Ai miei compagni di sventura
rimasti nei gironi dell’inferno di Poggioreale
Prefazione
Ho raccolto con piacere l’invito del dottor Achille della Ragione a
scrivere questa prefazione al suo lavoro.
Ho letto tutto di un fiato il suo resoconto del “soggiorno” nella
casa circondariale di Poggioreale ed ho rivissuto tante delle
sensazioni che mi sono rimaste dentro, dopo un mio “soggiorno” nello
stesso Grand Hotel, tanti anni orsono.
Io fui meno fortunato perché per me era stato prenotato un periodo
di permanenza ben più lungo: ebbi modo di apprezzare le amenità ed i
confort di quella struttura per circa tre mesi.
Achille della Ragione, lucidamente, rende pubblico che le cose non
sono cambiate.
Angoscia che la struttura, i comportamenti, le prassi, i piccoli
abusi, le insensibilità siano rimaste essenzialmente le stesse.
Il tempo nel Grand Hotel Poggioreale è fermo.
Il racconto, con trasporto, del dottor Della Ragione della
commovente estensione della solidarietà umana che immediatamente
affascia ogni “nuovo giunto”, non mi ha per nulla sorpreso.
Della nobiltà dei comportamenti dei reclusi, anche di coloro che
all’esterno delle possenti mura vivono esistenze da efferati
criminali, serbo un caro ricordo.
Non mi sorprendo che essa sia rimasta immutata.
Non auguro a nessuno l’esperienza mia e di Achille della Ragione:
penso però che tanti operatori della giustizia, a prescindere dal
colore della toga, da una breve permanenza in quella casa
circondariale trarrebbero utili ragioni di riflessione per meglio
svolgere la fondamentale funzione che l’appartenenza alla
istituzione della magistratura gli attribuisce.
Auguro invece al dottor Della Ragione di veder riconosciuta la sua
innocenza in tempi brevi, senza dover attendere, come è successo a
me, quindici anni sino a che il Tribunale, su richiesta del Pubblico
Ministero, pronunziasse sentenza di assoluzione.
Qualche mese fa, appena eletto parlamentare della Repubblica
Italiana, sono tornato al “Grand Hotel” Poggioreale in visita
ispettiva.
Non avevo certo nostalgia della suite che mi vide ospite nel 1993.
Ma desideravo fare un parametro comparativo tra la “mia stagione”e
l’organizzazione attuale del triste albergo partenopeo.
Ho potuto rilevare che al “Torino”, il mio padiglione, non vi sono
più i cessi alla turca, che mi avevano accompagnato per circa tre
mesi.
Ed anche un’altra “straordinaria conquista” è offerta oggi dalla
Direzione agli ospiti: adesso la doccia è consentita due volte a
settimana!
Nel 1993 ne potevamo “godere” di una alla settimana; e quasi sempre
l’acqua veniva offerta o bollente o ghiacciata. Adesso può essere
ben miscelata.
Passare qualche minuto sotto il getto dell’acqua è certamente
tonificante e rigenerante.
Poterlo fare al Grand Hotel Poggioreale provoca una sensazione
stupenda che ti “resta dentro” almeno per un’intera giornata.
È quasi bella come il colloquio con un familiare.
Anche la descrizione della domenica a Messa che fa della Ragione ha
provocato in me uno straordinario tuffo nel passato.
Anche se, devo sottolineare, che, a mio parere la maggior parte
degli ospiti del Grand Hotel Poggioreale, partecipa alla funzione
religiosa per muovere qualche passo in più. E per incrociare qualche
volto nuovo proveniente da altro padiglione.
Ho sempre creduto che la solidarietà debba essere praticata e non
certo predicata: in quel postaccio e per tutti quelli che vi
transitano è la prima regola.
Il 2 giugno 2008, festa della Repubblica, sono stato in visita al
Carcere Militare di Santa Maria Capua Vetere, per portare
solidarietà e conforto ad un servitore dello Stato, il dottor Bruno
Contrada, ex dirigente del SISDE che ha già frequentato per cinque
anni alcune strutture carcerarie.
Un esperto in materia.
Un uomo anziano, di 77 anni, afflitto da 26 gravi patologie. Un
morto che cammina. Ma che un magistrato di Sorveglianza si ostina a
non voler liberare: ha scritto che ‘nel caso di Bruno Contrada non è
stato ancora superato il limite della umana tollerabilità’. Roba che
neanche nel Medioevo!
Mi auguro che quando Achille della Ragione avrà dato alle stampe
questo suo libro l’amico Contrada non sia morto. Anzi, possa aver
riabbracciato, da uomo libero, la sua famiglia ed i suoi amici, e
pubblicare anche lui un libro su questo tema, che potrà far crescere
il tasso di sensibilità e di umanità che alcuni Italiani sembrano
aver smarrito.
On. Amedeo Laboccetta.
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Introduzione
Questo diario vuole raccontare a chi non la conosce l’allucinante
realtà della segregazione in un penitenziario, che rappresenta un
ignobile monumento alla sofferenza, all’ottusa severità ed alla
mortificazione della dignità umana, senza speranza alcuna di
redenzione e di reinserimento sociale.
Il triste edificio del carcere di Poggioreale è noto universalmente
come il posto meno indicato dove scontare una pena o peggio ancora
attendere innocente i vari gradi del giudizio.
Emblematico che esso si trovi a Napoli, per secoli antica e gloriosa
capitale, oggi miseramente ridotta al rango di capitale della
monnezza, dove la vivibilità è degradata paurosamente, gli ospedali
sono i più sgangherati, le strade sono le più affollate, gli uffici
pubblici sono i meno efficienti, mentre, lo posso urlare
perentoriamente, i napoletani non sono i peggiori tra gli italiani.
Il libro, tranne l’ultimo capitolo ed alcune appendici, è stato
tutto scritto nei 15 interminabili giorni di ospitalità… dello
Stato, dal 24 giugno 2008 al giorno 8 luglio, quando, a seguito
della decisione del Tribunale del Riesame, il quale, non accettando
le ipotesi dell’accusa, ha annullato il provvedimento di custodia
cautelare, ho riacquistato la libertà.
Esso è stato scritto inizialmente con una matita spuntita reperita
nella spazzatura sul retro di fogli già scritti, su bordi di
giornale, sulla carta igienica, perché all’ingresso, tra le tante
cose che mi furono sequestrate, oltre alle foto dei miei figli e dei
miei nipoti, mi fu vietato di portare con me un innocente
quadernetto ed una penna che, timidamente, mia moglie aveva aggiunto
al mio bagaglio per permettermi di scrivere qualche appunto, tenendo
conto che da oltre dieci anni, lasciata per gravi motivi di salute
la mia professione di medico, sono a tempo pieno uno scrittore. Ma
il timore che possa uscire fuori qualche notizia sulle spaventose
condizioni di vita all’interno di quelle tristi mura prevale, nel
regolamento, al rispetto dei più elementari diritti umani.
Nel famigerato carcere dello Spielberg, in periodi famosi per
repressione e ferocia, a Silvio Pellico fu permesso di scrivere “Le
mie prigioni”, la cui diffusione costò all’Austria più di una grande
guerra perduta.
Auspico che queste amare riflessioni che mi accingo ad elaborare
possano, grazie al magico potere della scrittura, riuscire ad
incrinare, se non scardinare le fondamenta di un assurdo edificio
predisposto ad infliggere sofferenza ed umiliazione, senza speranza
alcuna di resipiscenza e di avviamento al lavoro in assoluto
dispregio del dettato costituzionale, della logica e della pietà.
Tra le pagine del libro la mia vicenda giudiziaria è appena
accennata, come pure la spietata gogna mediatica alla quale sono
stato sottoposto, esse non hanno alcuna importanza per i lettori,
perché il mio scopo è unicamente quello di fotografare, senza astio
alcuno, la situazione di un carcere costruito per 1200 reclusi e che
ne ospita costantemente più del doppio e dove le condizioni di
vivibilità sono intollerabili.
Esso è dedicato ai miei compagni di sventura rimasti nei gironi
dell’inferno di Poggioreale, ma è indirizzato all’opinione pubblica,
a tutti coloro che ritengono che sia un problema che non debba
interessarli, alla classe politica alla quale chiedo una legge per
ristrutturare un penitenziario costruito oltre cento anni fa con
criteri che gridano vendetta e che ci portano fuori dall’Europa e
dal mondo civile. Dopo il lodevole impegno del governo per liberare
Napoli dalla spazzatura, auspico, chiedo, invoco una promessa in
favore di coloro che sono ritenuti a torto spazzatura umana.
A nessuno in futuro sarà lecito giustificarsi candidamente non lo
sapevo!
Achille della Ragione
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1° Capitolo - La cattura
Martedì 24 giugno ore 6.30. Il citofono bussa all’impazzata, nessuna
risposta, penso allo scherzo di un buontempone, mi affaccio e scorgo
un uomo in borghese vagare per il cortile che si qualifica
carabiniere. Alla mia richiesta di spiegazioni compaiono dal garage
e dal giardino altri militari, di cui metà in divisa, per un totale
di una decina di unità. Scoprirò solo dopo che uno di essi con
abilità scimmiesca, aveva scavalcato il muro di cinta ed aveva
aperto il cancello della villa, permettendo l’ingresso ai suoi
colleghi del nucleo catturandi.
Segue una perquisizione, per quanto soft, della mia casa, forse
hanno capito subito che non era necessaria, forse intimoriti dalla
inutile fatica di dover scovare qualche carta segreta tra le pagine
dei miei 15.000 volumi. Per evitare il sequestro del computer, dove
vi sono i files di alcuni miei libri da consegnare a breve agli
editori, decine di migliaia di immagini e tante altro materiale
frutto di decenni di lavoro, invito l’esperto in informatica
dell’equipe a visitare il mio sito, a prendere visione della mia
casella di posta elettronica e ad esplorare il cestino, dove a volte
ci si libera di notizie imbarazzanti.
Ci rechiamo poi nel mio studio dove vengono sequestrate, oltre al
registro delle fatture, costellato da ben pochi nomi vecchi di anni,
alcune foto di una paziente alle prese con il vaginometro, un
apparecchio da me ideato e brevettato, adoperato per la diagnosi e
la terapia della frigidità, il quale viene scambiato per un
macchinario idoneo a provocare l’aborto; per inciso tali immagini mi
vennero già sequestrate nel lontano 1996 e date in pasto alla
stampa, che parlò enfaticamente di materiale pornografico, per poi
essermi restituite, senza scuse, quando si appurò trattarsi di
materiale esclusivamente scientifico.
Vengo poi trasferito alla caserma Pastrengo per le foto segnaletiche
e le impronte digitali. Quindi in un ufficio trascorro alcune ore
con il permesso di leggere i tre quotidiani che mi erano stati
comprati da mio figlio Gian Filippo. Mi viene offerto con gentilezza
da bere, in seguito anche del caffè ed un cornetto, che non prendo
per non turbare le mie delicate funzioni fisiologiche. I vari
militari che si alternano nella stanza, quasi tutti in abbigliamento
da falchi, tipo giustizieri della notte, scambiano con me qualche
parola con umanità, chiedendo pareri medici e consigli di vita.
Dopo meno di un’ora dall’arresto percepisco che in rete e sui
notiziari circolano già notizie trionfali sul grande blitz…
Il tempo scorre apparentemente senza motivo, ma tutto si chiarisce
solo intorno alle 14. Si attendeva di completare il carico di
pericolosi delinquenti: il collega Langella, la sua segretaria e
l’anestesista, che non conoscevo neanche di nome e che sarà poi, per
qualche giorno, il mio compagno di cella.
All’uscita della caserma un’accecante tempesta di flash di fotografi
e telecamere di televisioni da tutta Italia, pronte ad immortalare
in prima pagina i mostri. Parte poi in pompa magna un felliniano
corteo con carosello assordante di sirene delle gazzelle, che
fendono il traffico impazzito della città, percorrendo in pochi
minuti il tragitto che normalmente richiede alcune ore. I cittadini,
sbalorditi, credono sia in atto una meritoria caccia a mercanti di
droga o a spietate bante di rapinatori, viceversa stavano
trasferendo anziani e malandati medici verso l’inferno di
Poggioreale.
(Nei giorni successivi, ascoltando a tutte le ore del dì le sirene
spiegate delle vetture delle forze dell’ordine entrare con un nuovo
carico…, capirò che non si era trattato di un trattamento
eccezionale, ma di normale routine dettata probabilmente da motivi
di sicurezza).
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2° Capitolo – L’ingresso a Poggioreale
Giunti all’ingresso del tetro penitenziario le sirene finalmente si
placano. Non mi è parso di scorgere all’entrata un dantesco
avvertimento: “Perdete ogni speranza voi che entrate”, sarebbe stato
quanto mai opportuno.
Il carcere è un luogo di finta democrazia mantenuta al livello più
basso possibile. Sintomatico che per la spesa mensile qualsiasi
detenuto possa spendere un massimo di 520 euro e con quella cifra
debba acquistare tutto, dal cibo alla carta igienica.
Appena vi entri non conta se sei innocente o colpevole, in attesa di
giudizio o condannato a pena definitiva, se sei un soggetto fragile
o duro e spietato. Non fa alcuna differenza se prima abitavi in una
casa degna di questo nome o se sopravvivevi in una baracca, se eri
abituato a lavarti regolarmente o se col sapone avevi una
idiosincrasia insuperabile. Se mangiavi a pranzo ed a cena o solo
quando capitava. Naturalmente a soffrire di più sono coloro che
vivevano decentemente, che sono innocenti, malati, sensibili,
culturalmente e socialmente distanti anni luce dai nuovi compagni di
cella.
La prima intollerabile offesa alla dignità è il dover consegnare in
deposito le cose più innocenti: il pettine, una spugna naturale, i
medicinali; assurdo, come nel mio caso, che ti vengano sequestrati
anche i libri, le foto dei tuoi familiari, addirittura un blocchetto
di carta ed una penna per scrivere qualche appunto, per timore che
possa uscire fuori qualche notizia sulle spaventose condizioni di
vita all’interno di quelle tristi mura.
Nel famigerato carcere dello Spielberg, in periodi famosi per
repressione e ferocia, a Silvio Pellico fu permesso di scrivere “Le
mie prigioni”, la cui diffusione costò all’Austria più di una grande
guerra perduta.
Auspico che queste amare riflessioni che mi accingo ad elaborare
possano, grazie al magico potere della scrittura, riuscire ad
incrinare, se non scardinare le fondamenta di un assurdo edificio
predisposto ad infliggere sofferenza ed umiliazione, senza speranza
alcuna di redenzione e di reinserimento, in assoluto dispregio del
dettato costituzionale della logica e della pietà.
Sono diventato la matricola 137584, un semplice numero, privato dei
più elementari diritti. Trascorro 5 - 6 forse 7 ore (il tempo non si
può misurare, in assenza non solo di orologi, ma anche della luce,
che a stento filtra tra robuste e crudeli sbarre) in un locale di
pochi metri quadrati assieme a una decina di nuovi ospiti,
naturalmente senza potere, né bere, né compiere la funzione
fisiologica contraria. Tra gli improvvisati compagni di attesa volti
patibolari, assidui frequentatori dei penitenziari e spauriti
personaggi come il mio collega di professione e di sventura,
l’anestesista della famigerata(a parere dei giudici) banda
criminale…, un uomo di quasi 70 anni, reduce da pochi giorni da un
grave episodio di edema polmonare.
Ad ognuno di noi viene consegnato, dopo un’umiliante ispezione
corporale, un bacile, una brocca di plastica, delle scodelle
metalliche miserevoli, un cuscino di spugna, una federa ed un
lenzuolo.
In serata saliamo ad un piano superiore. Nuova interminabile attesa
in una cella confortata dalla presenza di un rubinetto, a cui
abbeverarsi dopo ore di arsura ed un maleodorante cesso turco nel
quale finalmente poter sfogare almeno i nostri improcrastinabili,
quanto bollenti, bisogni corporali.
Un momento di luce è rappresentato dal colloquio con lo psicologo,
una bella, ma soprattutto umanissima signora, la dottoressa Caputo,
che ringrazio pubblicamente ed alla quale avrei voluto dedicare il
libro. Mi accoglie con parole di conforto, mi assicura che la mia
permanenza sarà breve e forse mi servirà di esperienza per un nuovo
libro, mi confida di aver letto il mio volume sul problema dei
rifiuti in Campania. È tarda sera quando raggiungo la cella 22 del
padiglione Avellino riservato ai neofiti, che costituirà l’argomento
della prossima puntata.
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3° Capitolo - Padiglione Avellino cella 22
Dopo le formalità di rito che hanno occupato circa 12 ore, vengo
condotto a tarda sera nel padiglione Avellino, il più tranquillo,
dove vengono confinati i neofiti, coloro che per la prima volta si
confrontano con la dura realtà della reclusione.
Assieme al collega Grillo entro nella cella 22, occupata da tre
ragazzi: Emanuele 18 anni alla prima rapina, Antonio 30 anni alla
prima estorsione, Sasà 21 anni preso con una pistola nell’auto prima
ancora di poter cominciare la sua carriera…
La cella è di 12- 13 metri quadrati, oltre ad un vano cucina di un
metro ed un cesso (non lo si può chiamare altrimenti) con una
parvenza di doccia, che due volte alla settimana, per pochi minuti,
vomita un liquido caldo dal colore sospetto e dall’odore
indefinibile. Per lavarsi ogni giorno si usa una brocca con la quale
ci si getta addosso un po’ di acqua prelevata dal lavandino
allagando tutto il vano, che andrà poi svuotato a colpi di ramazza,
facendo convergere la pozzanghera verso un fetido buco tenuto a bada
da un peso per evitare visite imbarazzanti: scarafaggi nel migliore
dei casi, qualche volta, anche se non ho avuto l’emozione
dell’incontro ravvicinato, luridi topi di fogna.
I tre ragazzi con cameratismo esemplare ci cedono nei letti a
castello i posti più bassi, anche se più caldi; infatti la
temperatura è costantemente vicino ai 40° e l’umidità dell’aria da
bagno turco.
Il vitto è vomitevole e tutti i detenuti sono costretti, a loro
spese, ad acquistare allo spaccio il cibo, come pure tutto il resto:
dai piatti ai bicchieri di plastica, dal sapone alle sigarette, le
quali in carcere costituiscono il bene più prezioso. La spesa si può
fare una volta alla settimana con prezzi più alti dell’esterno e
prodotti più scadenti, da discount, per un totale di 520 euro al
mese. Negli ultimi giorni quasi tutti i prezzi hanno subito un
aumento del 30%. La propria spesa arriva non prima di 10 -15 giorni
dall’entrata in carcere durante i quali scatta la solidarietà della
cella: i compagni di sventura dividono con te ogni cosa, fino a
togliersi il boccone da bocca e dividere le sigarette.
La solidarietà tra reclusi non solo in cella, ma anche negli spazi
comuni: il cortile per il passeggio o la chiesa, è sbalorditiva.
Niente a che vedere con il mondo esterno dominato dal più crudo
egoismo. Pare che questa ferrea regola, questo imperativo categorico
sia stato imposto in tempi remoti dalla camorra, ma sicuramente
sotto ispirazione di una benefica divinità. Anche i più incalliti
criminali rispettano spontaneamente questa legge di sopravvivenza
encomiabile che, se per incanto fuoriuscisse ed impregnasse la vita
delle nostre città, le farebbe somigliare ad una Paradiso terrestre.
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4° Capitolo
- “Amare considerazioni”
La solidarietà tra carcerati non si manifesta solamente nella
divisione di beni materiali, ma interessa anche ciò che più
distingue l’uomo dalle bestie: i sentimenti. Ci si conforta infatti
a vicenda perché la malinconia, i momenti di profonda tristezza, le
irrefrenabili crisi di pianto, lo scatenarsi della rabbia repressa
sono frequenti, se non quotidiani, anche tra i soggetti più duri
che, privati della libertà, della dignità di uomini, allontanati
dalla famiglia e dagli amici, diventano dei vegetali, ma, purtroppo
dei vegetali dotati di una sensibilità spiccata, che permette di
percepire tutte le più svariate tonalità della sofferenza. Bisogna
pazientemente ascoltare le storie personali di ognuno, non una, ma
dieci, venti, cento volte. Ho scoperto che la quasi totalità dei
detenuti si proclama innocente, anche se si trova a confidarsi con
un suo pari e non con il giudice il quale ha in mano il suo destino,
un potere che può spettare solo e soltanto ad una divinità.
I pochi che ritengono di aver commesso un reato hanno sempre una
scusante: povertà, mancanza di lavoro, cattive amicizie.
Avere il proprio futuro legato alla decisione di uomo o più spesso
di una donna… è una sensazione straziante, perché nessuno ha più
fiducia nella giustizia umana.
Per il credente essere nelle mani di Dio dà sicurezza perché si è
certi dell’onnipotenza e della bontà del proprio giudice, che
conosce la verità e sa cosa sia la misericordia.
Chi crede nel Fato, immagina il destino non come una forza cieca e
spietata, bensì dominata da leggi ragionevoli che non ci è dato
conoscere.
Per un detenuto sapere viceversa che il suo domani e quello della
sua famiglia siano legati ad una decisione terrena, fallibile,
legata agli umori e agli ormoni di cui siamo schiavi e ad
un’interpretazione dei fatti influenzabili dall’errore e dal
preconcetto è una sensazione che “non la sa chi non la provi”.
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5° Capitolo - “I giorni passano”
Fuori dal carcere molti di noi sono certi che con la forza del
pensiero e dell’intelligenza si possa raggiungere qualsiasi
obiettivo, un peccato di orgoglio che colpisce non solo gli
intellettuali, ma anche coloro che si ritengono superiori agli
altri, perché hanno più denaro, più beni materiali o perché hanno
avuto più fortuna nella vita. Il nostro cervello è una mirabile
realtà, un microcosmo costituito da un centinaia di miliardi di
neuroni, ma che grave presunzione scambiare i nostri desideri, il
nostro pensiero, la nostra volontà con il centro dell’Universo! La
permanenza in carcere ti insegna in pochi giorni ad esercitare
l’umiltà, la modestia, la semplicità, la discrezione, virtù del
tutto desuete ai nostri giorni.
Ma continuiamo con il nostro racconto dei giorni trascorsi nella
cella 22 del padiglione Avellino, che abbiamo interrotto con il
nostro ingresso alle ore 21.00 del primo giorno.
Lo spazio è talmente poco che bisogna alternarsi ad occuparlo; vi
sono due tavolini, mentre alcuni mangiano, altri poltriscono nel
letto e viceversa.
La televisione è un vero tormento accesa dalle 7 del mattino fino a
notte fonda. Chi afferma che i programmi infessiscono ha
perfettamente ragione. In una settimana ho assistito a soaps,
serials, cartoni animati, documentari, film di Totò (non meno di una
cinquantina incluso le repliche), telegiornali e televendite in
quantità industriale, Veline, La Squadra, I Cesaroni, Un posto al
sole e tanti altri programmi di cui conoscevo appena il nome. Ho
evitato solo Il grande fratello e Maria de Filippi che erano in
pausa estiva. Un certo interesse si creava intorno alle 24, quando
sul teleschermo cominciavano ad alternarsi bonazze da schianto, uno
spettacolo che grazie alla mia età ed ai miei malanni, più che al
mio infinito amore per la mia “micia” Elvira, riuscivo a sublimare;
mentre i miei giovani compagni di cella erano costretti a mitigare i
loro ardori sessuali sconfinati e repressi con non proprio esaltanti
masturbazioni, che si svolgevano a turno nell’esiguo vano
cesso-cucina. Per i giovani queste donnine nude rappresentano gioia
e supplizio nello stesso tempo ed aumentano rabbia, eccitazione e
sofferenza. Lo stesso effetto producono le riviste pornografiche che
si possono tranquillamente acquistare nella spesa settimanale.
Avremo modo di riparlare dell’argomento alla fine del libro quando
proporremo una audace quanto efficace soluzione del problema.
Anche conservare una foto della moglie, della fidanzata o dei figli
è fonte di gioia, ma anche di infinita tristezza.
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6° Capitolo
- Il colloquio con i parenti e gli avvocati
I colloqui settimanali con i parenti sono un conforto molto
importante, perché anche se per una manciata di minuti, si possono
toccare le mani delle persone care, scambiarsi confidenze, piangere
assieme. Purtroppo bisogna affrontare una doppia via crucis: dentro,
per i detenuti, attese interminabili tutti stipati in camere di
sicurezza stracolme, mentre all’esterno i parenti fanno file
massacranti di ore, sotto l’acqua e sotto il sole, senza un briciolo
di pietà per bambini, malati ed anziani. Fuori al portone alcuni
arrivano alle quattro del mattino, per essere tra i primi e non
perdere interamente una giornata di lavoro. La fila si snoda senza
alcun controllo, per cui è facile per i prepotenti scavalcare i più
deboli o lo scatenarsi di risse, anche se taluni cedono il passo a
vecchi che si trascinano con il bastone o alle donne con bambini in
braccio. Non è capitato così a mia figlia Tiziana, la quale, giunta
appositamente da Barcellona dove vive, dopo alcune ore di attesa con
mio nipote Matteo di 12 mesi tra le braccia, si è vista costretta a
telefonare alle mie zie novantenni, che si sono dovute precipitare
in taxi a prelevare il fantolino.
