Cap.1
UN GRANDE PITTORE DELLA REALTÁ: TEOFILO PATINI
Teofilo Patini nacque a Castel di Sangro nel 1840. Nel 1856
s’iscrisse alla Facoltà di Filosofia dell’Università di Napoli e
l’anno successivo all’Accademia di Belle Arti, legandosi anche a
Domenico Morelli e Filippo Palizzi.
Fu garibaldino e fece parte dei Cacciatori del Gran Sasso voluti dal
Generale.
Inizialmente eseguì quadri a soggetto storico, quali “La rivolta di
Masaniello”, “Il sacco di Roma del 1527” ed “Arte e Libertà”.
Nel 1868 ottenne di trascorrere due anni a Firenze, dov’ebbe modo di
studiare i Macchiaioli.
Quindi trascorse tre anni a Roma, dove rimase colpito dai quadri di
Caravaggio e degli altri maestri del Seicento.
Rientrò a Castel di Sangro nel 1873, anno in cui realizza “Il
ciabattino”, la sua prima importante opera verista, esposta con
successo alla Promotrice Napoletana.
Fu colpito dal degrado economico e sociale della sua regione,
aggravatosi dopo l’Unità d’Italia e trasferì la sua accorata
denuncia dal passato agli anni in cui viveva.
Realizzò una trilogia che “accompagna l’eroe della gleba dal nascere
al morire”, composta da “L’erede”, oggi alla Galleria d’Arte Moderna
di Roma, da “Vanga e latte”, in coincidenza dei moti agrari veneti e
“Bestie da soma”, oggi esposto nelle sale della Provincia
dell’Aquila.
La novità dei contenuti e l’incisiva carica espressiva, anticipano
di vent’anni il celebre quadro di Pelizza Da Volpedo “Il Quarto
Stato”,universalmente ritenuto il più pregnante documento di
denuncia dello sfruttamento delle masse dei lavoratori. All’Aquila,
dal 1882, diresse la locale Scuola di Arti e Mestieri e
culturalmente fu interessato alle sollecitazioni del Liberty, del
Simbolismo e dei Preraffaelliti.
Nei quadri sacri, spesso commissionatigli negli ultimi anni
d’attività, ribadì la forza del messaggio evangelico, nonostante i
suoi convincimenti laici.
Entrò nella massoneria, raggiungendo il grado di venerabile. Si
spense improvvisamente nel 1906 mentre era intento a trasferire i
bozzetti negli affreschi che dovevano adornare l’aula magna
dell’Università di Napoli.
Tra le sue opere partiamo dalla grande tempera (7m x 4) realizzata
nel 1882 per la volta dell’aula magna del Palazzo della Provincia
del capoluogo, raffigurante “L’aquila”, seriamente danneggiata da
una memorabile nevicata del 1954 che provocò lo sfondamento del
tetto ed un grave danneggiamento dell’opera.
Fortunatamente, di recente è ricomparso sul mercato, ed acquisito
nelle collezioni della Cassa di Risparmio della Provincia, il
bozzetto preparatorio nel quale si possono apprezzare la scioltezza
dell’esecuzione ed un sincero omaggio all’Abruzzo pastorale.
Passiamo ora a commentare le tre opere della trilogia
precedentemente accennata.
“L’erede” riscosse grande successo “celebre in un giorno ed
acclamato da tutti” e lo presentò come il pittore del dolore e dello
sconforto per la miseria umana. La scena si svolge in una povera
stamberga dove, mentre una donna piange disperata, un vispo
fantolino apre gli occhi alla vita e sembra accorgersi della
desolazione che l’attende.
“Vanga e latte” raffigura una coppia di contadini duramente
impegnati a lavorare la terra in un momento in cui la donna, fissata
la vanga al suolo, dà il latte alla sua piccola creatura: una dura
denuncia delle miserevoli condizioni di gran parte della popolazione
legata ad un’agricoltura primordiale, avara di produzione.
“Bestie da soma” è il più toccante dei tre. Presentato al pubblico
nel 1887, destò viva impressione tra gli intellettuali e molte
recensioni che mettevano in risalto la protesta affidata al pennello
in favore di tutti coloro che lavorano e soffrono.
