversa la data di morte possiamo collocarla cronologicamente
prima del 1670, anno in cui si parla del pittore al passato in un
antico manoscritto citato dal Ceci nel 1899.
Questa
ultima circostanza ci conferma la presenza di Luca Forte nella
bottega falconiana o, quanto meno, frequentatore di quella sorta
d’accademia di studio dal vero che, intorno agli anni Trenta,
raccolse a Napoli numerosi pittori.
Le
notizie forniteci su di lui dal De Dominici, per quanto possano
essere poco esatte perché il biografo narra gli avvenimenti dopo
circa un secolo, ci permettono in parte di ricostruirne il cammino
stilistico. Infatti il De Dominici ci riferisce che «le sue
pitture non hanno troppo avanti e indietro e tutte le cose sono
messe quasi a fila una dopo l’altra sul medesimo piano» tale
indicazione è stata tenuta in gran conto da tutti gli studiosi che
hanno cercato di identificare il percorso della produzione di Luca
Forte, fino al recente ritrovamento di una Natura morta con
vaso di fiori, frutta e limoni in una collezione napoletana da
parte del Bologna, che ha permesso una rilettura del passo
dedominiciano, nel senso che la produzione più antica del Forte
sarebbe proprio quella caravaggesca «dell’avanti e dell’indietro»,
mentre quella più matura si evolverebbe verso un criterio
compositivo più elaborato e proiettato su tutta la superfice del
dipinto.
La
prima ricostruzione della personalità del Forte fu fatta dal Causa
che identificò tre sue opere siglate o firmate, che hanno fatto da
raffronto per assegnargli altre tele. Esse sono: la Natura
morta con frutta e uccelli, siglata, del Ringling Museum di
Sarasota, la Natura morta di frutta e fiori, firmata, della
collezione Molinari Pradelli e la Natura morta, firmata,
già presso la galleria Matthiesen di Londra.
Negli
anni più recenti sono state rinvenute altre tele siglate o
firmate, che hanno permesso di allargare il catalogo dell’artista,
sul quale permane il mistero della collocazione cronologica delle
varie opere, per una soltanto delle quali è possibile stabilire un
termine ante quem al 1647. Si tratta della celebre tela già
Mortimer Brandt, oggi di proprietà del Ringling Museum di Sarasota
che presenta, oltre alla sigla, una dedica ad un nobile
napoletano, don Giuseppe Carafa, che venne lapidato nella chiesa
di Santa Maria la Nova nel 1647.
L’attività del Forte si è probabilmente espletata tra il 1625 ed
il 1655, ma il periodo di maggiore maturità artistica è
considerato dalla critica più avveduta quello che va dal 1640 al
1650, sulla base anche di un carteggio intercorso nel 1649 tra il
pittore ed il nobile mecenate messinese don Antonio Ruffo, dal
quale si evince che il Forte poteva pretendere per un suo dipinto
la ragguardevole cifra di duecento ducati. Un’altra circostanza
che conferma il successo raggiunto dall’artista è la presenza di
alcune sue tele negli anni Quaranta in una importante collezione
madrilena, quella di Juan Alfonso Enríquez De Cabrera, che era
stato viceré di Napoli dal 1644 al 1646. Tale constatazione, oltre
a dimostrare la sua posizione preminente nell’ambito della prima
natura morta napoletana, ci conferma gli stretti rapporti che il
nostro artista ebbe con altre culture europee. Anche il guardaroba
di Madama Reale a Torino riceve nel 1642 due suoi quadri di
frutti.
E tali influssi reciproci si possono registrare non solo nei
riguardi della Spagna, ma anche verso il nord Europa, patria
riconosciuta del genere, come ci dimostra l’attento esame della
tela Albero di pesche con tulipani e pappagalli, già d’Avalos,
oggi in collezione della Ragione a Napoli, della quale esiste una
replica autografa (senza la presenza degli uccelli), segnalataci
dal Labrot, nella raccolta privata di Paul Getty a Malibu. Il
Forte in questo dipinto utilizza una luce distribuita
irregolarmente ed alleata con la penombra, esaltando così la
rotondità dei frutti, il tutto in un’atmosfera di asciutto dettato
naturalistico, ma soprattutto rappresenta i tulipani, presenti
anche in altre due tele segnalate dalla Gregori, che sono un
soggetto estraneo alla tradizione della natura morta non solo
napoletana ma italiana, un tema viceversa molto frequente in
Olanda, a partire dagli anni Trenta, sotto la spinta del successo
commerciale di questo fiore.
Una
tela che sta facendo tanto discutere e che dimostra lo stato di
grande confusione attribuzionistica che regna oggi negli studi
sulla natura morta napoletana è costituita dalla famigerata
Natura morta con la tuberosa della galleria Corsini di Roma,
che «presenta una struttura compositiva più semplificata, con gli
oggetti raffigurati su un unico piano, su cui la luce si posa
stagliando vividamente le forme sul fondo scuro e definendone il
volume, secondo le modalità tipiche del naturalismo caravaggesco»
(Tecce).
Questa
tela fu considerata dal Causa e dal Volpe il momento iniziale
dell’artista, anche sulla base di un presunto monogramma nel
tralcio di vite e tale parere è stato confermato da tutti i
principali studiosi, fino a quando nel 1990 il De Vito, non
credendo all’esistenza del monogramma e facendosi forza con
argomentazioni scientifiche difficili da seguire per chi non sia
esperto di ottica, ha proposto come autore il nome di Filippo
Napoletano, sulla base di analogie stilistiche con le poche tele
riferite con certezza al pittore attivo presso i Medici dal 1617
al 1621.
Preso all’inizio come poco più che una provocazione, il parere del
De Vito ha in seguito incontrato il consenso di autorevoli
studiosi, quali la Gregori ed i curatori delle mostre tematiche
tenutesi a Roma negli ultimi anni, tra cui Caravaggio e i suoi,
nel corso della quale la tela è stata presentata come di ignoto
pittore romano attivo nel terzo decennio del XVII secolo.
Questa
convergenza di pareri ha fatto sì che lo stesso cartellino del
museo ove la tela è conservata non porti più il nome dell’artista
napoletano.
La
critica attualmente tende ad escludere l’attribuzione sia a Luca
Forte che a Filippo Napoletano, ancora troppo poco conosciuto e,
seguendo quella che fu una proposta avanzata già dallo Sterling
nel 1959, esclude che la tela sia napoletana e la colloca in
ambito romano, in quel particolare momento d’inizio della natura
morta caravaggesca, quando spuntano le figure ancora non ben
definite del Maestro di Hartford, di Bonzi, di Salini, del
Crescenzi e dello sfuggente Maestro della natura morta Acquavella.
Stupefacente è il paragone, proposto da alcuni studiosi, di
affiancare la tela in esame alla Natura morta di frutta su un
tavolo con un’alzatina ed una zucca presentata alla mostra
romana del 1995 sulla natura morta ai tempi del Caravaggio, alla
quale la legano strettamente affinità compositive, stilistiche e
formali e soprattutto l’uso spettacolare della luce che sembra
sgorgare miracolosamente ad illuminare dal buio fiori bianchissimi
e frutti stagliati su un fondo che più nero non si può.
Oggi
gli studiosi, mentre nuove opere siglate o assegnabili per
raffronti stilistici incrementano il catalogo dell’artista,
tendono a distinguere una evoluzione nel cammino del Forte,
cogliendo un momento di trapasso tra la fase più schiettamente
caravaggesca e le esecuzioni successive, che preludono al momento
finale, coincidente con l’esordio sulla scena di Porpora, Giuseppe
Recco e Giovan Battista Ruoppolo, nel quale egli tende a rialzare
la composizione in senso verticale, obliterando la profondità di
campo e smorzando quasi del tutto i secondi piani.
Sulla
scia di Luca Forte va studiato l’operato di tre personalità di
artisti che si ricollegano alla sua severa lezione realistica,
mutuando, anche se in tono minore, la serrata e lucida capacità di
definizione volumetrica.
Si
tratta di un ignoto Monogrammista S.B., di Francesco Antonio
Cicalese e dell’ancora anonimo Maestro della Floridiana.
La
prima figura, il Monogrammista S.B., ancora poco conosciuto
dagli studiosi, è stata diligentemente delineata dal De Vito nel
1990, il quale, espungendo dal catalogo di Luca Forte alcune opere
come Frutta, dolce e uccellini di collezione privata, ha
identificato la sigla S.B. e la data 1655 in due tele conservate
in collezione Lodi, nelle quali vi è la stessa serie di oggetti
che si osserva in altri dipinti, tra cui un dolce ripetuto alla
perfezione tanto da costituire la firma nascosta dell’autore.
Negli
ultimi anni il famigerato dolce e taluni altri particolari
patognomonici dell’artista, quali l’uccellino morto rovesciato
all’indietro sul piano di appoggio oppure un tenero ramoscello
posto ai margini della composizione, sono comparsi in numerose
opere passate sui mercati antiquariali internazionali con le
attribuzioni più disparate, segno evidente della scarsa conoscenza
di quest’ancora misterioso monogrammista, che pensiamo al momento
possa collocarsi cronologicamente tra il V ed il VII decennio, in
area centro italiana e nutrito su testi meridionali da Luca Forte
al Quinsa.
Francesco Antonio Cicalese
è attivo a Napoli intorno alla metà del XVII secolo e di questo
artista minore, ma citato dalle fonti, non possediamo alcun dato
biografico.
Fu il
Causa a pubblicare la sua prima opera, firmata e datata 1657,
Natura morta di frutta e fiori in un paesaggio che
comparve presso la galleria Sant’Anna di Zurigo nel 1954.
In
seguito sono comparsi due ovali in collezione Calogero a Napoli,
firmati per esteso e databili 1642, nei quali palpabile è la
relazione con i quadri di Luca Forte, nel comune trattamento
luministico di derivazione caravaggesca e nella sagomatura del
piano di appoggio.
Negli
ultimi anni della sua attività il pittore si dedicò anche ad altri
generi, come è confermato da una tela raffigurante Sant’Antonio
da Padova in gloria, firmata e datata 1685 e conservata a
Napoli nella chiesa di San Severo alla Sanità.
Modesta è la personalità del Maestro della Floridiana, un
nome di intesa intorno al quale il Causa raggruppò un certo numero
di nature morte legate da consonanze formali e stilistiche; in
particolare tre tele di Frutta esposte a Napoli nel museo
Duca di Martina nella Floridiana da cui il nome del Maestro ed una
nei depositi di Capodimonte. In seguito il Causa segnalò altre due
opere presso il museo civico di Prato e precisò i termini
cronologici della sua attività che protrudevano oltre la metà del
secolo.
La sua
attività, attraverso «una scrittura secca e tagliente sul tipo di
quella praticata dai generisti napoletani più nordicizzati della
fase precedente» mostra notevoli somiglianze con l’ultima
produzione di Luca Forte e qualche assonanza può essere rilevata
anche con quelle poche opere assegnate con certezza
all’altrettanto misterioso Quinsa.
Di
recente la critica ha spostato l'ignoto maestro fuori dell'ambito
napoletano.
La
prova più tangibile dei serrati rapporti di contiguità tra cultura
figurativa spagnola ed il fresco caravaggismo propugnato da Luca
Forte ci è fornito dalla personalità, ancora tutta da definire, di
Giovanni Quinsa, noto per una sola opera, firmata e datata
1641, alla quale la critica ha affiancato per affinità stilistica
alcune altre tele.
Lo
spagnolo è probabilmente attivo a Napoli nel secondo quarto del
secolo come si evince dallo studio delle sue opere, che fanno da
tramite verso il viceregno per esperienze dei suoi conterranei
Blas de Lidesma e Van der Hamen, oltre allo stesso Zurbaran.
Il
Causa riteneva che il Quinsa potesse essere stato l’artefice
dell’introduzione di una specialità che in Spagna ottenne molto
successo: la realizzazione di interni di cucina, i famosi
bodegones, che da noi troveranno un interprete esemplare in
Giovan Battista Recco, al quale il Bologna ha assegnato
definitivamente la nota Dispensa che per alcuni anni la
critica ha reputato dello stesso iberico.
Una personalità quella del Quinsa ancora da esplorare a fondo,
probabilmente cercando le sue tracce nelle antiche collezioni
private spagnole.
A proposito del Forte e della Natura morta con tuberosa
abbiamo citato il nome di Filippo Napoletano, proposto dal
De Vito come autore della tela.
La
figura dell’artista era stata tratteggiata dal Longhi nel 1657 e
tra le sue opere lo studioso aveva citato un Rinfrescatoio,
incluso negli inventarî medicei e del quale si era persa ogni
traccia.
Si
deve al Chiarini il recupero del dipinto dai depositi della
galleria di palazzo Pitti e la ricostruzione dell’itinerario
artistico del pittore che nell’ambito della natura morta lavora
unicamente dal 1617 al 1621, quando è chiamato a Firenze dal
granduca Cosimo II e dal cardinale Carlo de’ Medici.
Oltre
al «Rinfrescatoio», di chiara derivazione dagli esempi di natura
morta caravaggesca, due altri dipinti di genere Due conchiglie,
nei depositi di palazzo Pitti e Due cedri, nel museo
botanico di Firenze, sono il segno tangibile degli interessi
scientifico naturalistici del pittore, sulla scia di un’attenzione
per gli studi dal vero catalizzata dall’operato del medico
Johannes Faber di Bamberga.
Riguardo alla proposta del De Vito di assegnargli la Natura
morta con tuberosa, il parere della critica tende oggi ad
escluderla per la sostanziale estraneità nella resa luministica e
nella raffigurazione del dato reale tra i due dipinti.
Giacomo Recco,
(Napoli 1603 - prima del 1653) considerato dalla critica tra gli
iniziatori della natura morta nella nostra città, ci è noto, più
che per le sue opere, attraverso numerosi documenti d’archivio,
che ci hanno permesso di puntualizzare i suoi dati biografici.
Citato
da don Camillo Tutini tra i fondatori del genere a Napoli, viene
poi ricordato in un manoscritto compilato tra il 1670 ed il ’75,
reperito dal Ceci, come «pittore di fiori, frutti, pesci ed
altro». Il De Dominici lo segnala come padre di Giuseppe. Il Prota
Giurleo reperisce il contratto di matrimonio del 1627, da cui
ricava la data di nascita ed il contratto di discepolato del 1632,
con il quale viene messo a bottega presso Giacomo il quindicenne
Paolo Porpora. Ed infine il Delfino ha pubblicato un documento del
1630, nel quale il Nostro entra in società con uno sconosciuto
pittore, tale Antonio Cimino, con l’intento di esercitare la
compravendita di dipinti e di eseguire «qualsivoglia quadri, et
figure di qualsivoglia sorta ... ad oglio come a fresco».
Pur in
assenza di tele certe e documentate, sulla base di queste poche
notizie e di considerazioni di carattere stilistico, la critica ha
ricostruito un catalogo dell’artista a partire da un «Vaso di
fiori» in collezione Rivet a Parigi, su cui si legge la data 1626
e da una coppia di vasi di fiori in collezione Romano, di cui uno
siglato «G.R.», di impostazione arcaica, tale da non generare
dubbi con la sigla di Giuseppe Recco.
Negli
ultimi anni, ad ulteriore conferma della confusione che regna
sovrana in campo attribuzionistico, sono passati in asta numerose
opere assegnate più o meno forzatamente a Giacomo Recco, che è
così divenuto, da pittore senza quadri, artista di riferimento di
una folla di anonimi autori di dipinti di fiori i più varii, nel
cui ambìto contenitore di fiorante entrano ed escono le tele più
disparate.
Le
opere tradizionalmente attribuite a Giacomo Recco dagli studiosi
più accreditati includono oltre alle tre già riferite il Vaso
con fiori con lo stemma del cardinale Poli, già assegnato a
Giovanni da Udine intorno alla metà del secolo XVI e ricondotto in
ambito seicentesco e napoletano dal Causa, assieme ad altri due
vasi pubblicati dallo Sterling, sempre come opera dell’allievo di
Giulio Romano (sono firmati ... e datati 1538 e 1553!) ed
anch’essi senza dubbio di epoca successiva.
