Cap.5
Partivano i bastimenti, oggi arrivano gli ultimi della Terra
Dopo la repressione del brigantaggio l’economia meridionale subì un
vistoso tracollo e per molti, quasi tutti, l’unico modo per
sopravvivere fu quello di lasciare la propria terra per procacciarsi
il pane quotidiano e dare un futuro ai propri figli. Lo stato
sabaudo, dopo aver combattuto la rivolta con metodi militari,
rendendosi responsabile di eccidi spaventosi , incoraggiava questo
silenzioso genocidio del quale invano cercheremo notizie nei libri
di storia.
La meta preferita era l’America e nel corso di pochi decenni oltre
25 milioni di Italiani sono stati costretti all’emigrazione oltre
oceano e soltanto pochissimi sono ritornati; la maggior parte di
questi disperati proveniva dalle regioni meridionali salvo una
sparuta pattuglia di veneti. Il punto di partenza era il porto di
Napoli da dove partivano i famosi “bastimenti” carichi fino
all’inverosimile di un’umanità lacera e spaventata.
“Ah, ce ne costa lacrime st’America a nui napulitane …“ è il primo
verso di una celebre canzonetta: “Lacrime napulitane”, composta nel
1925 da Libero Bovio, in cui l’autore cercò di sintetizzare il
dolore e la paura di un giovane emigrante sperduto nell’immensa
solitudine di New York. Il protagonista, bisogna precisarlo, si era
deciso ad attraversare l’oceano per un tradimento della donna amata,
un motivo futile rispetto a quello che aveva spinto al grande passo
milioni di connazionali.
Un’altra celebre canzonetta del 1919 “Santa Lucia lontana” parte
proprio con: “Partono i bastimenti”. L’autore è E. A. Mario, celebre
per aver scritto “La leggenda del Piave”.
L’abbondanza di composizioni canore sull’argomento non deve
sorprendere perché l’emigrante, scorrendogli la melodia nelle vene,
reggeva una valigia di cartone ma quasi sempre portava a tracolla
una fisarmonica.
Continuavano a celebrare le proprie feste come la processione di San
Gennaro ed organizzavano la festa di Piedigrotta, nella quale fu
lanciata “Core ingrato” composta nel 1911 da Cordiferro e Cardillo.
Straordinaria è poi la vicenda di Gilda Mignonette che, nel 1926, si
trasferì dalla natia Duchesca alla rumorosa Little Italy e venne
eletta a furor di popolo “La regina degli emigranti” grazie al
successo planetario della sua “’A cartulina ‘e Napule”.
I nostri connazionali, dopo un interminabile navigazione vissuta nel
degrado, venivano muniti di cosiddetto “Passaporto rosso” e venivano
sbarcati nell’isolotto di Ellis Island, posto davanti a New York,
dove la polizia li sottoponeva ad un controllo simile a quello che
si riserva al bestiame. Chi superava la selezione, lentamente con
l’aiuto di parenti o amici già da tempo sul posto, riusciva ad
arrangiare una sistemazione ed a trovare un lavoro, sempre faticoso
e sfibrante.
A qualcuno la fortuna arrideva ed ecco alcuni diventare magnati,
artisti, persino santi, ma anche gangster e mafiosi. Ma a fronte di
un’organizzazione criminale come la Mano nera, di origine siciliana,
a combatterla vi era un super poliziotto, Joe Petrosino, figlio di
emigranti originari di Padula.
E se Al Capone era figlio di emigranti campani egualmente erano di
origine italiana Fiorello La Guardia, che diventerà sindaco di New
York, o Frank Sinatra, celebre cantante, o Frank Capra, uno dei più
celebri registi, oltre a tanti altri scrittori, poeti e saggisti di
altissimo livello. Generazioni di italiani che, inclusi coloro che
avevano scelto come meta Argentina e Brasile, sono stati una
notevole fonte di ricchezza per il nostro paese. Valga un solo
esempio: tra il 1900 e il 1922 i soli meridionali, tramite il Banco
di Napoli e quello di Sicilia, spedirono ai loro parenti rimasti in
patria ben 20 miliardi di lire oro e si calcola che una eguale
quantità di denaro sia stata spedita per posta o consegnata a mano.
