La pittura di genere, il paesaggio e, in
particolare, la “Natura morta” ebbero a Napoli, nel seicento, grande
sviluppo. Tema privilegiato dell’indagine naturalistica di pittori
fiamminghi e caravaggeschi, la natura morta subì, nella pittura
napoletana, una sorta di trasposizione in chiave barocca, con
graduale passaggio dall’effetto di ammirazione per la fedeltà
oggettiva della rappresentazione a quello di stupore e meraviglia
per la fantasia dell’invenzione compositiva.
Specialisti del genere della natura morta furono, tra i primi, Luca
Forte (Napoli 1610/15-prima del 1670) e Paolo Porpora
(Napoli1617-1673) che dipinse tavole con ricche composizioni di
ortaggi, fiori e frutta e più tardi a Roma (1656-1658), anche
insetti e rettili, dai colori vivissimi su fondi di ombra cupa.
Di gusto pienamente barocco, nella fantasia ed esuberanza delle
composizioni, nel più graduato dosaggio di luci e penombre, sono le
nature morte di Giovanni Battista Ruoppolo (Napoli1620?-1685), veri
e propri trofei di vegetali e di animali marini, soggetto
quest’ultimo prediletto anche da Giuseppe Recco (Napoli
1634-Alicante 1695), Figlio e, come il Ruoppolo, padre di altri
pittori di nature morte, che si recò anche il Lombardia, acquistando
un cromatismo raffinato e un chiaroscuro che ha fatto parlare di
neocaravaggismo.
Giuseppe ebbe due figli Nicolamaria, autore di tele modeste, quasi
una caricatura dello stile paterno, ed Elena, che, molto lodata dal
De Dominici, dimorò a lungo in Spagna, dove trovò lavoro alla corte
del Re Carlo II.
Per identificare le tele di Elena, spesso fatte passare da antiquari
spericolati per opere di Giuseppe, le quali godono di una maggiore
quotazione, esiste un segreto: bisogna attentamente osservare le
squame dei pesci, caratterizzate costantemente da una tonalità
virante dal rosa al rosato, come possiamo constatare nella tela in
esame (fig.1) un vero e proprio trionfo marino nel quale
distinguiamo triglie, razze, un polipo, un cesto di vimini, posti su
un piano di pietra.
Figura 1: Elena Recco - trionfo marino
Il quadro è stato presentato di recente (maggio
2013) in un’asta della “Minerva Audiction” a Roma, correttamente
attribuito e con una scheda esaustiva di Valentina Ciancio: «La
presente attribuzione si basa su confronti stilistici con altre
opere di Elena Recco, a partire dal dipinto firmato raffigurante un
trionfo di pescato al castello di Donaveschingen in Germania, da cui
sembra ripresa per analogo taglio compositivo, seppure in formato
ridotto, la razza nel dipinto in esame. I riflessi argentei e grigio
azzurri alternati alla particolare tinta rosata delle squame dei
pesci e alla guizzante torsione dei loro corpi sono tutti aspetti
che denunciano la mano abile dell’artista, che sa restituire la
freschezza e l’abbondanza dei doni del mare».
Di ben maggiore valore venale è la seconda opera che andiamo ad
esaminare: un olio su tavola (46x36 cm) raffigurante un San Pietro
in preghiera (fig.2) di proprietà dell’antiquario Monsonego di
Parigi, il quale richiama a viva voce la paternità di Francesco
Fracanzano, allievo assieme al Fratello Cesare, nella bottega del
Ribera.
Figura 2: Francesco Fracanzano - San Pietro
in preghiera
Francesco originario della Puglia si trasferì
giovanissimo a Napoli nella terza decade del Seicento e la sua prima
opera documentata è un SS. Onofrio e Antonio Abate, già nella chiesa
di Sant’ Onofrio dei ciechi.
Il santo in preghiera ha avuto in passato attribuzioni a Paolo
Finoglio, del tutto errata e, più plausibile a Hendrick Van Somer,
un fiammingo attivo a Napoli dopo il 1630 ed influenzato dagli
esempi naturalistici di Ribera. Ma un esame più attento e la
comparazione con figure simili di santi, illustrate nella mia
monografia sull’autore, alla quale rimando, per gli opportuni
confronti, non lasciano ombra di dubbio.
L’attenta definizione di ogni dettagli anatomico, la minuta lacrima,
resa con preziosità caravaggesca, le mani giunte dalle unghie
sporche, la pelle rugosa e la barba incanutita, sono particolari,
appresi dal Fracanzano nella bottega del Valenzano e costituiranno
la cifra stilistica lungo tutto il corso della sua carriera.
Figura 3: Aniello Falcone - battaglia di
Poitiers
Una vera e propria sorpresa e di altissima
qualità è il terzo dipinto, proposto alla mia attenzione da un
celebre banchiere milanese e raffigurante la: “Battaglia di
Poitiers” (fig.3) del 732, nella quale il Franco Carlo Martello
fermò l’invasione degli Arabi, i quali avevano attraversato i
Pirenei.