Il quadro è di grandi dimensioni e le tre donne sono raffigurate in
grandezza di poco superiore a quella naturale, specchio implacabile
dell’infelice esistenza dei contadini. Da un lato vi è la vecchia,
vinta dalla fatica, che si è lasciata cadere in un torpore
straziante, accanto sta a sedere una giovinetta che sembra pensare
alla via crucis che dovrà affrontare, che la porterà ad abbrutirsi
come la vecchia, mentre la terza figura, ancora giovane, è già
avvizzita, invecchiata anzitempo dagli affanni. Ha poggiato il
grosso ceppo legato sulle spalle alla sporgenza di una rupe per
riposarsi da una gravidanza inoltrata che la sfibra: tre donne, tre
generazioni diverse, tutte legate allo stesso ineluttabile destino.
Sull’onda del successo ottenuto da “L’erede”, Patini realizzò
“Pulsazioni e palpiti”, che conservò a lungo tra i quadri del suo
studio. L’intensa drammaticità della scena rappresentata è legata a
raffinati cromatismi, irruenti in un bagno di luce, che evidenziano
i personaggi, dal medico in primo piano, che tasta sfiduciato il
polso del morituro, ai parenti in attesa timorosi della prognosi
infausta.
Riportiamo il parere espresso sul dipinto da uno dei più grandi
studiosi d’arte,Ferdinando Bologna: “un capolavoro di continuità ed
insieme di rigenerazione della maggiore istanza artistico culturale
posta da Patini: il Verismo”.
Scorci di paese ricorrono frequentemente nella sua produzione come
in “Via Paradiso a Castel di Sangro”, nel quale, in un sapiente
gioco di luce ed ombra, viene raffigurato un viottolo che s’inerpica
verso la vetta.
Le misere case affacciate sull’acciottolato sconnesso della strada
sono l’emblema del profondo degrado ambientale in cui abitavano la
squallida quotidianità senza barlume di speranza e riscatto i tanti
sottoproletari del mondo rurale.
“Neve”,da poco riscoperto, raffigura un innevato declivio collinare
ed è realizzato con una corposità degli impasti insolita per
l’autore, che ben rendono i particolari di levità presenti nella
composizione.
“I tre orfani” sono, a mio parere, uno dei suoi dipinti più
struggenti, con i tre bambini distrutti dal dolore, posti vicino al
pagliericcio da cui è stato portato via il corpo esanime del
genitore. L’ambientazione con le grate alla finestra dà
l’impressione di una prigione dove questi tristi orfanelli, dai
volti attoniti, sono costretti a vivere sconsolati i giorni della
fanciullezza, soprattutto la fanciulla in primo piano che sembra
voler comunicare senza parole al mondo intero la sua sconfinata
solitudine e non si può guardare a lungo il dipinto senza essere
assaliti da una profonda commozione.
Il “San Carlo Borromeo tra gli appestati” era un’ampia pala d’altare
commissionata nel 1888 per il Duomo dell’Aquila, sotto le cui
macerie si trova attualmente sepolta. Fortunatamente, abbiamo uno
studio preparatorio ed un bozzetto che ci permettono di apprezzare
la ieratica figura di San Carlo Borromeo mentre implora la celeste
pietà sulla vittime della luttuosa epidemia, fra le quali passa in
preghiera. Ed è un’occasione per gettare uno sguardo allo splendido
polittico portato in processione, opera del Maestro dei polittici Crivelleschi, oggi conservato presso la Galleria Nazionale
d’Abruzzo. L’impianto compositivo, con il corpo del moribondo in
primo piano, circondato da cadaveri ed appestati in preghiera,
provoca un forte impatto emotivo nello spettatore.
Nell’ambito della ritrattistica famoso è il “Ritratto di Bertrando
Spaventa” conservato a Napoli nel Museo di San Martino, ma l’opera
più significativa è “Un monaco e la sua cella”, che raffigura un
frate cappuccino al centro della tela.
Uomo di fede, ma anche di cultura, come attestano i numerosi libri
posti a corredo dell’ambiente. Il dipinto fa contrasto con i tanti
certosini dipinti da Micco Spadaro dai volti paonazzi e rubicondi.
1-Teofilo Patini, Autoritratto
2-Il ciabattino
3-Il quarto Stato, di Pelizza da Volpedo
4-L'aquila
5-L'aquila, bozzetto preparatorio
6-L'erede
7-Vanga e latte
8-Bestie da soma
9-Pulsazioni e palpiti
10-Via Paradiso a Castel di Sangro
11-Neve
12-I tre orfani
13 San Carlo Borromeo tra gli appestati, studio preparatorio
14-San Carlo Borromeo tra gli appestati, bozzetto
15-Ritratto di Bertrando Spaventa
16-Un monaco e la sua cella
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