I parenti vengono sottoposti ad accurate perquisizioni personali,
non è capitato per fortuna ai miei, ma ho sentito, di indagini molto
spinte fino a curiosare in reggiseni e mutandine da parte di
personale femminile.
Durante l’attesa del primo colloquio notai con spavento la presenza
di un noto killer, Tonino o’ criminale, alto circa due metri e
dieci, con un volto arcigno e terrorizzante, anche lui a mia
insaputa mi notò e rimase colpito a tal punto dallo stato miserevole
del mio pantalone da farmene pervenire in regalo, attraverso i
lavoranti(detenuti addetti a lavare i pavimenti dei corridoi o a
portare i pasti) uno nuovo di zecca della mia non facile misura.
Dopo il secondo colloquio mi è capitato invece di essere ospitato in
celle sotterranee e di essere stato invitato da un agente di
custodia, che portava sempre gli stessi guanti di plastica nel
perquisire i detenuti, a calarmi i pantaloni e piegarmi in avanti,
immagino per un’esplorazione rettale, fortunatamente lo stato
miserevole del mio sfintere, in quei giorni particolarmente sudicio
e maleodorante, ha indotto il secondino a più miti consigli ed ho
perso l’occasione di provare il brivido di una penetrazione
coccinelliana.
In genere si può usufruire di 6 colloqui settimanali di un’ora,
quattro ordinari e due premiali, anche se dipende dalla posizione
giuridica del detenuto; inoltre si può fare una telefonata di 10
minuti ogni settimana, ma solo se si possiede a casa un apparecchio
di rete fissa.
Poter usufruire di più colloqui e con un’attesa minore da parte dei
parenti è tra le maggiori aspirazioni dei detenuti. Molti che hanno
frequentato altre case circondariali riferiscono che dovunque vi
sono migliori condizioni e cercano disperatamente di poter essere
trasferiti altrove. Ad esempio al carcere di Marassi a Genova, in
una struttura al servizio di una grande città, mi hanno segnalato
che si possono avere ben tre incontri settimanali con i parenti con
un’attesa di circa 15 minuti.
Ben diversa la situazione nella Russia ottocentesca narrata da
Dostoevskij, dove pare che i condannati potessero incontrarsi ogni
giorno due volte al giorno con le loro compagne!
Anche i colloqui con gli avvocati sono gravati da attese
interminabili, non solo per i detenuti, ma anche per i legali, i
quali, per l’esiguità delle camerette adibite alle consultazioni,
sono costretti a perdere spesso, nelle ore di punta, l’intera
mattinata per poter incontrare il proprio cliente. Naturalmente
questo provoca un incremento dell’onorario ed un clima di nervosismo
palpabile. Nel caso che mi riguarda il mio difensore, l’avvocato
Ivan Montone, per la sua età veneranda, si è più volte sentito male
per il caldo soffocante ed ha dovuto rinunciare all’appuntamento
programmato.
Un segnale di buona volontà verso le esigenze dei detenuti da parte
dell’amministrazione penitenziaria potrebbe manifestarsi in questo
settore. Aumentare il numero delle telefonate e dei colloqui e la
loro durata, diminuire l’attesa dei parenti, credo, nonostante la
ristrettezza delle strutture, l’esiguità delle risorse ed il numero
insufficiente di personale, si possa realizzare in tempi brevi. Il
nuovo direttore mi è parso persona animata da buona volontà e sono
certo che si attiverà in tal senso.
Si creerebbe un clima di pacificazione e di maggiore serenità e la
condotta dei detenuti sono certo migliorerebbe.
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7° Capitolo
- La Messa
Domenica 29 giugno, nella grande chiesa di Poggioreale alle ore 11
si celebra la santa Messa per il padiglione Avellino; essa non si
svolge tutte le settimane, ma solo ogni 15 giorni, di conseguenza ad
un fedele non è concesso nemmeno di conservarsi un buon cristiano,
poter ascoltare la funzione ogni domenica ed eventualmente
accostarsi ai sacramenti.
Il tempio è molto grande, capace di contenere alcune centinaia di
persone, spoglio di inutili orpelli artistici, possiede una volta
molto alta e soprattutto una fitta serie di ventilatori in grado per
un’oretta di combattere la calura asfissiante.
I cappellani suonano la chitarra e cantano, predicano
prevalentemente in napoletano con l’illusione di accattivarsi
l’attenzione del pubblico particolare al quale si rivolgono, senza
accorgersi di infrangere vistosamente la sacralità del rito e di
farlo somigliare ad una farsa.
La partecipazione dei detenuti è molto ampia, in tanti si
riavvicinano alla fede, perché, senza speranza, vivere in carcere è
impresa disperata.
In non meno di cento prendono la comunione, mentre a confessarsi
sono in pochissimi, tra questi il sottoscritto, il quale ha la
ventura di rincontrare dopo vari anni don Bruno Oliviero, il
cappellano, che aveva partecipato al convegno da me organizzato nel
2003 sulla situazione penitenziaria in Italia (vedi appendice).
Egli durante la settimana ogni giorno è impegnato nella cura delle
anime dei sottoposti allo spietato regime del 41 bis, pare che anche
loro ne posseggano una, anzi il religioso mi disse che quasi tutti i
boss si accostano puntualmente ai sacramenti. Egli possiede un sito
internet www.solidarity-mission.it e stampa a sue spese e
distribuisce ogni domenica un battagliero ed anticonformista
bollettino, che perora gli interessi dei reclusi.
Il nostro incontro all’epoca fu fortuito ed avvenne nella pace dei
giardini dell’Eremo dei Camaldoli, dove avevo accompagnato un
nutrito gruppo di amici ed amici degli amici a visionare i dipinti
della chiesa e del refettorio, nell’ambito di un ciclo di visite
guidate che da anni organizzo per gli appassionati delle memorie
storiche ed artistiche della nostra città. Con mia moglie, congedato
il gruppo, ci attardavamo ad ammirare il panorama mozzafiato che si
gode dal punto più alto di Napoli, quando incontrammo don Bruno in
borghese, con il quale scambiammo qualche parola. Appena lui si
qualificò cappellano del carcere di Poggioreale, io immediatamente
lo invitai al convegno che stavo preparando. Lui prima di accettare
mi chiese:”Tu credi in Dio?”. Io risposi con una di quelle mie
battute che vorrebbero sembrare spiritose, ma sono viceversa intrise
da tristezza e meditazione:”Veramente io conto di occuparmi di quei
problemi dei quali Dio sembra si sia dimenticato”. A distanza di
anni don Bruno ricordava la mia frase sulla quale spesso era tornato
col pensiero.
Ritornando alla mia confessione egli mi ha posto solo la domanda se
fossi sposato in chiesa ed io, nel confermarlo, ho aggiunto che
tutti i miei figli sono battezzati e mia figlia a sua volta è
sposata in chiesa. “Sei un radicale, ma anche un buon cristiano che
cerca il bene del prossimo”. Mi ha assolto dai miei peccati e mi ha
detto che Dio vuole mettere alla prova la mia forza ed il mio
coraggio. Gli ho sinceramente creduto, piangendo; ho ricevuto la
comunione, dalla quale ero lontano da più di mezzo secolo e mi sono
riconciliato con gioia col Dio cristiano, che si è affiancato, nel
mio cuore e nella mia mente, al Dio programmatore nel quale da tempo
credevo.
Il messaggio di pace, di fratellanza, di misericordia che si
respirava come un alito soprannaturale in quella pur rustica
celebrazione dava a tutti, a me in particolare, la forza di
stringere i denti e resistere per qualche altro giorno.
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8° Capitolo - L’ora d’aria
Sarebbe più esatto parlare di due ore di aria, sono questi gli unici
momenti che il detenuto passa fuori all’aperto, mentre le altre 22
le passa negli angusti spazi della sua cella. Le strutture destinate
a questi sfoghi peripatetici sono cortili delimitati da mura
infinite, esposti al sole ed eventualmente alla pioggia e misurano
200 – 300 metri quadrati, utilizzati potenzialmente da un numero di
detenuti superiore a cento unità. Nella mia breve quanto intensa
permanenza ho fatto la conoscenza di due cortili: quello del
padiglione Avellino e quello del padiglione ospedaliero San Paolo,
del quale parlerò nell’apposito capitolo.
Nonostante non vi siano particolari attrattive, se non il potersi
sgranchire un poco le gambe e fare quattro chiacchiere con persone
diverse dal solito, tutti attendono impazienti quei pochi minuti di
illusione di libertà.
La mattina è permesso il gioco del pallone, al quale si dedicano i
più giovani per scaricare l’energia repressa ed il pericolo di una
pallonata in testa più che un’eventualità è una certezza. Di
pomeriggio il perimetro esterno viene occupato dai podisti, i quali
incuranti del sole cocente e delle temperature africane sembrano
prepararsi meticolosamente alle olimpiadi. Tutti fumano
accanitamente, anche 3 o 4 sigarette in meno di un’ora. Ciò avviene
fino al venerdì, quando le scorte cominciano repentinamente a
finire. Il sabato e la domenica chi accende una sigaretta può fare
al massimo due tiri, dopo, di bocca in bocca, il mozzicone placa la
sete di nicotina di almeno altre dieci persone.
I primi giorni avvengono le presentazioni, dichiarando nome di
battesimo e reato: Totore rapina a mano armata, Ciruzzo spaccio,
Sasà furto con scasso, naturalmente quando l’interlocutore afferma
orgoglioso omicida, le prime volte, lo confesso avevo un misto di
timore ed imbarazzo.
L’ora d’aria, a stretto contatto con tanti criminali, può essere
pericolosa per chi non appartiene al giro…Infatti se a qualche
energumeno venisse lo sghiribizzo di bastonarti, si può essere certi
che nessuna delle guardie carcerarie interverrebbe a soccorrerti.
Una sola volta ho avuto paura quando un esaltato, dallo sguardo
stravolto e dagli occhi iniettati di sangue, cominciò a ringhiarmi
appellandomi:”Assassino, assassino, devi morire sporco assassino”.
Fortunatamente uno dei miei compagni di cella, un marcantonio dai
bicipiti scolpiti e dalla forza straripante lo affrontò e seduta
stante lo indusse a desistere. In seguito a questo episodio mi
muovevo solo e soltanto con la compagnia di erculei palestrati ed
incontri imbarazzanti non si sono più ripetuti.
Andato via dopo pochi giorni agli arresti domiciliari Grillo,
l’anestesista, io ero rimasto il più anziano del gruppo, una
sensazione imbarazzante e per me assolutamente nuova. Tutti mi
chiamavano, con affetto misto a rispetto, zio, per fortuna non
nonno, una veste che ricopro realmente, ma i miei nipotini: Leonardo
e Matteo hanno soltanto 2 ed 1 anno. Nella vita civile i miei amici
più cari sono, salvo poche eccezioni, tutti più grandi di me ed
anche i miei numerosi proseliti ai quali, nel corso delle
settimanali visite guidate da me organizzate, impartisco in pari
misura notizie storico artistiche ed amore per la nostra sfortunata
città, sono nella quasi totalità dei vegliardi o dei pacifici
pensionati. Provavo la stessa imbarazzante sensazione saggiata
sull’autobus quando, mentre fittiavo con un languido sguardo una
studentessa dalle forme esuberanti e dalla minigonna vertiginosa, la
stessa, che mi illudevo ricambiasse le mie avances visive, si alzò
per cedermi il posto a sedere.
Rapidamente si era sparsa la voce che ero un medico e contavo di
scrivere un libro sulla situazione carceraria, inoltre non solo la
stampa(a Poggioreale si leggono solo il Roma e Cronache di Napoli),
ma anche tutti i telegiornali nazionali e locali avevano straparlato
a vanvera della mia vicissitudine giudiziaria, scatenando l’ilarità
degli astanti, i quali si meravigliavano vivamente che praticare un
aborto in privato fosse un reato. Quando poi sentivano che le
intercettazioni avevano evidenziato una sola paziente da me inviata
ad un collega, la quale poi addirittura aveva cambiato idea, si
scompisciavano letteralmente.
Dopo due o tre giorni per parlare con me si faceva la fila, mi
sembrava di essere divenuto l’eduardiano sindaco del rione Sanità.
Metà mi esponevano casi clinici personali o di parenti, l’altra metà
mi parlava di angherie subite, mi chiedevano di scrivere lettere o
poesie per i familiari, mi raccontavano di desideri repressi e di
sogni nel cassetto.
Alcuni personaggi erano stupefacenti, altri semplicemente
incredibili. Tutti si lamentavano del proprio avvocato che era uno
stronz… avido di denaro e strafottente.
Le cose viste al cinematografo si ripetevano pedissequamente nella
realtà. Nessuno aveva visto il film Gomorra, pochissimi avevano
sentito parlare del libro, Saviano era scambiato per il nuovo
attaccante del Napoli.
Ninuzzo per due giorni era divenuto maggiorenne ed era a Poggioreale
invece che a Nisida. Mi raccontò che faceva la vedetta di primo
livello per conto di un clan per una manciata di euro. Furbamente
avrebbe scelto l’avvocato d’ufficio e non quello messo a
disposizione dall’organizzazione criminosa da cui dipendeva, perché
l’accusa di associazione moltiplica la pena in maniera vertiginosa.
Era sereno perché aveva saputo che già il giorno successivo alla sua
cattura, un incaricato aveva consegnato del denaro alla madre ed
alla giovane moglie. “Guadagno di più stando dentro che stando
fuori”. Dimenticavo, quasi tutti i reclusi sono sposati ed a venti
anni hanno già un paio di figli, bocche da sfamare che spesso, per
la cronica mancanza di un lavoro onesto, inducono a delinquere.
Michele mi raccontava affranto che la madre, non ancora quarantenne,
mentre si recava da lui per uno dei primi colloqui era stata colta
da malore e condotta in ospedale vi era giunta priva di vita. Non
era riuscito ad andare al funerale e da quindici giorni aspettava di
poter almeno pregare sulla sua tomba.
Tutti indistintamente si lamentavano dello spazio e del tempo
limitato dedicato a Poggioreale alla socialità. Già a Secondigliano
pare vi siano quattro ore a disposizione e degli ambienti più
confortevoli, qualcuno che era stato in penitenziari al nord,
parlava di veri e propri alberghi.
Le strutture hanno più di cento anni, immagino però che, sfruttando
nella buona stagione le ore pomeridiane, con un pizzico di buona
volontà, si potrebbe venire parzialmente incontro alle legittime
richieste dei reclusi, sarebbe un primo, ma significativo, piccolo
passo: anche la più pazzesca cavalcata è fatta di tanti passi.
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9° Capitolo - Il colloquio con
l’ispettore e l’educatrice
Per lavoranti si intendono dei detenuti, in genere condannati a
lunghe pene definitive, ai quali viene data l’occasione di lavorare,
trascorrendo meglio il tempo e guadagnando qualche spicciolo, in
genere 300 euro al mese, per le sigarette o per inviare un piccolo
aiuto a casa. Essi si incaricano di lavare i pavimenti dei corridoi,
di raccogliere e consegnare la posta, portare il mangiare ai
detenuti. Anche il barbiere, che passa una volta la settimana, solo
per il taglio dei capelli, è uno di questi. Ho avuto modo di
conoscerlo, sembrava un uomo mite, oltre che minuscolo di
corporatura; aveva bottega nel centro storico e la sua vita scorreva
tranquilla fino a quando la moglie non lo cornificò e lui, in
osservanza ad una norma tribale, si ritenne obbligato ad ucciderla.
Stava lì da un’eternità ed aveva calcolato che prima di uscire
avrebbe dovuto tagliare i capelli a decine di migliaia di detenuti,
naturalmente con le stesse forbici mai sterilizzate, per la gioia
dei pediculi humanis capitis, per il volgo pidocchi, che si
trasferiscono allegramente testa dopo testa, allo scopo di distrarre
con i loro vermicolari movimenti i momentanei possessori, che
possono in tal modo trascorrere un po’ del loro tempo nel grattarsi
e nell’imprecare.
Tutti i reclusi possono avere dai lavoranti, nel momento in cui
consegnano la posta o il mangiare, dei moduli con i quali chiedere
le cose più disparate all’amministrazione: dal fare un telegramma al
sollecitare un colloquio con l’educatore, anche se esso forse non
avverrà mai. La visita medica si richiede invece al mattino durante
la conta, un’usanza creata, più che per motivi di sicurezza, per
infliggere al detenuto l’umiliazione triquotidiana di mettersi
sull’attenti, decentemente vestito, sguardo verso il basso, mani
dietro la schiena ed attendere il passaggio dei secondini. Poco
importa se da poco avevi preso sonno dopo una notte devastante o se
eri impegnato nel soddisfare una pur necessaria pratica intestinale.
Sin dal primo giorno ho usufruito di questi moduli facendo le più
disparate richieste, dal poter contare sui conforti religiosi ad
avere colloqui con lo psicologo, ma soprattutto il permesso
dall’ispettore di poter assumere dai detenuti, nelle ore di aria,
informazioni atte a formulare una petizione da inviare al Parlamento
con delle richieste circostanziate atte a migliorare la vivibilità
nell’inferno di Poggioreale.
Una domanda non certo superflua perché, parlando con tante persone,
può insorgere il sospetto di essere un sobillatore o, peggio ancora,
l’organizzatore di manifestazioni di protesta, con il pericolo reale
di essere sottoposto a punizioni previste dal regolamento, che
prevede l’isolamento in celle sotterranee per più giorni a pane ed
acqua.
Fui convocato dopo pochi giorni dall’ispettore nel suo ufficio in
presenza dell’educatrice e mi fu spiegato che la mia era una
richiesta incomprensibile, mai avvenuta prima.
Replicai che da anni, ridotta la professione medica, ero a tempo
pieno un giornalista ed uno scrittore impegnato in vari campi e non
nuovo a trattare problematiche riguardanti la vita nei penitenziari.
Accennai ai miei scritti sull’argomento, ai convegni da me
organizzati e precisai che numerosi parlamentari di tutte le forze
politiche sono miei amici o estimatori.
L’ispettore mi chiese sbalordito:”Ma lei ha capito che si trova
recluso in un carcere in cui assoluta disciplina e massima severità
sono la regola e tutti sono obbligati a rispettarle?”. Risposi di
essere conscio di dover agire in condizioni estremamente difficili,
ma, nello stesso tempo, ero deciso a portare avanti la mia
battaglia, anche a rischio di mettere a repentaglio la mia
incolumità personale.
Davanti alla mia caparbietà non mi furono fatte particolari
obiezioni, mi fu solo raccomandato di non avanzare richieste
impossibili da realizzare, perché Poggioreale ha una recettività
limitata e da tempo immemorabile ospita il doppio dei detenuti
previsti, con conseguente invivibilità e grossi disagi anche per il
personale di custodia, costretto a sobbarcarsi un carico di lavoro
superiore a quello previsto.
Inoltre ho saputo anche, i giorni successivi, da altra fonte, che
nel carcere napoletano vige una norma di massima severità dal 1982,
all’epoca delle rivolte capeggiate dal leggendario boss Cutolo, la
quale doveva rimanere in vigore 25 anni, ma nel 2007 è stata
tacitamente rinnovata.
Il giorno successivo fui convocato dall’educatrice, una funzionaria
molto garbata ed impegnata nel predisporre, pur nell’assoluta
esiguità degli spazi a disposizione, attività per i reclusi.
Purtroppo mi disse:” Durante i mesi estivi si ferma tutto, anche il
contributo dei volontari esterni, che collaborano ad organizzare
corsi sulle tematiche più varie. Di questo avevo avuto cognizione da
una lettera di un professoressa di storia dell’arte, affezionata
lettrice dei miei libri sull’argomento, la quale si dispiaceva di
non poterci incontrare prima dell’autunno.
Il materiale raccolto nelle mie conversazioni con gli altri reclusi
è molto copioso, anche se inizialmente fissato solo nella mia mente,
esso costituisce la struttura di questo mio libro, che mi riservo di
far pervenire a tutti i parlamentari ed attraverso i mass media
all’attenzione dell’opinione pubblica.
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10° Capitolo -
La conferenza sugli zingari
Ero ospite da pochi giorni quando, intorno alle 13, un agente
carcerario fece il giro delle celle del nostro padiglione,
avvertendoci che nel pomeriggio, nel grande spazio della chiesa, si
sarebbe tenuto uno spettacolo e bisognava prenotarsi.
Tutti accettarono volentieri, qualsiasi occasione per uscire dalla
cella veniva colta al volo ed il pienone fu assicurato. In fila per
quattro vi fu un lunghissimo prologo nei corridoi, ma alla fine
arrivammo in chiesa, dove la temperatura è più sopportabile,
complici una serie di ventilatori posti sulle pareti laterali.
Vi erano anche detenuti provenienti da altri padiglioni per un
totale di circa 300 spettatori, oltre ad una settantina di guardie.
La delusione fu grande e serpeggiò rumorosa, allorquando il promesso
teatro si rivelò una presentazione di un libro sui Rom e un incontro
con l’autore ed un’antropologa, organizzato dalla comunità di Sant’Egidio.
La dotta conversazione durò poco più di 30 minuti ed alla fine,
timidamente, la dottoressa chiese se qualcuno voleva porre qualche
domanda.
Alzai il dito e mi avviai verso il palco ove vi era il microfono. Mi
chiesero di dire il mio nome ed io: ”Mi chiamo Achille della Ragione
e sono qui da appena cinque giorni. Vorrei farmi portavoce della
delusione dei miei compagni, ai quali era stato promesso uno
spettacolo, si aspettavano un cantante, i più ottimisti una
ballerina, ma anche una discussione ogni tanto può essere utile”
continuai ”Mi permetto di prendere la parola perché sull’argomento
ho scritto un breve saggio Zingari quale futuro?, pubblicato in
parte da alcuni quotidiani, accolto benevolmente dalla stampa
internazionale, consultabile sul web ed al quale i principali
giornali romeni hanno dedicato la prima pagina dando il titolo
Laggiù qualcuno ci ama”.
Cercai poi a memoria di citare qualche passo del mio scritto:
“Ma la Romania aveva titolo a far parte dell’Europa? La risposta è
pleonastica: la Romania è stata sempre Europa. Lo era quando le
legioni romane di Traiano sono andate a conquistarla trasformandola
nel granaio dell’impero, lo era quando ha fatto scudo
all’espansionismo ottomano e lo era pienamente quando a Yalta i tre
vincitori decisero di darla in pasta al comunismo. Ed a continuato a
beneficiare l’Europa anche sotto Ceausescu, conservando le frontiere
inviolabili e ritardando di decenni le odierne migrazioni, che in
democrazia è pura utopia sperare di poter contrastare.
Nei secoli i tentativi forzati di assimilazione o la ricerca di
efferate soluzioni finali…, sono stati numerosi: alcuni Stati
europei, tra i quali l’illuminato impero austro ungarico prevedevano
di togliere i figli agli zingari, stabilendo che venissero
allontanati dai loro genitori e inseriti in famiglie tradizionali,
mentre la nomea di rubare i bambini è rimasto invece pregiudizio dei
rom, fino alla politica criminale di Hitler, che ha inviato
centinaia di migliaia di nomadi nei campi di sterminio senza che
nessun giorno della memoria si commemori per ricordare al mondo
questo immane olocausto.
Pochi i giorni lieti accanto alle persecuzioni, quando erano attesi
e onorati, nelle loro peregrinazioni periodiche e portavano in un
paese la loro musica, le loro danze, i loro spettacoli, i loro abiti
vivaci, la loro abilità nel riparare utensili rotti, la loro
melanconica gioia di vivere. Oggi gli zingari sono trattati dalla
legislazione, dalle amministrazioni locali, dai giornali e dalle
televisioni, dai cittadini come rifiuti umani, da relegare in quelle
discariche a cielo aperto che sono gli accampamenti nomadi, situati
sempre nell’estrema periferia metropolitana, vicino a cumuli di
spazzatura, a un cimitero, a uno scarico industriale, quasi sempre
sotto la massicciata di un ponte autostradale o di una ferrovia, o
anche sulle sponde di un torrente o di un canale, là dove la
comunità urbana colloca idealmente e materialmente i propri rifiuti.
Sono i monumenti moderni alla segregazione, che le nostre
amministrazioni comunali, senza distinzione di colore politico hanno
creato, cercando di dimenticare il problema senza sforzarsi a
cercare una diversa soluzione.
L’Europa ha creato uno spazio unico di libertà, sicurezza, giustizia
al quale non difetta la solidarietà e tanta ce ne vorrà per
risolvere il problema degli zingari, senza mai dimenticare che sono
cittadini europei.
Bisogna convincersi che è del tutto inutile sgomberare una tribù da
un terreno occupato abusivamente nella periferia di una città,
perché andrà ad occuparne un altro e si potrà essere abusivi su di
un terreno, su tutti i terreni, ma nessuno è abusivo sulla Terra,
figuriamoci in Europa. Tra i rom esistono figure rivestite di
un’autorità e con loro bisognerà fare accordi, riconoscere diritti
fondamentali in cambio dell’osservanza dei doveri, rispettare
tradizioni e costumi, prestare generosamente servizi ed assistenza
in cambio di un impegno alla legalità, includendo l’obbligo per i
minori di dedicarsi allo studio. In caso contrario agire con grande
severità, togliendo la patria potestà ai genitori che avviano la
prole all’accattonaggio.
