Cap.2
Carlo Sellitto e Filippo Vitale due
caravaggisti DOC
Tra i pittori napoletani che tributarono al Merisi l’accoglienza più
entusiastica vi è in prima fila Carlo Sellitto, nato culturalmente
in ambito tardo manierista filtrato dall’insegnamento del fiammingo
Lois Croise, per accogliere poi il nuovo messaggio e dar luogo a
composizioni drammatiche, animate da un’intensa tensione emotiva e
da una spasmodica ricerca di verità, con un dominio della luce che
modella le immagini attraverso un sottile gioco di ombre
patognomonico del suo stile.
La sua prima opera documentata, unica firmata, è del 1606 e si trova
in provincia ad Aliano. Essa raffigura una Madonna in gloria con
donatore e nonostante l’impronta manieristica baroccesca presenta in
basso un’immagine del committente dalla precisione ottica
stupefacente, a lampante dimostrazione dell’abilità dell’artista
come ritrattista. Sempre in Basilicata, terra natia del pittore, è
conservata a Melfi una Madonna del suffragio con anime purganti,
intrisa di naturalismo con la luce che evidenzia le figure ed i
gesti, sottolineando la drammaticità della scena.
In ambiente napoletano la sua più importante commissione lo
impegnerà dal 1608 al 1612 in Sant’Anna dei Lombardi nella cappella
Cortone, nell’esecuzione di un ciclo su San Pietro, dove ha
l’occasione di lavorare al fianco di Caravaggio attivo nella
cappella Fenaroli e del Caracciolo operante nella cappella Noris
Correggio. Un cataclisma, distruggendo la chiesa nel Settecento, non
ci ha permesso un confronto tra le opere in gran parte distrutte.
Delle cinque eseguite dal Sellitto se ne sono salvate soltanto due,
segnate da un fascio luminoso potente che scandisce i corpi nel
ritagliarsi violento delle ombre.
In seguito egli esegue, tra il 1610 ed il 1613, il San Carlo per la
chiesa di Sant’Antoniello a Caponapoli e la splendida Santa Cecilia
all’organo per la chiesa della Solitaria, entrambe oggi a
Capodimonte, l’Adorazione dei pastori per la chiesa degli Incurabili
e la Visione di Santa Candida per Sant’Angelo al Nilo, percorsa da
un brivido di luce calda e avvolgente.
Altre opere da aggiungere al suo scarno catalogo sono la Santa Lucia
del museo di Messina ed il David e Golia del museo nazionale della
Rhodesia.
Un segno tangibile del prestigio raggiunto dal pittore presso la
committenza fu l’incarico, nel 1613, di eseguire una Liberazione di
San Pietro da collocare su un altare del Pio Monte della
Misericordia, ma l’opera per l’improvvisa morte del Sellitto fu poi
affidata al Battistello.
Egli lasciò nella sua bottega numerose tele incompiute, tra cui il
Crocefisso per la chiesa di Portanova, oggi purtroppo scomparso per
un ignobile furto ed il Sant’Antonio da Padova per i governatori di
San Nicola alla Dogana, ricco di un gioco luminoso sui volti ed in
cui si può leggere come segno distintivo, quasi una firma nascosta
del pittore, il classico tocco di luce sulle fisionomie dei
personaggi, che si può apprezzare anche nella famosa tela di Santa
Cecilia all’organo.
Nel suo atelier vi erano anche una serie di quadri di natura morta,
di paesaggio ed è inoltre noto dai documenti che fu celebre
ritrattista, ricercato da nobili e borghesi, una produzione al
momento completamente sconosciuta agli studi eccetto poche esempi.
Tra questi possiamo segnalare il Ritratto di gentildonna in vesti di
Santa Cecilia, transitato più volte sul mercato, nel quale si
avverte un contemperamento dei caratteri caravaggeschi con
intenerimenti classicistici e preziosismi cromatici di matrice
reniana, consentaneo alla presenza a Napoli nel 1612 del divino
Guido.