Altro
vaso che presentando caratteri analoghi, è stato da Veca aggiunto
al corpus di Giacomo Recco è il Vaso di fiori con lo stemma
della famiglia Spada.
La
precisa collocazione cronologica di questi vasi è stata possibile
grazie ad un attento studio degli stemmi nobiliari, per i quali
decisivo è stato il contributo fornito da Federico Zeri.
Questa
minuziosità e precisione dei particolari nelle raffigurazioni
delle effigi nobiliari ci mostrano un Giacomo Recco non solo
artista di grande abilità e di profonda cultura, ma anche sapiente
di araldica ed esperto in significati simbolici, oltre che
profondo conoscitore delle esperienze figurative fiamminghe.
Inoltre era probabilmente nella condizione di pittore affermato,
in grado di essere quotato nel giro che conta, così da ricevere
commissioni da importanti cardinali e da nobili famiglie. Tutto
ciò è in pieno contrasto con le condizioni della bottega del Recco
come ci viene prospettata dalla attenta lettura del documento
recentemente scoperto dal Delfino, da cui si evince che vi si
commerciassero quadri di ogni genere e di non grande qualità.
Le
opere raggruppate sotto il nome di Giacomo Recco, pur nell’ipotesi
che la critica cambi completamente le sue valutazioni da un
momento all’altro, presentano una serie di caratteri distintivi
molto particolari, che sono espressione di una personalità
artistica ancora attirata dal repertorio cinquecentesco ricco di
fregi e di decorazioni, poco o nulla toccata dai risultati delle
indagini luministiche e nello stesso tempo fortemente influenzata
dalla leziosità ed artificiosità dei fioranti fiamminghi.
Il
vaso assurge a punto focale della composizione e, riccamente
decorato, ha pari dignità con i fiori, disposti sempre
simmetricamente ed illuminati in maniera innaturale, pur se
definiti minuziosamente nella loro verità ottica, tanto da sfidare
la precisione scientifica di uno Jacopo Ligozzi.
E sono
vasi originalissimi, sfingi bizzarre, maschere leonine che
richiamano antiche borchie. I fiori sono tutti variopinta
espressione del precoce sboccio primaverile: narcisi, giacinti,
calendule, anemoni. Essi sono staccati l’uno dall’altro con alcune
corolle rivolte verso il basso e sono indagati separatamente
anche quando si sovrappongono, affollandosi sul fondo scuro.
L’esecuzione un po’ calligrafica tradisce un’aria antica che ci
rammenta gli esempi anteriori, collegati dalla critica sotto il
nome di un ipotetico Maestro del vaso a grottesche,
operante nell’Italia centro-settentrionale nel primo quarto del
XVII secolo. Il trattamento della luce è classico di un
protocaravaggesco con un’attenzione puntigliosa all’esaltazione
dei valori cromatici dei fiori, che sono disposti in maniera
schematica e si materializzano verso chi guarda il quadro senza
possedere profondità, a tal punto che traggono in inganno l’occhio
dell’osservatore nella foto in bianco e nero, ove, non potendosi
apprezzare il colore, appaiono tristemente bidimensionali.
Le
matrici artistiche e culturali di Giacomo Recco sono difficili da
definire, anche se bisogna considerare la presenza a Napoli
intorno al 1590 di Jan Brueghel e la persistenza in città, come
sottolineato dalla Tecce, di un manipolo agguerrito di tardo
manieristi, attivo fino alla metà del terzo decennio del ’600. Un
notevole influsso derivò senza dubbio dalla fama dilagante per
l’Europa dei fioranti nordici, legati ad un decorativismo ancora
di gusto cinquecentesco, e del tutto digiuni della lezione del
luminismo caravaggesco che cominciava a plasmare la pittura di
genere a Roma. La produzione pittorica che più si avvicina alle
prove del Nostro è quella di Osias Beert il vecchio, come ha più
volte puntualizzato nei suoi saggi il Veca.
La
fama di Giacomo Recco è legata alla sua abilità di fiorante, quasi
uno specialista nella specialità, e aumentò con ogni probabilità
contemporaneamente a quella di Mario Nuzzi detto Mario dei fiori,
a lungo erroneamente ritenuto regnicolo, il cui nome crebbe nei
secoli, mentre il prestigio di Giacomo in poco tempo svanì quasi
nel nulla, per riemergere faticosamente dopo oltre 300 anni di
oblìo.
I
tantissimi inventarî di collezioni napoletane raramente descrivono
opere di Recco senior, quello del Vandeneynden riporta un suo
quadro di frutti di mare e pesci. Altri documenti ricordano
stranamente, uccellami e frutta, pesci ed una figura
rappresentante la pietà, mai un vaso con dei fiori.
Seguendo questa traccia il De Vito, fortunosamente, ha
identificato una tela eseguita in collaborazione e firmata per
esteso: «Artemisia Gentilesca e Giacomo Recco». In questa tela,
oggi ad ubicazione sconosciuta, si possono riconoscere nel brano
di figura rappresentante un bambino biondo i modi pittorici della
grande pittrice con la cura dedicata alle pieghe e «quel delicato
fraseggio dei tocchi chiari e quelli scuri», mentre nella parte di
natura morta risalta il ghiaccio inondato da un «brillío di
cristalli che parrebbero quello della nera antracite, il pane
croccante umido, l’ostrica ancora pulsante nella semivalva» (De
Vito).
In
tema di collaborazioni, un documento in cui Giacomo tiene a
battesimo una figlia di Stanzione ci permette di ipotizzare che
possa essere sua la mano che esegue i numerosi inserti di fiori
che arricchiscono la base di tante composizioni del cavaliere
Massimo e che hanno fatto arrovellare di ipotesi generazioni di
critici.
Il
sasso lanciato dal De Vito, sempre baldanzoso e provocatore, ha
messo in crisi le opere «autografe» di Giacomo Recco, perché non
sufficientemente documentate, essendo prive della firma ed, in
ogni caso, non perfettamente inserite nel contesto storico sociale
dell’epoca in cui vengono collocate. Sotto il fuoco di fila di
queste contestazioni la figura di Giacomo perde sempre più
spessore divenendo poco più che un indefinibile ectoplasma, e
forse dobbiamo constatare che aveva ragione il De Dominici, quando
affermava che la specialità a Napoli raggiunse gloria e
considerazione solo con la generazione successiva, contrassegnata
dalla folgorante apparizione sulla scena di Paolo Porpora.
Nelle
ultime mostre, tra cui quella di Monaco Firenze 2003 e nelle
ultime aste internazionali Giacomo Recco è completamente scomparso
e la sua tanto celebrata attività di fiorante sembra attualmente
confinata unicamente nelle carte dei biografi, mentre si definisce
sempre più l'opera dei cosidetti Maestri dei vasi a grottesche, un
gruppo anonimo di artisti operanti nei primi decenni del Seicento
in diversi centri italiani. Lo stato degli studi sui dipinti di
fiori della fase arcaica è ancora lacunosa ed al momento sono più
i dubbi che le certezze.
In
particolare, ritornando a Giacomo Recco, il corpus di opere che a
partire dagli anni Ottanta, sulla base delle indicazioni del Causa
si era andato costituendo attorno al suo nome, soprattutto dipinti
che presentano il corpo figurato con stemmi gentilizi è stato
spostato da Mina Gregori, in un articolo pubblicato nel 1997,
sulla base di indicazioni inventariali e di dati biografici nel
catalogo di Tommaso Salini.
Con
Paolo Porpora (Napoli 1617 - Roma 1673) entriamo nel pieno
della storia della natura morta a Napoli.
Del
pittore i documenti di archivio ci hanno fornito i dati biografici
più significativi, ma un solo quadro porta la sua firma, per cui
la ricostruzione del suo percorso artistico resta in gran parte
ipotetica.
Egli
appartiene alla seconda generazione di specialisti di natura
morta, come ci conferma l’uso del passato nella descrizione del De
Dominici: «Porpora dipingeva con miglior maniera e più bel
componimento di quel che aveva dipinto Luca Forte». Lo
stesso biografo ci fornisce l’elenco degli oggetti preferiti dal
pittore nelle sue rappresentazioni: «pesci, ostriche, lumache,
buccine ed altre conche marine, ed ancora lucertole, piccioni e
cose da cucina». Come a voler far risaltare quella che fu
l’originale specializzazione del Porpora, un unicum nel multiforme
quadro della pittura di natura morta in Italia: il sottobosco,
quel mondo affascinante e misterioso, dove la vita lotta contro la
morte e del quale il nostro artista si dimostrò profondo
conoscitore, esperto delle «più inconsuete specialità zoologiche
ed entomologiche, l’esaltato cantore di splendidi monumenti
vegetali, il morboso esegeta di rari bestiari e di malsani fremiti
di palude» (Causa).
Il De
Dominici ci riferisce che il Porpora ha frequentato la bottega di
Aniello Falcone, palestra dei naturalisti a passo ridotto,
e tale circostanza ha fatto ipotizzare che fosse lui l’artefice
dei numerosi brani di natura morta che arricchiscono le tele
dell’«oracolo delle battaglie».
Un
contratto di discepolato reperito dal Prota Giurleo lo vede
quindicenne per tre anni allievo di Giacomo Recco, dal quale
probabilmente derivò l’abilità nelle rappresentazioni floreali. Il
matrimonio del Porpora avviene a Roma nel 1654, città dove si
stabilirà definitivamente e lavorerà per circa venti anni, facendo
parte dal 1656 dell’Accademia di San Luca, che nel 1673 gli
pagherà messe di suffragio per la sua anima. Stranamente questo
dettaglio, già segnalato nel 1933 dal Thieme Becker, e ribadito in
anni più recenti da Spike, è sfuggito agli studiosi, i quali in
testi anche autorevoli, come il catalogo della mostra sulla
civiltà del Seicento, continuavano ad indicare vagamente una data
di morte tra il 1670 ed il 1680. La presenza di una sola opera
firmata, un soggetto floreale identificato dal Briganti nella
collezione romana del principe Agostino Chigi e l’assoluta
mancanza di date, non permettono di definire una cronologia del
suo percorso artistico se non in base a criteri stilistici. È
perciò impossibile separare la produzione napoletana giovanile, da
quella romana più matura.
Solo
per le tele di «sottobosco» possiamo ipotizzare che nascano a
Roma, dove sono presenti a metà secolo celebri specialisti
stranieri come Otto Marseus Van Schrieck e Matthias Withoos, i
quali sono insuperati esperti nella rappresentazione di un
microcosmo nascosto nell’oscurità, ove combattono per la
sopravvivenza rane, rospi, serpenti e lucertole, in compagnia di
granchi e conchiglie, farfalle svolazzanti e funghi stanziali in
un brillìo di luci soffuse e di acque stagnanti che esplicano con
magistero impeccabile le loro cupe ed illusionistiche fantasie.
Nei quadri a soggetto floreale il Porpora mostra un’attenzione di
matrice naturalista nella resa luministica dei petali dei fiori,
delle foglie e della frutta, dimostrando la grande fantasia e
l’afflato lirico del caravaggesco di razza, che è in grado di
riprodurre con un rispetto della verità ottica straripanti
costruzioni floreali, che nulla hanno in comune con le successive
fastose e pompose creazioni dei fioranti barocchi.
Gli
effetti cromatici di una corposità quasi tattile tutta partenopea
sono puntigliosamente ricercati senza trascurare una cristallina
definizione dei volumi.
Le sue
composizioni trasudano gioia di vivere e colori vivaci e
rappresentano senza ombra di dubbio uno dei più alti traguardi
raggiunti dalla natura morta italiana, risultato ottenuto in un
contrasto ben dosato di luci squillanti e melanconiche penombre.
I
quadri che la critica ritiene tra i più antichi sono: Fiori,
frutta e zucca e Fiori con coppa di cristallo
entrambi a Capodimonte, eloquente esempio della sua indiscussa
abilità di fiorante, che seppe coniugare sapientemente la
precisione del dato reale con la ricchezza e complessità delle
soluzioni compositive.
Nelle
sue tele i fiori si dispongono ad occupare la gran parte della
superficie disponibile e sono rappresentati con una tavolozza
cromatica esuberante che nelle zone più affollate e disordinate
della composizione fa già presagire quella moda fastosa e barocca
che avrà successo intorno alla metà del secolo.
Il suo
gusto tende a differenziarsi palpabilmente dalla politezza ottica
di un Luca Forte o dalla corposa volumetria di un Maestro di
Palazzo San Gervasio e si inserisce autorevolmente nel novero dei
più aggiornati specialisti del genere europei.
Di
recente (De Vito 1999) al Porpora è stato attribuito un gruppo di
quadri di soggetto marino, che andrebbe a riempire il vuoto
temporale precedente la sua partenza per Roma e sarebbe in
sintonia con una produzione ancora ignota, ma ricordata dalle
fonti, del suo maestro Giacomo Recco quale esecutore di dipinti
con pesci e conchiglie.
Giunto
a Roma, il Porpora, risulta presente nell'Accademia di San Luca
dal 1655 al 1670 ed accede nella Congregazione dei virtuosi del
Pantheon nel 1666.
Nella
città eterna gareggia alla pari come fiorante con la fama di Mario
Nuzzi, il famoso Mario dei fiori, dando luogo a composizioni
caratterizzate da un gusto già barocco, senza però rinunciare ad
una ferma precisione realistica degli oggetti rappresentati.
Nel
campo del sottobosco supera, per vivacità di rappresentazione e
cura del dettaglio naturalistico, i più affermati specialisti
nordici e centro europei.
Il
sottobosco, misterioso ed affascinante, è un soggetto molto
richiesto e raffigurato nei paesi di lingua tedesca, ove grande
successo incontrano scene di lotta per la sopravvivenza che si
consumano silenziosamente ed ineluttabilmente nella eterna
penombra di alberi secolari vicino a ruscelletti e stagni
brulicanti di vita primordiale. È un mondo animale, ritratto con
precisione naturalista, impegnato in attività banali, che nel
simbolismo nordico diventano prodigiose metafore della eterna
lotta tra il bene ed il male, e talune volte tendono ad incarnare
i solenni misteri della fede cristiana.
Nelle
tele del Porpora questi profondi simbolismi sono trascurati o
affiorano di sfuggita, perché estranei al gusto della committenza
italiana e napoletana in particolare, senza dimenticare che i
clienti del nostro artista probabilmente continuarono ad essere in
larga misura della città natale.
È un sottobosco cupo quello rappresentato, un intreccio di radici
legnose e di alberi cavi, avvolti da un tappeto di muschio, mentre
a terra ciottoli e funghi altezzosi, che, come sottolineò il
Bottari, giganteggiano come monumenti. L’atmosfera è ravvivata
dalla presenza di fiori luminosi che sembrano emanare una luce
abbagliante, che fa da contrasto, con il suo messaggio di
vitalità, allo statico mondo delle piante, dei minerali, delle
crittogame.
La sua
flora e la sua fauna vogliono esaltare le meraviglie della natura,
che si possono cogliere anche in un piccolo recesso senza dare
conto, a differenza degli artisti nordici, dell’eterna lotta
simbolica che si svolge ogni momento tra principî metafisici
contrapposti: il bene e il male.
La
vivacità di questi sottoboschi è strettamente legata all’abilità
del Porpora nel modulare armoniosamente la sua tastiera cromatica,
con la forza della intelligenza visiva e lo splendore della veste
pittorica che gli permettono, con eguale verità di
rappresentazione, di ritrarre fiori allo sboccio e foglie
avvizzite, ricorrendo ad una straordinaria varietà di gradazioni
di colore. Le composizioni sono immerse quasi sempre in una luce
vespertina che produce intensi bagliori e consente di apprezzare
in egual misura sia la trasparenza delle ali degli insetti che
l’umida e ripugnante viscidità della pelle della tartaruga.