Una prospettiva che riunisca il bastone e la carota e che sia
insieme, sicurezza e solidarietà, libertà e responsabilità, diritti
ma anche doveri.
Dobbiamo attivarci cercando di convincerli ad entrare nei cicli
delle nostre attività e delle nostre esistenze. Gli zingari
rappresentano una riserva straordinaria di vitalità, di adattamento,
di voglia di vivere, di solidarietà. Essi sono il banco di prova di
quella riforma della società che tutti chiedono e che nessuno ha la
capacità di elaborare. Inventare un rapporto di collaborazione con
loro e con i flussi sempre più imponenti di profughi, migranti e
nomadi di ogni genere trascinati alla deriva lungo le tortuose
strade della globalizzazione non è un problema di poco conto, da
delegare alla Caritas o al politico di turno, bensì è la scommessa
che l’Europa fa con il proprio futuro e gran parte del destino degli
zingari è nelle loro mani. Essi sono o fanno credere di essere bravi
ed esperti chiromanti, che sappiano leggere il loro futuro, dopo che
per secoli ci hanno voluto far credere di saper leggere il nostro”.
Volli poi collegarmi ad un altro mio contributo sotto forma di
lettera al direttore, pubblicata da vari quotidiani, sul vile
assalto ai campi rom di Ponticelli ed intitolato Napoli brucia:“Da
alcuni giorni Napoli brucia senza sosta a tutte le ore, bruciano in
cento luoghi i cumuli di spazzatura, ai quali cittadini inferociti
appiccano le fiamme innalzando roghi sacrificali generatori di
micidiale diossina, ardono i campi rom, situati nella disperata
periferia cittadina, ad opera di criminali applauditi da una folla
divenuta intollerante e xenofoba, bruciano “e cervelle” a tutti i
napoletani che, stretti tra rifiuti ubiquitari, criminalità diffusa,
traffico impazzito e disoccupazione da record, vedono la loro città
abbandonata ad un destino atroce, ma soprattutto va in fumo
definitivamente una grande e gloriosa capitale dopo 2500 anni di
storia invidiata, che non ha conosciuto né il Ghetto, né
l’Inquisizione, costretta ad un’esistenza da quarto mondo senza
speranza di riscatto o di redenzione.
Il fuoco ha sempre rappresentato un segno di purificazione e di
rigenerazione, dalla Bibbia alle antiche vestali romane, ma le
fiamme napoletane sono quelle dell’inferno dantesco, simbolo di un
castigo divino al quale non ci si può opporre, producono solo cenere
e distruzione.
La furia devastatrice che si sta scatenando in questi giorni è
sintomo di un malessere che ha colpito il cuore pulsante e la stessa
anima tollerante della città.
Gli zingari non sono i soli disperati che vivono ai margini della
società, vi sono moltitudini di accattoni, di senza casa accampati
all’addiaccio, di sbandati che vivono alla giornata, di disoccupati
costretti ad una minacciosa quanto sterile protesta.
Attenti che non venga in mente a qualcuno che si possa risolvere
questo ed altri problemi scatenando un gigantesco falò”.
Conclusi poi il mio intervento sottolineando che i carcerati
conoscono molto bene il dolore e la sofferenza, perciò sanno ben
intendere la tragedia del popolo rom.
Ebbi cinque minuti di applausi entusiasti, anche da parte delle
guardie carcerarie, molte delle quali di altri padiglioni, mi fu
riferito poi, chiedevano meravigliati a coloro che avevano
accompagnato:”Ma chi cazz… è quello che ha parlato?”.
Quell’applauso fu per me una droga, mai nelle mie innumerevoli
conferenze ne avevo avuto uno così lungo e clamoroso da parte di un
pubblico, oltre trecento persone, che neppure Umberto Eco riesce a
radunare:
Quando tornai verso il mio posto a sedere, posto all’ingresso della
chiesa, decine di colleghi… mi strinsero la mano, anche spietati
pluriomicidi, ma la maggior parte voleva complimentarsi, non tanto
per quello che avevo detto, bensì per quello che aveva scritto mia
moglie in una lettera(vedi appendice) pubblicata integralmente da
tutta la stampa locale ed, attraverso il consueto tamtam, letta in
tutti i padiglioni. Ti invidiamo, hai una moglie non solo
coraggiosa, ma soprattutto innamorata di te, anche noi chiederemo
alle nostre mogli ed alle nostre compagne di stabilire un orario nel
quale pensarci intensamente, in maniera che il nostro affetto
trapassi le mura e le sbarre e viaggi puro e libero nello spazio.
Dopo il mio intervento molti presero coraggio ed i contributi del
pubblico furono una decina, in genere arrabbiati verso gli zingari,
ritenuti scansafatiche, ladri ed approfittatori. Molti protestarono
vivamente per la proposta di un contributo di 500 euro a famiglia
avanzata dall’amministrazione regionale, mentre i loro figli e le
loro mogli erano alla fame. Chi vive a stretto contatto con i campi
dove sono accampati gli zingari, naturalmente la pensa diversamente
dagli abitanti delle zone in della città, perbenisti ed a
chiacchiere tolleranti, i quali li vedono solo elemosinare, ma non
sono costretti a dividere con loro gli stessi spazi vitali.
Alla fine un nuovo appuntamento fu fissato per il giorno 11 luglio,
gli organizzatori assicurarono: si tratterà di un festa ed
interverrà un personaggio importante, che fonti ben informate mi
fecero intendere si sarebbe trattato del cardinale Sepe.
Per fortuna quel giorno scoccherà per me nella tranquillità delle
pareti domestiche, anche se, sollecitato da più parti, avevo
preparato un discorsetto da fare al presule a nome di tutti i miei
compagni, ma non avevo una traccia scritta delle richieste da
avanzare, per cui non ho potuto affidare ad altri quello che mi ero
prefisso di dire.
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11° Capitolo - Sogni ed
incubi Di
sera, nella buona stagione alle 23 con riapertura alle 7, le porte
delle celle vengono sigillate da un portoncino blindato con una
piccola fessura a mo’ di caveau, il quale ai fini della sicurezza è
assolutamente inutile, ma è molto efficace nel provocarti crisi
claustrofobiche e la penosa sensazione di essere fuori dal mondo,
oltre naturalmente al rischio che, se i tuoi coinquilini vogliono
bastonarti o meglio ancora sodomizzarti, non solo nessuno verrà in
tuo soccorso, ma nessuno ti sentirà.
La sensazione angosciosa di una cesura netta ed invalicabile verso
l’esterno provocata dall’ermetica chiusura del portellone blindato,
crea, anche nei veterani, uno stato di ansia e di sconforto. I miei
compagni temevano un non improbabile terremoto, che ci avrebbe
accomunato alla sorte dei topi in trappola, io, per due volte, ho
avuto un episodio anginoso di media gravità. Altre volte nei mesi
scorsi ai primi sintomi ero corso in ospedale, una volta rimasi due
giorni in terapia intensiva per una crisi ipertensiva, un’altra mi
praticarono in pochi minuti una trombolisi, evitando un disastroso
infarto.
Nella cella non avevo scelta, né possibilità alcuna di salvarmi. La
prima volta, quando il dolore divenne insopportabile, assunsi una
compressa di Carvasin, un farmaco salva vita che ero riuscito a non
farmi sequestrare al momento dell’entrata, il quale in qualche
minuto mitigò la terebrante sintomatologia. La sera successiva il
dolore lancinante si ripresentò al centro del torace, cercai di
chiamare i miei compagni, ma non mi sentirono, lentamente mi si
annebbiò la vista e persi le forze, ero certo di morire, ero
contento, anche se pensavo a mia moglie, a mia figlia Marina, la più
piccola, che lasciavo per sempre, al sorriso dei miei nipoti che non
avrei più visto.
Le notti successive ho invocato la morte, ma non mi ha ascoltato, il
dolore non è più tornato ed ho di nuovo desiderato vivere.
In genere io sogno tutte le notti, sogni bellissimi interminabili,
gratificanti, segno evidente che sono in pace non solo con la mia
coscienza, ma anche con il mio inconscio. Sogno i miei familiari e
spesso anche i miei splendidi rottweiler Lady, Athos e Porthos, che
vivono purtroppo soltanto nel mio cuore e nel mio ricordo. A volte
ho la sensazione di vivere un’esperienza fuori dalla realtà, ma
riesco a prolungare la piacevole sensazione ed a non risvegliarmi.
Ho chiesto ad altri detenuti di vecchia data e tutti mi hanno
confermato che i loro sonni sono agitati e raramente confortati da
divagazioni oniriche.
Io ho fatto un sogno ed un incubo: il primo, molto bello, era
popolato da quasi tutti i miei familiari ed è stato interminabile,
nonostante alcune interruzioni ha coperto quasi tutta la notte: mia
moglie Elvira era giovanissima ed estremamente attraente mentre il
mio Attila era ricoperto da uno strano pelo bianco. Vi era anche
Tania, la nostra domestica dal sorriso ingenuo e dalla risatina
coinvolgente, quanto mi è mancata anche lei in questi giorni, la sua
sveglia mattutina con il caffè fumante ed i quotidiani; il secondo
da bello si è rivelato il più crudele degli incubi, perché credevo
di essere tornato a casa libero e di stare davanti al mio computer
consultando la posta elettronica, quando la chioccia voce del
lavorante:”Latte!”, mi ha ricondotto alla triste realtà.
Le altre notti mi hanno riservato poche e nervose ore di sonno,
dall’una, in coincidenza della fine dei programmi televisivi, alle
tre, poi un lungo intervallo a pensare al nulla, mentre i compagni
di cella dormivano, avvolto nel buio più assoluto e con la penosa
sensazione di essere in trappola, ermeticamente chiuso da quel
poderoso portellone. Confesso di aver provato paura, una sensazione
vile, ma della quale non credo ci si debba vergognare, anche Gesù
Cristo ha provato questo umano sentimento, quando si vide perduto ed
abbandonato da tutti nel giardino di Getsemani. Quindi un’altra
mezz’ora di torpore, prima dell’alba, la quale, ben prima delle sei,
inondava di una pallida luce, filtrata dalle sbarre e dalla rete di
ferro esterna(adibita ad impedire l’entrata dei topi e l’arrivo di
piccioni viaggiatori), l’angusta celletta nella quale si preparava
lentamente a trascorrere una nuova interminabile giornata.
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12° Capitolo - Gli stranieri
Se gli istituti di pena italiani sono superaffollati ciò è dovuto
alla massiccia presenza di stranieri, che costituiscono circa un
terzo della popolazione carceraria. Oggi si è ritornati, dopo appena
due anni di respiro, alla situazione precedente all’approvazione
dell’indulto con 61.000 presenze a fronte di una capienza di 43.000
posti.
A Poggioreale gli stranieri sono stipati in padiglioni e celle
dedicate a loro, divise tenendo conto delle diverse lingue e
nazionalità. I gruppi più importanti sono otto, i più numerosi
rumeni ed albanesi, di conseguenza è difficile poter dialogare con
un immigrato od uno zingaro, se non in rare occasioni. Nel mio
percorso ne ho incontrato una decina e tutti mi hanno descritto
condizioni allucinanti di convivenza ben più degradate di quelle dei
loro paesi di provenienza, da noi ritenuti terzo mondo, dimenticando
che noi viviamo, senza rendercene conto, una situazione da quarto
mondo e non solo in via Stadera.
Tre di questi forestieri li ho conosciuti nelle vesti di lavoranti
nel padiglione ospedaliero San Paolo. Tra questi un argentino che
scontava una lunga pena e nel portare le cibarie faceva il bello ed
il cattivo tempo, ma bastava offrirgli una sigaretta per avere le
pietanze migliori; un polacco, un giovane molto bello dagli occhi
azzurri e profondi, anche lui vivandiere, con fratelli e sorelle
sparpagliati in mezza Europa, da anni senza vederne alcuno,
condannato per rapina ed apparentemente un bravo ragazzo. Per
qualche sigaretta ti lavava la stanza e disinfettava il bagno;
sarebbe potuto divenire un ottimo cameriere, ma la lunga permanenza
a Poggioreale lo aveva reso inutilmente cattivo e quando per scherzo
gli proposi, se una, una volta libero, volesse venire a servizio
nella mia villa o presso la casa di qualche mio amico, mi rispose
che non poteva, perché appena fuori, per vendicarsi, voleva uccidere
tutti gli Italiani. Alì, il marocchino, che pregherà Allah per la
mia liberazione, faceva il piantone, una figura tra l’inserviente ed
il paramedico alla buona: il suo compito era quello di aiutare i
detenuti malati più gravi nelle pulizie personali e di spingere le
carrozzine degli invalidi, infatti nel padiglione San Paolo molti
detenuti sopravvivono sulla sedia a rotelle. A volte faceva
straordinari pagati sotto banco a sigarette, la valuta corrente,
lavando a terra nelle celle o portando di nascosto del ghiaccio ai
pochi privilegiati proprietari di una borsa termica.
Altri due forestieri ho avuto modo di incontrarli nella camera
d’attesa per parlare con gli avvocati o i magistrati, un vezzoso
locale di pochi metri quadrati, sudicio da fare vergogna con negli
angoli gli esiti remoti e solidificati di impellenti bisogni
corporali liquidi emessi in tempi lontani; in grado(pura illusione)
di contenere per ore decine di persone, mentre la porta con le
sbarre veniva sbattuta senza pietà ad ogni entrata ed uscita di una
persona dalla stanza, da far tremare le stanche mura, ed una seconda
di legno, del tutto inutile se non a togliere il respiro agli
sventurati lì rinchiusi e ad aumentare a dismisura caldo ed umidità
dell’aria, sbattuta con pari violenza e malcelata rabbia.
Il primo, un peruviano dagli occhi a mandorla, fu in mia presenza
artefice di un episodio esilarante. L’agente di custodia chiamò un
nome apparentemente cinese, tipo Sing Tia Ping e scrutando tra i
volti patibolari degli astanti chiaramente di ascendenza spagnola o
saracena, stabilì che fosse lui l’interessato e lo condusse dal
giudice, il quale cominciò l’interrogatorio e solo dopo un quarto
d’ora si accorse dello scambio di persona e fece ritornare il
malcapitato in cella, dove fu costretto a sorbirsi i rimbrotti di
chi aveva commesso il madornale errore.
In un’altra occasione nello stesso luogo fatale ebbi modo di parlare
con uno slavo che mi confessò di essere imputato per rapina a mano
armata per il solo fatto di essersi trovato nei pressi
dell’accaduto. Mi raccontò tutto eccitato di essere stato sottoposto
all’identificazione su foto segnaletica senza essere riconosciuto,
ma nel confronto all’americana, uno dei presenti alla rapina lo
aveva indicato agli agenti, mentre, a suo dire, gli altri due
avevano indicato persone diverse. Era naturalmente difeso da un
legale d’ufficio, che si era dimenticato persino di presentare
istanza al Riesame.
Gli ultimi stranieri saranno i cinque cingalesi, vittime di uno
scambio di persona che mi accompagneranno mestamente al momento
delle mie dimissioni… avvenute come vedremo dopo la mezzanotte e
mentre io avevo una casa ed una famiglia pronti ad accogliermi, loro
discutevano sul luogo dove avrebbero trascorso la notte
,naturalmente all’addiaccio.
Alcuni politici propongono sbrigativamente, per diminuire la
pressione nelle carceri di inviare gli stranieri condannati a
scontare la pena nei paesi di origine. Mi sembra una idea balzana
non degna di uno Stato desideroso di onorare la sua sovranità, ma
altre soluzioni vanno cercate con impegno per il sovraffollamento
cronico non permette alcun piano di vivibilità ed a pagare sono
sempre e soltanto i detenuti.
Poggioreale oltre ad essere tra i più degradati penitenziari europei
è da tempo crocevia di razze e culture diverse; tra le sue impietose
mura si ascoltano e si alternano calorosi idiomi e dialetti diversi,
europei ed orientali, un flebile e caricaturale ricordo di una
Napoli per secoli indiscussa capitale delle arti e della convivenza,
declassata da tempo a malinconica capitale della spazzatura
materiale ed umana.
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13° Capitolo
- I secondini
Il corpo di polizia
penitenziaria rappresenta l’interfaccia tra lo Stato ed i detenuti,
tra il rigore e la severità nel rispetto delle leggi e la fragilità
e la precarietà di una condizione umana di grande disagio e di
restrizione.
Ricordo il primo giorno, alla prima ora d’aria, l’addetto alla
sorveglianza giustificarsi di alcuni divieti senza senso, nel
richiamarsi solennemente allo Stato e alle sue regole, del quale
egli si sentiva evidentemente un umile, quanto efficace, servitore.
”Non lo voglio io, lo vuole lo Stato e voi tutti dovete obbedire”.
La libertà e la salute sono i beni supremi dell’uomo e quando sono
compromessi l’individuo si sente smarrito.
Negli ospedali, dove a vacillare è la salute, gli infermieri
rappresentano l’equivalente dei secondini, ma i primi si configurano
agli occhi del malato come un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi
fiduciosi e sono pervasi da una volontà di aiuto e di donazione
sconosciuti ai secondi, i quali interpretano il loro impegno in
maniera diametralmente opposta, applicando pedissequamente un
regolamento in alcuni passi di ottusa severità e penosamente
coercitivo, dando così luogo ad un pessimo rapporto di tipo
autoritario con i sottoposti e soffocando l’atmosfera boccheggiante
che si respira nei nostri penitenziari, nei quali per migliorare la
vivibilità bisogna agire più sull’uomo che sulle strutture.
Le mie conclusioni sono state formulate dopo pochi giorni di
esperienza, per cui dovrebbero avere un valore probatorio
trascurabile, ma sono suffragate dall’esperienza dei tanti detenuti
che mi hanno confidato i loro lunghi anni trascorsi in svariati
luoghi di pena della penisola, dove il rapporto di presunta
sudditanza è costantemente vissuto con malinconica rassegnazione.
Spesso anche negli ospedali, prevalentemente al sud, vi è la
consuetudine, segno di pessima educazione, da parte del personale
medico e paramedico di dare del tu al paziente, ma a volte in questo
eccesso di confidenza vi è anche lo scopo di familiarizzare con il
malato e di accollarsi parte delle sue sofferenze; a Poggioreale,
viceversa, il tu sistematico ed è lo specchio di una subordinazione
assoluta che il Potere… vuole infliggere al detenuto. Non credo che
la legge o i regolamenti carcerari diano precise istruzioni in
materia. Sono o dovrebbero essere lontani i tempi del Fascismo,
quando s’imponeva ai cittadini l’uso del voi, mentre il lei, come
magistralmente ci ricordava Totò, era stato abolito.
Sembra una questione secondaria che forse ha toccato solo la mia
sensibilità, ma vi assicuro, essere chiamati sprezzantemente col tu
da un figuro forse in possesso della licenza media, quando si hanno
alcune lauree, provoca una mortificazione ed un senso di perdurante
impotenza che non facilita l’instaurarsi di un rapporto con il
personale di custodia, il quale dovrebbe essere sereno e di fattiva
collaborazione.
Sentivo i miei compagni di cella, nei rari casi di necessità,
chiamare le guardie pomposamente “assistente” e sorridevo sardonico,
perché mi sembrava un titolo inutilmente adulatorio, ma quando è
capitato a me di dovermi rivolgere loro non ne ho trovato uno più
appropriato.
L’impressione negativa che ho maturato sul comportamento del
personale di custodia ha come sempre le sue eccezioni, tra le quali
rammento volentieri “Baschillo”, un agente soprannominato in tal
guisa per l’insolita abitudine di tenere il basco d’ordinanza nei
galloni della spalla sinistra; un personaggio di grande umanità e
simpatia da me incontrato spesso nella zona dedicata ai colloqui con
l’avvocato. Più di una volta è capitato, se eravamo da soli, che
m’invitasse a camminare più lentamente, affinché potessimo
scambiarci qualche confidenza e potesse chiedermi qualche consiglio
medico o di vita.
Rammento la luce che comparve gioiosa nei suoi occhi quando gli
dissi che lo avrei ricordato nelle pagine del mio libro.
Personalmente, per una patologia al tallone, avevo un permesso
medico, segnato sulla cartella clinica, di poter circolare con dei
sandali aperti al posto delle scarpe. Almeno cento volte sono stato
richiamato e ho dovuto spiegare la situazione, trenta o quaranta
volte sono stato ripreso perché mettevo la mano in tasca, una cosa
ritenuta molto grave, indice inequivocabile di comportamento
strafottente e bisognava umilmente giustificarsi con la necessità di
prendere il fazzoletto per una rinite allergica, la quale non mi ha
lasciato in pace un minuto; credevo inoltre che le mani dovessero
tenersi dietro la schiena nel camminare o al passaggio delle
guardie, mi sbagliavo ed anche per questo sono stato ammonito, alla
fine non sapevo dove metterle.
A me francamente tutti questi richiami, ossessivi e ripetitivi, sono
sempre sembrati delle inutili stronzate, forse previste dal
regolamento, ma allora bisogna impegnarsi a cambiarle quanto prima
queste norme ottuse ed inutilmente persecutorie.
Un infermiere, per ritornare al paragone iniziale non si
permetterebbe mai di redarguire un paziente ed in queste apparenti
inezie vi è la sostanziale differenza tra assistenza (ma non li
chiamiamo così, assistenti? E pare sia di loro gradimento) e la
petulante imposizione di astratti comportamenti.
Nell’immaginario comune i carcerati sono configurati con un più o
meno elegante abito a strisce, una sorta di pigiama fin de siecle,
viceversa è concesso vestirsi con una certa libertà, non certo in
calzoncini e canottiera, ma abbastanza casual, gli agenti, non
parliamo poi dei graduati, hanno invece l’obbligo di vestire in
maniera molto severa e coprente, con baschi e cravatte, per cui
anche loro sono costretti a soffrire il caldo e più di uno, in gran
segreto, mi ha pregato di segnalarlo.
Probabilmente si riuscirebbe ad ottenere una migliore e più gradita
vivibilità cambiando qualche passo del regolamento penitenziario,
più che avventurandosi in faraonici e dispendiosi programmi di
ristrutturazione dei bagni penali.
I direttori possono di loro iniziativa prendere qualche
provvedimento, anche se le norme sono farraginose e la possibilità
di variarle da parte dei funzionari è modesta; Come appare lontana
la pur vicina geograficamente Svizzera, dove, in particolare nel
Canton Ticino, grazie ad una politica federale che privilegia
l’autonomia e quindi anche il decentramento nel settore
dell’esecuzione delle condanne, si è riusciti a trovare una
soluzione a molti problemi, incluso quello fondamentale
dell’affettività in carcere, privilegiando il contatto diretto con
le persone care. E questo a partire quasi subito dopo l’inizio
dell’esecuzione delle sentenze.
Sembra fantascienza ma è realtà, ritorneremo sull’argomento
nell’appendice quando parleremo di Amore al tempo della galera.
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14° Capitolo
- Storie incredibili di
matta bestialità
Tommaso è un uomo
mite, timorato e divorato dall’uso prolungato di sostanze
psicotrope, un ragioniere accusato semplicemente di furto, non un
boss spietato o un guappo riottoso ad ogni regola. Egli mi
raccontava di essere stato più volte chiuso nelle celle di rigore in
isolamento per 5 giorni a pane ed acqua ed una volta (pur senza
dimenticarci che Tommaso parla ogni pochi giorni con il diavolo) è
rimasto senza il conforto né di cibo né di liquidi al punto da
dovere, disperato, bere dal cesso turco, rubando con rapidità felina
l’acqua sgorgante per pochi secondi dallo sciacquone.
Un episodio fuori da ogni perversa fantasia che, né Dante poteva
immaginare come pena crudele a cui sottoporre il più pervicace dei
rei, né Dario Argento poteva collocare come scena madre in un suo
film dell’orrore.
Salvatore mi mostrò, nell’attesa della quotidiana misurazione della
pressione, le tracce indelebili delle frustate dei falchi, i quali
lo avevano catturato assieme al padre sessantenne per il possesso di
una partita di droga nascosta nella loro villetta di Mondragone.
Unica concessione il poter addossarsi anche la quota di violenza
spettante al padre, da poco reduce da un intervento chirurgico. Sono
percosse esterne alla struttura penitenziaria, ma stranamente
simili, nei lividi penetranti, a quelle che più di un detenuto mi ha
mostrato alzando furtivamente la maglia e dichiarando di averle
prese in carcere.
Una sorpresa per me è stata l’assenza di episodi di sodomia nei
racconti dei reclusi, al contrario da quanto narrato in ogni film
che si rispetti sull’argomento, da Sing sing a San Vittore, nei
quali, immancabile, vi è la scena sotto le docce con gli anziani che
battezzano la matricola sverginandola. Viceversa in oltre cento
testimonianze da me raccolte non vi è alcuna traccia di questi
episodi di malcostume, forse per l’opportuna rigorosa separazione
vigente per pedofili, violentatori, omosessuali e transessuali (pare
siano 17) ed anche, probabilmente per la presenza nelle singole
celle di docce rudimentali.