Il Bacco del museo di Francoforte, variamente attribuito negli anni,
è certamente opera del Sellitto, intorno al 1610, per le stringenti
affinità nel gioco delle ombre con l’angioletto della Santa Cecilia,
clone perfetto che richiama a viva voce lo stesso pennello e per lo
splendido brano di natura morta ci conduce agli esordi della pittura
di genere in area napoletana.
Alla fase luministica del caravaggismo appartiene l’attività
giovanile di Filippo Vitale, un artista di rilievo, quasi
completamente trascurato dalle fonti antiche e la cui personalità è
stata ricostruita solo negli ultimi decenni.
Egli è imparentato con Annella e Pacecco De Rosa di cui è patrigno,
con Giovanni Do, Agostino Beltrano ed Aniello Falcone di cui è
suocero. Un tipico esempio di quella ragnatela di parentele che lega
molti altri pittori napoletani del primo Seicento, i quali abitarono
quasi tutti nella zona delimitata tra piazza Carità e lo Spirito
Santo, vera Montmartre dell’epoca. Su tanti intrecci ci ha
illuminato la ricerca durata un’intera vita di un benemerito
erudito, il Prota Giurleo, il quale con certosino lavoro di spulcio
di processetti matrimoniali, testamenti, fedi di battesimo, polizze
di pagamento ed inventari, ha fornito ai critici una mole enorme di
dati e di documenti sulla quale lavorare per ricostruire la
personalità di tanti artisti.
Vitale è allievo di Sellitto del quale completa il Crocefisso di
Santa Maria in Portanova ed anche lui lavora in Santa Anna dei
Lombardi, dove riceve dai Noris Correggio per un San Carlo Borromeo
un compenso molto alto di duecento ducati.
Dipinge poi la Liberazione di San Pietro dal carcere del museo di
Nantes, il San Sebastiano conservato a Dublino e il Sacrificio di
Isacco del museo di Capodimonte Tra il 1617 ed il ’18 è impegnato ad
eseguire otto tele per il soffitto dell’Annunziata di Capua, che
purtroppo versano oggi in pessimo stato di conservazione.
Successiva è la grande pala dei Santi vescovi, già in San Nicola
alle Sacramentine di un intenso naturalismo impregnato dalla lezione
caravaggesca, nella quale si possono ipotizzare anche scambi
culturali con Tanzio da Varallo dotato di un più intenso senso
luministico.
In seguito si avvicina ai modi di Ribera raggiungendo il culmine del
suo percorso naturalistico con il San Sebastiano della chiesa dei
Sette dolori e l’Angelo custode della Pietà dei Turchini, il suo
capolavoro, uno dei quadri più importanti del Seicento napoletano,
dal poderoso impianto compositivo, nel quale al ricordo del
valenzano si impongono suggestioni di rigoroso naturalismo, potente
creazione in cui è facile leggere nel volto dei personaggi la rabbia
e il disappunto, la serenità e la giustizia, il candore e
l’innocenza.
La Deposizione della chiesa di Regina Coeli, firmata e databile
intorno al 1635 apre una fase di crescente inclinazione prima in
senso pittoricistico e poi decisamente classicista, che sfocerà
nell’ultimo decennio in una fase pacecchiana, dopo un lungo periodo
di collaborazione col figliastro. La sua tavolozza divenne sempre
più smaltata e ricca di colori luminosi e vivaci come si avverte
nella Fuga di Loth da Sodoma, firmato e datato 1650, di collezione
privata pendant di un Rachele e Giacobbe realizzato dal De Rosa.
Numerose sono le tele a quattro mani che la critica, progredite le
cognizioni sui due artisti, ha identificato, dalla Madonna e San
Carlo di San Domenico Maggiore alla Gloria di Sant’Antonio
conservato nell’eponima arciconfraternita in San Lorenzo, mentre
molti dipinti risentono ancora di scambi nella paternità tra i due
parenti e necessitano di percorrere un arduo sentiero attributivo
avvolto ancora più da ombre che da luce.
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