Scopritore del Porpora fu il Causa e come sempre è alla sua penna
che si debbono le descrizioni più poetiche dei suoi mirabolanti
sottoboschi: «emozioni sempre più morbose da racconto nero nel
mondo della storia naturale ... piacevolissime crudeltà di
ranocchie inferocite che ingoiano farfalle prese al volo, serpi
viscide che fischiano sotto le frasche, quelle sue fantasie tra
notturnali e canicolari di calabroni e coccinelle, quagliotti
insidiati dalle volpi e rospi a convegno in foreste di funghi
pietrificati».
Negli
ultimi anni della sua attività il Porpora, immerso in un ambiente
figurativo come quello romano, denso di stimoli culturali, fu
influenzato dalla moda tutta nordica, importata da Flanders e
Daniel Seghers, di eseguire ghirlande incornicianti volti di
vergini e santi. Nacquero così le sue ultime composizioni, quel
fragoroso diluvio vegetale sul frammento di un sarcofago antico,
che possiamo ammirare nel quadro di Fiori e frutta del
museo di Valence, apice spettacolare della sua lunga carriera
artistica.
Porpora, come abbiamo visto, nel campo del sottobosco assume una
posizione di monopolio con la sola eccezione, in campo napoletano,
di un valente imitatore, Paolo Cattamara, la cui figura è
stata ricostruita dal Causa, il quale ha distinto un «Paoluccio
napolitano» ed un «Paoluccio dei fiori», come era soprannominato
il Porpora ed assegna al primo sia la tela Funghi, farfalle e
quaglia del museo di Strasburgo che i due quadri della
galleria Pallavicini, dati in precedenza al Porpora da Federico
Zeri.
Il
Cattamara era stato menzionato dall’Orlandi nel suo Abecedario
pittorico del 1733: «Paoluccio Cattamara napolitano, valente
in dipingere serpi, e rappresentare egregiamente in palco ogni
personaggio». La notizia fu ripresa dal Lanzi e dal Rolfs, con
l’unica aggiunta che l’artista morisse alcuni anni prima del
Porpora.
Le
opere assegnate al Cattamara, in particolare le due della galleria
Pallavicini, Gatto, serpenti e conigli e Volpe,
tartarughe e quaglie, vengono declassate in base al
riscontro di uno scadimento di qualità rispetto all’analoga
produzione del Porpora sempre di livello molto alto.
Di
recente la Tecce ha segnalato un ulteriore quadro, Fiori,
lumache e farfalle, dai caratteri stilistici molto vicini a
quelli delle opere del Cattamara, il cui catalogo giunge così a
contenere quattro tele.
Giovan Battista Recco (attivo a Napoli
intorno alla metà del XVII secolo) è una personalità artistica di
grande prestigio, solo da pochi anni restituita alla storia
dell’arte, alla quale era completamente ignoto, essendo
sconosciuto allo stesso De Dominici. Egli è riemerso grazie agli
studi del Di Carpegna, del Bottari e del De Logu, che hanno
identificato alcune sue opere firmate e datate, circostanza che ha
permesso di assegnargli altresì anche alcune tele con identici
caratteri stilistici, siglate GBR, che precedentemente erano
attribuite a Giovan Battista Ruoppolo.
Giovan
Battista Recco, come si evince dalle date poste su due suoi
quadri, 1653 e 1654, è particolarmente attivo alla metà del
secolo, in un momento veramente felice per il genere a Napoli, per
le personalità artistiche che si moltiplicano in esperienze le più
diverse, pur nella sostanziale aria di famiglia che
accomuna il lavoro dei molti pittori.
Il De
Dominici parlava di una sfida tra le due figure più in vista,
Giovan Battista Ruoppolo, specialista nel ritrarre frutta e
Giuseppe Recco, abile nel raffigurare pesci.
Ma un’altra specializzazione cominciò a delinearsi, quella delle
dispense e delle cucine, sull’onda del successo che in Spagna
ottennero i bodegònes e da lì si diffusero anche negli
altri territori del vicereame.
Il
bodegòn replica un angolo della cucina ove sono collocati i cibi
in maniera inusuale: dalle prime esperienze di Cotàn e di Van der
Hamen, si giunge ai capolavori del giovane Velàzquez, che dà il
meglio di sé in queste realizzazioni, dichiarando pubblicamente,
addirittura, che egli preferiva «essere il primo nel quotidiano
piuttosto che il secondo nel sublime».
Sotto
il profilo storico bisogna ricordare che la regione meridionale
dei Paesi bassi, dove nasce la pittura di cucina, era
rimasta sotto il dominio degli Asburgo e di conseguenza da lì si
propagò una sensibile influenza sui pittori spagnoli ed
indirettamente sugli artisti attivi nel vicereame.
Nel
panorama della natura morta napoletana all’improvviso alla
«tuberosa che squarcia le tenebre col suo candore o alla rosa
delicatamente accartocciata nell’ombra» si sostituiscono «la
cipolla, il tacchino spennato, la lombata di vitello ancora
sanguinolenta ... le grandi tavole di pescherie, ricche d’ogni più
rara preda di mare, che possa fare il vanto delle mense più
raffinate» (Causa).
Questo
nuovo tipo di pittura si manifesta attraverso l’opera di Giovan
Battista Recco, il famoso Titta Recco degli antichi inventarî, il
quale, in possesso di prodigiosi mezzi espressivi e forte di
notevoli riferimenti culturali, è in grado di fornirci, con una
prosa schietta ed incisiva, una serie di austere rappresentazioni
di oggetti ed utensili della vita quotidiana, piatti di ceramica
dai bordi consunti ed il repertorio più crudo e ricercato della
macelleria minutamente indagati nella loro realtà materiale, pur
nel filtro di una vena narrativa che nulla ha da invidiare alle
realizzazioni più felici del Ribera.
Le sue
tele trasudano abbondanza e sontuosità, sono colme di ogni ben
di Dio, meta dei sogni di un popolo sempre affamato, come
quello napoletano e nello stesso tempo segno distintivo di
notevole prestigio sociale, lirica dell’appetito più che affettata
prosopea di cacciagione ricercata da palati raffinati. Pare quasi
che nei suoi quadri egli intenda trasferire più che gli
inafferabili desideri culinari di una plebe sottonutrita, le
doviziose descrizioni di lauti banchetti, che in letteratura
trovano una coeva trasposizione nella «Tabernaria» di Giovan
Battista della Porta.
Le
notizie antiche su Giovan Battista Recco sono poche: una citazione
nell’inventario della collezione del principe Ruffo del 1656,
nella quale figurano due suoi quadri di frutta e la descrizione di
una sua tela nella collezione Vandeneynden, il cui inventario con
le relative attribuzioni fu redatto nel 1688 da Luca Giordano, che
diede conto del soggetto rappresentato da Titta Recco: «robbe di
cucina e robbe di dispensa con una gatta che tira il collo a un
airone», iconografia singolare, ma del quadro ancora nessuna
traccia.
Le sue date di nascita e di morte sono il frutto di mere
supposizioni: 1613? 1660?, sono gli anni proposti dalla critica
sulla base di considerazioni stilistiche, ma riteniamo che al
momento, in attesa di dati documentarî più probanti, il pittore
debba essere unicamente considerato attivo intorno alla metà del
secolo XVII.
Anche
i rapporti di parentela con gli altri Recco più famosi, Giacomo e
Giuseppe, sono semplicemente ipotetici. Oggi sulla base
dell’accertamento di una cultura più antica si tende a supporre
che possa essere un fratello di Giacomo e di conseguenza zio di
Giuseppe.
Molto
accentuata nella sua produzione la tangenza con la cultura iberica
ed in particolare con alcuni artisti come Alejandro de Loarte,
Juan Van der Hamen e gli stessi Zurbaran e Velàzquez.Queste
spiccate affinità stilistiche hanno fatto ipotizzare un soggiorno,
anche se non documentato, di Giovan Battista Recco in Spagna. In
alternativa è possibile presumere che circolassero, nelle grandi
collezioni napoletane, quadri di natura morta dei grandi
specialisti spagnoli come Sanchèz Cotàn e Blas de Ledesma. Un
altro tramite è costituito dalla stessa presenza a Napoli di
pittori iberici come Quinsa, la cui personalità sta lentamente
venendo alla luce, o l’ancora misterioso ed ineffabile
Francisco Herrera «El mozo» (1622 - 85) soprannominato
Herrera dei pesci, il quale è documentato nella nostra città
per un discepolato tra il 1645 ed il 1656 e le cui opere sono
ancora da identificare.
Influssi su Giovan Battista vennero anche dalla pittura fiamminga
e da Jan Fyt, dal quale introdusse per primo a Napoli il tema
della caccia.
Le
opere firmate di «Titta» sono oramai abbastanza per rendersi conto
del suo stile, mentre le tele datate si limitano agli anni 1653 e
1654.Sono quadri già di grandissima qualità che fanno presagire un
artista al culmine della sua attività, per cui la sua data di
nascita più probabile va spostata intorno al 1615 - 20. Essi
mettono in evidenza un naturalismo aggressivo e spigoloso,
rispetto allo stile di un Luca Forte o di un ancora arcaico
Maestro di Palazzo San Gervasio, e suggestivamente richiamano i
brividi pittoricistici e le violenze espressive dell’ultimo Ribera.
Tra i
suoi quadri certi, i Pesci di collezione Mendola a Catania
del 1653 e la Dispensa, già in collezione Rappini del 1654,
permettono di datare cronologicamente in contiguità il quadro del
museo di Stoccolma, siglato soltanto e precedentemente assegnato a
Giovan Battista Ruoppolo, rappresentante Pesci e ostriche con
un piatto.
Un’altra sua opera di grande monumentalità è il Pesci e
ostriche del museo di Besançon.
Ancora aperta è la discussione tra i critici a riguardo delle due
Nature morte con testa di caprone del museo di
Capodimonte, generalmente considerate autografe, anche se tra le
due tele, per i diversi caratteri stilistici, è opportuno lasciare
un intervallo di circa 10 - 15 anni tra le due stesure, essendo la
prima, già in collezione Lombardo di Cumia, vigorosamente
impregnata di naturalismo a tal punto da poterla considerare
eseguita dallo stesso Ribera, e la seconda, già nella raccolta
Baratti, priva della carica di drammaticità con la testa del
caprone non più punto focale della scena ma elemento secondario
del contesto, pur in una resa complessiva di altissimo livello.
La
tela ritenuta più antica è di una truculenza unica nel panorama
della natura morta napoletana ed il contrasto tra il cesto di uova
e la testa mozza del caprone è di rarissima efficacia,
raggiungendo una delle vette più alte della nostra pittura di
genere. «Il tavolo da cucina con la testa di caprone scannato
sanguinolenta, pateticamente mansueta, un dramma indimenticabile,
chè par quasi Ribera vecchio applicatosi a translar nel campo del
genere le sue malinconie senza speranza» (Causa).
All’attività di Giovan Battista Recco va collegata la produzione
di alcuni autori ancora anonimi, tra i quali segnaliamo il
Monogrammista I.A. presente a Napoli poco dopo la metà del
secolo intorno al 6° - 7° decennio, del quale si conoscono
soltanto due opere certe, in collezione Spark a New York,
raffiguranti una Cucina e dei Pesci.
Presentate alla mostra di Sarasota del 1961 ed assegnate ad un
ipotetico artista orbitante tra l’Italia settentrionale e la
produzione spagnola facente capo a Francisco Herrera, sono state
ricondotte dal Causa alla scuola napoletana «inequivocabilmente e
di sola formazione locale».
In
anni successivi il Bologna ha cercato di ricostruire l’attività
dell’artista al quale ha aggiunto il grandioso Interno di
dispensa della Galleria di Palermo, generalmente ritenuto di
Giovan Battista Recco.
Generista di lusso è da considerare viceversa Salvator Rosa
(Napoli 1615 - Roma 1673), paesaggista e battaglista celeberrimo,
dedito talune volte alla produzione di Vanitas, con tele
impregnate di sottili implicazioni filosofiche e morali.
Egli
vive quasi sempre lontano da Napoli, anche se ne porta il ricordo
nella sua pittura, risiedendo prima a Roma e poi a Firenze, quindi
di nuovo nella città eterna a partire dal 1650.
La
prima tela di Salvator Rosa collegabile al genere della natura
morta fu pubblicata nel 1963 dall’Oertel: si tratta di una
Caducità dell’arte, firmata, della Gemaldegalerie di Monaco,
che venne poi esposta anche alla mostra di Napoli del 1964. In
seguito un quadro venne presentato dal Salerno e successivamente
anche il Veca, dissertando sul tema della Vanitas, ritenne
che alcuni esemplari potessero essere collocati in area
napoletana.
Come
capita anche per altri autori, Salvator Rosa, nell’ambito di un
quadro rappresentante Democrito in meditazione, oggi al
museo di Copenaghen, esegue un cospicuo inserto di natura morta:
teschi di animali ed anfore nel margine inferiore.
A
cavallo degli anni Cinquanta è attivo a Napoli un altro minore,
Carlo Martusciello, poco più che un Carneade, ricordato
in due inventarî, rintracciati dal Delfino, nel 1641 e nel 1651.
La
cifra di stima delle sue tele è relativamente modesta, 6 ducati
nel primo documento, ma dopo 10 anni sale a ben 115 ducati, una
valutazione di un artista ben quotato.
Un inventario del 1689 di Carlo Antonio del Pozzo cita un quadro
di natura morta di un certo Carlo Napoletano, probabilmente
il nostro artista. È merito del De Vito la prima proposta
attributiva per Carlo Martusciello ritenendo possa essere sua la
tela Crostacei ed altri pesci conservata nella pinacoteca
D’Errico di Matera, nella quale è presente la sigla C.M. su di un
foglio che fuoriesce da un cassetto aperto.
La
sigla era stata in passato interpretata dal Galante per Carlo
Moscatiello, sconosciuto artista del Settecento citato nel Thieme
Becker come quadraturista, mentre è chiaramente visibile che
«l’esecuzione del dipinto rinvia a schemi nordicizzanti
attualizzati da soggetti della fauna marina meridionale,
proponibili, in quella forma, fra la quarta e la quinta decade del
’600» (De Vito).
Il
1656, l’anno fatidico della peste, fu fatale a Napoli per
un’intera generazione di artisti, che venne falcidiata dal morbo;
stranamente gli specialisti di natura morta superarono quasi tutti
indenni questo evento luttuoso e continuarono a lavorare con
identica lena senza particolari sussulti.
È dopo
la metà del secolo che compare prepotentemente alla ribalta
Giuseppe Recco (Napoli 1634 - Alicante 1695) la personalità
più importante nel panorama della natura morta napoletana.
Egli
fa parte di una grande dinastia di specialisti: suo padre Giacomo,
tra i fondatori del genere, suo zio Giovan Battista,
irrangiungibile nei suoi caratteristici soggetti di cucina e
selvaggina, i figli Elena e Nicola Maria, che seguiranno
degnamente le orme paterne.
A
differenza degli artisti del settore, Giuseppe Recco spazia con
abilità e padronanza tutti i soggetti, dai fiori ai pesci, dagli
interni di cucina alla frutta senza contare un lungo periodo della
sua attività in cui ritrae senza problemi squisiti dolciumi e
preziosi broccati, vetri e tappeti, strumenti musicali e vasi
antichi, maioliche e preziosi ricami, con una tale abilità da
provocare, secondo lo spiritoso racconto del De Dominici un aborto
per la «voglia» ad una donna gravida incantata alla vista dei suoi
dolciumi su una tela, riprodotti con tale perfezione da parer
veri; né più né meno che un moderno caso di «ekphrasis», cioè di
frutta dipinta così bene, che gli uccelli si mettono a svolazzare
sul quadro tentando di beccarla.
