Cap.46
Geltrude per gli amici il Pelide
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L’aborto in epoca romana si cercava di ottenere attraverso la
somministrazione di filtri a base di prezzemolo ed altre sostanze
venefiche (Pocula abortionis) che spesso portavano a morte anche la
donna che li assumeva.
In epoca classica non fu considerato un reato, ma solo un atto
immorale ed il Paterfamilias che avesse autorizzato la donna ad
abortire poteva al massimo essere oggetto di una censura, in quanto
l’orientamento prevalente era che il feto non era soggetto
giuridico.
In età imperiale Settimio Severo e Antonino Pio introdussero due
sanzioni penali, tra cui quello molto severo di Relegatio in
insulam. Infine in età giustinianea, a causa delle influenze
cristiane fu punito come delitto contro il nascituro.
Per non appesantire ulteriormente l’articolo, consiglio chi volesse
approfondire la legislazione successiva fino alla 194 del 22/05/1978
e la cangiante posizione della dottrina della chiesa, di consultare
su internet il mio saggio “L’Embrione tra Etica e Biologia”,
pubblicato su Quaderni Radicali n. 70-71-72 (maggio-agosto 2000) e
la mia relazione “Metodiche farmacologiche per provocare l’IVG”,
tenuta il 17/01/2001 all’Istituto per gli Studi Filosofici di
Napoli, visibile integralmente nella teca di radio radicale.
Entriamo così nel vivo della storia che vogliamo raccontare. L’aborto
a Napoli nel dopoguerra. Si tratta di aborto clandestino, almeno
fino al 1978, quando vigevano le normative del codice Rocco, che
prevedevano pene severe sia per il medico che per la donna, perché
l’aborto era considerato un reato contro l’integrità della stirpe.
Per quasi venti anni le donne povere erano costrette a ricorrere
alle mammane, che applicavano il “laccio”: un catetere introdotto
nell’utero, che provocava una copiosa emorragia ed un aborto
spontaneo, che le permetteva di ricorrere in ospedale per una
“pulizia” tramite raschiamento.
Le signore e le signorine della borghesia si rivolgevano a tre nomi
sulla bocca di tutti: Monaco, Sivo, Ammendola, che chiedevano cifre
iperboliche anche un milione fino a quando non si presentò
prepotentemente alla ribalta Geltrude (lo chiameremo così perché è
ancora vivente), il quale introdusse, dopo averne conosciuto in
America l’inventore, il Metodo Karman (aspirazione), che rivoluzionò
il mercato e mandò in pensione i tre colleghi di cui prima abbiamo
detto i nomi, ma sui quali vogliamo raccontare qualcosa.
Monaco era il più celebre (a Napoli si cantava una canzoncina: ”Hai
fatto “o impiccio”, va’ addo’ monaco che to fa passa”), con studio
in via Caracciolo 13, aveva strane manie, fascistone della prima
ora, aveva sulla scrivania una testa del duce, per chi volesse
lasciare un’offerta al partito, aggrediva le donne con parolacce e
spesso era di mano lunga con preferenza per le tette voluminose.
Eroe misconosciuto dell’aviazione e sverginatore di una celebre
parlamentare, dal nome illustrissimo, che ancora siede sui sacri
scanni ( per chi volesse conoscerlo a fondo rinvio al mio breve
libro su di lui, sempre reperibile sul web: “Un eroe dimenticato da
non dimenticare”).
Sivo, da consumato furbacchione, aprì anche lui il suo studio in via
Caracciolo 13. Sostituiva in agosto il più celebre collega,
dividendo il malloppo, ed aveva prezzolato il portiere, che inviava
a lui tutti coloro che dalla provincia si recavano al famigerato
indirizzo, ignorando il nome dell’abortista. Sperperò il denaro
guadagnato e quando perse tutti i clienti per via di Geltrude,
chiuse miseramente la sua carriera come medico della mutua a Marano.
Anche il terzo: Ammendola, con studio in piazza Amedeo, aveva le
rotelle fuori posto. Riteneva che l’uomo discendesse dall’orso e
scrisse sull’argomento in maniera così convincente da indurre
un’autorevole rivista come Tempo Medico a dedicargli la copertina ed
un articolo di fondo. Ammendola s’intreccia con il destino di
Geltrude, il quale, quindicenne, dovette ricorrere alla sua arte,
avendo messo incinte in un mese due ragazze. Alla vista del cassetto
colmo di soldi, in cui con nonchalance lo scienziato… riponeva il
denaro decise in cuor suo: “Diventerò medico e farò il triplo dei
suoi soldi”.
Facciamo ora un salto al 1972, anno di laurea di Geltrude, il quale,
avendo appreso la nuova tecnica, si mise in contatto col Cisa e con
l’Aied, che gli procacciavano i clienti nell’ordine di migliaia al
mese. Si organizzavano dei pullman e dei voli charter per condurre
plotoni di gravide presso il suo studio in via Manzoni 184.
Egli oltre ad adoperare una tecnica rivoluzionaria, indolore e della
durata di un minuto, applicava una tariffa politica: 50.000 lire, a
fronte del milione dei colleghi e sulla sua scrivania troneggiava un
cestino per il denaro con una scritta esplicativa: "Chi può dia, chi
non può prenda”.Nel 1978, mentre in parlamento si discuteva della
legge sull’aborto, si autoaccusò di averne eseguito in due anni
14.000 in una intervista che uscì a nove colonne sulla Stampa e fu
ripresa da tutti i giornali e le televisioni con uguale risalto.
L’ospedale dove lavorava lo licenziò in tronco, ma dopo 15 anni di
cause lo dovette riassumere pagandogli un miliardo di danni. Geltrude
si mise subito all’opera ed ideò una metodica farmacologica per
indurre l’aborto, accoppiando due sostanze riconosciute dalla
farmacopea ufficiale. Di nuovo licenziato, perseguitato dalla
magistratura, decise di continuare la sua attività presso la clinica
S. Anna di Caserta, autorizzata e convenzionata per l’Ivg e da anni
in mano alla camorra.
Cadde sulla classica buccia di banana: una sua vecchia paziente
tentò di estorcergli 200 milioni, altrimenti lo avrebbe denunciato
di averla sottoposta ad un aborto con violenza. Processato, dopo
aver rinunciato a patteggiare una pena di due anni e otto mesi, alla
fine di un decennale processo, con giudici cattolici e donne, è
stato condannato ad una pena degna di un boss della mafia: 10 anni,
che attualmente sta scontando nel penitenziario di Rebibbia.
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