L’onanismo impera trionfante, ma non cerca inutili sfoghi negli
altrui orifizi; almeno una stella al merito, forse l’unica, in
questo inferno dei vivi.
Il racconto più agghiacciante che mi è stato ripetuto, identico, da
più voci provenienti da diversi padiglioni, prevede una sequenza
sempre eguale, al di là dei limiti dell’incubo: all’improvviso nella
cella, preferibilmente nelle ore notturne, giungono un nugolo di
incappucciati alla Ku klux klan, i quali prelevano un detenuto
bisognevole, a loro parere, di una punizione esemplare e lo
trasportano nei piani sotterranei, dove lo sottopongono ad un sonoro
paliatone con inaudita violenza, per lasciarlo poi per più giorni a
dieta pannelliana ultrarigida, in assoluto isolamento.
Naturalmente il volto coperto è di obbligo quando si tratta di
punire capi clan o uomini d’onore, in caso contrario quanto tempo
vivrebbero mogli e figli dei prepotenti figuri autori di queste
bravate?
Ho sempre fatto attenzione alla circostanza che questi episodi
ferini sono collocabili in un tempo relativamente lontano, ma sono
voci inquietanti che urgentemente devono dar luogo ad una scrupolosa
inchiesta da arte della direzione di Poggioreale, da poco rinnovata
ed animata dalle migliori intenzioni. Un questionario anonimo
distribuito in maniera capillare contribuirebbe a sfatare questi
racconti orrifici o, nel malaugurato caso siano veritieri, a
stroncare l’abuso e colpire severamente i colpevoli.
Potrei continuare a lungo, ma non voglio diffondere notizie non
controllate, spetta a chi di dovere fare piena luce su questi
allucinanti episodi e ristabilire la verità e la tranquillità tra le
antiche mura.
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15° Capitolo - Strani personaggi
Di personaggi
strani ed originali ne ho incontrato più di uno, ma alcuni hanno
colpito la mia curiosità più di altri, perché è tangibile lo stato
confusionale provocato dalla lunga segregazione e tra questi
emblematico è il caso di Tommaso, un antico figlio dei fiori,
indefesso consumatore di sostanze psicotrope ed uso a dialogare
frequentemente con il diavolo, il quale viene a trovarlo nella sua
cella e gli racconta, su richiesta, il comportamento della moglie
con una tale accuratezza nella cronaca degli spostamenti, da
permettere al nostro amico, con l’aiuto dei fratelli, di coglierla
in fallo anzi col fallo…altrui.
Egli mi descriveva Satana come un insospettabile dirigente di
un’azienda di Los Angeles, il quale, in occasioni particolari,
cambiava personaggio ed assumeva le vesti di Belzebù. Tommaso lo
aveva conosciuto in America ed entrato nelle sue confidenze era
stato reso partecipe della sua oscura potenza. Peccato che non ho
potuto sapere, per il cambio di padiglione, quando il Vesuvio
erutterà la prossima volta.
Una variegata miscellanea di personaggi è costituita dal gruppo di
vigili urbani di Giugliano incarcerata per peculato e gravitante in
gran parte nel padiglione Avellino con qualche appendice, i più
vecchi e malandati, nel San Paolo.
Lo scandalo provocato dalla retata, oltre a decapitare l’intero
corpo, dal comandante all’ultimo ausiliario, aveva suscitato enorme
clamore sulla stampa ed aveva scoperchiato un mondo di corruzione e
concussione che oramai alligna vigoroso in tutta la Campania.
Alla vicenda non mancava, come necessario per conquistare le prime
pagine, un pizzico di erotismo, con una richiesta di mazzetta pagata
in natura da una procace signora vessata dalle continue richieste di
denaro per chiudere un occhio…
Tra gli inquisiti pochi avevano beneficiato dei domiciliari, il
grosso, alcune decine, albergava ancora a Poggioreale. Tra questi vi
era il podista poderoso, il quale, dovendo contrastare un tasso di
trigliceridi esorbitante, correva come un dannato fino allo
sfinimento. Vi era il graduato dalla chioma fluente, emulo di
Sgarbi, perennemente impegnato ad aggiustarsi il ciuffo ribelle, il
vecchierello incredulo di quanto gli era capitato, illuso di stare
nel cortile di casa, i pochi giorni di cella lo avevano già reso
folle. Mentre nel padiglione San Paolo avevo conosciuto i due più
anziani del gruppo, affetti dalle più svariate patologie, uno dei
quali era accusato di aver goduto delle grazie della signora. Ad
essi spiegai la maniera più sicura per essere assolti, calarsi i
pantaloni e dimostrare la carenza di attributi idonei a commettere
il reato.
Gli appartenenti al terzo sesso sono separati dagli altri e possono
contare solo sulla compagnia di pedofili, violentatori e
transessuali. Di conseguenza non mi è stato possibile fare incontri
interessanti.
Michele è un esperto di casseforti e sistemi di allarme, una brutta
copia del Dante Cruciani, alias Totò, dei Soliti ignoti. Mi spiegava
di essere dentro per colpa delle intercettazioni e dell’esistenza in
Campania di sei bande specializzate nei furti col buco…a banche
attraverso percorsi fognari o tramite l’abbattimento di mura di
appartamenti contigui. Si vantava che nessun impianto d’allarme
avesse mai resistito alle sue attenzioni, mentre neutralizzare
quelli di appartamenti privati o di ville per lui era una
passeggiata.
Era parimenti abile nelle bonifiche dalle microspie oramai
ubiquitarie, identificate non solo con l’ausilio di sofisticati
apparecchi, ma grazie anche al suo fiuto, un sesto senso che alla
cieca lo guidava nella ricerca.
Totonno o falsario era invece specializzato nella riproduzione di
documenti. Per poche migliaia di euro era in grado di fornire, non
solo carte d’identità clonate, ma anche passaporti di repubbliche
sud americane. I suoi clienti, oltre a latitanti più o meno
illustri, sono i truffatori che acquistano merce a nome altrui.
Negli ultimi tempi si stava industriando ad allargare la sua
attività alla duplicazione di carte di credito e bancomat con
proficui risultati.
E’ materialmente impossibile incontrare detenuti sottoposti al
regime del 41bis (vedi appendice documentaria), con uno soltanto
credo di aver parlato da lontano nel padiglione San Paolo. Non
ricordo il suo nome, egli mi disse di essere un boss del giuglianese
e che se avevo qualche necessità potevo rivolgermi a lui. Sarebbe
stato interessante parlargli, poteva essere un personaggio, spero
solo non fosse un invasato millantatore, nella struttura sanitaria
non mancano folli e dementi.
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16° Capitolo – Droga, drogati e
spacciatori
La droga e’
l’artefice della permanenza a Poggioreale di circa un quarto degli
ospiti. Sono dati ufficiali, anche se la mia impressione e’ stata di
una percentuale più ampia. La malavita campana, non più tardi di
venti anni fa, al tempo in cui regnava Raffaele Cutolo (vedi
appendice documentaria) aborriva il commercio e l’uso della polvere
bianca, oggi in alcune piazze, come quella di Secondigliano, rese
tristemente note anche all’estero dal libro e dal film Gomorra, sono
una fabbrica incessante di malavita e di morte con fatturati che,
assommati agli introiti di altre attività criminali, si confrontano
alla pari con quegli dello Stato, danno al Sistema un potere
smisurato contro il quale e’ arduo combattere.
Tra i reclusi drogati molti hanno cominciato come consumatori per
divenire poi spacciatori. Un Sert (centro per la cura dei tossici)
si occupa del loro recupero ma e’ una esasperante fatica di Sisifo.
Alcuni cominciano come muschilli o come vedette, ma i trafficanti li
pagano anche con qualche dose per irretirli e legarli
indissolubilmente all’organizzazione.
I tossicodipendenti sono relegati in celle apposite e non sono in
contatto con altri detenuti, per cui e’ improbabile essere coinvolti
in fenomeni d’intemperanza dovuti all’astinenza.
Il problema della droga (vedi appendice documentaria) e’ complesso
ed impegna quasi metà delle forze dell’ordine e della magistratura.
Nel mio breve percorso ho incontrato la vedetta alle prime armi ed
il trafficante internazionale, sia l’uno che l’altro vittima ed
artefice di un complesso meccanismo in grado di stritolare tutto e
tutti.
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17° Capitolo – La gogna mediatica
Per i vip
(politici, professionisti, gente dello spettacolo) l’entrata in
carcere è accompagnata da una stritolante gogna mediatica, che
diffonde ed amplia notizie false e tendenziose in grado di
distruggere per sempre la reputazione di una persona fino a quel
momento stimata universalmente.
Nel mio caso la persecuzione si e’ puntualmente verificata dalle
radio alle televisioni, dai giornali al web. Sono nati decine di
blog appositi, anche all’estero con migliaia di partecipanti e l’eco
della vicenda e’ pervenuta, non solo in Spagna, Portogallo e nei
paesi dell’est, ma perfino al cuore dell’Africa nera, dall’Angola al
Mozambico, in nazioni notoriamente afflitte da problemi ben più seri
a cui dedicarsi.
Non parleremo delle gravi imprecisioni e delle infamie raccontate
dai giornali che costituiranno oggetto di querele e di specifiche
azioni risarcitorie, essendo argomento di scarso interesse per il
lettore, al quale vorrei però sottoporre, per un giudizio sereno ed
equilibrato, un aspetto collaterale della mia avventura riguardante
un mio collega implicato nella vicenda.
Un ginecologo napoletano, tale Luigi , passerà al fresco (40°
all’ombra) questa estate a Poggioreale e rischia da 5 a 10 anni di
galera, per via di una signorina che lo accusa di averla coercita
psicologicamente e, in cambio di uno sconto sulla parcella, invitata
a consumare frettolosamente un’unione carnale di tipo vaginale
(parole dell’ordinanza di custodia cautelare) prima di cominciare
una procedura chirurgica.
Voglio dare per scontato che la coniuctio sia avvenuta, ovviamente
con la donna consenziente per quanto coercita, nonostante numerose
circostanze, che saranno vagliate dai giudici, inducono a pensarla
diversamente: assenza di denuncia e ritorno dallo stesso medico,
dopo anni, per una nuova prestazione, speriamo solo sanitaria.
Decine di amici commercianti, soprattutto di abiti, borse ed affini,
mi hanno sempre raccontato che ogni giorno nei loro negozi si
presentano signore e signorine, le quali dopo aver provato il capo
d’abbigliamento, chiedono candidamente uno sconto intorno all’80-90%
del prezzo, in poche parole lo vorrebbero quasi gratis.
Sono richieste indecenti, ma se il negoziante lo ritiene opportuno e
la signora è piacente e disinibita, si risolvono con una breve sosta
nel retro bottega, qualche repentino movimento di anca o meglio
ancora un accurato titillare sincrono di lingua e bocca e voilà,
affare fatto.
Nessuno credo avrà niente da replicare, salvo forse la moglie del
commerciante, la cliente è contenta del cospicuo sconto ed il
proprietario della merce per lo sfizio di pochi minuti, anche se
pagato 100 o 200 euro, avrebbe certamente pagato di meno una
puttana, ma si tratta di una signora per bene… e vi è un inevitabile
sovraprezzo.
Ritorniamo al caso precedente del dottor Luigi: la sua particolare
veste di sanitario gli impone categoricamente un comportamento
austero ed eventuali trasgressioni saranno e dovranno essere
severamente sanzionate dall’ordine dei medici, severo custode del
codice deontologico, anche con la radiazione dall’albo, ma che
centra il codice penale?
Viceversa l’articolo 609 comma bis, pare sia un reato esecrabile ed
ancora più grave dell’omicidio ed altre quisquiglie del genere,
infatti il recente provvedimento di indulto, che coprirebbe in gran
parte la pena per il fattaccio, avvenuto alcuni anni fa, non include
tele reato tra quelli previsti.
Omicida si
Coercitore psicologico no
Potrebbero sembrare discorsi da misogino ed anti femminista, ma
provengono da un pulpito che ha molte frecce al suo arco per essere
assolto, con formula piena, da tale accusa. Potrei chiamare a
testimoniare le decine di migliaia di pazienti, che in tanti anni di
professione mi hanno dato la loro fiducia incondizionata o le
altrettanto numerose lettrici dei miei libri, in particolare quelli
che esaltano il fascino muliebre.
Non tengo naturalmente conto di tutte quelle che mi hanno offerto,
in tempi e luoghi diversi, il favore delle loro grazie, per non
arrecare un immeritato sgarbo a mia moglie, la migliore tra le
donne, eppure ha scelto me per condividere gioie e dolori.
Un’ulteriore dimostrazione dell’attrazione fatale che esercito sul
gentil sesso è fornita dalle continue richieste di interviste, non
solo da parte di giornaliste vip del Corriere o della Repubblica, ma
da anche da redattrici di riviste e televisioni locali.
Sempre profumate ed eleganti scelgono per immortalare le nostre
conversazioni luoghi ameni come una sala da the o il bar di una
libreria a la page.
Di recente anche le gentili signore della Procura volevano
un’intervista, anzi più volgarmente un interrogatorio, tenutosi
questa volta in un luogo molto squallido e per essere certe che
fossi puntale, hanno ritenuto di farmi prelevare, alle prime luci
dell’alba, da una dozzina di baldi giovanotti della Benemerita,
distogliendoli, è solo il mio sommesso parere, da compiti più utili
per la collettività e più in linea con i loro compiti istituzionali.
La mia vicenda è trascurabile, a differenza di quella del mio
collega, trovatosi nelle maglie di una Giustizia, che sembra
concepita ed amministrata da donne, mentre ancora, forse per poco,
nelle nostre austere aule giudiziarie troneggia la scritta:”La legge
è uguale per tutti”.
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Capitolo 18° - Vita quotidiana in
cella
La giornata in
cella è interminabile: dura 22 ore, interrotta da pochi momenti di
sonno. Una condanna di uno o due anni dà l’impressione di una pena
doppia, perché il tempo, in assenza di qualsivoglia progetto di
recupero, non trascorre mai.
Il conforto della televisione è nello stesso tempo un tormento per
chi non vuole essere bombardato costantemente da suoni ed immagini.
Le regole da rispettare sono chiare e ad esse si attengono tutti per
il bene comune.
La doccia, anche se rudimentale, più volte al giorno è un dovere,
perché con il caldo soffocante si puzza come caproni.
Nella spesa settimanale chi ha più disponibilità economiche viene
incontro alle esigenze degli altri. La prima merce da ordinare sono
le sigarette. Io avevo scelto una cella di non fumatori, mi accorsi
subito che per non fumatore s’intendeva un soggetto che consumava
solo 7-8 sigarette al giorno.
In genere il pasto viene preparato dal più esperto in culinaria,
mentre per lavare a terra e fare la cucina tutti devono alternarsi.
Anche io tentai timidamente di rendermi utile, non certo in cucina,
dove per inveterata tradizione maschilista, sono servito e riverito
e non so neanche accendere un fornello, ma con la ramazza. Non
potevo permettere che dopo ogni mia doccia, il lago d’acqua che
provocavo, inondando la stanza, venisse asciugato dai miei compagni
più giovani, per cui, dopo ripetute insistenze, mi fu concesso di
fare qualcosa; ma appena mi videro all’opera ignorando che la pezza
per lavare a terra andasse strizzata, mi fu imposto perentoriamente
di stare tranquillo e di far lavorare gli altri.
Ogni mattino il primo che si svegliava si offriva di prepararmi il
caffè ed io accettando, alcune volte rammentavo che quella funzione
a casa mia era espletata da Tania, una efficiente quanto graziosa
colf ucraina, della quale tanto sentivo la mancanza.
I miei compagni tutti giovanissimi ed assatanati mi chiedevano di
descrivere particolari anatomici della suddetta ed alla fine mi
consigliavano, anzi mi imploravano: visto che in carcere hanno
capito chi siete, chiedete di essere servito in cella dalla vostra
cameriera, come spetta ad un vero signore, in maniera che anche noi
possiamo approfittarne…
A volte capitava, in coincidenza con la scarcerazione di un
personaggio malavitoso importante o anche soltanto in coincidenza
con l’onomastico di un boss, di ascoltare l’assordante schioppettare
di batterie di razzi luminosi, la cui scia si intravedeva in cielo
ed in contemporanea in alcune celle si faceva eco percuotendo con le
pentole le sbarre, ignare di tanto tripudio.
Appena entrato in cella ebbi l’impressione di una salumeria ben
fornita, infatti gli armadietti dei miei futuri compagni
troneggiavano di ogni ben di dio, dai pelati alla pasta di ogni
tipo, biscotti e nutella, scatolette di tonno e insaccati
sottovuoto, oltre ad un angolo ove erano conservati bagno schiuma e
talco in quantità, deodoranti e profumi, pennelli da barba e
spazzole per i capelli e per le scarpe. Tutto naturalmente
acquistato a loro spese e tutto a mia disposizione per quella
genuina solidarietà che non mi stancherò mai di lodare e rendere
nota al pubblico esterno, schiavo dell’egoismo e della prepotenza.
Due frasi gergali venivano ripetute ogni giorno, non solo nella
cella, ma anche in momenti diversi come l’ora d’aria o le attese per
i colloqui
“Adda fa o sfogo e legge”, nel senso bisogna pazientemente attendere
il periodo di carcerazione preventiva commisurato al reato di cui si
è imputato.
“Fatt a galera”, una frase fatta propria dai detenuti e ripetuta per
celia o per scaramanzia continuamente, credo derivata dalla
compassione…delle guardie carcerarie; infatti consultando internet
alla voce Poggioreale mi sono imbattuto in un commento di un ignoto
recluso, il quale, ristretto da alcune ore, raccontava di aver
chiesto un’aspirina per un mal di testa atroce all’agente di
custodia e di aver ricevuto la sorprendente risposta di cui abbiamo
accennato.
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19° Capitolo - Aniello compagno di
cella
e lo scambio con il collega
Dopo appena sette
giorni di attesa vengo sottoposto alla visita del cardiologo
richiesta con urgenza dal medico che mi aveva visitato al mio
ingresso, allarmato dalla mia coronarografia nella quale risultavano
completamente occluse tutte e tre le coronarie.
Allo specialista basta uno sguardo ai miei accertamenti per
giudicarmi in imminente pericolo di vita e disporre, a mia insaputa,
il trasferimento presso il padiglione ospedaliero San Paolo.
Torno dai miei compagni e dopo mezz’ora mi viene comunicato che
debbo cambiare cella, una notizia ferale per il dover lasciare un
luogo ove, bene o male, mi ero sistemato decentemente ed in
compagnia di ragazzi ai quali volevo bene ed anche loro ricambiavano
con slancio il mio affetto.
Sono colto da una crisi di disperazione, abbraccio piangendo
Salvatore, Emanuele ed Antonio, raccolgo i miei indumenti in un
sacco della spazzatura ed accompagnato da un secondino mi avvio
presso la mia nuova residenza.
Per me si tratta di un salto nel buio e quando, dopo un lungo
percorso a piedi, trascinando il peso della mia robba senza aiuto
alcuno, giunto alla reception... sono tentato dal rifiutare il
ricovero, ma l’illusione di una migliore assistenza mi induce a
desistere.
Il medico che mi accoglie mi riconosce, ricorda di aver letto alcuni
miei libri di medicina e mi da del lei, mentre l’agente che assiste
alla visita mi apostrofa categoricamente con il tu.
Contemporaneamente al mio arrivo giunge da un altro padiglione
Aniello, il mio compagno di cella per i prossimi 7 giorni.
Non so per quale motivo tutto il personale di custodia mi aveva
scambiato per il collega accusato di una violenza sessuale, un reato
che, alla pari della pedofilia e delle sevizie sui minori, in galera
subisce un allucinante contrappasso per antitesi, che non pratica
sconti a nessuno.
Aniello era stato altre volte in carcere ed era abbastanza navigato,
per cui quando il secondino gli chiede se se la sente di dividere la
stanza con un violentatore, non si scompone, anzi baldanzoso si
dichiara pronto, alla prima mossa falsa da parte mia, a rompermi la
testa con uno sgabello. Basteranno pochi minuti di confidenza per
renderci entrambi conto che non potevamo avere compagno migliore.
Gli mostrai la foto di mia figlia Marina, che tanto successo aveva
riscosso tra i giovani reclusi, ai quali l’avevo mostrato
orgoglioso, l’unica della mia famiglia che mi era arrivata per posta
e suppliva al piccolo album sequestratomi all’ingresso nel
penitenziario.
Gli parlai dei miei cari e scoppiai in lacrime disperate, al che,
anche lui non seppe trattenersi e piangemmo assieme abbracciati come
due fratellini smarriti. I miei nervi erano a pezzi, lui mi confessò
che avrebbe provato vergogna a piangere davanti a chiunque, che non
gli era mai successo di cedere allo sconforto e se gli capitava di
non poterne fare a meno correva a chiudersi nel bagno, ma con me gli
era sembrato diverso e dopo lo sfogo entrambi ci sentimmo meglio.
Aniello era in carcere per un errore fatale. A Giugliano, dove
abita, egli è un noto imprenditore nel settore delle maioliche e 2-3
volte all’anno, con altri commercianti e professionisti organizza
una serata diversa dalle altre, al posto di televisione e pantofole
con la moglie in bigodini, una cenetta a base di ostriche e
champagne, la compagnia di qualche prostituta d’alto bordo ed una
sniffatina, giusto per provocare la giusta euforia. Per procacciarsi
la cocaina era stato incaricato Aniello, il quale, recatosi a
Secondigliano, comprò 20 dosi ed appena si allontanò lo spacciatore
fu fermato dalla polizia, che lo arrestò in flagranza di reato per
vendita di sostanze stupefacenti.
In seguito per quella leggerezza prese una condanna di 5 anni e 4
mesi, che sta scontando con grande dignità e sofferenza, come capita
a tutti gli innocenti per i quali le pene si moltiplicano.
La stanza del padiglione San Paolo era il doppio della precedente ed
aveva un vero bagno con una doccia efficiente, una vera panacea. Era
prevista per tre persone, ma fortunatamente siamo rimasti in due,
adoperando il terzo letto per poggiare le cose più svariate dagli
indumenti ai giornali.
Il mio compagno aveva vari problemi di salute, da un’ipertensione
essenziale ad una patologia renale, credo di rilievo, sottovalutata
dai medici ed affrontata con la prescrizione di sedativi, rinviando
sine die i necessari ed impellenti accertamenti.
Una situazione riscontrabile anche per i normali cittadini che si
rivolgono ad una struttura pubblica, ma per chi e’ privo della
libertà ancora più difficile da tollerare.
Aniello era una brava persona, educata e rispettosa, non era
attirato dalla televisione che accendeva solo in serata per seguire
un film, addormentandosi immancabilmente prima della fine. Da tempo
si era avvicinato ai testimoni di Geova e dalla lettura della
Bibbia. La sera pregava con convinzione e per mia fortuna implorava
la protezione celeste anche su di me.
Il suo processo era ancora in corso e lui sperava di ottenere
giustizia in appello e tornare a casa, dove l’aspettavano, oltre
alla moglie, i due figli, il primo, diciotto anni, odontoiatra e la
seconda, sedici anni, disegnatrice di moda.
Egli aveva 45 anni e mi ripeteva continuamente che io sarei potuto
essere suo padre che ne aveva solo due o tre più di me, la
considerazione mi lasciava un po’ sconcertato, perché mi aveva dato
sin dal primo momento l’impressione di somigliare come una goccia
d’acqua a Mario, il mio giardiniere di Ischia, il quale ha una
decina di anni più di me. Una triste conferma che pochi anni al
fresco incidono sull’aspetto fisico in maniera devastante
trasformando quarantenni in vegliardi.
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20° capitolo - Il padiglione San
Paolo
Passa per essere
uno dei centri clinici penitenziari migliori d’Italia, ma somiglia
tanto ad uno degli sgangherati ospedali napoletani. Ad eccezione
delle camere più ampie, per il resto la vita carceraria si svolge in
maniera analoga: stessi orari, stesse abitudini, tra cui quella
orrenda della chiusura serale del portellone blindato. Due ore
d’aria in un cortile assolato e posto in contiguità del punto di
raccolta e compattamento della spazzatura di tutti i padiglioni, da
cui un tanfo vomitevole che impedisce di respirare. Pochi
usufruiscono della piccola passeggiata, perché la maggioranza degli
ospiti versa in precarie condizioni di salute; inoltre la
possibilità di fare incontri imbarazzati è un rischio tangibile,
essendo raggruppati detenuti con pene definitive da brivido, inclusi
gli omicidi; persone incattivite dalla lunga detenzione con i nervi
a fior di pelle, capaci di qualsiasi reazione inconsulta. Una
situazione che consiglia a molti di rimanere nelle loro camere.
Per la verità la quasi totalità del personale di custodia, salvo
poche eccezioni, si rivolge ai reclusi con una gentilezza ed un
senso di umanità sconosciuti negli altri padiglioni, una situazione
che la direzione dovrebbe far adottare in tutti i reparti di
Poggioreale, ne risulterebbe una vivibilità attualmente sconosciuta.