Il suo
spessore culturale è poderoso ed i suoi riferimenti spaziano dalla
pittura romana alla lombarda, dalla spagnola alla nordica. «Tutto
il repertorio sperimentato dai maestri che lo hanno preceduto
ritorna nella sfera ombrosa e scintillante della qualità visiva di
Giuseppe: i fiori del padre Giacomo e la frutta di Luca Forte e
del Maestro del Palazzo San Gervasio, ma forse soprattutto la luce
cruda e macilenta e lo spessore vitale della verità di Giovan
Battista Recco rifioriscono con un furore tumultuoso ed incessante
nell’immaginazione di Giuseppe» (Volpe).
A
lungo la critica ha contrapposto la sua figura a quella di Giovan
Battista Ruoppolo, ritenendo l’uno specialista di pesci, l’altro
di frutta, ma il progredire degli studi ha mostrato tutti i limiti
di questa sterile dicotomia e ci ha restituito un artista
parimenti abile in tutti i settori della natura morta.
La
culla come apprendista di Giuseppe è presumibilmente nell’alveo
della tradizione familiare, ove gli era agevole ammirare il gran
bouquet luminoso di vaga ascendenza nordica del padre Giacomo,
respirare aria di sughi prelibati cotti in antichi tegami di
coccio nelle cucine dello zio Giovan Battista, senza però
trascurare di osservare attentamente le grandi esplosioni luminose
ed incontrollate di Paolo Porpora.
Il De
Dominici gli assegna giovanissimo un viaggio in Lombardia al
seguito del padre, ove avrebbe fatto la conoscenza della originale
pittura del Baschenis, direttamente o tramite il Bettera.
Una
serie d’elementi sui quali ritorneremo, quando parleremo del suo
titolo di cavaliere e della sua pittura di sapore lombardo, fanno
escludere l’ipotesi di questo viaggio. I suoi esordi sono
viceversa nel segno di un rispetto assoluto del dato naturale di
ascendenza caravaggesca, pur in un contesto culturale come quello
napoletano che si avviava a cedere completamente alle novità del
Barocco, portate al trionfo dal genio travolgente di Luca
Giordano.
Egli
combatterà quasi da solo con grande dignità, novello don
Chisciotte contro i mulini a vento. Egli «respinge l’addolcimento
del tonalismo, lo sgranarsi dorato delle superfici, il giuoco
della vibrazione cromatica dell’insieme, vorrà farsi l’araldo di
un richiamo all’ordine, contro questa dissoluzione dei tempi
moderni, questa pittura che gli appariva facile, rapida, sciatta,
così distante dagli eroici modelli di tanti illustri predecessori»
(Causa).
Solo negli ultimi anni dovrà cedere ad un mercato ove il gusto dei
committenti influenza le richieste agli artisti, che non possono
che adeguarsi. Collaborerà in alcune composizioni con lo stesso
Luca Giordano e cederà alla moda delle scenografiche cascate di
frutta e di fiori o alle confuse mescolanze di pesci, frutta ed
oggetti musicali, anche se si tratterà di un adeguamento formale
che lascerà salda la forza del suo dettato: «trasalimenti di sogno
nel rapido infrangersi della luce sulle squame dei pesci, indugio
vermeriano di chiarori arrossati che infocano la tornitura
martellata dei rami, iridate evanescenze della pelle della frutta,
felpata, lucida, pelosa, ispida, tenera, che già ne senti l’aroma
asprigno o zuccherino, decadente abbandono crepuscolare
nell’indagine delle superfici, fonte di innumerevoli emozioni»
(Causa).
Giuseppe Recco, caso più unico che raro, fin dall’inizio della sua
attività ebbe l’abitudine di firmare o siglare e spesso anche
datare i suoi quadri; di conseguenza il suo cammino artistico è
percorribile agevolmente dagli studiosi. Qualche incertezza
attributiva è derivata soltanto per l’uso della sigla «G.R.», in
comune col padre Giacomo e con Giuseppe Ruoppolo, ma
fortunatamente egli usò più sigle nel corso delle sue opere
datate, che coprono un periodo che va dal 1664 al 1691. Egli
all’inizio adopera quasi sempre la firma per esteso Gio o Gios.
Recco, poi nell’ottavo decennio G. Recco o il monogramma G.R.,
soltanto dal 1683 al 1691 compare il titolo E Q S Recco, cioè il
titolo di cavaliere. Tale titolo nobiliare secondo il De Dominici
gli viene assegnato nel 1667 ed è quello di Caballero di
Calatrava.
I
puntigliosi studi del Perez Sanchez hanno escluso che si potesse
trattare di quel cavalierato perché esso veniva assegnato
esclusivamente ai nobili. In anni più recenti il De Vito ha
proseguito con impegno queste ricerche sia in Italia che in
Spagna, le quali pur non avendo fornito una risposta definitiva,
hanno finito per creare quasi un giallo con clima di suspense,
perché in alcuni documenti reperiti il Giuseppe Recco cavaliere
risulta figlio non di Giacomo ma di un certo Guglielmo.Con tutta
probabilità sono esistiti nello stesso periodo due Giuseppe Recco
e lo stesso De Dominici è rimasto ingannato dall’omonimia, che gli
ha fatto raccontare assieme episodi spettanti ai due diversi
personaggi, come ad esempio il viaggio in Lombardia del Recco che
realmente ottiene nel 1667 il cavalierato di Calatrava, come
conferma il reperimento di un documento dell’archivio storico di
Madrid.
Il
Giuseppe Recco pittore se non fu, come sembra oramai acclarato,
caballero di Calatrava, fu senza dubbio cavaliere, come
testimoniano le numerose firme sui suoi quadri degli ultimi anni,
precedute inequivocabilmente dall’appellativo di «Eques».
L’ipotesi più probabile è che possa trattarsi di un titolo dato
dalla Chiesa che prevedeva la possibilità di conferirlo agli
artisti, ed antecedenti illustri a Napoli sono costituiti da
Giovan Battista Caracciolo, Massimo Stanzione e Giuseppe Ribera.
Il
percorso artistico ufficiale di Giuseppe Recco è scandito da una
serie di opere firmate dal 1664 al 1691, essendo stato post datato
il Bodegòn con un negro e strumenti musicali della
collezione Medinacoeli a Madrid, la cui data sembrava fosse 1659,
ma ad una più attenta lettura, in occasione di una mostra, è
risultata essere 1679.
Negli ultimi tre
decenni del secolo Giuseppe Recco è il protagonista
assoluto della pittura di natura morta a Napoli, dove rinnova
completamente il genere introducendo nuove tematiche e
collaborando con i più importanti pittori di figura a partire da
Luca Giordano. Alla fine della sua carriera è talmente celebre da
essere chiamato alla corte spagnola di Carlo II.
Del
1664 è il Bodegòn con rami e pesci della collezione Moret,
un tempo attribuito a Giovan Battista Recco. Esso mostra affinità
verso i modi pittorici di autori iberici quali il Pereda ed il
Cerezo ed è la lampante testimonianza di movimenti culturali
sull’asse Italia-Spagna e viceversa; la luce viene modulata
secondo lo schema ombra luce penombra del tutto sovrapponibile
agli esiti del Battistello della fase più antica.
Del
1666 è il Paesaggio con pesci ed una barca, di collezione
privata napoletana, che, presentato alla grande mostra di Firenze
del 1922 sulla pittura italiana del ’600, dopo un quarantennio di
«latitanza» ad ubicazione sconosciuta è ritornato all’attenzione
degli studiosi nel 1964 in occasione della rassegna di Napoli
sulla natura morta.
In
questa tela di grandi dimensioni un elemento di pregnante novità è
costituito dal potente ritmo narrativo che dall’esame del
dettaglio si allarga ad una più ampia visione d’insieme,
potenziata dallo spazio dedicato allo squarcio paesaggistico. La
luce ancora pienamente caravaggesca nel cielo mette in risalto il
rosso fuoco delle ore vespertine.
Nel
1668 la grande composizione Natura morta di pesci con pescatore
di collezione Pagano in Napoli rappresenta uno dei risultati più
brillanti raggiunti dal Recco ed un traguardo importante per tutta
la pittura di genere a Napoli. All’opera collabora il Giordano,
che comparirà anche in altri importanti dipinti successivi.
Del
1672 è una tela non finita anche se importantissima nel percorso
artistico del Recco, la Natura morta con fiori, frutta e
uccelli dei depositi del museo di Capodimonte, di eccezionale
interesse filologico proprio per la sua incompiutezza:
ricercatissima in alcune parti e semplicemente abbozzata in altre.
Del
1674 sono i Pesci di collezione Gaudioso a Catania.
Del
1675 la celebre Dispensa dell’Accademia di Vienna, alla
quale si riferiscono anche altre tele, come la Cucina della
collezione Pagano di Napoli; tutti dipinti ispirati allo stile
dello zio Giovan Battista, un referente omaggio postumo alla
memoria ed alla genialità del pittore più antico.
Questo
gruppo di cucine non opulente ci trasmette un genuino odore di
salse ed intingoli vari cotti a fuoco lento su vecchi tegami e ci
fa tornare indietro nel tempo in quei grandi ambienti dove si
preparavano sontuosi ed interminabili banchetti per i nuovi
ricchi, i quali costituivano anche i principali committenti per
questi nuovi soggetti, che non troviamo mai negli inventarî
antichi della nobiltà di sangue né a Napoli né in Spagna, per una
precisa discriminante ideologica. I destinatarî di queste
iconografie erano una nuova classe di collezionisti, sia nobili
che mercanti: la nascente categoria borghese sorta sulle ceneri
della rivoluzione di Masaniello e della peste.
Nel
1676 I cinque sensi di collezione privata a Bergamo; quindi
nel 1680 l’importante tela del museo di Pesaro, in cui compare il
titolo «EQS R».
Nel
1683 un’importante committenza straniera, per il V Earl di Exeter
che, per la sua III George room, dove ancora oggi si trovano,
ordina al Recco due pendant di soggetto floreale, nei quali
l’artista manifesterà i primi cedimenti alla magniloquenza del
barocco internazionale.
L’ultima fatica documentata è del 1691, data di esecuzione dei
Pesci conservati a Firenze agli Uffizi.
Riguardo l’iconografia delle opere di Giuseppe Recco, che come
abbiamo visto non esclude alcun soggetto, bisogna fare alcune
riflessioni.
Si è a
lungo parlato di Giuseppe Recco specialista di pesci, insuperato
cantore di egloghe marinare, di speranze di facile sostentamento
in una città privilegiata dalla natura. E proverbiale è la sua
predilezione per i crostacei dalla veste verrucosa ed aspra, per i
quali si presta a meraviglia il suo tocco spiritoso, tutto
sprizzante riflessi, che lo fa subito riconoscere.
I
pesci e gli altri frutti di mare fanno parte inscindibilmente
della vita di ogni giorno del napoletano, sia esso povero o ricco
e costituiscono per la varietà di specie e la vivacità di colori
una palestra inesauribile per un’artista attento a ritrarre il
dato naturale e «le sottili vibrazioni di luci, il cangiar di toni
con anticipato sentire romantico, popolando di cose reali gli
spazi dell’ombra» (De Vito).
Le
marine ritratte dal Recco con vivacità e dovizia di particolari
sono piene delle più varie specie di abitatori del mare:
tartarughe, granchi, seppie e calamari, pesci di ogni colore e
dimensione ancora vivi, guizzanti, lucidi, grondanti acqua,
frammisti a tralci di corallo e ad alghe nere come la pece,
spaselle di pescatori ed attrezzi per la pesca; il tutto
ambientato con un accorto equilibrio tra oggetti rappresentati e
paesaggio, attraverso scorci di panorama che hanno la delicata
funzione di modulare i riflessi della luce, che, graduata da una
delicata tastiera cromatica, ci fa percepire le più sottili
vibrazioni della materia.
Un
altro delicato ed ampiamente dibattuto problema iconografico nella
pittura di Giuseppe Recco è costituito da quel gruppo di tele di
argomento poco napoletano costituito da: I cinque sensi,
firmato e datato 1676, in collezione Lorenzelli a Bergamo, la
Natura morta con collezione di vetri del museo Narodowe di
Varsavia, la Natura morta con vetri, dolciumi, fiori e
pesci in collezione Romano, la Natura morta con pane,
biscotti e fiori della collezione Banco di Napoli oggi al
museo Pignatelli e quella simile del museo di Pesaro, la Natura
morta con maschere e strumenti musicali del museo Boymans -
van Beuningen cui va collegata la tela con Tappeto, canditi,
fiori e cesto di frutta della collezione Molinari
Pradelli ed infine il Bodegòn con negro della collezione
Medinacoeli di Madrid.
Questo
nutrito gruppo di tele, alcune di altissima fattura, è stato
realizzato tra il 1675 ed il
1680, in
anni ben lontani dall’ipotetico viaggio in Lombardia narrato dal
De Dominici, dove il giovane Recco avrebbe preso contatto con gli
esempi del Baschenis e del Bettera, nelle cui opere tappeti
raffinati ed elaborati strumenti musicali sono la regola. Esse
sono viceversa opere della piena maturità ed i referenti culturali
debbono necessariamente essere diversi. Da un lato si può pensare
allo stimolo di Francesco Fieravino detto il Maltese ed anche di
Meiffren Conte, la cui presenza a Roma è documentata per alcuni
anni.
Naturalmente non bisogna escludere la possibilità che i tanti
imitatori del Baschenis di prima e seconda battuta abbiano
collaborato a prolungare l’ombra del maestro bergamasco fino a
Napoli, con il suo patrimonio di «chicche e dolcetti incipriati di
zucchero, grevi tendoni scenografici e tappeti dal pelo morbido e
rilucente, e poi cassette, cofanetti, mandole, liuti, pifferi,
flauti, dolci, partiture squinternate, specchiere, argenti
preziosi e cannocchiali» (Causa).
Esaminando questa serie di oggetti, rari a riscontrarsi nella
natura morta napoletana, non bisogna dimenticare che rari non
erano nell’ambiente aristocratico castigliano e ben conosciamo gli
scambi e le influenze reciproche che sono intercorse tra la Spagna
e Napoli.
Come
già sottolineato dal Perez Sanchez in occasione della mostra a
Madrid sulla pittura napoletana, i committenti aristocratici
spagnoli amavano l’esposizione di tanti vetri preziosi, ceramiche
e vasi antichi, per fare da specchio alle proprie raffinate
collezioni di cose preziose. Se esaminiamo la tela del museo di
Varsavia, di eccezionale fattura, rimaniamo incantati dalla
circostanza che, al fianco della spettacolare coppa di fiori, fa
bella mostra di sé una fantastica esposizione di vetri dipinti,
cristalli di Murano, manufatti catalani e façon de Venise.
In
campo floreale, dopo gli influssi nella prima fase del Porpora e
del padre Giacomo, nella piena maturità il Recco prende
ispirazione anche dai variopinti esempi di fiori del francese
Monnoyer, indiscusso mattatore della specialità oltralpe, o del
più antico Nicolas Baudesson, con il quale spesso viene ancora
oggi confuso nelle grandi aste internazionali.
Negli
ultimi decenni della sua attività il Recco, in una fase della
pittura napoletana tutta tesa al barocco e dominata dalla
prorompente personalità di Luca Giordano, cambiò parzialmente
registro avvicinandosi a quelle esperienze figurative tendenti al
decorativismo fastoso, che svolgono una funzione trainante su
tutto l’ambiente artistico, sul quale esercitava il suo influsso
anche il fiammingo Abraham Brueghel, presente in città in quegli
anni.
Il
Recco partecipa alle periodiche celebrazioni della festa dei
Quattro Altari, patrocinate ogni anno dal vicerè marchese del
Carpio e con la regia dell’onnipresente Luca Giordano. In queste
feste vengono eseguite tele di grandissime dimensioni, che vedono
all’opera i più grandi pittori di natura morta collaborare a più
mani con specialisti di figura. Sono quadroni di spregiudicato
taglio compositivo e di grande ricchezza cromatica che stupiscono
la grande folla accorsa ad ammirarli.