Fu un’impresa militare costosa , di cui fecero le spese gli usurai
fiorentini che avevano finanziato Edoardo III d’Inghilterra.
Si tratta di uno dei capolavori di Aniello Falcone e presenta
contemporaneamente quasi tutti gli aspetti patognomici della sua
pittura, dalla scena principale ripresa in primo piano, alle
montagne in lontananza con il caratteristico polverone, dal morto al
centro in basso, al bianco cavalo rampante, il tutto reso con una
tavolozza dai colori accesi ed emozionanti, come nella celebre
battaglia conservata a Napoli nel museo di Capodimonte, un’aggiunta
importante al catalogo dell’artista.
Pittore ammirato e celebrato anche fuori d’Italia, sebbene abbia
trascorso l’intera sua lunga e operosa vita a Napoli, Francesco
Solimena, detto l’Abate Ciccio (Canale di Serino 1657-Barra Napoli
1747) è da considerarsi il caposcuola della pittura napoletana del
Settecento. Più che da Luca Giordano, Solimena, che apprese l’arte
nella bottega paterna, guardò fin dall’inizio alle opere del
Lanfranco da cui desunse il saldo modellato delle sue figure, e di
Mattia Preti, al quale si ispirò invece nella ricerca dei
contrastati effetti luministici. Con il Luca Giordano si confrontò
invece nelle grandi imprese decorative, come le pitture della
sagrestia di San Paolo Maggiore(1689-1690), rivelando tutto il suo
talento di organizzatore di grandiose scenografie architettoniche (Solimena
fu anche architetto), che si manifesta anche in dipinti di minori
dimensioni (Elidoro cacciato dal tempio, Roma, Galleria Nazionale).
Dopo un viaggio a Roma, dove ebbe contatti con il Maratta ed altri
esponenti della corrente classicista, Solimena consolidò in quella
direzione il suo stile, eseguendo opere come la “Cacciata di
Eliodoro” (1725) nella Chiesa del Gesù nuovo e gli affreschi della
Cappella di San Filippo Neri ai Gerolomini (1727-1730), che
rimarranno esemplari per i suoi numerosi allievi e seguaci. Tra
questi primeggiarono Corrado Giaquinto, Sebastiano Conca, il quale
lavorò a Roma in ambiente classicistico, a Torino, e poi volgendo a
modi giordaneschi, col suo rientro a Napoli nel 1751. Ma soprattutto
Francesco De Mura (Napoli 1696-1782), il più fedele, almeno agli
inizi, allo stile del maestro, autore di vasti cicli di affreschi a
Montecassino (perduti) ed a Napoli.
Figura 4: Francesco De Mura - San Francesco
Di Paola
Un notevole inedito, proposto alla Vostra
attenzione, è un San Francesco di Paola (fig.4) della collezione
Jorio di Cosenza, il quale, con un corteo di angioletti che lo
guarda con benevola ammirazione, appare in profonda meditazione con
gli occhi rivolti al cielo, alla ricerca di ispirazione, mentre le
mani incrociate in preghiera con le dita ossute sembrano indicare
una tabella con la scritta charitas.
Questo dettaglio, apparentemente secondario, ci permette viceversa
di avanzare il nome di Francesco Di Mura come autore della tela,
tanto sorprendente è la somiglianza nella articolazione delle dita
con il “Beato Francesco De Girolamo” (fig.5), conservato nella
quadreria del Pio mnte della Misericordia, facente parte del lascito
del pittore alla sacra istituzione e che Raffaello Causa datava al
1758.
Figura 5: Francesco Di Mura- beato Francesco
De Gerolamo
A differenza di un’altra parte della produzione
del De Mura, più delicata e dalla tavolozza densa di preziose
tessiture cromatiche il “San Francesco di Paola”, come il “Beato De
Gerolamo”, è espressione di una ritrattistica attenta alla
definizione del dato naturalistico, in sintonia con la lezione
caravaggesca, rivisitata e propagandata per decenni a Napoli dal
Ribera.
Le dimensioni ridotte del dipinto fanno propendere per una
destinazione di devozione domestica e proprio questa particolarità
permette di istituire ulteriori raffronti con il “Sant’ Agostino
Cardioforo” (fig.6) sempre conservato nella quadreria del Pio Monte
e con un’altra versione del “San Francesco di Paola” (fig.7) fatta
conoscere da Gianni Bozzo, caratterizzata da una spiccata luminosità
delle vesti, a dimostrazione della varietà espressiva dell’artista.
Figura 6: Francesco De Mura- Sant Agostino
Cardioforo
Figura 7: Francesco De Mura- San Francesco
Di Paola
BIBLIOGRAFIA
• della Ragione – Aniello Falcone opera completa – Napoli 2008
• della Ragione – La natura morta dei Recco e Ruoppolo – Napoli 2009
• della Ragione – Francesco Fracanzano opera completa – Napoli 2011
• della Ragione – La pittura napoletana del Seicento (repertorio
fotografico a colori) tomi I e II – Napoli 2011
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