La visita medica, frettolosa e spesso basata unicamente sulla
misurazione della pressione, avviene nelle ore mattutine, spesso in
coincidenza con l’ora d’aria, per cui può capitare, come nel mio
caso, di non incontrare per giorni e giorni il sanitario di turno.
Numerose e qualificate le consulenze specialistiche eseguite da
professionisti capaci e motivati. Personalmente in pochi giorni sono
stato visitato dal dermatologo, che mi ha segnalato, nemmeno me ne
ero accorto, una irritazione diffusa della pelle dovuta alla
scarsezza di igiene ed alla promiscuità, dall’ecografista che mi ha
diagnosticato una steatosi epatica della quale non sapevo nulla,
dall’ortopedico che mi ha illuminato sulla tallonite che da anni mi
affligge e non mi consente l’uso delle scarpe, dall’oculista, il
quale per fortuna non mi ha riscontrato danni al fondo oculare, a
volte compromesso severamente nei diabetici. Mancava la consulenza
più importante nella mia situazione, quella con il cardiochirurgo,
per la quale era stata prevista ed autorizzata dal giudice una
trasferta all’ospedale Monaldi, ma mi avevano fatto intendere che
sarebbe passato molto tempo, forse mesi. Al risultato di questa
consulenza era attribuito un valore decisivo dal magistrato, prima
di decidere sulla concessione degli arresti domiciliari per motivi
di salute. Naturalmente la constatazione dell’imminente pericolo di
vita, accentuato a dismisura dalla situazione di stress continuo a
cui ero sottoposto ed un appuntamento fissato in quei giorni per un
urgentissimo intervento di by-pass a Milano non rivestiva alcuna
importanza ai fini della decisione da adottare.
Per gli accertamenti diagnostici strumentali bisognava talune volte
fare i conti con guasti agli apparecchi e con gli interminabili
tempi tecnici occorrenti per le riparazioni. Per la gastroscopia
richiesta ad Aniello era stato necessario predisporre, a data da
destinarsi, uno spostamento nel centro penitenziario allestito
presso il Cardarelli e lo stesso per una scintigrafia epatica
prescritta ad uno dei vigili coinvolto nello scandalo delle
bustarelle a Giugliano, prenotata per il 22 settembre.
Il caldo soffocante era in parte mitigato dalle finestre più ampie,
prive di vetri ed imposte, per cui immagino che d’inverno le
temperature siano ancora più severe dei mesi estivi.
I detenuti ricoverati sono, come abbiamo accennato, in gran parte
gravemente ammalati e, non potendo o non riuscendo ad ottenere
misure alternative, sono destinati a risiedere per anni nella
struttura, che perde la fisionomia di un ospedale per divenire uno
squallido cronicario. Parleremo di loro più diffusamente nel
prossimo capitolo.
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21° Capitolo - 480 chilogrammi in due
Nella cella di
fronte alla mia vi erano quattro detenuti, tra i quali un giovane,
che, pur dovendo espiare una pena lieve, aveva per molti giorni
praticato lo sciopero della fame ed era stato mantenuto in vita
praticando l’alimentazione forzata, fino a quando, convinto che
valeva la pena vivere, ha ripreso a mangiare; un giorno prima di me
la sua condanna si è esaurita ed è ritornato libero.
Come dirimpettai avevo poi due reclusi particolari Osvaldo ed
Armando due pesi super massimi, entrambi di 240 chili, nonostante la
giovane età, diabete altissimo, piaghe agli arti inferiori ed una
cardiopatia ingravescente. Imputati per reati lievi giacevano da
tempo in deposito, tra perizie e contro perizie, senza una decisione
in merito a misure di custodia alternativa.
Non potevano usufruire dei colloqui con i familiari per la
impossibilità di spostamento assoluta; in reparto non vi era né una
sedia rotelle per le loro misure debordanti, né una barella per uno
spostamento d’emergenza. Naturalmente non potevano godere nemmeno
dell’ora d’aria e soffrivano più degli altri per la loro devastante
menomazione. Ho preso a cuore la loro situazione ed ho inviato
lettere ai quotidiani, fino ad ora senza esito, ho cercato in
particolare di destare l’attenzione di Giuliano Ferrara, per la sua
stazza fisica pari alle sue capacità intellettive, sperando di
stimolare la sua formidabile penna in grado di perorare una causa
che non può attendere rinvii.
Sono persone sensibili ed hanno bambini a casa che chiedono ogni
giorno insistentemente del loro papà.
Propongo qualche passo delle loro lettere inviate a mia moglie con
la genuinità delle persone semplici: “Ho trovato la forza della
sopportazione nel nostro Signore, leggo molto la Bibbia credetemi
come lo cerco il Signore nostro Dio e’ lui a sostenermi e a darmi la
forza di sopportazione. Questo centro clinico e’ un lager e per noi
sfortunati hanno capito che piano piano vi e’ una sola uscita:la
morte. Vi prego di intercedere presso il dottore vostro marito, il
quale mi scriva una lettera sull’indifferenza dell’autorità
giudiziaria al mio caso, un articolo che solo un uomo colto e nobile
come lui potrà stilare, che faccia capire cosa può capitare ad avere
a che fare con la giustizia italiana Prego il buon Dio che ci dia
tanta forza per resistere, siamo detenuti, ma soprattutto esseri
umani”.
Ma cosa vi e’ da aggiungere a questo duplice grido di dolore che
nessuno vuole ascoltare?
Gran parte dei ricoverati e’ affetto dall’epatite C, ho sentito di
malati di Aids, ma non posso confermare la loro presenza: sarebbe
una circostanza molto grave. Vi sono poi numerosi trapiantati di
fegato ed alcuni di loro mi hanno segnalato la mancata
somministrazione per vari giorni della ciclosporina, un farmaco
indispensabile alla loro sopravvivenza.
Molti vivono sulla sedia a rotelle e sono aiutati da un piantone per
i movimenti nei corridoi. E poi ancora asmatici con periodiche crisi
di apnea, portatori di peace maker, cardiopatici più o meno gravi,
nefritici cronici e diabetici all’ultimo stadio.
Un campionario di patologie che richiederebbero un ampio utilizzo di
misure custodiali alternative, perché la salute e’ un bene da
rispettare senza inutili accanimenti, un altro girone infernale
ancora più triste degli altri, dove alla ferocia degli uomini si
affianca il miserabile degrado della vita umana.
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22° Capitolo
- Il mancato incontro
col cardinale
Per il giorno 11
luglio la comunità di Sant’Egidio aveva organizzato una festicciola
e aveva previsto un ospite d’onore: il cardinale Sepe, abituale
frequentatore di luoghi di sofferenza, dove porta generosamente la
forza della fede e il coraggio della sopportazione.
Da più parti, appena si era sparsa la voce della venuta del presule
mi era stato chiesto di parlare a nome di tutti i detenuti. In pochi
giorni le mie lettere pubblicate dalla stampa nazionale sulle
difficili condizioni di vita di Poggioreale, più che sulla mia
vicenda personale ed il mio intervento alla conferenza sui Rom
avevano amplificato la mia fama di affascinante oratore.
Si trattava di un impegno di grande onore e responsabilità, ma mi
sentivo pronto a sostenerlo.
Avevo pensato a cosa domandare al cardinale, se fosse realmente
intervenuto. Mi sarei presentato non come un delinquente, non credo
di esserlo, bensì, ne sono certo, un peccatore, e gli avrei chiesto
d’intercedere con la sua autorità morale non solo sulla direzione
per ottenere un segno tangibile di benevolenza, come un’ora in più
al giorno di aria o un colloquio ulteriore al mese, ma soprattutto
lo avrei invitato, e lui ben conosce la strada, a giungere al cuore
delle guardie carcerarie per ottenere un sorriso quotidiano verso i
reclusi.
Avevo recuperato con la memoria le parole di una toccante poesia di
anonimo sulla forza dirompente di un sorriso che avevo trovato
affissa all’ingresso della mia camera all’ospedale San Raffaele di
Milano, quando mi recai per la prima volta per sottopormi ad un
complesso intervento di angioplastica alle coronarie.
La lettura di quella semplice lirica mi diede grande forza e
coraggio.
Fu per me un segno favorevole del destino ritrovarmi dopo qualche
mese per un nuovo intervento nella stessa camera.
“Un sorriso non costa niente e da’ gioia e serenità a chi lo
elargisce e a chi lo riceve”
Era lo spirito della breve poesia che lo stesso Don Verzè, fondatore
dell’istituto universitario, non seppe dirmi da chi fosse stata
composta.
Uno, dieci, cento sorrisi e la vivibilità di Poggioreale ne
acquisterebbe a dismisura.
Tre giorni prima dell’incontro lasciai il carcere e non ho avuto più
l’occasione di parlare a nome di tutti i reclusi, non so neppure se
egli sia intervenuto, ma voglio adoperare le pagine di questo diario
per arrivare fino a lui, affinché provveda a fare in modo che questo
modesto auspicio abbia a realizzarsi; solo così un alito d’amore
giungerà prepotente dove sembrano regnare incontrastati rancore ed
indifferenza.
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23° Capitolo
- Il sogno dei
domiciliari
Tutti i detenuti
sognano di poter usufruire degli arresti domiciliari e tutti quelli
in attesa di giudizio dovrebbero poterne usufruire.
Essi costituiscono un concezione moderna di intendere la pena, in
grado di conciliare le esigenze di sicurezza generale per individui
considerati pericolosi e il diritto inalienabile, sancito dalla
Costituzione, per qualsiasi imputato di qualsiasi reato di essere
considerati innocenti fino a sentenza andata in giudicato.
Un soggetto tossicodipendente oppure “senza fissa dimora” può
chiedere che tale misura venga ad applicarsi presso una comunità
dove intenda intraprendere un percorso di cura e riabilitazione,
mentre alcuni individui hanno diritto a tale condizione prevista
specificamente dalla legge.
Essi sono
1. Donna incinta o madre di prole di età inferiore ai tre anni con
lei convivente oppure il padre, qualora la madre sia deceduta oppure
assolutamente impossibilitata ad assistere la prole.
2. Persona affetta da AIDS od altra patologia di cui se ne
certifichi l’impossibilità ad essere curata presso la struttura
carceraria
Inoltre va aggiunto che il soggetto potrà chiedere, nel corso
dell’applicazione della misura, l’autorizzazione a recarsi al
lavoro, nonché per l’adempimento di altre attività necessarie alla
sua persona.
Anche per i condannati a pene definitive andrebbe studiata la
possibilità di estendere al massimo questa opzione, la quale, è
attuabile con costi assolutamente irrisori solo che ci si accorga
delle scoperte scientifiche, neppure recenti, quali il braccialetto
elettronico, un dispositivo in grado di controllare, attraverso un
sistema computerizzato, la posizione ed i movimenti di migliaia di
soggetti sorvegliati in tempo reale.
Attualmente il ricorso agli arresti domiciliari non può essere
esteso eccessivamente per l’impegno notevole delle forze dell’ordine
delegate ai controlli. L’utilizzo del braccialetto elettronico, da
posizionare alla caviglia ed adoperato in tutto il mondo,
permetterebbe di estendere la forma meno restrittiva ad un numero
maggiore di persone e di restituire ai compiti di istituto le forze
dell’ordine impegnate nei defatiganti controlli. Nello stesso tempo
ne guadagnerebbe la sicurezza dei cittadini, perché eventuali
allontanamenti dal domicilio verrebbero segnalati immediatamente
alla centrale operativa e gli stessi soggetti controllati, che a
volte fanno un uso maldestro della misura loro imposta, saprebbero
di dover rigare dritto, pena la perdita del beneficio ed
un’ulteriore condanna. Verrebbero meno anche degli equivoci
imbarazzanti, raccontatimi da più di un recluso, ritenuto assente
erroneamente da casa per un guasto al citofono e ricondotto in
carcere.
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Capitolo 24° - L’incontro con il
direttore del carcere
Lunedì 7 luglio ore
17, penultimo giorno della mia permanenza nel “Gran Hotel
Poggioreale”, ma per me era solo il 14° di un tempo infinito, che
avrebbe potuto non avere mai termine. Per le accuse che mi venivano
avanzate la carcerazione preventiva prevedeva un anno, ma, tra
proroghe e riapertura dei termini, poteva proseguire ancora per
molto. A parte la mia età e le mie disastrate condizioni di salute,
già due episodi di angina acuta, mi avevano chiaramente fatto
intendere che il mio tempo stava per scadere definitivamente.
All’indomani il Tribunale del Riesame si sarebbe interessato della
mia vicenda, ma la mia fiducia (anche se dovevo ricredermi) nella
giustizia umana era ai minimi termini.
Stavo sul letto, parlando con il mio compagno di cella Aniello,
quando il secondino mi viene ad avvertire tutto concitato di darmi
una ripulita, eventualmente anche un colpo di pettine e di vestirmi
decentemente(ero in mutande e canottiera), perché erano venuti a
trovarmi il direttore e la vicedirettrice di Poggioreale.
Mi preparai in un attimo, calzini di seta, pantalone blu, dono di
Tonino o scannatore, camicia a maniche lunghe, addirittura una
sciacquata di denti, usufruendo dello spazzolino e del dentifricio
di ordinanza ancora vergini.
Mi avvio lentamente lungo il corridoio, sono tranquillo ma, lo
confesso, provo anche un pizzico di emozione ed una punta di
orgoglio.
Il direttore, dottor Giordano, mi accoglie stringendomi
calorosamente la mano e mi presenta la vice direttrice della quale
non ricordo il nome. Egli era elegantemente vestito con un completo
grigio, un vero gentiluomo ed era sudatissimo, il caldo non
risparmia neanche i più alti funzionari ed accendeva continuamente
una sigaretta dopo l’altra, nonostante la vicedirettrice lo
invitasse alla moderazione.
Fu di una cordialità squisita, mi disse che era giunto alla
direzione di Poggioreale da solo due mesi, al culmine di una
carriera trentennale, che lo aveva portato a girovagare tra i tanti
luoghi di pena presenti In Italia.
Aveva già sentito parlare di me, ma in particolare era rimasto
colpito da un mio intervento (tra l’altro ridotto forse…per motivi
di spazio) sulle pagine di Repubblica, nel quale”senza astio
particolare e prescindendo dalla mia vicenda processuale, avevo
fotografato con obiettività la penosa situazione del carcere
napoletano”. Era suo proposito partire da quelle proposte per
migliorare in breve tempo la vivibilità dei detenuti.
Mi lodò non tanto per il mio spessore culturale, ironicamente
enfatizzato anche nelle ordinanze processuali dai miei inquisitori,
quanto per il mio coraggio civile.
Mi disse che era stato informato del mio intervento alla
presentazione del libro sui Rom organizzato dalla comunità di Sant’Egidio,
il quale aveva fatto scalpore in eguale misura tra i detenuti e le
guardie carcerarie.
Incoraggiai la discussione sul problema dei colloqui con i parenti,
invitando a trovare lo spazio per poter usufruire di un incontro in
più al mese o di attese minori e più decorose per i parenti, come
segno di buona volontà da parte dell’amministrazione.
La funzionaria presente mi spiegò le difficoltà quasi insormontabili
di dover lavorare in una struttura costruita da oltre cento anni con
criteri completamente superati e di doversi confrontare con un
numero di ospiti superiore del doppio a quello previsto:2500 – 2600
invece di 1200.
L’incontro durò circa mezz’ora e diede una sferzata vigorosa al mio
morale, permettendomi di affrontare con una grinta paurosa il ”mio
giorno più lungo”quello del Tribunale del Riesame.
All’uscita vi erano quasi tutte le guardie carcerarie del
padiglione, che mi accolsero come un trionfatore, con sorrisi,
strette di mano ed esclamazioni:”Sei un grande”, “Nel vostro libro
esponete anche i nostri problemi che non sono meno impellenti”.
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25° Capitolo
Il Tribunale del
Riesame: il giorno più lungo
Molti detenuti
rinunciano a presenziare alla seduta del Tribunale del Riesame, sia
perché consigliati in tal senso dai loro avvocati, che temono
dichiarazioni fuori luogo, sia perché bisogna sottoporsi ad ore ed
ore di attesa in topaie sotterranee collocate sotto lo svettante
grattacielo del Palazzo di Giustizia sito nel centro direzionale.
L’attesa comincia all’alba, perché in genere tutte le discussioni
vengono fissate alle 9, anche se poi si dilungheranno per tutto il
giorno e dai padiglioni si viene prelevati con grande anticipo.
Personalmente dormivo non più di 3 ore per notte, rispetto alle 9
abituali; quel giorno alle quattro ero già sveglio per la doccia ed
una parvenza di colazione a base di pane e latte del giorno
precedente.
Provenendo dal Padiglione ospedaliero ed essendo stato giudicato in
gravi condizioni mi accompagna un’ambulanza con due infermieri
pluritatuati, oltre alla scorta costituita da due agenti, i quali,
appena disteso, mi applicano le manette, nonostante una flebite ai
vasi del polso, provocata da un maldestro prelievo di alcuni giorni
prima.
I ferri mi terranno compagnia fino a quando dopo circa trenta minuti
vengo messo al sicuro in una topaia priva di acqua, luce ed aria, ma
con la compagnia di un cesso turco puzzolente e lercio, certamente
mai lavato ab antico.
Al detenuto in attesa viene consegnata una bottiglia d’acqua, una
pagnotta con mortadella di scarto e, raffinatezza, una minuscola
confezione di succo di frutta. Le mura dell’orrida gattabuia sono
costellate di scritte in ogni lingua inneggianti alla libertà
negata, al sesso umiliato, agli affetti perduti. Sono scalfite
adoperando cerini spenti o le unghie, perché è vietato portare con
sé la penna.
La sosta forzata, prima e dopo l’udienza, può coprire l’intero arco
della giornata. Lo squallore del luogo orribile genera angoscia
profonda in chi vi è rinchiuso fino a perdere completamente la
propria dignità umana e sentirsi relegato ad un ruolo inferiore ad
una bestia.
In Italia esiste, come in tutti i paesi civili, una normativa che
condanna chi maltratta un animale.
Chiedo che vengano severamente puniti i responsabili di questo
ignobile trattamento riservato a queste bestie, ex-uomini.
Invoco che la magistratura, la quale frequenta i piani alti di
codesto grattacielo, voglia indagare su cosa avviene sotto i loro
piedi, sottoterra.
Auspico che qualche deputato o senatore coraggioso voglia
interrogare il governo su questo ignobile trattamento.
Spero che qualche europarlamentare si adoperi a che la flebile voce
di questi internati giunga fino alle Corti di giustizia europee per
far cessare questa ignominia, che umilia non solo chi vi è
sottoposto, ma anche e soprattutto chi permette che ciò accada.
Trascorro la prima ora di sosta con un povero diavolo sulla sedia a
rotelle, un rottame umano di 50 anni, 10 anni di detenzione per un
cumulo di condanne per furto, 6 figli che –mi racconta- fanno a gara
per partecipare ai colloqui, 18 nipoti. La sua udienza non si è
svolta per l’assenza di un giudice a latere, ma ugualmente è stato
tradotto nei sotterranei e non vi è fretta di ritrasferirlo dal buio
al fresco.
Intorno alle 12 vengo accompagnato in aula, di nuovo con i ferri
serrati ai polsi, che mi vengono tolti solo quando mi trasferiscono
nella gabbia.
Si sta svolgendo una udienza del processo al clan dei Casalesi,
ascolto 2-3 accalorate arringhe. Sono presenti alcuni tra i più
celebri principi del foro napoletano, assoldati da una delle più
spietate associazioni a delinquere della terra, resa famosa dalla
coraggiosa denuncia di Roberto Saviano nel suo libro “Gomorra”. Si
discute di sequestri di centinaia di milioni di euro non di
quisquiglie o pinzellacchere.
Tra il pubblico presente al dibattimento vi sono mio figlio Gian
Filippo, avvocato e mia moglie Elvira. Li avevo pregati di venire
anche se immaginavo che ci saremmo potuti scambiare solo uno sguardo
furtivo, mentre mi conducevano in manette in aula. Per fortuite
coincidenze possiamo guardarci per alcune ore. Il volto di mia
moglie è stirato e pallido come una statua di cera. Questi giorni di
tormento hanno scavato implacabilmente il suo viso, che tradisce i
segni della sofferenza ed hanno imperversato senza pietà sulla sua
bellezza. Ma niente hanno potuto sui suoi occhi profondi, dei quali
sono perdutamente innamorato da quando, 40 anni fa, i nostri sguardi
si sono fatalmente incrociati. Anche mio figlio è nervosissimo, in
queste due settimane ha perso quasi completamente i suoi residui
capelli.
Quando comincia la mia udienza uno degli avvocati ironicamente
commenta: “Stamane sono di scena i clan, dopo i Casalesi ecco la
famigerata banda della Ragione-Langella”. I tre avvocati si
dilungano in focose argomentazioni processuali, alternando
inconsistenza delle prove a citazioni giurisprudenziali. Cito solo
due passaggi del difensore del Langella, avvocato Campana, che mi
hanno particolarmente colpito per acutezza e perspicacia.
Voglio premettere che da ragazzo ho sempre apprezzato le arringhe. A
18 anni, al bivio del mio futuro, avevo valutato anche l’idea di
divenire un penalista, prevalse poi la decisione verso la medicina e
negli anni dell’università verso la ginecologia e la chirurgia
generale, le due branche nelle quali sono specialista.
Andavo pazzo per le perorazioni di Cicerone, che ho ripetutamente
letto in latino per non perdere la spontaneità della lingua.
Anche in anni precedenti mi sono appassionato ad approfondire, su
rari libri di antiquariato, le escursioni dialettiche di Carnelutti
e di De Marsico. Da ragazzo ho ascoltato le fasi più salienti di
memorabili processi in Corte d’Assise, tra i quali, quello di
Pupetta Maresca, che si svolgevano nella vecchia sede di vico San
Sebastiano, nello antico refettorio del monastero domenicano dove
aveva pontificato il sommo San Tommaso, una stradina divenuta oggi
squallido tappeto di siringhe di eroinomani, negletto e dimenticato.
“La prova dell’innocenza, ai fini dell’ipotesi dell’associazione a
delinquere, sta fortunatamente nelle vostre intercettazioni
telefoniche, oltre mille, per un arco temporale di molti mesi, in
nessuna delle quali vi è traccia di un contatto tra il della Ragione
e Grillo (l’anestesista), segno evidente che non si conoscevano
affatto, per cui difficilmente potevano essere cofondatori di
un’associazione criminale.
Lo stesso dicasi per i rapporti intercorsi tra della Ragione e la
Pollio (segretaria del dottor Langella). Leggo anche nell’ordinanza
di conferma della misura cautelare le lodi alla personalità
intellettuale del medico, notoriamente in possesso di quattro
lauree, mentre la donna ha solo la licenza elementare, eppure
partecipava alla pari come mente all’organizzazione”(avvocato
Saverio Campana).
Completate le arringhe la parola passa alla Pm, la quale aggiunge
anche nuova documentazione frutto del prosieguo delle indagini,
riguardante il solo Langella.
Subito dopo in genere il Collegio si riunisce per decidere, ma il
mio avvocato avverte la Corte che il suo cliente ha qualcosa da
aggiungere.
Mi viene data la parola e come prima cosa segnalo al Presidente che
la scorta, arbitrariamente, mi ha sequestrato la documentazione
riguardante la decisione del Gip, sulla quale avevo preso degli
appunti, ma, nelle ore di attesa nella topaia, utilizzando alcuni
cerini spenti ed il retro della carta che avvolgeva l’acqua, avevo
annotato una scaletta per un mio breve intervento. Chiedo il
permesso di prenderlo dalla tasca e nel frattempo pensavo che
eventualmente quel che avevo da dichiarare era ben impresso nella
mia mente, una proprietà che nessuno poteva sequestrarmi.
Ottenuto il permesso mi si chiede se voglio metterlo agli atti, ma
ribadisco trattarsi di una carta che solo io posso interpretare.
Le mie dichiarazioni al Collegio poco interessano i lettori, perché
la mia vicenda processuale esula dagli scopi di questo libro, ma
voglio accennare solo ad alcune mie affermazioni, che il Presidente
ascoltò con grande attenzione, riassumendole e facendole annotare
diligentemente dal cancelliere:
“Riguardo al paventato pericolo di fuga(che costituisce assieme alla
possibilità di inquinamento delle prove ed al rischio di
reiterazione del reato, una delle tre motivazioni in grado di
imporre un provvedimento restrittivo della libertà) feci presente
che il mio passaporto è scaduto da anni e la mia carta d’identità
completava la sua validità a giorni.
In riferimento al mio comportamento criminale asserii candidamente
di essere convinto di conoscere molto bene la Costituzione, la quale
solennemente sancisce la presunzione di innocenza per qualsiasi
imputato fino al passaggio in giudicato di una sentenza, ma
sentendomi definire criminale evidentemente mi sbagliavo…
Ribadii che le foto sequestrate nel mio studio, nelle quali era
ripresa una donna sottoposta ad una seduta di terapia con il
vaginometro, non riprendevano una scena di interruzione di
gravidanza, bensì un’applicazione di un apparecchio, da me inventato
e brevettato, noto con il mio nome nella letteratura internazionale
e la cui foto e descrizione era contenuta nella copertina e nelle
pagine di un mio libro edito nel 1992 (La frigidità e la verginità
della donna) acquisito dal mio avvocato agli atti. Circostanza che
avevo ampiamente delucidato nel corso dell’interrogatorio, ma che mi
accorgevo non fosse stata accettata.