Al culmine del successo ed oramai anziano, Giuseppe Recco venne
invitato dal re Carlo II in Spagna, ove si recò in compagnia della
figlia Elena. Il Lanzi, famoso biografo, lo riteneva «de’ primi
d’Italia nelle cacciagioni, negli uccellami, nei pesci e in simili
rappresentazioni». Morì ad Alicante nel 1695 lasciando due
originali e modeste tele di argomento sacro conservate in
collezione Arenaza a Malaga: una Morte di San Giuseppe ed
una Assunzione della Vergine.
Una
committenza importante cui non ci si poteva negare o un modo per
salvare l’anima ad un antico cavaliere?
Giuseppe Recco dopo aver dominato per decenni la scena della
pittura di genere lascia un certo numero di allievi e di seguaci,
tra cui merita di essere ricordato Marco De Caro, che spesso
raggiunge una qualità molto alta; ma la sua opera trova i più
convinti seguaci e prosecutori nell’ambito della sua famiglia con
i figli Elena, pittrice ricercata ed il più maldestro per quanto
industrioso Nicola Maria.
Elena Recco
(attiva tra la fine del XVII secolo e l’inizio del successivo)
predilesse del padre l’iconografia marina, dove riuscì a
raggiungere esiti più che cospicui.
Ella
si recò in Spagna con il genitore nel 1695 e lì si trattenne per
qualche tempo, lavorando per la corte, dove negli inventarî
risultano alcune tele di soggetto floreale al momento non
rintracciate.
Le
uniche sue opere certe sono due composizioni di pesci, una delle
quali firmata, conservate nel castello di Donaveschingen,
illustrate dal Di Carpegna.
La
critica ha affiancato a queste due tele un gruppo di altri dipinti
conservati nel museo di Varsavia, nel museo Puskin a Mosca e nella
City Art Gallery di Leeds.Di recente in aste nazionali ed
internazionali sono passate composizioni marine assegnate ad Elena
Recco ed alcune di queste posseggono i caratteri distintivi per
una attribuzione certa.
Una
particolare tinta rosata delle squame unita ad una sprizzante
vitalità delle prede appena pescate che brillano lucentezza e
trasudano l’umido del mare sono i caratteri patognomonici della
pittrice, che nelle tele veramente sue ben si è meritata il
successo e la considerazione che godette tra i suoi contemporanei.
Purtroppo sul mercato circolano tele di modesta qualità che di
Elena Recco hanno soltanto il nome imposto da antiquarî desiderosi
di etichettare sempre e comunque qualsiasi opera.
Nicola Maria Recco,
anche se non citato dal De Dominici, è un altro figlio di Giuseppe
che segue le orme paterne, ma ad un livello decisamente inferiore.
La sua pittura è afona, priva di slanci vitali, stanca ripetitrice
di formule stereotipate attinte al patrimonio iconografico
familiare. Alcune tele firmate di pesci ce lo mostrano poco più
che modesto e solo il nome glorioso e gli illustri natali gli
hanno ritagliato un suo piccolo spazio nella storia della natura
morta napoletana.
Stranamente il De Logu aveva una certa considerazione per i suoi
dipinti «notevoli specialmente per i primi piani meno gli sfondi
che sono un po’ sommari».
Le
opere di Nicola Maria, e sono molte quelle sicuramente autografe,
perché firmate, ad un occhio attento sembrano quasi una caricatura
di quelle del padre: incerte nei dettagli, prive di ogni
sensibilità, accentuate senza motivo negli effetti luministici.
Fu
anche pittore di cucine ed un suo dipinto con questo soggetto,
datato 1673, ce lo configura di molto antecedente ad Elena e
contemporaneo del padre.
Il
quadro familiare dei Recco si conclude con un breve cenno a
Gaetano, attivo negli ultimi decenni del secolo e di cui
parleremo in seguito più diffusamente, probabilmente un lontano
parente come si evince dalla presenza nei suoi dipinti di altro
soggetto di consistenti brani di natura morta. Infine una
curiosità: è possibile reperire qualche quadro firmato (e con
firma antica) Giuseppe Recco e di modestissima qualità, come ad
esempio il Cervo morto, legato all’albero per le zampe di
collezione privata napoletana. Un lontano parente, omonimo, od un
antico impostore? Quel che ci voleva per intorbidire ancor di più
le acque scure della natura morta napoletana.
Marco De Caro (attivo a Napoli nella seconda metà del XVII secolo) è
stato identificato soltanto di recente grazie a due pendants uno
dei quali firmato per esteso e rappresentanti Frutti di mare
con sfondo di paesaggio, già in collezione Canessa, che furono
esposti alla mostra sulla natura morta del 1964.
I De
Caro, come i Recco e i Ruoppolo, costituirono una dinastia di
generisti che protrude in pieno Settecento con Baldassarre e
Leonardo, probabilmente discendenti di Marco.
Il
pittore non è mai citato da fonti antiche, né è stato reperito in
alcun inventario. Risulta iscritto alla Corporazione dei pittori
napoletani nel 1680, un periodo nel quale possono essere collocate
le sue due tele citate.
Egli è
contemporaneo di Belvedere e dovrebbe appartenere alla generazione
successiva a Giuseppe Recco e Giovan Battista Ruoppolo.
Le
tele di collezione Canessa, improntate alle tematiche portate al
successo da Giuseppe Recco, permettono di affiancare nel catalogo
dell’artista altri due quadri dalla travagliata storia attributiva
e nei quali alcuni caratteri sono sovrapponibili, come i frutti di
mare. Si tratta di due composizioni di pesci della Galleria di San
Luca di Roma e della Galleria Corsini. A questi due dipinti si può
aggiungere un’altra natura morta già in collezione Gualtieri a
Napoli ed oggi ad ubicazione ignota.
Giovan Battista Ruoppolo
(Napoli 1629 - 1693) è assieme al coetaneo Giuseppe Recco una
delle figure chiave della natura morta napoletana della seconda
metà del Seicento e questo ruolo gli fu riconosciuto anche dal De
Dominici che, per quanto poco attento alle vicende dei generisti,
gli dedicò un intero capitolo delle sue Vite. Presentandolo
come allievo del Porpora egli scrive «studiò in particolare l’uva
e furon molto lodate le pitture che di rame e di altri arredi
della cucina ... molti ne fece per Gaspare Roomer, che li mandò in
Fiandra, molti per il marchese Vandeneynden». Ed infatti noi
abbiamo conferma, grazie ad un inventario redatto nel 1688 da Luca
Giordano, che nella collezione del ricco mercante, morto nel 1685,
si trovavano numerosi quadri del Ruoppolo: «Roba di caccia con
capretto et una papara, palmi 6x8; diverse robbe di cucina, et una
impanata; frutta e fiori; frutta fiori e melone d’acqua, ed un
quadro con diversi pennoli d’uva, granate, e meloni, si dette a
dipingere anche selvaggina, pesci e commestibili vari». Un altro
documento del 1673, riferentesi ad un pagamento, sempre del
Vandeneynden, ci rammenta che egli ricevette 60 ducati per l’opera
svolta.
Nonostante la notorietà già dalle fonti antiche, la personalità di
Giovan Battista è ritornata alla luce più chiaramente nel corso di
questo secolo dal 1915 quando il Cecconi fu il primo a rendergli
giustizia dedicandogli un entusiastico elogio, che parlava di un
Ruoppolo pascoliano, delicato, idilliaco, ingenuo. Parere che non
trovò d’accordo il Marangoni, che pur ne apprezzava,
incondizionatamente, le doti di colorista spinte fino al lirismo
più acceso: «la stupefacente vegetazione del Ruoppolo, quasi
straripante da fantastiche cornucopie in esemplari giganteschi e
perfetti, tinti dei colori più accesi dell’autunno... un miracolo
coloristico tutta quella dovizia vegetale che sembra scoppiare di
linfa sotto la lustra e gonfia epidermide dei frutti e suscita non
so qual vago senso dinamico che manca in quelli del Caravaggio».
In
seguito, nel 1928, si espresse sull’artista il De Rinaldis, uno
studioso dimenticato ingiustamente, che collocò il Ruoppolo tra i
maggiori artisti napoletani del Seicento: «ditirambico pittore
delle grazie fruttifere d’autunno dal sensualismo coloristico».
Grazie
al Prota Giurleo si recuperano gli anni precisi di nascita e di
morte, si conferma la parentela con il nipote Giuseppe, di poco
più giovane, si conosce la data del suo matrimonio.
Anche
l’Ortolani, nella sua magistrale esegesi sulla pittura napoletana
in occasione della mostra del 1938, tesse gli elogi del Ruoppolo:
«la materia vegetale germina e prorompe nella luce con accenti di
tale energia e ricchezza che trasfigurano la veemente sensualità
in bellissimo canto... vi fa già gran prova il compositore
celebrato, tutto caravaggesco, anzi battistelliano nei larghi
piani rasi dalla luce, che sa ammassare come nessun altro quelle
cascate di frutta ed imporvi un ritmo, una architettura di luce;
poi gli esempi olandesi lo portano ad aggruppamenti doviziosi e
scenografici, specie di fiori».
Molti
giudizi «datati» sul Ruoppolo risentono anche del fatto che negli
ultimi decenni si è proceduto ad un vaglio rigoroso delle sue
opere, soprattutto dopo l’identificazione recente della figura di
Giovan Battista Recco, che possedendo le stesse iniziali creava
motivi di confusione.
La
scarsezza di opere firmate e datate, a raffronto delle numerose
citazioni negli inventarî delle grandi collezioni, ha inoltre
creato motivi di errate attribuzioni anche nei confronti di Giovan
Battista Recco e del nipote Giuseppe Recco, artisti ai quali è
intimamente legato per affinità stilistiche sia nella fase di
rigorosa ricerca luministica che più tardi nella piena
espressività del linguaggio barocco.
Anche la presenza di molti seguaci, che cercavano di imitare il
suo stile fino al limite del plagio e che solo ora lentamente la
critica sta scandagliando con maggiore attenzione, ha creato non
pochi problemi attributivi, spesso influenzati dalle pressioni del
mercato antiquariale.Quante opere di Gaetano Luciano, del nipote
Giuseppe, del monogrammista «Gru», di Onofrio Loth, di Aniello Ascione, di Gaetano Cusati o
del Della Questa sono passate col nome di Giovan Battista o ancora
vi rimangono?
Oltre
alle notizie documentarie reperite dal Prota Giurleo abbiamo pochi
dati biografici: nel 1665 era iscritto alla Corporazione dei
pittori napoletani, nel 1669 ne era divenuto prefetto, nel 1675
partecipò alla grande mostra di quadri per la festa dei Quattro
Altari sponsorizzata dal vicerè marchese del Carpio ed organizzata
da Luca Giordano.
Il
percorso artistico del Ruoppolo, scandito da poche firme e ancor
meno date, prende il via poco dopo il 1650 e si svolge senza sosta
per oltre un quarantennio.
Egli è
ai suoi inizi un rigoroso naturalista, che ha studiato il suo
luminismo violento d’ombre e vivissimo sui testi sacri di
Battistello e di Stanzione.
La sua
prima opera documentata, firmata «G.B. Ruoppolo», Sedani e
boules de neige, conservata allo Ashmolean Museum di Oxford, è
«quasi un notturno squarciato da improvvisi fiotti di chiarità
lunari, che vede il nostro artista intento a scandagliare in ogni
verso uno spazio buio che fa vibranti per effetto di luce gli
oggetti naturali, quasi che ancora conservino una pulsazione, una
vitalità esasperata» (Causa).
Intorno a questo fondamentale dipinto la critica ha raggruppato
numerose tele improntate da spiccati interessi naturalistici tra
le quali la Natura morta con ortaggi e pane del museo di
Capodimonte o quella con Ciliegie, pernice e pesce della
collezione Ciollaro Galante, fino alla splendida Natura morta
con ortaggi, frutta, pani e trancia di tonno, datata 1661, già
in collezione Zauli Naldi.
La
produzione di questo decennio è quanto mai prolifica e vi è ampio
spazio di ricerca per reperire nuovi quadri della fase più antica.
Nel
settimo decennio gli interessi iconografici del Ruoppolo virano
verso tematiche portate al successo da Giuseppe Recco ed a questo
periodo appartengono Pesci sulla spiaggia, firmata
per esteso, del museo di San Martino e la Natura morta con
pesci e granchio della collezione Pagano. Viceversa, a
metà tra il periodo luministico e quello più propriamente barocco
va collocata la spettacolare Natura morta con frutta e ortaggi
in un paesaggio della collezione Sapori di Spoleto, nella
quale «la limpidezza della luce e la brillantezza dei colori si
accordano con la prolifica e originale disposizione degli oggetti»
(Middione).
Lentamente alla fine del settimo decennio il Ruoppolo si converte
al trionfante gusto barocco portato al successo a Napoli, oltre
che dagli iperbolici excursus del Giordano, dalla presenza in
città a partire dal 1675 di Abraham Brueghel, discendente della
gloriosa famiglia di generisti fiamminghi e portatore di un nuovo
verbo superficiale ed incline al facile decorativismo.
Sono
gli anni del Ruoppolo più noto al grande pubblico, l’artista
idolatrato dal De Dominici che lo eleva ad indiscusso caposcuola,
da cui prenderanno ispirazione i suoi numerosi seguaci ed i tanti
imitatori.
Giovan
Battista comincia la serie dei trionfi vegetali e marini, delle
cascate di fiori e di frutta, in cui i colori assurgono ad una
dimensione trionfante e la luce viene a dilatarsi sulle superfici
ancora indagate con antico scrupolo naturalista.
I
frutti sono disposti in un deliberato disordine spaziale. Le
preferenze del Ruoppolo vanno all’uva che egli rappresenta nelle
specie e sottospecie più rare a trovarsi, dalla cornicella alla
barese, in un lucore di riverberi con un’ampia tonalità di tinte,
mentre nelle mele e negli agrumi dalla scorza lucida e
scintillante per la esaltata vivacità cromatica, si differenzia
dagli esiti del nipote Giuseppe, più rossigno, rugoso e
bernoccoluto e dal suo più acuto imitatore Aniello Ascione, che
predilige effetti cromatici più caldi ma meno intensi.
Il
rigoglio espositivo raggiunge il culmine nei meloni, spesso
presenti nelle sue tele, nelle tipiche superfici rugose, o nei
grandi cocomeri, tipici delle fertili pianure campane, variopinti
e ben torniti nei loro volumi con la consueta perizia
plastico-luministica.
Tra i
quadri di questo percorso alcuni sono famosi come le composizioni
di uva, cantate a pieni polmoni da un novello Bacco, innamorato
del loro succo dolce ed acre, come le tele conservate nel musée
des Arts décoratifs di Parigi e nel museo Correale di Sorrento, o
le splendide accoppiate di uva e frutta del museo di San Martino o
della collezione Gava ex Matarazzo, in cui egli esprime la sua
nuova concezione scenografica di piena ed accettata enfasi
barocca, con il tremulo gioco delle foglie che imprime profondità
all’immagine ed è segno tangibile dell’altissimo livello di poesia
raggiunto dal Ruoppolo.
Tutti
i suoi ultimi dipinti sono immersi in un’atmosfera «dorata che
assorbe i volumi, si aggruma sulle superfici e le impreziosisce: i
pampini si ravvolgono frenetici sui tronchi delle querce,
esplodono ceppaie di funghi, chicchi, nervature, foglie, viticci,
si fanno perle, rugiada, umori occidui, rubini la polpa rossa del
cocomero tagliato; i più agevoli, i più facilmente immaginabili
tra i possibili traslati analogici e metaforici» (Causa).
Queste
opere fastose e ridondanti, questi trionfi orgiastici e
prorompenti, sospesi in una luce purissima, sono il canto del
cigno per Ruoppolo, al quale si associa con flebile suono una
folla di comprimari, di seguaci, di imitatori che solo da poco la
critica ha imparato a riconoscere ed ai quali ha destinato un suo
spazio nel gran libro ideale del genere della natura morta nel
secolo d’oro della pittura napoletana.
Gaetano Luciano
(attivo a Napoli nell’ultimo quarto del XVII secolo) sconosciuto
alle fonti è noto unicamente per due suoi dipinti, firmati per
esteso, una Natura morta di frutta, in collezione
Beduwe a Marsiglia, la quale riporta integralmente brani di
composizioni note di Giovan Battista Ruoppolo ed una Natura
morta di frutta ed ortaggi con asino e figure, presente
sul mercato antiquariale napoletano nel 2000, che riprende in
maniera letterale brani alla maniera del Della Questa. In seguito
la critica gli ha assegnato qualche altra tela, una delle quali fu
anche presentata alla mostra sulla civiltà del Seicento.
Aniello Ascione
(notizie dal 1680 al 1708) fu un allievo di Giovan Battista
Ruoppolo e del suo repertorio predilesse la rappresentazione di
frutta ed uva che seppe ritrarre, come narra il De Dominici che
ben lo conosceva, «con amenità di colore assai vago, e che però
tira assai al rossetto d’alacchetta».
Egli
ha l’abitudine di firmare le sue opere con un monogramma nel quale
si intrecciano le due A del nome e del cognome.
Alcune
sue opere raggiungono un livello molto alto, come due pendant
passati di recente presso la Galleria Lampronti di Roma,
caratterizzati da un’intonazione cromatica calda e da una schietta
vena decorativa.
Egli
fu presente alla mostra di Napoli del 1964 con due tele ricche di
grandi tralci carichi di grappoli d’uva ed angurie spaccate e
rosseggianti.
Egli
fu attratto anche dal tema delle cucine, portato al successo da
Giovan Battista e Giuseppe Recco e raggiunse discreti risultati
come si evince dalla Cucina con l’agnello scuoiato
già in collezione Castellino a Napoli, siglata in basso a sinistra
sul primo gradino con il suo classico monogramma.
Molte
sue opere sono conservate nel museo Correale di Sorrento ed altre
passano frequentemente nelle aste nazionali ed internazionali.
Il
Monogrammista G.A., del quale si conosce una sola opera, è
attivo tra Napoli e Roma nella scia di Ruoppolo senior, negli anni
tra il 1670 ed il 1680.
Una
sua tela Frutta, ortaggi e cacciagione, in collezione Field
a Miami negli Stati Uniti, porta la misteriosa sigla «G.A.»
sull’anfora posta a sinistra della composizione.
Gaetano Cusati
(? - Napoli 1720) è citato dal De Dominici, che gli dedica un
certo spazio, ricordando che ebbe un fratello Gerolamo, anch’egli
pittore e che entrambi morirono nel 1720. Il biografo riferisce
che «fu anche pittore di figure» e realizzò quadri grandi. Egli
stesso sarebbe dunque l’artefice delle figure e dei paesaggi che
talora appesantiscono le sue nature morte. Egli fu influenzato sia
dai modi pittorici di Giovan Battista Ruoppolo, di cui fu allievo,
che dal ricercato decorativismo di Abraham Brueghel, «facendo un
misto di tutte e due le maniere». Si dedicò anche all’affresco
nella dimora del duca di Laurenzano a Piedimonte d’Alife.
Egli
fu pittore di pesci e di fiori dal rapido piglio decorativo,
congiunto ad una sciolta facilità di mano. Si espresse con uno
stile barocco fresco e guizzante. I suoi dipinti sono conservati
nei musei napoletani: I pesci al Correale di Sorrento,
erroneamente segnalati nel catalogo come opera della pittrice
Colomba Guardi, dalle stesse iniziali, mentre a San Martino sono
esposte numerose tele siglate con vasi di fiori, frutta, animali e
sfondi di paesaggio. Non è rara la comparsa di suoi quadri siglati
nelle aste e sul mercato antiquariale che vanno ad accrescere il
suo già discreto corpus.
Il
fratello Gerolamo Cusati (? - Napoli 1720) ci è noto
unicamente per la citazione del De Dominici: «fece anch’egli di
frutti e fiori, ma si applicò poi tutto a questi, lasciando
quelli, per non avervi troppa attività o inclinazione per farli».
Francesco Della Questa
(? 1639 circa - Napoli 1723) pittore probabilmente d’origine
spagnola, fu, secondo il De Dominici, allievo di Giovan Battista
Ruoppolo, anche se lungo l’arco della sua lunghissima attività,
che protrude in pieno Settecento, i suoi modelli ispiratori sono
quasi tutti i capostipiti della pittura napoletana, da Giacomo e
Giuseppe Recco ad Abraham Brueghel.
Il suo
nome preciso è «Questa» come ben si evince dalle non rare firme e
non «Quosta» come indicato dal biografo.
Nelle
sue opere più antiche egli appare tributario, più che del Ruoppolo,
dei Recco, Giacomo e principalmente Giuseppe, come nel Vaso con
fiori, già in collezione Caracciolo d’Aquara, o nella
composizione Pesci, molluschi e crostacei, in cui le varie
specie, dalle triglie alle orate, dai cefali ai molluschi, sono
rappresentate in maniera confusa in riva al mare, senza quel
rigore e quella vivida lucentezza ottica che fa riconoscere al
primo sguardo le tele di Giuseppe Recco.
I suoi
quadri più spettacolari fanno parte di quella serie di quadroni
allestiti per la festa del Corpus Domini nel 1684. Al ciclo di
tele, pare quattordici, preparate sotto il coordinamento di Luca
Giordano, collaborarono i maggiori specialisti di natura morta,
ognuno nel suo settore, da Giuseppe Recco ad Abraham Brueghel, da
Giovan Battista Ruoppolo a Francesco Della Questa, la cui fama nel
rappresentare ortaggi era da tutti acclarata.
Egli
partecipò all’esecuzione in due tele, già in collezione Podio che
furono esposte alla grande mostra sulla pittura italiana del 1922
a Firenze, di brani di competenza dell’ortolano, realizzando dei
lussureggianti trionfi di ortaggi, apice della sua attività, nei
quali è stupefacente l’impatto visivo dei vari elementi
rappresentati «che articolano con estrema energia visiva le masse
di frutta ed ortaggi nel primo piano di entrambe le tele» (Lattuada).
Il
Della Questa è artista che cresce nella considerazione degli
studiosi ogni qual volta è proposta all’attenzione della critica
qualche sua nuova opera, facendolo assurgere ad un gradino più
elevato nella folta schiera dei seguaci del Ruoppolo.
Onofrio Loth
(Napoli 1665 - 1717). Sia il De Dominici, il quale lo conosceva
personalmente, che il Prota Giurleo ci forniscono notizie e dati
biografici sulla sua vita. Nato a Napoli nel 1665, fu tra gli
allievi prediletti di Giovan Battista Ruoppolo ed ebbe a sua volta
tre scolari di cui tutto ignoriamo: Ridolfo Scoppa, Nicola
Indelli e Domenico Grasso.
Fu
attore dilettante, scrisse varie commedie, qualche poesia ed amò
la conversazione con gli uomini dotti del suo tempo.
Pare
si servisse dello stesso De Dominici, che ricordiamo era anche lui
un pittore, per farsi «accordare» gli sfondi dei suoi quadri «con
pochi lumi e mezze tinte».
Questa
passione per la commedia non è una novità per i pittori del
Seicento napoletano. Ricordiamo la stessa inclinazione in Salvator
Rosa ed in Andrea Belvedere ed anche in Nicola Vaccaro, tutti
abilissimi nel recitare «all’impronto», nell’epoca in cui Andrea
Perrucci dava alle stampe nella nostra città, ed era il 1699, il
suo intrigante trattato «Dell’arte rappresentativa premedita ed
all’improvviso».
Il
Loth è legato alle tematiche marinare care a Giuseppe Recco come
si evince dalle poche opere che gli si possono attribuire, due
Nature morte con pesci del museo di Valencia, entrambe
firmate, un Bodegòn de lagustas ed un Bodegón de ostras,
fatte conoscere dal Pèrez Sànchez.
In
precedenza l’Ortolani aveva fatto cenno di due dipinti di fiori,
firmati, in collezione De Michele a Santa Maria Capua Vetere, non
più ritracciati.
Ancora
prima anche lo Hoogewerff aveva segnalato la presenza di due
dipinti del Loth, di soggetto floreale, ma senza fornire notizie
più esaustive sulle due tele.
Dal De
Dominici veniamo a conoscenza che il Loth era bizzarro nel
comporre, mentre altre notizie sull’artista ci vengono fornite dal
Mazzullo e dal Michel grazie ai quali sappiamo che Onofrio,
entrato nel 1689 nella Corporazione dei pittori, collaborò col
Trevisani nella decorazione degli specchi di palazzo Ruspoli a
Roma, eseguendo ghirlande di fiori ed inoltre, sempre a Roma, il
cardinale Spada Veralli gli commissionò due grandi quadri, oggi
nella Galleria Spada, realizzati con la partecipazione di
Sebastiano Conca, come risulta dai relativi mandati di pagamento
del 1714.
Un
altro pittore che collaborò con il Loth fu il De Matteis che
inserì bassorilievi di chiaroscuro nelle sue composizioni. La
critica ha presentato una tela, in collezione privata a Cremona,
una Natura morta con granchio, seppie e aragoste, omogenea
alle composizioni del museo di Valencia, con l’impostazione della
scena sullo scuro del fondo idoneo ad esaltare il riverbero delle
luci, il brillìo argenteo delle squame e la corposità plastica
degli elementi rappresentati.
L’auspicio è che quanto prima il reperimento di altre opere o
documenti possa meglio focalizzare la personalità di questo
artista che lavora anche nei primi quindici anni del Settecento,
fino alla sua morte improvvisa nel 1717 (e non 1715, come
erroneamente segnalato in molti testi).
Il
Maestro del Metropolitan
è un nome convenzionale che il Causa utilizzò partendo da una tela
Uva, melograne, fichi, ciliegie e un ramarro del
Metropolitan Museum di New York, per raggruppare una serie di tele
con caratteri affini di una felice sintesi del più effervescente
Barocco.
Il
carattere precipuo di questo esuberante artista sarebbe stato
l’aver derivato i suoi modi pittorici in parte dal Campidoglio e
in parte dal Brueghel, che costituivano i più convinti assertori
dei «nuovi concepimenti» espressi a Roma verso il 7° - 8° decennio
del secolo.
Il
Causa suppose che egli fosse napoletano, o quanto meno operante
nella nostra città; segnalò inoltre, con rara competenza e
dimostrando una conoscenza planetaria dell’argomento, alcune tele
da collegare a questa notevole personalità artistica che, imbevuta
di cultura romana, riteneva rappresentasse un superamento del
linguaggio espresso dal Ruoppolo. Oltre a quadri sparpagliati in
musei stranieri o dimenticati nei loro depositi sotto altre
attribuzioni, precisò che il capolavoro assoluto di questo ancora
ignoto maestro si trovasse a Napoli nella collezione Chiacchio,
oggi purtroppo ad ubicazione sconosciuta: Fiori, uccelli rari e
frutta su di un marmo romano entro un ampio paesaggio.
Questo
ignoto artista, spesso confuso col Brueghel, possiede dei
caratteri ben precisi: un esasperato brio barocco, un taglio così
corsivo e spigliato da dover esser distinto come stile, una gamma
di colori sempre accesa e luministicamente contrastata, una
materia assai fastosa e debordante, tutti aspetti che servono a
differenziarlo dal Brueghel, da cui pure deriva, che però è meno
mosso e impetuoso, più controllato ed equilibrato, «fracassoso»
più nella ridondanza che nel colore.
In
anni successivi la Trezzani ha collocato l’attività del Maestro
del Metropolitan in area romana intorno al settimo - ottavo
decennio e gli ha associato una natura morta Uva, mele e
melograne di collezione Lodi, nella quale alcune somiglianze
presentano assoluta evidenza.
Sul
mercato negli ultimi anni sporadicamente è comparsa qualche tela,
come la Natura morta di frutta della galleria D’Orlane, con
caratteri stilistici affini a quelli che abbiamo precisato
appartenere al Maestro del Metropolitan, il quale, fermo restando
le dotte considerazioni del Causa, è ritenuto dalla critica un
interprete particolare della tradizione pittorica romana, da lui
scioltamente e deliberatamente esasperata in senso luministico e
formale.
Carlo Ruoppolo,
fratello più anziano di Giovan Battista, è anche egli pittore come
veniamo a conoscenza da quanto dichiara nel 1655 in occasione
delle nozze del fratello, nelle quali fa da testimone.Come tanti
altri artisti del Seicento napoletano è ancora però un nome senza
opere come il padre Francesco Ruoppolo, pittore di
maioliche presso il Congiusto, detto il faenzaro, la cui
figlia sarà impalmata da Giovan Battista, frequentatore sin da
fanciullo della casa della futura sposa.
Giuseppe Ruoppolo
(Napoli? - 1710) nipote del più famoso Giovan Battista,
rappresenta ancora oggi per gli studiosi un caso particolarmente
problematico per la confusione creata dalle sigle G.R., in comune
con Giuseppe Recco, e G.R.U., a lungo creduta sua e che viceversa
appartiene ad un ignoto monogrammista più tardo e che dipinge in
maniera accademica.
Secondo il De Dominici nascerebbe nel 1631 per morire ottantenne
in pieno Settecento; il biografo doveva ben conoscerlo, perché ce
lo descrive con grande minuziosità: «si distinse per una certa
tinta alquanto più rossagna nelle frondi delle viti e nei campi.
Fece assai bene i frutti secchi, gli aranci, i limoni ... non fu
però ferace, e felice nel componimento, ponendo quasi a ringhiera
sopra un poggio ciò che voleva dipingere, e senza niuna bizzarria
pittoresca lo dipingeva, ma con tanta verità ... dipinse anch’egli
cose di rame verdume, canestrini di insalate».
Fortunatamente possediamo un discreto numero di opere firmate per
esteso che ci permettono di conoscerlo abbastanza e di ipotizzare
attraverso l’esame stilistico i suoi probabili punti di
riferimento.
Firmata «G. Ruoppolo» la tela conservata ad Amburgo alla
Kunsthalle, mentre «Giuseppe Roppoli» si legge chiaramente alla
base di Pesche e uva nella collezione Astarita a Napoli,
dove l’artista assume ad argomento visivo discriminante la forza
immobile di una gran luce battente; un gruppo di quattro quadri di
cui uno firmato «Gius. Roppoli» è stato illustrato dal Bologna nel
1968; infine la Natura morta con pasticcio e cedri
del museo Duca di Martina di Napoli firmata «Gius. R».
Si
possono poi aggiungere per dei caratteri distintivi molto
particolari, quali la propensione a ritrarre fiori e frutta, il
colorito rossiccio e la meticolosa riproduzione dei dettagli,
altri dipinti: la Natura morta di agrumi e secchia di rame
della collezione Molinari Pradelli, dove in un brillante soverchio
di materia si legge l’insistente indagine degli effetti luminosi
sulla superficie degli agrumi, la natura morta di Capodimonte
proveniente dalla collezione D’Avalos, eseguita in collaborazione
col Brueghel, la Natura morta con limoni e verdure del
museo di Budapest e la tela Frutta, pentola di rame e
cardellini, di collezione privata, illustrata dal Salerno.
La
critica ha ritenuto necessario espungere dal suo catalogo alcune
tele a lungo ritenute autografe come quella un tempo in collezione
Zauli Naldi, oggi assegnata all’esordio di Giovan Battista
Ruoppolo e l’altra, famosissima, di Pani, prosciutto, torta e
ghiacciaia della collezione Molinari Pradelli, oggi data con
sicurezza a Giuseppe Recco.
La
maggiore difficoltà la si incontra nel discernere la produzione
degli anni tra il ’55 ed il ’60, quando tra Giovan Battista Recco,
Ruoppolo senior e Giuseppe Recco le differenze diventano
impercettibili anche per l’occhio più esperto.
I modi del linguaggio di Giuseppe Ruoppolo sono oggi abbastanza
noti alla critica grazie non solo alle pedanti descrizioni del De
Dominici, ma anche all’acquisizione di un gruppo di opere
autografe. La sua più alta qualità è nella esasperante ricerca
luministica, in una analisi di superficie ripetitiva e
puntigliosa, che disquama in una materia vivida e grumosa la
buccia degli agrumi e si condensa in grevi brillî sulla
costolatura delle foglie.