Ed infine cercai di colmare un madornale errore interpretativo di
una intercettazione telefonica, nella quale un certo signor F. mi
chiede delle informazioni per una sua conoscente interessata ad una
interruzione di gravidanza da eseguirsi in Spagna ed io, dopo aver
consigliato di assumere notizie tramite internet, senza sortire
esito positivo, dissi di cercare il numero del Partito radicale di
Roma e chiedere il numero telefonico dell’onorevole Mirella
Parachini, ginecologa e presidentessa di un’associazione di soccorso
per donne in difficoltà. Ero certo che presentandosi a mio nome
avrebbe saputo ciò di cui aveva bisogno, perché la dottoressa aveva
partecipato nel 2004 ad un convegno da me organizzato sulla
Fecondazione assistita. In effetti la telefonata ebbe l’esito
desiderato ed il signor F. mi telefonò nuovamente per ringraziarmi,
darmi i saluti della Parachini e per chiedermi se volevo annotare
gli indirizzi delle cliniche spagnole. Io mi trovavo al cellulare in
giardino mentre giocavo con Attila, il mio rottweiler. Mi parve
tuttavia scortese dire di no, per cui finsi di annotare un
indirizzo, naturalmente senza penna, né carta l’informazione svanì
nel nulla senza lasciare traccia.
Viceversa nell’ordinanza di convalida dell’arresto io figuro come il
grande organizzatore di viaggi verso la Spagna di legioni di donne
ansiose di usufruire di una legge più permissiva.
Terminate le dichiarazioni mi rimettono le manette e mi riportano in
gattabuia, ove, nonostante ambulanza e infermieri mi attendessero,
rimango un tempo infinito.
Finalmente mi prelevano; incomincia quindi il viaggio verso il
padiglione ospedaliero. Vi è prima un percorso sotterraneo e poi uno
attraverso le strade interne che costeggiano i caseggiati del
penitenziario. A metà strada l’ambulanza ha un guasto e si ferma per
quasi 30 minuti, si aprono i portelloni posteriori, perché la
temperatura comincia a divenire asfissiante. Dopo poco mi vengono
tolte le manette e posso così soccorrere uno dei due barellieri che
stava svenendo per l’afa intollerabile.
Per miracolo la vettura dopo poco riparte e finalmente vengo
ricondotto in cella intorno alle 17.
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26° Capitolo - Il ritorno a casa
Il mio compagno
Aniello mi attendeva trepidante e mi bombarda di domande: come è
andata? Hai visto i tuoi familiari? Cosa ha detto il tuo avvocato?
Gli rispondo che ho la sensazione che sia andata bene, poco importa
cosa pensi il mio legale, conta solo e soltanto cosa decideranno i
giudici. Il presidente mi è sembrato saggio ed equilibrato, i
giudici a latere, due donne, non ostili, ma sono solo sensazioni,
impressioni, speranze che possono risultare fallaci.
Le ore passano, non riesco a stare seduto, cammino nervosamente
nella cella come una bestia in gabbia, non riesco nemmeno a
piangere, è il primo giorno che non sia scoppiato in lacrime
disperate da quando sono rinchiuso.
Il pensiero di un esito negativo mi paralizza, non riesco nemmeno a
immaginare di trascorrere altri 5 o 6 mesi in attesa di un eventuale
ricorso in Cassazione.
Sono certo che la prossima crisi di angina mi sarà fatale, anzi lo
spero, quando succederà sarà una vera liberazione.
Mi aggrappo con tutte le forze ad un intervento divino, che possa
influenzare la giustizia terrena. Da due settimane le mie zie
ultranovantenni, donne di chiesa con il Paradiso assicurato, hanno
recitato rosari per me, alternandosi giorno e notte; anche Aniello,
il mio compagno di cella, testimone di Geova, ha pregato il suo dio
di intercedere in mio favore, addirittura anche Alì, un lavorante
marocchino, per il quale nei giorni precedenti, avevo consegnato una
lettera per il console del suo paese, mio amico di vecchia data, mi
aveva riferito di aver pregato cinque volte al giorno Allah di farmi
uscire.
All’improvviso verso le 20, una guardia carceraria, Salvatore, mai
nome fu più adatto, mi avverte che sono libero e posso tornare a
casa.
L’incubo è finito, ma non riesco a convincermi, sbatto ripetutamente
la testa contro le mura per essere certo non si tratti di nuovo di
un sogno. Saluto con un abbraccio Aniello, raccolgo in un grosso
sacco della spazzatura i miei vestiti ed esco dalla cella. Mi
accompagnano all’ufficio matricola per le formalità burocratiche,
che saranno lunghe, laboriose ed estenuanti.
Appena scesi a pianoterra mi rinchiudono nella stessa cella che mi
aveva accolto al momento del mio ingresso, con la differenza che ora
sono solo ed alle mie rimostranze:” Perché non mi liberate ora che
sono libero?” replicano “Ci vuole ancora molto tempo”.
Continuo a sbattere la testa contro il muro per vedere se non si
tratti di un sogno pronto a svanire all’improvviso, sembra sia
realtà.
Dopo un’ora firmo alcuni fogli, mi viene restituita la carta
d’identità e la borsa (finalmente vedo il blocco di carta e la
penna, il libro d’arte, gli accertamenti medici, alcuni medicinali);
poi quando chiedo del mio denaro depositato mi viene replicato di
ritornare di mattina per ritirarlo e mi riportano in cella.
A brevi intervalli vengono congedati dei detenuti, anche a loro
forse il Riesame ha restituito la libertà, altri invece hanno
scontato completamente la pena e pagato il loro debito verso lo
Stato. Rimaniamo in pochi, tutti in celle diverse e distanti, per
alcuni deve scoccare la mezzanotte.
Attorno alle 22 chiude l’ufficio matricola, si spengono gran parte
delle luci ed un secondino mi dice che nel mio caso si deve
attendere ancora un’autorizzazione. Vengo preso dal panico, sbatto
ancora ripetutamente la testa contro le sbarre, temo possa trattarsi
di una beffa.
Per ore mi chiamo a distanza con gli altri “liberandi prigionieri”;
è un modo per farci compagnia ed ingannare il tempo. Quando avevo
perso ogni speranza, sento la chiave girare nella toppa, mi
conducono verso l’uscita assieme ad un gruppetto di cingalesi e due
rapinatori.
Chiedo se fuori troverò un taxi, ma mi viene consigliato di
raggiungere, trascinando il sacco degli indumenti, piazza Garibaldi.
“I tassisti hanno paura e poi tante volte le famiglie dei detenuti
non hanno il denaro per pagare la corsa”.
All’uscita cerco di essere il primo e scorgo un taxi che fermo al
volo. Alle mie spalle si accorgono della mia fortuna i due
rapinatori e mi chiedono di poter salire anche loro.”Certamente, ma
devo tornare a casa per primo”.
Appena salito a bordo chiedo al conducente di poter usare il suo
cellulare e chiamo a casa, scopro che mi aspettano da ore avvertiti
dall’avvocato, anche se la lunga attesa aveva insinuato il dubbio e
fatto scemare la speranza.
Lungo il percorso i miei due compagni di corsa, abitanti l’uno a
Calvizzano, l’altro a Cardito, chiedono candidamente di poter
saldare il loro debito il giorno dopo.”Vi assicuro domani vi
pagherò, datemi il tempo di fare una rapina!”.
Il clima feroce di Poggioreale evidentemente li ha redenti…o quanto
meno li ha avviati ad un lavoro.
Mi offro di pagare per loro, rifiutano sdegnosi.”Allora accettate un
prestito”. Acconsentono.
Al cancello di casa mi attende impaziente mio figlio Gian Filippo
con Attila al guinzaglio; prego il tassista di attendere, fra poco
arriveranno cento euro.
A casa mia moglie e mia figlia Marina mi aspettano con le lacrime
agli occhi, mi stringono a loro, vogliono che mi pesi: 96 chili, ne
ho persi otto in quindici giorni, meno male non scendevo sotto i
cento da oltre trenta anni. L’indomani abbraccerò anche l’altra mia
figliola Tiziana in arrivo da Barcellona dove vive, ogni settimana a
Napoli per potermi vedere, anche se per pochi minuti, nel colloquio.
Avremo l’imprevisto piacere di colloquiare sui divani del nostro
salotto.
Rimarrò ancora sveglio fino alle sei del mattino a sfogliare
sommariamente centinaia di quotidiani, che si sono maldestramente
interessati alla mia vicenda, dando luogo ad una vergognosa gogna
mediatica ed a consultare la mia posta elettronica: attendevano
risposta 1773 mail.
Il giorno più lungo della mia vita era ancora lontano dal
completarsi.
In passato mi ero lambiccato il cervello alla ricerca di cosa
rappresentassero per l’uomo il dolore e la felicità.
Anni fa organizzai un importante convegno all’Istituto italiano per
gli studi filosofici “Perché il dolore? Una risposta tra scienza,
fede e filosofia”. Invitai teologi, psicanalisti, letterati,
filosofi, specialisti in terapia del dolore, nessuno mi convinse con
le sue argomentazioni.
Tra i miei ultimi scritti vi è un piccolo saggio sulle “Basi
biologiche della felicità”. Ho sprecato inutilmente il mio tempo.
In pochi minuti, come una folgorazione, avevo avuto chiaramente la
visione del problema: uscendo dal carcere di Poggioreale, avevo
impresso per sempre nella mente e nell’anima cosa fosse la
sofferenza, mettendo piede a casa, avevo percepito cosa fosse la
felicità.
Questo libro è giunto alla fine: l’ultima scena sulla quale si
chiude il sipario è l’abbraccio interminabile sul divano del mio
salotto con Attila, il mio fedele rottweiler, una stretta affettuosa
che dura 20, 30, forse 40 minuti, fino a quando gli occhi gelosi dei
miei familiari mi fanno intendere che mi devo dedicare a loro.
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Comunicato stampa
A mezzanotte del
giorno 8 luglio 2008 il dottor Achille della Ragione è tornato
libero a casa dopo aver lasciato il carcere di Poggioreale nel quale
è stato recluso dal giorno 24 giugno a seguito di un blitz dei
carabinieri della caserma Pastrengo coordinati dal pm Arlomede con
l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla violazione
della legge 194. Il Tribunale del Riesame sez 10 B, presidente
Quatrano ha annullato l’ordinanza di custodia formulata nei suoi
confronti dal gip Suma.
L’imputato, difeso dall’avvocato Ivan Montone, in aula nel prendere
personalmente la parola ha sottolineato le contraddizioni più
stridenti dell’ordinanza di custodia cautelare, che sono state
attentamente annotate dal collegio giudicante.
Achille della Ragione vuole rendere nota la sua terribile esperienza
nel penitenziario napoletano ed in tempi brevissimi, conta di
pubblicare un libro”Le tribolazioni di un innocente”, scritto in
cella, per il quale sta concludendo gli accordi con un importante
casa editrice.
Dopo una settimana trascorsa in cella nel padiglione Avellino
riservato ai neofiti, il dottore, per l’aggravarsi delle sue
condizioni di salute (plurinfartuato con tutte le coronarie chiuse
al 100% ed altre patologie associate) era stato trasferito
nell’ospedale del penitenziario ed era dal primo giorno in attesa di
una risposta ad un’istanza di detenzione domiciliare per assoluta
incompatibilità col sistema carcerario, risposta che non è mai
arrivata e che è stata preceduta dalla decisione del Tribunale del
Riesame che ha disposto l’ immediata liberazione.
Il giorno precedente il medico ha ricevuto la visita del direttore
del carcere dottor Giordano e della vicedirettrice, che si sono
voluti complimentare per un suo intervento comparso sulle pagine di
Repubblica, che fotografava la difficile realtà ed i problemi di
vivibilità di Poggioreale e ne hanno apprezzato lo spessore
culturale ed il coraggio civile.
Il medico solo ora sta prendendo visione dell’enorme materiale
cartaceo e televisivo che è stato dedicato alla sua vicenda, pieno
di imprecisioni diffamatorie per le quali si riserva di richiedere
l’opportuna correzione ai sensi della legge sulla stampa.
Per i giornalisti che volessero prendere contatti per interviste
tel. 335 217327 oppure a.dellaragione@tin.it
Achille della Ragione
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Lettere ai direttori di quotidiani
Un grido di dolore
dall’inferno
Gentile direttore,
mi perdoni se questa volta le parlo di un argomento poco gradito
alla maggioranza dei lettori, preoccupati dal dilagare della
criminalità, ma purtroppo scrivo dall’inferno del carcere di
Poggioreale, che sto attraversando, mio malgrado, nei suoi gironi
che neanche la fertile fantasia di Dante avrebbe potuto immaginare.
Anni fa organizzai un convegno sulla penosa situazione
penitenziaria, raccogliendo le voci che emergevano da quei luoghi di
sofferenza, ma non potevo nemmeno ipotizzare l’abisso nel quale si
può precipitare.
Appena ricevuto, in base ad un regolamento severo oltre misura, mi
sono stati sequestrati, a parte il pettine e numerosi oggetti
personali, alcuni libri e giornali con i quali speravo di
trascorrere qualche ora di distrazione, le foto di mia moglie, dei
miei figli e dei miei nipoti, che mi avrebbero dato una ragione per
sopravvivere, addirittura anche un quaderno bianco e la penna,
perché non bisogna pensare, non bisogna scrivere, bisogna diventare
un automa e non più una persona.
Più permissivo, il pur durissimo carcere dello Spielberg dove a
Silvio Pellico fu concesso di scrivere “Le mie prigioni”. Sembra una
strategia studiata per annientare l’individuo, una pratica molto
efficace: nel mio caso ha quasi completato la sua opera in pochi
giorni! Sono ospite del padiglione Avellino, quello più accogliente
che riceve i neofiti del carcere. Pare che rispetto agli altri sia
rose e fiori: un’ora di aria 2 volte al giorno in un cortile di
200-300 mq circoscritto da mura infinite, per un enorme numero di
utenti. Le celle di 15-20 mq ospitano, con letti a castello, fino a
10 detenuti; esse in questi giorni hanno temperature intollerabili e
sono meta di nugoli di zanzare. La latrina è contigua alla cucina
dove, la quasi totalità dei carcerati, si prepara i pasti acquistati
con sacrificio allo spaccio. Anche rimanere un buon cristiano è
difficile, perché si può seguire la messa solo ogni 15 giorni.
E’ impossibile resistere a questo meccanismo perverso e
assolutamente ingiustificato. Infatti se può essere lecito, anche se
doloroso, togliere ad un detenuto la sua libertà è assolutamente
esecrabile privarlo della sua dignità di uomo. E’ un peccato che
grida vendetta davanti a Dio e che la legge deve mitigare e
regolare.
I colloqui settimanali sono un conforto molto importante perché,
anche se per una manciata di minuti, si possono toccare le mani
delle persone care. Nonostante si debba affrontare una via crucis:
dentro, con un’attesa interminabile tutti stipati in camere di
sicurezza stracolme, mentre all’esterno i parenti fanno file
massacranti di ore sotto l’acqua e sotto il sole senza un briciolo
di pietà per bambini malati ed anziani.
Il sovraffollamento nelle celle è un fattore gravissimo che porta
all’esasperazione, anche se spesso si crea un modus vivendi per
istinto di sopravvivenza. Pochi sono stati fortunati come me, di
trovare in cella tre giovani tranquilli: Emanuele A. rapinatore,
Antonio P. estorsore e Sasà R. aspirante killer. Dei ragazzi che
sono stati spinti al crimine dalla mancanza del lavoro, ma che sono
pronti a redimersi. Essi si sono messi a mia disposizione come figli
rispettosi, cucinandomi, confortandomi e soccorrendomi di notte
quando mi sentivo male. Dimenticavo sono plurinfartuato ed in attesa
di by-pass.
Achille della Ragione
Il Roma 4 luglio 2008 – La Repubblica 4 luglio 2008
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Diciamo la verità su Achille della Ragione
Gentile direttore,
sono Elvira Brunetti, moglie di Achille della Ragione, detenuto da 3
giorni nel carcere di Poggioreale con l’accusa di associazione a
delinquere, finalizzata alla violazione della Legge 194.
Il motivo della mia dichiarazione scaturisce dalla numerose
imprecisioni riportate dai giornali in questi ultimi giorni che
hanno infangato il nome di una persona, a causa della divulgazione
di notizie imprecise ed incomplete.
Vorrei soffermarmi sui seguenti aspetti direttamente legati
all’inchiesta per poi fare qualche osservazione di carattere
personale.
• Sulla base di un’intercettazione telefonica, mio marito è accusato
di essere il “procacciatore” di pazienti per il ginecologo dr. Luigi
Langella. Tengo a precisare che mio marito era convinto che il
dottor Langella, direttore del centro I.v.g. (interruzione
volontaria di gravidanza) dell’ospedale San Paolo di Napoli,
lavorasse in regime “intramoenia” e che quindi era legittimato ad
effettuare tali interventi nell’assoluto rispetto della normativa
vigente.
• Relativamente al contenuto dell’unica intercettazione agli atti,
non è emersa “la sostanza” e cioè che la paziente, presuntamente
indirizzata da mio marito a Langella, non ha effettuato l’aborto.
• Lo strumento innovativo realizzato da Achille della Ragione
chiamato vaginometro, non è un dispositivo legato all’aborto, come è
stato ipotizzato, ma ha lo scopo di aumentare l’esercizio della
mobilità pelvica femminile.
• Le foto sequestrate durante questa inchiesta erano già state
sequestrate nel lontano 1996 ed erano poi state restituite poiché
ritenute di esclusivo valore scientifico.
• Relativamente all’affermazione di un pericolo di fuga attuale e
concreto vorrei sottolineare che mio marito non possiede un
passaporto valido per l’espatrio. Non si è mai preoccupato di
rinnovarlo perché non aveva e non ha nessun intenzione di lasciare
Napoli, sua città natale che ama più di ogni altra cosa e che ha
deciso di sostenere in ogni sua battaglia.
• I suoi spostamenti a Barcellona sono dettati solo ed
esclusivamente dalla presenza della nostra primogenita che lavora e
vive lì con la sua famiglia. Abbiamo due nipoti a cui siamo molto
legati. Invito chiunque a trovare riscontri su una possibile
relazione lavorativa tra mio marito e un qualsiasi centro medico
spagnolo che pratica I.v.g.
Vorrei inoltre far notare che mio marito riceveva molte telefonate a
scopo consultivo senza nessuna retribuzione non solo nel settore
ginecologico ma anche e soprattutto in molti altri settori come
pittura, storia dell’arte, letteratura e scacchi. Era stato
addirittura contattato da alcuni studenti universitari per
l’elaborazione della loro tesi di laurea.
Vi invito a consultare il web per dare un riscontro alle mie
dichiarazioni e per conoscere meglio Achille della Ragione, un uomo
che è da anni uno scrittore (lo dimostrano i suoi numerosi scritti
nei settori più disparati) e un giornalista (più di 400 articoli
negli ultimi due anni) e non più un ginecologo, professione che ha
ormai abbandonato da 14 anni.
Finisco con il sottolineare che il fermo a cui è sottoposto mio
marito aggrava le sue condizioni di salute. Tengo a precisare che si
tratta di un plurinfartuato con numerose angioplastiche ed in attesa
di un intervento di bypass al cuore, programmato proprio in questi
giorni e posticipato perché al momento trattenuto nella casa
circondariale napoletana dove gli è stato tolto tutto, dalle foto
dei figli e dei nipoti finanche ad un innocente quaderno con penna,
che io all’ultimo momento avevo timidamente aggiunto al suo
bagaglio. Mi sembra che nemmeno a Silvio Pellico fu vietata la carta
e la penna, nonostante i tempi peggiori!
Per fortuna la sua cella ospita gente tranquilla, tutti giovani, mio
marito è il più anziano e gli hanno dato il posto di sotto nei letti
a castello.
Mi domando se il suo cuore reggerà, perché oggi l’ho visto piangere.
Ci siamo promessi che ogni sera alle otto ci penseremo!
Concludo sottolineando l’ennesima violazione del segreto istruttorio
dovuta alla fuga di notizie che, dopo appena 120 minuti
dall’arresto, vedeva giornalisti e telecamere di tutt’Italia
impiantati davanti alla Caserma “Pastrengo”pronti a dare in pasto ai
MEDIA notizie avventate ed incomplete.
Elvira Brunetti
Corriere del Mezzogiorno 28 giugno 2008 - La Repubblica 29 giugno
2008 – Il Roma 1 luglio 2008 – Il Mattino (ignora la lettera e ne
pubblica solo poche frasi nel contesto di un articolo)
Mi sia concesso di ringraziare pubblicamente mia moglie Elvira, non
solo per questa sua splendida lettera, ma per la sua costante
presenza al mio fianco da quasi quaranta anni, nella buona come
nella cattiva sorte, alle prime del San Carlo ed alle presentazioni
dei miei libri anche a Montecitorio, ma pure nel reparto di
rianimazione dell’ospedale Loreto Mare o nella squallida sala
colloqui della casa circondariale napoletana.
A testimoniare il mio interesse alla problematica trattata in questo
libro, voglio segnalare, tra le mie tante iniziative partorite in
epoca non sospetta, alcune lettere da me inviate negli anni scorsi
ai direttori dei principali quotidiani italiani, che nel primo caso
sortirono l’effetto della liberazione di un mio fedele cameriere e
la relazione che fece da introduzione ad un importante convegno che
organizzai sulla situazione delle carceri in Italia (Napoli 10
ottobre 2003, Goethe Institut) il quale vide la partecipazione tra i
relatori di qualificati esponenti del mondo politico, come
l’onorevole Capezzone, all’epoca segretario nazionale del partito
radicale e direttori di penitenziari come il dottor Napoletano.
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Poggioreale il regime carcerario
Gentile dottor Mieli,
La situazione nelle carceri è, a dir poco, esplosiva con
penitenziari, come quello napoletano di Poggioreale, che contengono
un numero di detenuti doppio rispetto a quello previsto e condizioni
di vita assolutamente sub umane. Ed a pagare ed a soffrire di più
sono sempre i più poveri ed i più deboli.
Voglio raccontare brevemente a Lei ed ai Suoi lettori una vicenda
esemplare a conferma di quanto detto. Un mio ex cameriere, Alcindo
Do Carmo, ma il suo cognome non conta, anzi lì dentro esso è
sostituito da un numero, si trova, a seguito di una aggressione alla
moglie, ospite… da circa due mesi dello Stato. Il difensore
d’ufficio non ha presentato in tempo utile richiesta di
scarcerazione al Riesame, ma, la cosa più grave, nessuno si è
accorto, forse per difficoltà linguistiche, che il malcapitato è
affetto da una grave forma tumorale, assolutamente incompatibile con
il regime carcerario. L’indilazionabile chemioterapia, interrotta da
oltre sessanta giorni, è stata sostituita da una serie di selvagge
percosse giornaliere da parte dei compagni di cella.
Ogni giorno ed ogni minuto nelle nostre prigioni viene calpestato
l’articolo 27 della Costituzione, che sancisce solennemente: ”Le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità”.
Che cosa si aspetta a portare lo Stato italiano davanti alle Corti
di giustizia europee ?
Corriere della Sera 25 giugno 2003 - Il Mattino 3 luglio 2003
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Bracciale elettronico e carceri sovraffollate
Gentile direttore,
estate tempo di vacanze: quando la temperatura sale, tutti cercano
refrigerio al mare o ai monti ed ogni anno tutti, politici e
cittadini benpensanti, con la benedizione dei mass media,
dimenticano l’esplosiva situazione delle carceri, sovraffollate
oltre qualsiasi perversa immaginazione, con detenuti stipati come
bestie in camerate ove il termometro è costantemente oltre i 40° e
le ore di aria sono 2 su 24. Un inferno che neanche la fertile
fantasia di Dante avrebbe potuto immaginare, causato dal gran numero
di detenuti. Un record europeo del quale vergognarsi. Non peroreremo
amnistie o indulti, al momento improponibili, perché la situazione
politica non è matura, ma vorremmo proporre l’adozione del
braccialetto elettronico che permetterebbe un maggior utilizzo degli
arresti domiciliari
La Stampa 24 agosto 2004 - Roma 29 agosto 2004
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Liberalizziamo la droga
Gentile direttore,
A Napoli e provincia una quota cospicua della popolazione è occupata
a spacciare droga, ad indurre donne alla prostituzione o, nei casi
veniali, a vendere cd e griffe false nel più assoluto anonimato
fiscale, ma la cosa più grave è che la restante popolazione acquista
droga, fa la fila per accoppiarsi a prostitute minorenni, compra
merce falsa di ogni genere e si vanta di vedere soltanto film di
contrabbando.
Da questo coacervo inestricabile tra delinquenti ed onesti…
difficilmente verremo fuori.
In questi giorni la malavita impazza, sovrapponendosi ad una micro
delinquenza, che oramai assedia il cittadino ad ogni ora del giorno
e della notte.
In Italia, non solo a Napoli, alla base di oltre il 50% dei reati vi
è l’ombra della droga, oltre la metà dei carcerati è ospite… dello
Stato per reati connessi agli stupefacenti, la metà delle forze
dell’ordine e della magistratura è occupata da problemi legati a
spaccio e consumo di droga.
Vogliamo provare a dibattere sulla possibilità di liberalizzarla,
una vecchia proposta radicale che non è stata mai discussa
seriamente dai mass media, forse perché influenzati dall’antistato,
che ha oramai guadagni tali da poter corrompere chiunque.
Il Giornale di Napoli 30 marzo 2004 – Il Tempo 1 aprile 2004 – Il
Messaggero 4 aprile 2004
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Una battaglia di civiltà
Relazione di
Achille della Ragione, organizzatore del convegno”La situazione
delle carceri in Italia” Napoli 10 ottobre 2003, Goethe Institut,
consultabile integralmente in audio video sul sito di Radio radicale
Attorno al “Pianeta carcere “ da sempre vige un silenzio assordante
dei mass media e delle istituzioni. Inoltre, ed è l’aspetto più
triste della vicenda, da parte dell’opinione pubblica vi è non solo
disinteresse, ma la volontà pervicace di non interessarsi, di non
sporcarsi le mani ed il cervello al contatto di problematiche che
riguardano chi ha sbagliato ed ha contratto un debito verso la
società. In tal modo si commette il grave errore di dimenticare una
drammatica verità, costituita dal fatto che i 2/3 dei detenuti sono
in attesa di giudizio - per cui, secondo la nostra Costituzione,
innocenti - e, di questi, oltre il 60% sarà assolto alla fine del
giudizio, naturalmente dopo essere stati annientati e con loro, i
loro familiari.
Ho toccato con mano questa invincibile riluttanza, ricevendo da
parte di numerosi amici e conoscenti un rifiuto perentorio
all’invito a partecipare, anche se solo come ascoltatori, a questo
convegno.
La vita dei carcerati è una realtà scottante, ma alla pari
dell’eutanasia, dell’omosessualità, della follia, della droga,
dell’aborto non interessa, in maniera trasversale, l’intera classe
politica, perché non solo non procura voti, bensì fa perdere
consensi non appena si accenna all’argomento.
Il livello di civiltà e di democrazia di un Paese si valuta a
seconda del modo in cui vengono trattati i più deboli e non esiste
categoria più abbandonata e negletta della popolazione carceraria,
privata non solo del bene più prezioso per un individuo: la libertà,
ma costretta, per il disumano sovraffollamento delle nostre
infernali “caienne”, a subire una infinità di pene accessorie più
varie, dalle violenze sessuali alla sporcizia obbligatoria, stipati
come bestie in gabbia, fino a limiti allucinanti di 16 persone in
una cella di 4 metri per 4, più una squallida ed angusta latrina per
i bisogni corporali, per lavarsi e per lavare le stoviglie dopo i
pasti.
Napoli, come sempre, quando si tratta di record negativi è in testa
alla classifica con il sovraffollamento da quarto mondo dei suoi
penitenziari, al cui confronto i gironi infernali danteschi
impallidiscono miseramente.
Il carcere di Poggioreale, come riferito ufficialmente
all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 , può contenere al
massimo 1276 detenuti, ma ne ha avuti in media 2199. Nel 2003, pur
rimanendo invariata la capienza, abbiamo appreso che si è raggiunto
il record di 2386 detenuti. Eureka!!
In queste disperate condizioni,prive di qualsiasi dignità,
naturalmente qualsiasi tentativo di recupero è mera utopia:diritto
allo studio, al lavoro, ad un minimo spazio vitale rappresentano
chimere irraggiungibili.
E così ogni giorno si calpesta e si ignora sfacciatamente il terzo
comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione, il quale recita
solennemente:
”… le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso
di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Inoltre, alle disperate condizioni di vita nei penitenziari si
associano ulteriori disfunzioni, quali la esasperante lentezza con
cui i giudici di sorveglianza esaminano le posizioni dei detenuti,
che avrebbero diritto ad uscire dal carcere ed usufruire del regime
di semilibertà.
Anche tutti gli altri istituti di pena campani soffrono di
condizioni di sovraffollamento più o meno gravi e di condizioni di
vivibilità ai limiti dell’incubo.
Un discorso a parte merita il famigerato “41bis”, un regime di
ulteriore grave restrizione delle libertà personali in aggiunta a
tutte le limitazioni della carcerazione. Una normativa ignota negli
altri Stati europei, che, applicata con severità, può sconfinare in
un trattamento che nel diritto internazionale ha un nome ben preciso
: tortura, anche se solo psicologica.
Alla fine di questo angoscioso tunnel non si riesce ad intravedere
che una luce fioca, la cui esiguità sembrerebbe togliere ogni
speranza ai detenuti ed ogni desiderio di proseguire la lotta ai
pochi uomini di buona volontà, che da tempo combattono, ad armi
impari, contro inique ingiustizie.
Una sola proposta che possa suonare da minaccia: cosa aspettiamo a
portare lo Stato italiano davanti alle Corti di giustizia
internazionali!?
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L’amnistia ed il pifferaio magico
Si riparla di
amnistia e questa volta pare che possa essere la volta buona. Marco
Pannella con il suo invito suadente, con il suo sciopero della fame,
più simbolico che reale, sembra aver compattato le forze
parlamentari sia di destra che di sinistra, riuscendo lì dove fallì
il grande Giovanni Paolo II, che aveva chiesto al Parlamento un
gesto, anche minimo, di clemenza. L’emergenza criminale spaventa i
cittadini, ma la vita dei carcerati è una realtà scottante ed il
livello di civiltà e di democrazia di un Paese si valuta a seconda
del modo in cui vengono trattati i più deboli e non esiste categoria
più abbandonata e negletta della popolazione carceraria, privata non
solo del bene più prezioso per un individuo: la libertà, ma
costretta, per il disumano sovraffollamento delle nostre diaboliche
“caienne”, a subire una infinità di pene accessorie più varie, dalle
violenze sessuali alla sporcizia obbligatoria, stipati come bestie
in gabbia, fino a limiti allucinanti di 16 persone in una cella di 4
metri per 4, più una squallida ed angusta latrina per i bisogni
corporali, per lavarsi e per lavare le stoviglie dopo i pasti.
Napoli, come sempre, quando si tratta di record negativi è in testa
alla classifica con il sovraffollamento da quarto mondo dei suoi
penitenziari, al cui confronto i gironi infernali danteschi
impallidiscono miseramente. In queste disperate condizioni, prive di
qualsiasi dignità, naturalmente qualsiasi tentativo di recupero è
mera utopia: diritto allo studio, al lavoro, ad un minimo spazio
vitale rappresentano chimere irraggiungibili.
E così ogni giorno si calpesta e si ignora sfacciatamente il terzo
comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione, il quale recita
solennemente: ”… le pene non possono consistere in trattamenti
contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
condannato”. Inoltre, alle disperate condizioni di vita nei
penitenziari si associano ulteriori disfunzioni, quali la
esasperante lentezza con cui i giudici di sorveglianza esaminano le
posizioni dei detenuti, che avrebbero diritto ad uscire dal carcere
ed usufruire del regime di semilibertà.
Se Napoli è da record, anche gran parte degli altri istituti di pena
italiani soffrono di condizioni di sovraffollamento più o meno gravi
e di condizioni di vivibilità ai limiti dell’incubo. Un inferno che
neanche la fertile fantasia di Dante avrebbe potuto immaginare,
causato dal gran numero di detenuti. Un record europeo del quale
vergognarsi, che potrebbe in parte attenuarsi attraverso una diffusa
adozione del braccialetto elettronico, che permetterebbe un maggior
utilizzo degli arresti domiciliari, soprattutto per i detenuti in
attesa di giudizio, i quali per i 2/3 verrà assolto al termine del
giudizio. Ma soprattutto un gesto di clemenza, anche ridotto, per
dimostrare che lo Stato non dimentica nessun cittadino.
Quaderni Radicali gennaio 2005 - Vivi Telese 18 gennaio 2005 -
www.ildue.it (sito del carcere di San Vittore) 19 gennaio 2005
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Il regime del 41 bis
L'art. 41 bis
dell'ordinamento penitenziario è stato introdotto con la legge
10/10/86 n. 663 (cosiddetta Legge Gozzini) e riguardava inizialmente
soltanto le situazioni di rivolta o altre gravi situazioni di
emergenza. A seguito della strage di Capaci del 1992 fu introdotto
(decreto legge 8/6/92 n. 306, convertito con legge 7/8/92 n. 356) un
secondo comma che rendeva possibile l'applicazione del regime
speciale ai detenuti per reati di criminalità organizzata; tale
disposizione era valida per tre anni, ma successivi interventi
legislativi (a partire dalla legge 16/2/95 n. 36) ne hanno prorogato
di anno in anno la validità.
Correva quindi l’anno 1992 quando nel nostro bel paese si consumava
la famosa strage di Capaci. La mafia uccideva Giovanni Falcone. Lo
stato democratico, allora rappresentato da Andreotti come capo del
governo e Martelli ministro della giustizia, sentendosi ferito ed
umiliato, decide di far nascere un carcere del tutto speciale, un
carcere più “vero” rispetto a quello che fino ad allora era…, nasce
così il cosiddetto “carcere duro” comunemente chiamato “41 bis”.
Ecco dove sono le radici della regolamentazione carceraria di questo
regime, che oggi torna a far parlare di sé. Esso nasce come arma
contro l’organizzazione mafiosa.
Si tratta ovviamente di una pena carceraria particolare per cui,
dalla sua istituzione, sono state create aree specifiche.
In Italia, oggi, le strutture carcerarie che sono fornite di
specifici bracci per il 41 bis sono un ventina, sparse da Novara
fino a Napoli. Generalmente si tratta di una palazzina staccata dal
resto del carcere ed in alcune strutture sono presenti ambienti
speciali per i detenuti particolari come Totò Riina o Bagarella. Al
momento di detenuti eccellenti se ne contano alcune decine. In
pratica è un carcere speciale per detenuti speciali!
I “fortunati” prigionieri che devono scontare la pena sotto il
regime del 41 bis stanno, infatti, in celle singole ma con delle
finestre del tutto particolari perché dispongono di ben tre tipi di
sbarramenti: il primo fatto con sbarre vere e proprie, il secondo da
una rete abbastanza fitta ed il terzo è in pratica una tapparella
dalla quale passano pochissima aria e pochissima luce. Quest’ultima
barriera con l’esterno è tra i prigionieri chiamata simpaticamente
gelosia.
In queste confortevoli celle i detenuti ovviamente non possono
tenere nessun oggetto, o meglio… possono tenere con sé al massimo un
libro, ma oltre quello nulla di nulla, niente fotografie e niente
giornali, niente musica. La posta è tutta controllata e possono
ricevere al massimo 2 pacchi postali al mese. I colloqui per i
detenuti del 41 bis sono quasi impossibili, limitati al numero di
uno al mese ed il contatto fisico con i parenti è completamente
annullato da un vetro spesso e alto fino al soffitto; per parlare
con i familiari bisogna dunque usare un citofono. Nei casi specifici
dei carceri di Viterbo e L’Aquila i colloqui avvengono in stanze
piccole quanto due cabine telefoniche grandi un metro per un metro.
I detenuti sottoposti al 41 bis hanno diritto ad abbracciare
solamente i figli sotto i 12 anni, in incontri non superiori ai 10
minuti, in altre stanze senza vetro divisorio e durante tali
incontri sono ovviamente sottoposti a videoregistrazione. L’ora
d’aria esiste ma spesso è solo un modo di dire o un’ora come
un’altra, dato che gli spazi del passeggio sono nella gran parte di
queste prigioni ridottissimi.
C’è da immaginare che tali reclusi sperino solo nelle date dei
processi per poter vedere altri esseri umani e per spezzare la
monotonia, ma a questi detenuti è stato tolto persino il diritto ad
essere presenti in aula durante le udienze. I processi per questi
prigionieri, infatti, devono essere svolti in video conferenza
dall’interno della galera.
Questo tipo di carcere era all’inizio solo una sorta di “eccezione”,
un trattamento speciale per i mafiosi, che doveva essere
riconfermato da chi di dovere ogni sei mesi. Dal 23 Dicembre 2002,
però, le cose sono cambiate e questo sistema carcerario è entrato
ufficialmente a far parte integrante del nostro sistema carcerario.
Lo ha voluto all’ unanimità la commissione Giustizia del Senato
della Repubblica a garantire la giustizia ed a scoraggiare
l’ingiustizia.
inoltre la Commissione di Giustizia del Senato ha ritenuto di
estendere il regime di 41 bis anche a terroristi, narco trafficanti
e schiavisti (con i tempi che corrono… meglio abbondare!).
Già perché è certo che il carcere duro serve si ad ostacolare ogni
contatto tra i detenuti e l’esterno, ma è anche vero che un secondo
fine per nulla celato c’è, ed è proprio quello di servire da monito
per chiunque osi anche solo pensare di sfidare le sacre fondamenta
della democrazia.
E poi diciamoci la verità… dopo l’11 Settembre per lo Stato italiano
avere un’aria da “duro” è proprio importante.
Sono in molti a credere che tale regime carcerario è un continuo
oltraggio ai diritti dell’uomo. OK, le persone che hanno a che fare
col 41 bis non sono proprio delle personcine a modo, ma che potere
ha lo Stato per togliere addirittura anche il diritto alla socialità
ad un essere umano? È verissimo, tale regolamentazione è nata per
ostacolare i rapporti e quindi le comunicazioni dei detenuti con
l’esterno e con gli altri detenuti, ma è anche vero che spesso la
durezza di tale carcere è servita a ben poco. Lo dimostrano le
parole del pentito Luigi Giuliano che ha spiegato bene a tutti come
i severi controlli alla fine vengano elusi regolarmente. Ecco allora
che il 41bis, spogliato della sua intenzione primaria, restava
solamente un inutile strumento di tortura nei confronti di esseri
umani che, seppur non allineati con il volere dello Stato, restano
pur sempre esseri umani. Certo… probabilmente il caso di Giuliano è
solo un caso a sé, un’eccezione che forse non fa la regola, ma di
sicuro nessuno lo saprà mai, nessuno può infatti veramente dire se
esso serve nei fatti a ostacolare le comunicazioni oppure è solo uno
sciocco strumento di tortura. Eppure dal 23 dicembre il 41 bis è
“regola”. Lo ha voluto lo Stato che si dichiara democratico ma, come
abbiamo visto, di democratico c’è veramente poco.
Dal regime di 41 bis si può uscire, è vero, basta rinnegarsi,
pentirsi, chinarsi al volere dello Stato. Altro palese motivo per
cui esso continua ad esistere e anzi a rafforzarsi nella nostra
democrazia, è proprio quello di rendere la vita del carcerato
talmente impossibile, talmente aspra e brutta da annientarlo dentro,
per farlo pentire in maniera coatta. Ci chiediamo a cosa possa
servire il pentimento coatto di un mafioso o di un terrorista ad uno
Stato e ci chiediamo pure se stiamo ancora parlando di un tipo di
carcere di un paese democratico o se abbiamo fatto confusione con le
carceri iraniane o turche. No, non abbiamo fatto alcuna confusione,
stiamo ancora parlando di qualcosa appartenente alla nostra bella
Italia “patria di civiltà” e alla nostra amata e sbandierata
democrazia… purtroppo.
Ho creduto di riportare questi miei contributi risalenti agli anni
Novanta per testimoniare una mia attenzione di vecchia data verso
figure carismatiche, come Raffaele Cutolo e Pupetta Maresca, le
quali hanno inciso profondamente nell’immaginario popolare e che
nelle carceri sono considerati dei veri idoli.
Sono articoli pubblicati prima su riviste letterarie e nelle pagine
culturali di quotidiani campani, per essere poi inglobati in alcuni
miei volumi: “Le ragioni di della Ragione” e “ Cento napoletani da
ricordare”.
Per non aumentare eccessivamente la mole di questo libro segnalo
soltanto e rinvio chi volesse consultarla a reperirla sul web “Una
storia della camorra”, da me redatta nel 2005 e pubblicata a puntate
su www.napoli.com
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Un folle ordinatore
Articolo pubblicato
su Scena Illustrata di marzo 1994
La camorra rappresenta, da tempo immemorabile, una realtà tangibile
della vita sociale napoletana, da cui non si può prescindere in
nessuna analisi sociologica.
In molti quartieri rappresenta l’antistato, poiché amministra in
alcuni casi perfino la giustizia, per via della cronica latitanza
dei poteri istituzionali; in assoluto manovra una quantità di denaro
talmente cospicua da rappresentare l’industria principale dell’area
napoletana. Alcuni modelli culturali sono talmente assimilati dalla
mentalità popolare da costituire un qualcosa di imprescindibile nel
giudicare e nell’orientare il comportamento dei singoli.
Tutto ciò potrà anche costituire un modello nefasto di società, in
ogni caso per molti anni ancora ci saranno profonde resistenze
culturali al cambiamento, per questo corre l’obbligo di raccontare
la storia di un personaggio simbolo dell’antistato.
Parleremo di Raffaele Cutolo, che, riteniamo appartenere alla
categoria dei folli ordinatori, cioè quei personaggi che, sotto
l’effetto di una pazzia lucida, costituiscono un sistema di potere,
che in certa misura, stabilisce una forma di ordine nella società,
creando per un periodo di tempo abbastanza lungo una sorta di «pax
camorristica», durante la quale si possono osservare dei fenomeni
positivi, come l’abolizione di alcuni tipi di reato di maggiore
allarme sociale, quali i sequestri di persona e gli atti
terroristici.
Non si può, poi, prescindere dall’aspetto principale del potere
camorristico cioè quello economico, che manovra migliaia di miliardi
e che si è particolarmente sviluppato negli anni successivi al
terremoto che, nel 1980 ha colpito la Campania.
In un particolare momento storico in cui una diabolica alleanza tra
politica e camorra ha fatto affluire un fiume di 50-60.000 miliardi
nella nostra regione, creando dal nulla ricchezze colossali, ma
distribuendosi in ogni caso in innumerevoli rivoli, dando così
respiro ad una economia che, mortificando le naturali inclinazioni
delle nostre popolazioni, portate verso l’agricoltura,
l’artigianato, ed il turismo, ha cercato di imporre
l’industrializzazione forzata, che si è dimostrata un fallimento e
che ha prodotto effetti devastanti sull’ambiente e sulle abitudini
dei cittadini.
Raffaele Cutolo nasce nell’ottobre del 1941 ad Ottaviano, una
cittadina dedita ufficialmente all’agricoltura e posta alle pendici
del Vesuvio, dove il 15% della popolazione gira con in tasca la
pistola, che viene regalata ai ragazzi al momento della cresima e
dove esiste anche il più alto indice di motorizzazione individuale.
Il padre è un contadino, buona persona detto dai compaesani «o
monaco» perché molto religioso; la mamma è una tranquilla casalinga.
Raffaele frequenta con scarso profitto la scuola conseguendo la
licenza elementare. Da bambino con la sua faccia da prete sognava di
diventare papa. Quindi dopo aver bighellonato per alcuni anni senza
arte né parte, come tanti giovani del suo paese, debutta a 22 anni
con il suo primo omicidio, uccidendo in una rissa scoppiata per
futili motivi un compaesano Mario Viscido, che aveva osato prendere
le difese di una ragazza, redarguita da Cutolo perché aveva osato
ridere al suo passaggio.
Subito arrestato trascorre a Poggioreale, che sarà il suo feudo
personale, gli anni della carcerazione preventiva che scadono nel
maggio del 1970. Don Raffaele ottenuta la libertà provvisoria
comincia a gettare le basi della Nuova Camorra Organizzata (NCO),
principalmente aiutando economicamente le famiglie dei carcerati, a
cui fornisce anche i migliori avvocati.
A marzo del 1971 il processo Viscido si conclude con la condanna di
Cutolo all’ergastolo. I carabinieri lo rintracciano a San Gennaro
Vesuviano, un paesino alle falde del Vesuvio, ove il futuro
«professore» ritiene di essere intoccabile. Nel tentativo di arresto
Cutolo ferisce due carabinieri, ma il giorno dopo viene catturato e,
dichiarato infermo di mente, viene condotto nel manicomio di Sant’Eframo
a Napoli. Dopo alcuni mesi viene trasferito nel manicomio
giudiziario di Aversa, dal quale il 7 febbraio 1979 fuggirà in
maniera rocambolesca, entrando nella fantasia popolare con lo stesso
carisma di Superman.
L’evasione avviene di domenica, intorno alle 15, mentre tutti i
ricoverati, gli infermieri ed il personale di custodia è intento a
seguire la partita di calcio alla radio. Un commando di fedelissimi,
capitanato dal luogotenente Antonino Cuomo, opera una breccia nel
muro di cinta del manicomio con la dinamite. Don Raffaele, che nel
frattempo stava tentando di estorcere ai medici fiscali la
semi-infermità mentale, può evadere indisturbato, ed appagare la sua
sete di libertà, affermare la vittoria del suo io, e la capacità di
poter beffare, quando vuole, le istituzioni che gli si
contrappongono.
Saranno arrestate due guardie carcerarie per favoreggiamento, ma si
scatenerà l’ira dei duecento colleghi dei due agenti incriminati,
che metteranno in risalto, attraverso una manifestazione di
protesta, l’impotenza dello Stato, il quale si illude che con del
personale disarmato ci si possa opporre efficacemente ad un attacco
eseguito da delinquenti, decisi a tutto, ed armati con tritolo e
fucili mitragliatori.
Una volta liberato Cutolo si dedica anima e corpo alla creazione di
una aggregazione di fedelissimi, il cui scopo però non sarebbe
quello di commettere delitti, bensì la lotta contro le ingiustizie.
La Nuova Camorra Organizzata per il «professore» dovrebbe essere
formata soltanto da uomini veri, che combattono per togliere ai
ricchi e dare ai poveri.
Tutti i gregari sono dominati psicologicamente dal suo grande
carisma, che, come tutti i veri capi egli impone ai malavitosi con
il suo sinistro fascino, che riesce ogni giorno a fare nuovi
proseliti. Molti delinquenti si sentono onorati di andare in galera
per don Raffaele, perché lo ritengono un amico, un padre e non un
delinquente.
Molti altri, sperano, diventando suoi vassalli, di passare da
«pezzenti» a «signori». La camorra pur con gli opportuni
collegamenti, non deve subire alcun rapporto di sudditanza con la
mafia e con la ’ndrangheta. Organizzata in modo autonomo deve
permettere a Napoli di «giocare» in serie A nel panorama delle
grandi famiglie criminali mondiali, perché il ruolo subalterno non
si addice ai napoletani.
Il «professore» promette «libera impresa in libera criminalità» e si
proclama tutore di questa libertà, che, ovvio, ha un prezzo da
versare puntualmente ai suoi esattori.
Le più importanti famiglie napoletane dai Giuliano di Forcella ai
Bardellino di Caserta dovevano versare tangenti di centinaia di
milioni a Cutolo nel suo periodo di massimo splendore.
Don Raffaele durante il periodo della sua latitanza si vanta di
avere carteggi con Sottosegretari agli Interni e Ministri della
Difesa ed inoltre lancia spesso clamorosi proclami, come quello in
cui intima ai rapitori di un ragazzo, Gaetano Casillo, di liberare
immediatamente l’ostaggio. I sequestratori obbediscono al dictat e
dopo poco scompare misteriosamente un commerciante di San Gennaro
Vesuviano, che forse era implicato nel rapimento. Cutolo si dimostra
tenero verso la ragazza povera che gli chiede aiuto perché non ha i
soldi per il corredo o per il giovane latitante disperato, ma non ci
pensa due volte a far uccidere in carcere il suo luogotenente e la
sua vedova depositaria di pericolosi segreti.
Nel maggio del 1979 termina la latitanza di Cutolo. Cento
carabinieri circondano la villetta di tale Giuseppe Lettieri ad
Albanella vicino Paestum, ove aveva trovato rifugio il boss. Il
«professore» per quanto armato fino ai denti, prudentemente si
arrende senza opporre resistenza ed al colonnello Bario, comandante
dei carabinieri di stanza a Napoli, esclama: «è giusto che per
arrestare un capo si muove un altro capo»: inoltre senza ironia
elogia i militari per l’efficacia della loro impresa.
Dal carcere Cutolo continua a comandare i suoi «guaglioni» di Napoli
ed il suo potere invece di diminuire tende ad aumentare, a tal punto
che sarà lo stesso Stato a rivolgersi a lui nel carcere di Ascoli
Piceno, attraverso i servizi segreti, per facilitare la liberazione
di Cirillo, rapito dalle brigate rosse. Tale interessamento, su
richiesta della DC, è stato confermato il 15.7.1993 dalla Corte di
Appello di Napoli.
Un carcere di massima sicurezza diviene per alcuni mesi un porto di
mare per terroristi, camorristi latitanti, ufficiali dei servizi
segreti, i quali entrano ed escono falsificando i registri e
mettendosi in coda per essere ricevuti dal boss onnipotente.
Cutolo fa pubblicare dal quotidiano «Il Mattino» un minaccioso
proclama con cui ordina alle brigate rosse di liberare
immediatamente l’assessore Cirillo e di lasciare subito il
territorio della Campania, che rappresenta un suo feudo personale.