In
conclusione possiamo far nostra la definizione che di Giuseppe
Ruoppolo fece il Salerno di uno stile «caratterizzato in effetti
da una quieta visione del modello reale, al quale l’autore dà la
massima forza volumetrica, suggerendo la materia delle superfici
diverse e variando lo stesso spessore del colore».
Il
monogrammista G.R.U. (attivo a Napoli tra la fine del XVII e
l’inizio del XVIII secolo) è una figura di artista creata dal
Causa, che operò una scissione del corpus pittorico di Giuseppe
Ruoppolo, il quale abbiamo visto essere una personalità cui è
collegato un gruppo di opere molto disomogeneo: un periodo
giovanile di elevata qualità carico di vitalità barocca ed una
fase finale stanca e ripetitiva, in cui le differenze con le tele
siglate con il misterioso monogramma si fanno impercettibili.
Il
quadro capostipite attorno al quale creare un gruppo affine è
La natura morta di frutta e cetrioli», siglata
g.r.u., e non G.R.V.
come affermato erroneamente dal Salerno, della Galleria nazionale
d’Arte antica di Roma.
Molti
altri quadri in collezioni private o presenti frequentemente sul
mercato posseggono le caratteristiche di un pittore più tardo,
manierato, più accademizzante. Il riferimento letterale è Giuseppe
Ruoppolo, ma la tavolozza ha colori meno accesi e la composizione
non possiede quella prorompente vitalità barocca.
Alcuni
suoi quadri di più alta fattura sono stati resi noti dagli
studiosi, come una coppia di interni di cucina in collezione Della
Vecchia a Napoli oppure una composizione di Frutta e conchiglia
pubblicata dal Salerno, tutti dipinti contraddistinti da un
«chiaroscuro marcato, assemblaggio fitto degli oggetti, minuzia
descrittiva» (Middione).
Di
recente una nuova ipotesi è stata affacciata dal Marini, sulla
quale la critica si è mostrata perplessa, di considerare tutta la
produzione dell’ignoto monogrammista e del Ruoppolo come opera di
un solo artista, in periodi diversi della sua attività.
Il
Lionelli (attivo a Napoli tra la fine del XVII secolo e
l’inizio del successivo) è noto solo per la sua firma apposta su
una natura morta conservata con il suo pendant presso il musée des
Beaux-arts di Nantes, proveniente dalla famigerata collezione
Cacault, costituitasi a Napoli durante le ruberie degli anni del
dominio francese.
Dopo
la segnalazione di queste opere fatta da Spinosa, sono state
reperite altre tele derivanti tangibilmente dalla produzione di
Giuseppe Ruoppolo, tra cui due ovali di frutti in collezione
privata napoletana.
Francesco Solimena (Canale di Serino 1657
- Barra 1747), sull’onda di Luca Giordano, prosegue con una sua
originale declinazione il discorso barocco, per continuare poi con
una vivace formula di luminoso decorativismo classicizzante. Nei
rari momenti liberi tra l’esecuzione di importanti pale d’altare e
grandiosi affreschi per le più importanti chiese del viceregno,
trovò il tempo per dedicarsi alla natura morta. Di questa sua
segreta inclinazione fanno fede, oltre alle parole del De Dominici,
i non rari inserti a margine dei suoi dipinti di figura.
Fu il
Bologna a segnalare la sua collaborazione con Giuseppe Recco e ad
attribuire al solo Solimena due nature morte, che furono
presentate alla grande mostra monografica di Napoli del 1964.
L’originale assegnazione fu confermata dal Briganti e dal Volpe,
che curò la stesura delle schede del catalogo.
Si
tratta di una coppia in collezione Romano con Fiori, libri e un
candeliere e Fiori, libri e un teschio nei quali
l’empito barocco è amalgamato in una serena atmosfera di ombra e
di silenzio.
«Il
calore della pennellata rivela senza indugiare la forte animazione
della luce e dell’ombra, è estraneo del resto a tutti i pittori
generisti napoletani, e risponde assai bene al timbro stilistico
dell’arte del Solimena nel penultimo decennio del secolo» (Volpe).
Probanti sono i raffronti che possono istituirsi con i brani, di
limpida lucidità ottica, del teschio e della frutta raffigurati
nell’affresco della Morte di San Francesco in Santa Maria
Donnaregina o con il dettaglio del libro aperto presente nella
pala di San Nicola alla Carità, documentata al 1684.
Altro
pittore di figura prestato alla natura morta è Nicola
Malinconico (Napoli 1663-1721), figlio di Andrea e fratello di
Oronzo, entrambi pittori.
Educato alla maniera di Luca Giordano, trova affermazione come
pittore di istorie e lascia opere oltre che a Napoli nella chiesa
di San Lorenzo, ad Aversa, nel Duomo di Bergamo ed in San Gaetano
a Vicenza. Nel 1706 ottiene il titolo di conte per meriti
professionali, segno tangibile di una solida posizione raggiunta.
Della
sua attività di pittore di genere fa cenno il De Dominici, che lo
colloca nella bottega di Andrea Belvedere.
L’unica sua tela firmata, una Natura morta con pavone, è
conservata alla Kunstakademie di Vienna, un dipinto fastoso e
raffinato che rappresenta l’ultima interpretazione del più
elegante ed esteriore barocco d’avvio giordanesco.
I
riferimenti culturali del Malinconico specialista sono Brueghel e
Belvedere, pur con la conoscenza di contemporanei francesi come il
Monnoyer e Blain de Fontenay.
Alcune
tele sono state associate per affinità stilistiche, tra queste due
nature morte della Walters Art Gallery di Baltimora, pubblicate da
Federico Zeri, ed un Giardino con fiori e un putto
pubblicata dal Salerno, nella quale alla usuale esuberanza barocca
si unisce la luminosità tipica del Berentz ed una aggregazione di
dettagli minuti, già di spirito decisamente rocaille.
L’attività del Malinconico come generista, secondo Spinosa, si
situa negli ultimi anni del secolo e nei primissimi del
Settecento.
Le
conoscenze sull’artista sono progredite negli ultimi anni grazie
agli studi del Pavone e del Ravelli.
Abraham Brueghel
(Anversa 1631 - Napoli 1697) nasce nelle Fiandre da Jan Brueghel
II, il giovane, e comincia giovanissimo la sua esperienza di
pittore nella bottega del padre, dipingendo quadri di fiori.
Dopo
un breve periodo egli è in Italia, a Roma, forse giovanissimo, se
si vuol dar credito alla segnalazione della Hairs di una scritta
in italiano «all’età di diciotto anni» sotto una sua natura morta.
Nel 1655 è iscritto nella gilda dei pittori della sua città natale
mentre dal 1659 è documentato stabilmente nella città eterna, dove
nel 1666 si sposa e dalla quale si sposterà alcune volte per dei
soggiorni abbastanza lunghi da trascorrere a Messina nel 1663-’64
e poi nel 1667-’68.
Nel
1676 si trasferisce a Napoli, dove vivrà fino alla morte avvenuta
nel 1697.
Ci
troviamo perciò davanti ad un pittore italiano a tutti gli effetti
e per il 50% napoletano, alla pari del Ribera o di Mattia Preti,
nati altrove, ma che all’ombra del Vesuvio hanno svolto la parte
più significativa della loro attività. Egli è intriso
culturalmente di spirito nordico, possiede un’assoluta padronanza
dei modi dell’anziano Frans Snyders ed una buona conoscenza delle
novità apportate da Jan Fyt, come i fondali boscosi e le colonne
poste su alti stilobati, ma giunto a Roma è ansioso di recepire
motivi classici della pittura italiana ed inserisce spesso nelle
sue ricche composizioni elementi di carattere archeologico, come
vasi scolpiti, bassorilievi e frammenti antichi.
Entra
a pieno titolo nel mondo artistico romano e tra il 1670 ed il 1674
è ricordato tra gli accademici di San Luca. Intreccia una lunga
corrispondenza, tra il 1665 ed il 1671, con un grande
collezionista siciliano, don Antonio Ruffo, al quale fornisce
oltre ad opere sue una scelta miscellanea della produzione romana,
facendo acquistare quadri di artisti legati al suo entourage,
quali Ciro Ferri, Giacinto Brandi o Guglielmo Cortese, che vedremo
come preziosi collaboratori nell’arricchire con figure le sue
composizioni.
Entra
in contatto come mediatore anche con il mercante fiammingo Gaspar
Roomer, contribuendo ad integrare la sua eccezionale raccolta
napoletana.
Pare
che il Brueghel, prima del suo definitivo trasferimento a Napoli,
vi si fosse recato per un aggiornamento e per rendersi conto dei
prodigiosi sviluppi della natura morta locale.
A Roma
la sua fama fu subito grande tra i potenti collezionisti
dell’epoca, che menavano vanto di possedere gli esiti del suo
pennello virtuoso; troviamo così quadri suoi negli inventarî di
prestigiose famiglie dai Chigi ai Pamphily, dai Colonna agli
Orsini e ai Borghese.
Il Brueghel, ben inquadrandosi con le esperienze figurative
dell’epoca «volse ad amplificazioni barocche il repertorio dei
motivi di natura morta di fiori e di frutta, arricchendoli di
pittoreschi fondali di giardino, animali rari e primi piani di
figure» (Faldi), per le quali sceglie con rigore i suoi
collaboratori tra i più bravi, come Giacinto Brandi, il Baciccio e
Carlo Maratta, spesso facendosi coadiuvare anche da un
paesaggista, in maniera da realizzare composizioni ridondanti e
coloratissime, che gli valsero il nomignolo di «fracassoso»,
coniato dalla fertile fantasia del De Dominici, il quale nel
descriverlo così proseguiva: «preso un cocomero ben grosso lo
lasciava cadere a terra, e come rimaneva rotto in quell’accidente
lo dipingeva». Un modo elegante e discorsivo per esaltare quello
stile brioso e leggero, per quanto elegante e spontaneo, che
cozzava con quella solida lucidità ottica degli epigoni della
scuola napoletana suoi contemporanei, da Giovan Battista Ruoppolo
a Giuseppe Recco.
Il
nostro Abraham dimostra di conoscere molto bene l’opera di Michele
Pace, inoltre egli, pur mantenendo desta l’attenzione verso il
reale, retaggio dell’imprinting caravaggesco che a Roma trova i
suoi maggiori interpreti nel Cerquozzi e nel Campidoglio, rende
vivaci le sue composizioni attraverso un uso sapiente del colore,
che acquista un’importanza predominante sugli splendidi oggetti
rappresentati: vasi scolpiti, piatti decorati, poderosi
bassorilievi.
Egli
riesce così ad occupare un posto di rilievo nel panorama della
pittura romana della seconda metà del secolo: quei cocomeri
sfasciati, quelle melograne squarciate con tanti semi a far bella
mostra di sé, quei fiori non più freschi sono immagini di rara
energia visiva che ritroveremo intatte con la loro limpida
freschezza nelle pennellate del Maestro del Metropolitan, la
misteriosa figura delineata dal Causa che tanti ambigui
collegamenti presenta con la produzione del Brueghel.
Egli
introdusse alcune novità, come i festoni di fiori e frutta spesso
sorretti da putti e le composizioni ambientate nei giardini di
ville.
Una
volta trasferitosi a Napoli nel 1676, fece subito sentire la sua
originale personalità, attraverso una formula decorativa ricca e
disinibita, prodotta con facilità e felicità di esecuzione,
ottenendo nei primi anni un brillante successo, per poi ridursi
lentamente in stanche formule ripetitive, prive dello smalto e
dell’ispirazione iniziale.
L’opinione degli studiosi dall’Hoogewerff al Di Carpegna, gli
assegnava un’influenza determinante sugli sviluppi del genere a
Napoli, pur senza giungere agli eccessi del Van Puyvelde che
riteneva fosse il fondatore di una vera e propria scuola
pittorica, dalla quale sarebbero sbocciati in seguito Giovan
Battista Ruoppolo e Giuseppe Recco. Oggi la critica ha
ridimensionato il suo ruolo a comprimario di lusso, con un debito
di formazione verso i primi generisti partenopei, in primis Paolo
Porpora, pur avendo contribuito in maniera rilevante al successo
del nuovo gusto barocco che costituirà la moda predominante per
più generazioni.
Molte
sono le sue tele firmate, poche viceversa le date, mentre non
conosciamo alcuna opera eseguita in patria; invece possiamo
tranquillamente assegnare al periodo romano tutta la produzione in
cui il collaboratore è chiaramente un artista attivo nell’urbe.
Le sue
prime realizzazioni sono probabilmente le Ghirlande della
galleria Corsini, in cui si apprezza un forte contrasto tra il
fondo scuro ed il primo piano inondato di luce, o la
Vendemmiatrice del museo di Stoccolma. Abbastanza antica è
anche la grande composizione della pinacoteca d’Errico di Matera,
classico esempio di un decorativismo dal potente respiro
monumentale.
Alcuni quadri sono di grandi dimensioni, sempre arricchiti con
figure, come quello del Museum of art di Providence nel Rhode
Island, con collaborazione di Luca Giordano secondo il Causa e di
Sebastiano Ricci per il Salerno, o il «Cerere e Putti» della
collezione di Paul Getty, strepitoso schiamazzo di festoni di
fiori e frutti in un giardino con figure di Guillaume Courtois,
che collabora anche a degli splendidi pendant in collezione
privata milanese datati «167 e 16 ...».
Importante per fissare dei termini cronologici precisi nel suo
percorso artistico è la monumentale Natura morta di fiori in vaso
metallico, già nella collezione Achille Lauro, firmata e datata
1676, forse la sua prima fatica napoletana, un esuberante trionfo
barocco di fiori esaltato da una brocca preziosa e contrassegnato
da uno scorrere fluido della luce resa sfavillante da una accorta
scelta cromatica.
Collabora con Luca Giordano e altri generisti nelle committenze
per il Corpus Domini. Le opere napoletane, come abbiamo già
segnalato, scadono negli anni ad un livello di routine
convenzionale; ciò nonostante tangibile è la sua presenza nel
panorama artistico partenopeo, messa in risalto dalle sperticate
lodi del De Dominici, che hanno trovato in epoca moderna conferma
nell’analisi critica portata a termine dal Causa nella sua
monumentale monografia sulla natura morta napoletana del 1972.
Fece scalpore la dimenticanza, sottolineata anche dalla Laureati,
da parte dei curatori della mostra sulla Civiltà del Seicento che
non inclusero tra gli artisti presentati il Brueghel, un pittore
abile a divertirsi delle immagini sempre diverse che crea, del
trionfo dei colori e delle forme, della irrefrenabile fantasia che
le accende in un gioco infinito di citazioni, contaminazioni,
sorrisi, ironie.
Il
Seicento si chiude nell’ambito della natura morta con l’opera di
una singolare personalità d’artista completo: letterato, filosofo,
teatrante oltre che, naturalmente, delicato cantore in grado di
plasmare nei suoi dipinti il soffio vivificante di un’emozione e
di un lirismo mai prima raggiunto. Parliamo dell’abate Andrea
Belvedere (Napoli 1652 circa - 1732) che prosegue la
tradizione mai interrotta dei migliori fioranti napoletani
prendendo spunto da ognuno degli epigoni: dal Porpora
l'iconografia dei soggetti, da Giuseppe Recco la chiara lucidità
di analisi e di resa ottica, da Giovan Battista Ruoppolo il gusto
dell'enfasi decorativa.
La sua
è una pittura gioiosa, percorsa da una sottile vena di malinconia,
che ben si esprime nell'aspetto dimesso ed impaurito di alcune sue
creazioni; egli rifugge sdegnato dalle grandiose cascate di fiori
e di frutta dei suoi contemporanei, dai prorompenti trionfi empi
di prosopopea, per focalizzare la sua indagine nella intima
vitalità che scaturisce dal mondo vegetale in una gioiosa
vibrazione di colori e di luce.