Avverte che in caso di diniego migliaia di amici onorati uccideranno
subito i brigatisti rinchiusi nelle carceri ed i loro parenti che si
trovano in libertà.
L’«invito» viene accolto subito e l’anziano politico con i suoi
ingombranti segreti viene rilasciato.
Il professore si ritiene, senza presunzione, felice di avere salvato
le istituzioni, come Vito Genovese che fu chiamato in aiuto dallo
Stato o Lucki Luciano, che favorì lo sbarco degli anglo-americani in
Sicilia.
L’Italia in quei mesi raggiunge il livello di guardia come
credibilità istituzionale.
Napoli nel frattempo si trasforma in un immenso campo di battaglia
con 160 assassini in 10 mesi, un morto ogni 36 ore; 500 morti in tre
anni.
Cutolo per disposizioni di Pertini, viene trasferito nel
supercarcere dell’Asinara, ove per anni ed anni viene sottoposto ad
un regime di totale isolamento in una cella-stalla.
Nel frattempo le sorti della NCO tendono verso il peggio, i suoi
nemici coalizzati acquistano sempre più fette di potere e Napoli ed
il suo circondario cadono in preda ad un caos ancora più profondo
senza un capo riconosciuto e con una continua, ferocissima lotta di
bande per una nuova supremazia delinquenziale.
Cutolo sottoposto ad un regime carcerario durissimo, che non ha
eguali in Italia, lentamente perde la sua grinta ed a suo dire si
pente del suo passato, un pentimento profondamente sentito, non di
quelli che ora vanno tanto di moda. Un pentimento da uomo d’onore,
quale egli è, che ritiene giusto di dover scontare la pena
dell’ergastolo, ma il quale pensa che se la sua vita debba finire in
carcere, debba però essere vissuta con dignità. Un pentimento che lo
spinge a ritenere per lui sciolta la NCO, la quale per colpa dei
suoi gregari, lasciati senza capo, ha tradito gli ideali per cui era
stata fondata.
Egli lancia un accorato appello ai giovani che si preservino dal
flagello della droga, attraverso una semplice e genuina poesia «La
polvere bianca» che incisa su cassetta gira per tutti i vicoli ed i
bassi napoletani. «Polvere bianca ti odio! Sei dolce e sei amara ...
come una donna ... sei luce e sei buio. Giovani! Odiatela! La
polvere bianca si! vi fa volare per poi farvi ritornare nel buio più
cupo. Vola per l’aria lembi di un’anima fatta a pezzi. Si tocca il
fondo, i prati diventano voragini buie ed i fiori hanno i petali
neri. Poi di colpo i dolori si placano. È il cielo. È un’esplosione
di luce. Poi più nulla. L’indomani solo un trafiletto sul giornale.
Ennesimo giovane “morto per droga”. Polvere bianca ti odio. Cutolo.
Belluno 27.7.88».
In Sardegna Cutolo trascorre sei anni durissimi in una ex stalla per
maiali, senza luce, senza giornali, senza acqua corrente, in
compagnia di guardie mute sempre con il mitra spianato ed il colpo
in canna; costretto a dialogare con degli amici di fortuna come una
mosca o delle formiche attirate nella cella con lo zucchero. Senza
poter usare un fornellino con il quale scaldare l’acqua allo scopo
di alleviare i suoi problemi di artrosi, sciatica e gengivite. Senza
il conforto di poter assistere neanche alla santa messa, tanto da
spingere il Santo Padre, a cui Cutolo si rivolge, a disporre che ne
venisse celebrata ogni giorno una apposta per lui.
Numerose perizie psichiatriche a cui Cutolo è stato sottoposto,
hanno stabilito che egli è pazzo, soprattutto quando hanno giudicato
alcune affermazioni del «professore» come quella in cui egli
asserisce che ciò che fece Cristo ai suoi tempi non può reggere al
paragone con ciò che ha fatto lui ai nostri giorni, perché Cristo
ebbe grande aiuto da parte degli apostoli che magnificarono
all’esterno le sua gesta, mentre lui ha sempre avuto una stampa
avversa, che ha messo in risalto soltanto i lati negativi della sua
personalità.
Noi lo riteniamo un folle ordinatore, un appartenente cioè a quella
categoria di uomini, che tenta di stabilire un suo ordine
«particolare» nella società in cui vive e che viene giudicato pazzo
dagli uomini del suo tempo.
Riteniamo inoltre che abbia diritto ad un più umano trattamento
carcerario da parte di uno Stato, che ha avuto in passato da lui dei
servigi e che negli ultimi anni ha messo in libertà tanti terroristi
e tanti delinquenti comuni. Nessun detenuto in Italia ha trascorso
tanti anni in prigione quanto Cutolo e nessuno è sottoposto ad un
regime carcerario più duro.
Tutto questo ci sembra discriminatorio ed ingiustificato.
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Una tragedia sofoclea
Articolo pubblicato
su Scena Illustrata di maggio 1994
Come mai Pupetta Maresca trova un posto e di rilievo, in un Pantheon
ideale di napoletani da ricordare, al fianco di giureconsulti e di
principi del bisturi, attori, registi e scrittori di fama?
Una donna che ha ucciso e che ha trascorso oltre 10 anni in carcere
è lo stesso degna di essere ricordata, perché, come ha dimostrato in
maniera inappellabile la giustizia con una sua sentenza, ella ha
agito esclusivamente per amore e per desiderio di giustizia, spinta
a farsi vendetta da sola a causa dell'incerto andamento e per le
lungaggini delle prime indagini.
La vicenda che la riguardò avvenne negli anni '50, all'epoca vi fu
un grande risalto sulla stampa dell'episodio e tutti gli italiani
furono straordinariamente impressionati, non solo per la personalità
di Pupetta, ma anche per le modalità del delitto, che presentò tutti
gli aspetti della tragedia sofoclea, inscindibilmente connessi sia
alla modalità dell'assassinio, sia alla reazione istintiva
dell'opinione pubblica, la quale ebbe grande comprensione e
compassione, nel senso greco del termine, verso la protagonista.
A Napoli le donne sono state da sempre delle grandi protagoniste
della storia e spesso la gioia, i dolori ed i furori della città
hanno trovato espressione in personaggi femminili, dalla forza
impulsiva, dalla irruenza generosa, dallo slancio materno.
Tutto ciò avviene da tempo immemorabile fino ai nostri giorni, come
cantano le parole della canzone di Baccini "Le donne di Napoli":
sono tutte delle mamme; le donne di Napoli si gettano tra le fiamme.
Napoli ha espresso nei secoli degli archetipi ideali della città
femmina, dal ventre materno.
La Napoli generosa e tenace è stata rappresentata da Filumena
Marturano, quella terribile e materna dalla Medea di Porta Medina,
l'eroica da Marianna De Crescenzo, detta la "Sangiovannara", la
quale combatté a fianco dei garibaldini durante il crepuscolo
borbonico, fino a giungere ai giorni nostri con le Madri coraggio
dei quartieri spagnoli, emule di Don Chisciotte, che combattono la
loro difficile battaglia contro la droga e le signore della camorra,
che riproducono una sorta di primato simbolico della donna nella
cultura napoletana.
Tutte queste figure di donne sono tra loro molto diverse, alcune
parto della fantasia di qualche scrittore, ispiratosi a personaggi
realmente vissuti, altre sono donne in carne ed ossa, sangue e
muscoli, personalità vulcanica e furia indomabile.
In questa galleria ideale di soggetti femminili Pupetta Maresca
occupa una postazione particolare, come una sorta di spartiacque tra
ruoli, valori e comportamenti femminili tradizionali e gli stessi
ruoli visti in un'ottica più moderna, illuminati da un femminismo
antifemminista. Pupetta è bella, giovane, coraggiosa e fedele alle
tradizioni che nella cultura meridionale vogliono la donna
depositaria della vendetta, una implacabile vestale custode della
famiglia, di cui tiene perennemente acceso il fuoco, anche, se
necessario col fuoco delle armi.
Pupetta interpreta però in senso moderno il codice della vendetta;
non affida infatti il compito di santificarla agli uomini della
famiglia, ma si fa giustizia da sola, affrontando in pieno giorno ed
a viso scoperto il colpevole della morte del marito con la furia di
una leonessa.
Negli anni Pupetta ha intrapreso attività commerciali, diventando
una donna imprenditrice ed assumendo così un'immagine complessa agli
occhi dell'opinione pubblica; da un lato una donna passionale dalle
connotazioni familiari, domestiche e rassicuranti, dall'altro una
donna leader in grado di farsi largo nel commercio, nonostante
l'agguerrita concorrenza; coniugando in tal modo delle qualità che
di solito sono ritenute le une escludenti le altre ed affermando una
femminilità vittoriosa, senza negare i caratteri più
tradizionalmente femminili.
Pupetta nasce nel 1935 a Castellammare di Stabia e la sua famiglia,
i Maresca, costituisce un clan molto temuto, che domina sul mercato
della frutta. I suoi familiari sono soprannominati i "Lampetielli"
per la fulminea velocità con cui sono in grado di estrarre un
coltello dalla tasca. Da ragazza, Pupetta ha una fresca bellezza
popolare, con una lieve tendenza ad ingrassare. Ha capelli ed occhi
neri di una rara bellezza. La madre ha un nome arcaico, Dolorinda,
che anagrammato risuona "da in dolor". La sua bellezza prorompente
le permette giovanissima, ad appena 16, anni di vincere un concorso
di bellezza a Pomigliano d'Arco e di mettersi così in evidenza.
Con la sua avvenenza riesce a far cadere ai suoi piedi, innamorato
pazzo, un colosso, Pascalone 'e Nola, un boss dei mercati generali
di Napoli, che viveva ossequioso di antiche liturgie di una mala
oramai superata. Pascalone 'e Nola è un personaggio mitico per la
sua statura fisica e per la sua personalità sostanzialmente
generosa. Egli è più volte coinvolto in reati annonari e di
contrabbando ed opera sul mercato ortofrutticolo di Napoli con la
funzione piuttosto misteriosa di presidente dei prezzi, cioè di
persona al di sopra delle parti, rispettato da tutti ed incaricato
di fissare un prezzo valido e vincolante per tutti, i produttori da
una parte ed i grossisti e gli esportatori dall'altra.
Egli è uno degli ultimi esponenti di una camorra arcaica, in
estinzione, legata al prestigio individuale ed al rispetto di ferree
regole di comportamento, a codici segreti, a speciali catechismi. È
una camorra che vive nel mito del grande capo, che in solitudine
amministra la giustizia come un triste eroe da puritanesimo
suburbano, da mercato della frutta, da colpo di rasoio sulla
guancia, da sfregio permanente. Una camorra che non aveva subito
ancora il fascino tenebroso della mafia con i suoi business
internazionali, con lo spaccio della droga e la collusione col
potere politico.
Una foto del matrimonio ci mostra Pupetta tutta vestita di bianco
raggiante di felicità, al braccio del suo sposo, un uomo alto e
possente, una vera montagna. Egli dà il braccio alla sposa e poggia
la mano destra sull'addome, con le tozze dita di contadino
strettamente unite ad eccezione del pollice, che involontariamente
tiene diritto verso l'alto, quale inconscio emblema fallico, in
attesa della prima notte di nozze.
Si tratta di un classico matrimonio d'amore, che però permette a
Pascalone di compiere un salto di qualità, da piccolo boss a
camorrista di rango, grazie alla parentela acquisita con la famiglia
di Pupetta, i temuti "Lampetielli".
Dal matrimonio e dagli eventi successivi si ispirò il regista
Francesco Rosi nel suo famoso film "La sfida" interpretato dalla
bellissima Rosanna Schiaffino e da Juan Suarez, nel ruolo di un
grossista di ortaggi che si ribella alle spietate leggi della
camorra.
Dopo solo tre mesi di matrimonio, il 16 luglio, Pascalone viene
ucciso, apparentemente per futili motivi, in corso Novara.
Pupetta denuncia un ex socio di Pascalone, Antonio Esposito, quale
mandante dell'omicidio, ma le indagini della polizia vanno avanti
lentamente con alterne vicende. La vedova, in attesa di un figlio,
ribadisce più volte le sue accuse e rifiuta sdegnosamente, sola
contro tutti, le profferte amichevoli per chiudere la vicenda.
Quindi Pupetta, stanca e delusa del prolungarsi delle indagini si
reca nel negozio di Antonio Esposito e lo invita a venir fuori in
strada per discutere. Il gangster ignaro di ciò che sta per accadere
acconsente ed accarezza il viso di Pupetta con gesto da boss
clemente e protettivo e le sorride con ironia, ma la ragazza
fulmineamente estrae la pistola e lo colpisce a morte, fuggendo poi
sui monti Lattari, ove verrà arrestata dopo qualche giorno.
La bella vedova vendicatrice diviene un'eroina nella fantasia
popolare.
La Corte di Assise che doveva giudicarla deve trasferirsi nei giorni
del processo da Castel Capuano nell'ex convento di San Domenico
Maggiore, ove esisteva un'aula per udienze grandissima, che però
risultò insufficiente a contenere tutto il pubblico che avrebbe
voluto assistere al dibattimento.
In primo grado vennero inflitti 18 anni di carcere, che furono
ridotti di 5 anni dalla corte di Assise d'appello, che nel 1960
riconobbe la vedova colpevole di omicidio premeditato con
l'attenuante della provocazione.
Nel carcere di Poggioreale, nascerà Pascalino, il figlio del marito
ucciso. Scontata la pena, ulteriormente ridotta di 3 anni, Pupetta
fu liberata il giorno di Pasqua del 1965 e ritornò nella sua città,
Castellammare, con le campane che suonavano a festa, in maniera
trionfale, rispettata da tutti, grazie anche al prestigio della
propria famiglia che vanta antiche e potenti amicizie.
Grazie alla notorietà conquistata, ma soprattutto in virtù della sua
fiera bellezza mediterranea, prese parte a due film che ebbero un
certo successo di pubblico. Ha interpretato "Delitto a Posillipo"
una sorta di racconto autobiografico ambientato sulla celebre
collina napoletana e quindi "Londra chiama Napoli".
Continuò ad allevare con l'aiuto dei genitori, il figliolo avuto da
Pascalone e per riempire il vuoto sentimentale si innamorò di un
giovane boss emergente Umberto Ammaturo, che in seguito divenne uno
dei maggiori trafficanti di droga del mondo.
Dall'unione, contrastata dalla stessa famiglia di Pupetta, nascono
due figli Roberto ed Antonella.
L'amore è passionale, ma i periodi di tempo da trascorrere insieme
sono molto ridotti, è un continuo rincorrersi per incontrarsi,
mentre uno usciva di galera l'altro ci entrava, mentre lei tornava
in libertà lui evadeva o si dava alla latitanza.
La vita di Pupetta che nel frattempo si è dedicata al commercio,
aprendo una boutique a via Bisignano, nella zona in di Napoli è
molto movimentata sotto il profilo giudiziario. Viene infatti
accusata di aver organizzato il delitto Galli, il massacro del
criminologo Semerari, di aver tentato estorsioni ad una banca, di
commercio di droga, di associazione camorristica. Da tutte queste
accuse viene sempre assolta, a volte in istruttoria, a volte con
sentenza.
Durante un'infuocata conferenza stampa tenuta nel circolo dei
giornalisti prende posizione contro Cutolo, minacciandolo
apertamente di feroci rappresaglie, se qualcuno della nuova camorra
organizzata avesse toccato qualche suo familiare.
Poi una sciagura si abbatte su Pupetta: la scomparsa nel nulla del
figlio Pascalino, che lei aveva partorito nel carcere di Poggioreale
e che non aveva mai conosciuto il padre, pur portando il suo nome.
Egli aveva la faccia paffuta come la mamma e come lei gli occhi neri
e penetranti che ti guardano fissi e provocatori, ma nelle vene
scorreva il sangue del padre, del quale voleva seguire la leggenda.
Da tempo aveva messo su un piccolo clan, ma all'improvviso sparisce,
forse per aver affrontato gli stessi boss di quel clan che 18 anni
prima avevano ucciso il padre.
Un giudice, in seguito radiato dalla magistratura per altre
faccende, emette undici mandati di cattura per il rapimento di
Pascalino. Vengono arrestati tra gli altri Spavone, il famigerato "malommo",
Gaetano Orlando, l'uccisore di Pascalone 'e Nola, che da poco era
uscito dal carcere e lo stesso Umberto Ammaturo, che pare fosse
stato gravemente offeso dal ragazzo.
Durante un lungo periodo di latitanza, Ammaturo viene arrestato in
Brasile, ove tesseva le fila del commercio internazionale della
droga. In sua compagnia viene arrestata la sua fidanzata Yohanna
Valdez, una bellissima peruviana, che aveva dato al boss due
bambini.
Pupetta è annientata da questa scoperta, ma conserva la sua antica
dignità di donna, dichiarando: "Per me Umberto non esiste più, è
morto; resta solo il padre dei miei figli che gli vogliono bene e lo
rispettano come è loro dovere".
In seguito Pupetta dovrà chiudere un suo negozio di via Leopardi per
i continui furti e le devastazioni di cui era fatto oggetto e si
ritira a Castellammare, ove apre un nuovo esercizio commerciale, in
un ambiente più tranquillo, cercando un po' di serenità nell'amore e
nella vicinanza dei suoi due figli, uno dei quali, la ragazza, è
gravemente malata di cuore.
Gli ultimi episodi in cui Pupetta assurge all'onore delle cronache
sono storie dei nostri giorni. Una nuova accusa questa volta di
usura, giusto per cambiare, e la telenovela ancora in corso sullo
sceneggiato televisivo, che nel 1982 la RAI aveva preparato sulle
sue vicende, interpretato da una giovanissima Alessandra Mussolini,
alla sua prima ed unica esperienza di protagonista.
Il filmato fu bloccato dal pretore di Roma nel marzo 1983, su
istanza dei legali di Pupetta, che ritenevano lo sceneggiato lesivo
dell'onorabilità della loro cliente.
Dopo due anni, grazie alla solerzia della magistratura, che si è
pronunciata rapidamente, sulla vicenda, la RAI, sbloccato lo
sceneggiato, ne prepara la messa in onda per il 30 giugno 1994.
Grande attesa da parte dei telespettatori, soprattutto per poter
ammirare una ancora acerba Alessandra Mussolini, nipote del Duce ed
ora deputato, nella parte di Pupetta, ma all'ultimo momento
l'annunciatrice con un sorriso avverte che di nuovo la magistratura
su istanza degli avvocati di parte ha sequestrato lo sceneggiato per
ulteriori accertamenti. Perciò arrivederci verso il 2010 alle ore
22,45 su RAI 3.
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L’amore al tempo della galera
Avrei voluto
intitolare questo capitolo Il sesso nelle carceri poi sono stato
attirato da questo titolo di derivazione cinematografica e ho deciso
di adottarlo per discutere di quello che, a parere dei detenuti,
quasi tutti molto giovani, è la privazione più grave:
l’impossibilità di continuare a praticare una dignitosa affettività
con le persone care, anche loro condannate, senza alcuna colpa, alla
stessa pena e non vogliamo parlare solo di sesso negato, ma anche
dell’impossibilità di continuare ad intrattenere un decente, anche
se discontinuo rapporto, con i propri figli in tenera età, che sono
sottratti per lunghi periodi da qualsiasi contatto col genitore.
Si tratta di un tema scottante, tale da suscitare imbarazzo e
perplessità anche solo a parlarne, ma alcune nazioni, Svizzera,
Spagna, Svezia lo hanno affrontato con coraggio ed hanno trovato
delle soluzioni dalle quali prendere esempio.
L’argomento è talmente audace che si è voluto creare un termine
ambiguo: affettività per aggirare la terminologia più esplicita di
sesso, che potrebbe mettere subito in fuga moralisti e benpensanti.
Tutti riconosciamo che l’essere umano ha bisogno di affetto, tanto
più quando viene a trovarsi in situazioni di disagio e senza dubbio
la restrizione della libertà è una delle condizioni più penose da
sopportare.
Nella repressione degli affetti si verificano gravi deviazioni,
comprese quelle sessuali. A questo proposito lapidario è il pensiero
di Friedrich Nietzsche: "È noto che la fantasia sessuale viene
moderata, anzi quasi repressa, dalla regolarità dei rapporti
sessuali, e che al contrario diventa sfrenata e dissoluta per la
continenza e il disordine dei rapporti." (Umano, troppo umano, I, n.
141).
Allora la soluzione va cercata in una politica illuminata che,
nell’esecuzione della pena, privilegi sin dall’inizio, se non è
possibile l’uscita dal carcere, almeno l’incontro periodico coi
propri cari e non il distacco netto e la drastica separazione, causa
di infiniti problemi esistenziali, di relazione e interpersonali.
Nell’interno del carcere è opportuno creare degli ambienti, che pur
rispondendo a tutti i requisiti di sicurezza, offrano al recluso ed
ai suoi familiari dei momenti di intimità. Se un detenuto riesce a
mantenere una rete solida di rapporti affettivi, oltre a tollerare
di buon grado la pena da scontare, corre molti meno rischi di
tornare a commettere reati, inoltre conserva un comportamento
corretto, quando queste occasioni di incontri ravvicinati… sono
subordinati ad un condotta assolutamente irreprensibile.
Prima di considerare gli incontri intimi bisogna valutare tutta una
gamma di possibilità intermedie, che vanno dai colloqui
gastronomici, la possibilità di consumare un pasto con parenti ed
amici, alla facoltà per i familiari di partecipare a giornate
particolari come il Natale o la Pasqua ed infine, molto importanti,
gli incontri con i propri figli in tenera età, in ambienti opportuni
e, se richiesta, con l’assistenza di psicologi ed operatori sociali.
Le sorprendenti scoperte di Reich hanno dimostrato in maniera
inequivocabile quanto la repressione sessuale generi violenza e come
le istituzioni tendano a canalizzare l’esplosione di queste pulsioni
primitive per utilizzarle nei conflitti bellici.
La violenza che si produce nelle carceri, impedendo anche solo la
parvenza di un’attività sessuale, non giova a nessuno, certamente
non alla società che si trova a ricevere individui incattiviti, nei
quali cova l’odio e la vendetta, invece che la volontà di
reinserimento.
La storia del carcere è lunga quanto quella dell’uomo, ma le
segregazioni nell’antichità (Roma docet) e nel medio evo ripugnano
la sensibilità moderna per le atrocità ed il costante utilizzo della
tortura, per cui un’analisi storica sulla nascita dei sistemi
penitenziari bisogna farla risalire alla nascita della società
industriale ed all’accentuazione dell’esercizio del potere dello
Stato, in momenti dominati dalla cultura religiosa, che ha sempre
dato al sesso una valenza particolare di demonizzazione.
Pensiamo alle Lettere di San Paolo ai Padri della chiesa, ad
Origene, a San Girolamo, a Sant’Agostino, fino ad Alberto Magno e
San Tommaso d’Aquino. Di conseguenza una soluzione al problema
"affettività", intesa in particolare nella sua dimensione sessuale,
deve cominciare necessariamente attraverso una critica storico
culturale puntuale e puntigliosa. Dobbiamo ripercorrere e rivisitare
tutta la nostra tradizione culturale sull’argomento, ereditata in
duemila anni di storia dell’Occidente, che ha accompagnato ed
influito sul concetto del sesso e del piacere in generale, vissuto
costantemente come peccato, male necessario solo per la procreazione
ed a salvaguardia della specie.
La cattolicissima Spagna o la democratica Svizzera da tempo
consentono i "colloqui intimi" ed hanno ottenuto ottimi risultati.
In Italia per evitare che qualcuno confonda le "stanze
dell’affettività" con le "celle a luci rosse" è necessaria un
rivoluzione culturale. La pena è privazione della libertà, ma non
deve significare anche distruzione degli affetti ed annullamento
completo di una normale vita sessuale.
Naturalmente non bisogna considerare unicamente le esigenze di
affettività degli uomini sposati o conviventi, trascurando i
bisogni, impellenti ed improcrastinabili dei più giovani, che non
hanno legami fissi, ma in compenso hanno ormoni in ebollizione e
desideri difficile da placare. La masturbazione o l’omosessualità, i
rimedi ai quali sono obbligati non sono certo la soluzione del
problema.
Anche per loro bisogna predisporre un programma che tenga conto
delle loro esigenze.
In Italia il meretricio è legale e sarebbe eccessivamente licenzioso
pensare ad una cooperativa di prostitute che si convenzioni con le
istituzioni carcerarie?
Vi sarebbe spazio anche per volontarie, moderne suffragette pronte
ad immolarsi per una giusta causa, eventualmente anche per fanciulle
poco attraenti, in virtù del fatto che molti detenuti a seguito
della lunga astinenza sarebbero pronti a tutto…
Naturalmente agli ammogliati sarebbe vietato di accedere a questo
servizio.
Naturalmente la prestazione sarebbe a spese del recluso.
Naturalmente sarebbe un evento sporadico molto dilazionato nel
tempo.
Naturalmente potrebbero usufruirne solo quelli che osservano una
condotta corretta.
Naturalmente tutti, politici ed opinione pubblica devono impegnarsi
per risolvere lo spinoso problema. |