Fiorante originalissimo, è il più genuino interprete dell'eredità
caravaggesca che sa trasfondere e sublimare con tocchi di eleganza
e finezza interpretativa, «con i quali avvertiamo distintamente
che verità e sincerità di pittura sono diventate talento
raffinato, genio del prezioso, del raro e dello stupefacente,
graziosa o spettacolare finzione» (Volpe).
Egli
traghetta dolcemente la pittura di genere dalla solida corposità
della nostra migliore tradizione ad una sensibilità nuova, ad una
leggerezza rocaille, che è il segno più tangibile dei tempi nuovi,
con un prodigio di sottigliezze visive e di vibrante naturalezza.
Acuto
osservatore, si dimostra aggiornato sugli esiti più recenti della
pittura europea: dalle più antiche esperienze di Juan de Arellano,
ai prodotti dei principali generisti francesi e tedeschi, attivi a
Roma negli ultimi decenni del secolo. I suoi saldi riferimenti,
che cerca di eguagliare e superare, sono Jean Baptiste Monnoyer,
Franz Werner Von Tamm e Karel Von Vogelaer, gli ultimi due più
conosciuti come «Monsù Duprait» e «Carlo dei fiori», che il
Belvedere traduce in spiritosa parlata partenopea con accenti
personalissimi.
Su
questa gara a distanza nei riguardi di questi illustri specialisti
stranieri, obiettivo traguardo di sincera emulazione, ci soccorre
il racconto del De Dominici, che del pittore, suo contemporaneo,
era oltre che estimatore anche grande amico: «sicché datosi a far
nuove fatiche sul naturale dei fiori, e massimamente sulle fresche
rose, che arrivò a dipingere con un’incomparabile tenerezza,
pastosità di colore, e sottigliezza di fronde, che rivoltate fra
loro, e con la brina al di sopra, dimostra non essere dipinte ma
vere, e così gli altri fiori tutti, che son mirabili nel gioco
delle foglie; e nell’intreccio semplice, ma pittoresco
dell’insieme dove essi sono situati; accompagnati poi con pochi
lumi, o con un accordo meraviglioso».
Ed i
risultati di questa severa applicazione sono sotto i nostri occhi,
grazie alle sue tele pervenuteci che conservano intatte la gioia
dei colori e l’audacia dello slancio creativo «con una grazia
arcadica, sbattere d’ali bianche, travolgenti tormente di petali,
esplosive eruzioni di corolle e corimbi, di viticci e polloni»
(Causa).
Grazie
all’interessamento del Giordano, il nostro pittore si recò in
Spagna, dal 1694 al
1700, a
rinnovare la gloria della nostra tradizione che Giuseppe Recco
troppo brevemente aveva portato alla corte del re Carlo II. Al suo
ritorno a Napoli egli abbandonò il mondo della pittura per
dedicare tutte le sue energie alla sua nuova passione: il teatro.
Il
catalogo del Belvedere che comprende numerose tele siglate o
documentate è discretamente ampio, anche escludendo quella marea
di dipinti che sul mercato abili antiquarî cercano di far passare
per autografi.
Un nucleo consistente di quadri è conservato nel museo Correale di
Sorrento, come Fiori, frutta e anatre o Fiori e
grande conca di rame; nel museo
Stibbert di Firenze si trova Fiori attorno ad un’erma,
mentre a palazzo Pitti vi è un delizioso Anatre e fiori.
Famosissime le due coppie di pendant Bottiglia con garofani
e Bottiglia con tulipani del museo di Capodimonte e del
museo Correale ed i due monumentali Vasi di fiori del Prado,
siglati con il monogramma; singolare una tela di Pesci del
museo di San Martino, un soggetto inusuale nella sua trattazione,
rifinito con delicatezza di esecuzione che fa già presagire le
dolcezze settecentesche, «un’incipriata galanteria gastronomica»
(Causa) nel fluente filone delle composizioni marine. Ed infine il
suo capolavoro già lodato dal De Dominici e del quale conosciamo
anche l’antica collocazione nella casa del celebre avvocato ed
erudito Giuseppe Valletta a Napoli. Si tratta della tanto
decantata Ipomenee e boules de neige, a lungo conosciuta
come Ortensie, una tela ricca di sfumature cromatiche che
ci dona un senso di pacata serenità d’animo ed una propensione ad
apprezzare le meraviglie della natura, che si manifestano con
precisione anche nei minimi dettagli.
Con la
rinuncia del Belvedere ai piaceri della pittura si chiude il
secolo e dietro di lui una folla di fioranti facili e svelti di
mano ed una torma di imitatori fannno ressa su un mercato molto
florido, dove alcune richieste, scaduto il gusto dei committenti,
si esaudiscono a metraggio.
Tra i
successori entro il finir del secolo alcuni nomi vanno ricordati
come Giuseppe Lavagna (? - Napoli 1724), oscuro generista
segnalato dal De Dominici, il quale, dopo aver menzionato il suo
allunato presso il Belvedere descrive il suo stile: «ingrandì un
po’ soverchio i suoi fiori e gli dipinse con più libertà»,
Gaetano De Alteris, pittore di fiori e di frutta, famoso
medico, oltre che artista dilettante, di cui danno scarse notizie
il De Dominici ed il Giannone, don Ferdinando Fusco, altro
nome senza opere, ancora da riscoprire, e l’ancora sconosciuto
Francesco Bona, sul quale ha fornito alcuni contributi il
Bologna. Vi è poi quella fitta schiera di seguaci, alcuni
particolarmente meritevoli, che conducono la fiaccola del genere
in pieno Settecento e che noi, per i limiti cronologici che ci
siano posti per questa opera, citiamo di sfuggita: Francesco
Lavagna, discendente di Giuseppe, Nicola Casissa di
recente rivalutato dagli studiosi, Giorgio Garri a capo di
un’altra dinastia di generisti con il fratello Giovanni e la
figlia Colomba, Gaspare Lopez, che prosegue stancamente le
tematiche del Belvedere con più spenti accenti espressivi,
Tommaso Realfonso, il famoso Masillo che gode di
particolare prestigio per alcune sue notevoli opere,
Baldassarre De Caro, rampollo di un’altra nobile
dinastia, mediocre ripetitore di iconografie olandesi, dotato
nella rappresentazione di animali e di selvaggina ed infine
Giacomo Nani, con il figlio Mariano, che chiudono una gloriosa
tradizione che si spinge fino alle soglie dell’Ottocento.
La vicenda della natura morta nel corso del secolo d’oro della
pittura napoletana è come abbiamo visto storia intricata, fitta di
avvenimenti, di pittori, di risultati. Le zone di buio sono ancora
molto ampie, anche se gli studi, come vigorosi colpi di accetta,
hanno lentamente aperto una vistosa breccia, da cui sempre più
vengono fuori e circolano luce e notizie. Molti sono gli
interrogativi e le personalità ancora misteriose, oggi indicate
sotto la convenzione di monogrammista o di «maestro di», mentre
famosi personaggi, citati da biografi e dai documenti, da
Turcofella, ad Ambrosiello Faro ed Angelo Mariano sono ancora alla
ricerca delle loro opere.
La
grande confusione delle sigle, buone per più autori, per colmo di
sfortuna con le stesse iniziali, ha contribuito maggiormente alle
indecisioni.
Negli
ultimi anni il settore ha goduto di un notevole impulso di mercato
ed a ruota si è risvegliato un certo interesse da parte degli
studiosi, ma non molti progressi in verità si sono registrati in
questi ultimi trent’anni da quando nel 1972 Raffaello Causa
concludeva, con considerazioni simili, la sua impareggiabile
esegesi sullo stato degli studi intorno alla natura morta
napoletana.
Il genere della
natura morta, di cui abbiamo discorso in precedenza, acquisì a
Napoli, nel corso del XVII secolo, una tale importanza da
assurgere a fenomeno di rilevanza europea, per l'oggettiva forza
espressiva di personaggi quali il Porpora ed il Belvedere o di
dinastie d'artisti come i Recco ed i Ruoppolo, i cui quadri erano
richiesti da una committenza laica e borghese che andava
diffondendosi sempre più.
Un altro genere
che incontrò larga affermazione nella pittura napoletana e
lusinghiero successo tra i collezionisti fu la battaglia.
La nobiltà amava
molto adornare le pareti dei propri saloni con delle battaglie
raffiguranti singoli atti di eroismo o complessi combattimenti che
esaltavano il patriottismo e l'abilità bellica, virtù nelle quali
gli stessi nobili amavano identificarsi.
Anche la Chiesa fu
in prima fila nelle committenze, incaricando gli artisti di
raffigurare gli spettacolari trionfi della cristianità sugli
infedeli, come la memorabile battaglia navale di Lepanto del
1571. che segnò una svolta storica con la grande vittoria sui
Turchi, divenendo ripetuto motivo iconografico pregno di valenza
devozionale, replicato più volte per interessamento dell'ordine
domenicano, devotissimo alla Madonna del Rosario, la quale seguiva
le vicende terrene benevolmente dall'alto dei cieli.
Altri temi cari
alla Chiesa nell'ambito del genere furono ricavati dall'Antico e
dal Nuovo Testamento, quali La vittoria di Costantino a ponte
Milvio ed il San Giacomo alla battaglia di Clodio,
argomenti trattati magistralmente da Aniello Falcone che fu il
più preclaro interprete della specialità, «Oracolo» riconosciuto
ed apprezzato, sul quale ha scritto pagine insuperate il Saxl
nella sua opera Battle scene without a hero, una acuta ricerca che
non ha trovato l'eguale nell'analisi di altri grandi battaglisti
del Seicento quali Salvator Rosa e Jacques Courtois, detto il
Borgognone.
A Napoli fu molto
diffuso il sottile piacere della contemplazione della battaglia
presso masochistici voyeurs, che prediligevano circondarsi non di
procaci nudi femminili dalle forme aggraziate ed accattivanti o di
tranquilli paesaggi, né di severi ritratti o di languide nature
morte, bensì di gente che si azzuffava a piedi o a cavallo, usando
spade sguainate ed appuntiti pugnali, dando a destra e a manca
terribili fendenti «in ariosi e fumosi, sereni o temporaleschi,
pianeggianti o collinari scenari, ideali comunque per tali
bisogne» (Bertolucci).
Nella nostra città
il genere muove i primi passi grazie a Belisario Corenzio, artista
di origine greca, attivo fino a dopo il 1646, a lungo
incontrastato ras negli appalti per le grandi imprese decorative.
Numerosi suoi disegni, con finalità commemorative illustranti
episodi guerreschi della vita di don Giovanni d'Austria, a
partire dal 1580, si trovano in importanti musei e grandi
collezioni private, quali il Metropolitan di New York e la
Biblioteca nazionale di Madrid, come anche nella collezione di
Anthony Blunt e in quella di John Witt; nel campo degli affreschi,
invece, un ciclo molto significativo, eseguito sotto la sua
direzione, si trova nella chiesa dei Santi Severino e Sossio, con
l'episodio centrale di Giosuè contro gli Amaleciti.
I grandi
protagonisti del genere furono Salvato Rosa ed Aniello Falcone,
che ebbere la funzione di caposcuola con numerosi allievi tra i
quali ricordiamo citati dal De Dominici, Carlo Coppola, il più
noto, Marzio Masturzo, Matteo di Guido e Giuseppe Trombadori.
Questi artisti a loro volta avevano la loro bottega con altri
allievi, il che ha creato nell'ambito della conoscenza della
pittura di battaglia a Napoli una grande confusione e la necessità
di nuovi studi e approfondimenti per definire con certezza,
nell'inestricabile groviglio di opere, le attribuzioni precise.
Salvator Rosa nei
suoi quadri di battaglia dà libero sfogo al suo irrefrenabile
istinto per il pittoresco, imprimendo alle sue composizioni un
respiro ampio con un anelito ad idealizzare i combattimenti che,
ambientati in un lussureggiante paesaggio con sullo sfondo
ruderi di templi e severi edifici, trasmettono allo spettatore una
viva emozione, oltre alla meditazione sugli oscuri motivi che
scatenano i più bassi istinti dell’uomo.
che possedeva ben
trenta volumi di grafica antica e contemporanea.
Il De Dominici
mostra di conoscere e di apprezzare i disegni del Falcone quando
afferma che «aggiunge alla forza di Ribera la dolcezza di Guido».
Alcuni esiti della sua applicazione possiedono uno straordinario
vigore ed uno stupefacente impatto visivo come il famoso «Ritratto
di Masaniello», conservato alla Pierpont Morgan Library, un
adattamento di un disegno di Leonardo da Vinci, eseguito in vista
della realizzazione della «Battaglia di Anghiari».
Alla figura
dell'”Oracolo» va strettamente riferita quella di Andrea De Lione,
anch'egli valente battaglista, interessato alla grafica nella
stessa ottica falconiana ed a sua volta possessore, come si evince
dal suo testamento, di numerosi disegni dei suoi colleghi.
«La linea di
demarcazione tra gli elaborati grafici del Falcone e del De Lione si
presenta più evidente e sensibile negli studi per i dipinti,
impercettibile invece nelle accademie di nudo» (Causa Picone).
Tale sottile
distinguo non è stato ancora affrontato dalla critica anche se si
può affermare che i disegni del Falcone sono più dinamici ed
impregnati di vigore naturalistico, mentre il De Lione appare più
compendiario e con un'eco più flebile.
A distinguere i due
artisti ci aiutano le immancabili dichiarazioni del De Dominici che
del De Lione riferisce «fu molto studioso del disegno, e
massimamente del nudo. E infatti vanno a torno molte sue accademie
assai ben disegnate, come altresì molte teste, e parti del corpo, a
somiglianza del maestro (Falcone) che simil faceva». A conferma di
queste parole, nel museo di Capodimonte sono conservate due
splendide sanguigne rappresentanti ben dotati nudi virili, firmate,
ed illustrate dal Blunt già prima dell'ultima guerra.
Il ductus grafico
del De Lione si basa su «un contorno netto con angoli ben delineati
e sulle linee che spiccano delle figure e le ombre rese col
tratteggio di segni paralleli» (Sestieri). La resa dell'immagine è
immediata, mentre il movimento è esplicato con contorni appena
accennati ed ombreggiature che definiscono le forme.
Bernardo Cavallino
come disegnatore rimane a tutt'oggi un continente inesplorato ed i
pochissimi fogli che gli possono essere attribuiti con certezza,
anche se di raffinata fattura, realizzati con un tocco rapidissimo
ed animati da una vibrante agitazione superficiale, costituiscono la
punta di un iceberg che stenta ad emergere.
L'altissima qualità
dei fogli pervenutici e la rarità dei pentimenti nei dipinti del
Cavallino, ci fa supporre che la sua produzione sia stata ben più
cospicua ed anche se alcune realizzazioni probabilmente giacciono
non identificate nelle collezioni private o nelle anonime cartelle
di qualche sezione di disegni di un lontano museo, la maggior parte
probabilmente è andata persa.
Una possibile
distruzione può essere avvenuta durante la peste del 1656, che
colpì la nostra città e lo stesso pittore, ed un destino simile può
aver interessato anche i disegni di altri artisti, ingenerando per
secoli la convinzione che i pittori napoletani non si applicavano
molto alla grafica, ma si dedicavano al più presto ai loro pennelli
ed ai colori. Infatti bisogna tener presente che durante
l'infuriare del morbo una commissione fu incaricata di segnare con
una croce le case degli appestati, le cui cose indiscriminatamente
venivano date al fuoco e per attizzare le fiamme cosa può esservi di
meglio della carta!
Destino crudele, che
in tempi recenti ha di nuovo danneggiato il patrimonio culturale
della città, quando, dopo il sisma del 1980, i terremotati
alloggiati nei locali attigui alla storica biblioteca dei Gerolamini,
inconsapevoli nuovi barbari, adoperarono per mesi, senza che
nessuno intervenisse né si indignasse, le pagine di antichi libri e
di rari manoscritti per riscaldarsi nelle tiepide notti
partenopee!!!