Un fiume di soldi che ha permesso di sopravvivere a milioni di
diseredati.
Con il fascismo il fenomeno rallentò vistosamente per riprendere
negli anni ’60 e ’70 nel periodo del boom economico, questa volta
verso il Nord e le ricche regioni europee: Germania, Belgio,
Svizzera, dove la manodopera meridionale veniva maltrattata non solo
all’estero ma anche nella civile Padania, dove abbondavano i
cartelli “Non si affitta ai meridionali”, definiti sprezzantemente
terroni.
Oggi esportiamo cervelli e sono i migliori ad andarsene, regalando
conoscenze ed energie vitali ad altri paesi, dopo aver speso cifre
ingenti per farli studiare e specializzare.
A fronte di questa emigrazione di lusso da alcuni decenni l’Italia è
divenuta la terra promessa per milioni di disperati in fuga dalla
fame, dalla siccità e dalle guerre. Un fiume in piena che fra poco
sarà difficile da arginare, fino a quando l’Europa, nel suo miope
egoismo, non deciderà di varare un gigantesco piano Marshall per
creare, soprattutto in Africa, condizioni di sopravvivenza
investendo nell’irrigazione, nella sanità e nell’istruzione. Sono
disperati che rischiano al vita tra le onde, dopo aver percorso a
piedi centinaia se non migliaia di chilometri nel deserto per
raggiungere la costa libica dove vengono taglieggiati da autentici
negrieri che li spogliano di ogni oggetto prezioso, oltre a
pretendere cifre vergognose per fargli rischiare la vita su barconi
rattoppati, pronti ad affondare alla prima onda più alta del solito.
Nessuno saprà mai le dimensioni di quel gigantesco cimitero
sottomarino che raccoglie pietosamente i resti di decine di migliaia
di uomini, donne e bambini che sognavano la terra promessa.
Per i fortunati che toccano il territorio italiano sono pronte
strutture simili più ad un lager che a centri di accoglienza dove,
stipati fino all’inverosimile, attendono per mesi sotto al sole e se
non sono profughi lo Stato tenta in tutti i modi di rimpatriarli.
Un’altra porta d’ingresso è quella orientale, preferita dalle
popolazioni slave e dagli ucraini. Molti vengono con visti turistici
e poi scompaiono nel nulla, cercando a qualsiasi prezzo un lavoro
per sopravvivere: badante, manovale, contadino.
Una serie di leggi scriteriate ha cercato negli anni di reprimere
unicamente il fenomeno invece di tentare di regolarlo, attraverso
quote annuali secondo le richieste del mercato, come si comportano
molti paesi dagli Stati Uniti all’Australia.
Questo stolto comportamento, oggi che la storia si ripete
all’incontrario con legioni di disperati che vedono nelle nostre
città e nelle nostre campagne una sorta di paradiso terrestre,
dipende dall’aver rimosso gli anni in cui l’Italia era terra di
migranti e di non aver avviato un serio programma di integrazione,
addirittura nemmeno per i figli degli stranieri in regola nati in
Italia ai quali non viene riconosciuta la cittadinanza.
Il problema dell’integrazione tra italiani ed il fiume di stranieri
che, anno dopo anno, sempre più affluiscono nel nostro paese, in un
solo luogo ha trovato piena applicazione: nei penitenziari,
soprattutto delle grandi città: Roma, Napoli, Milano, nei quali
ormai gli “alieni” (ma sono nostri fratelli) costituiscono la
maggioranza.
Nel buio delle celle vigono regole di solidarietà sconosciute nel
mondo esterno cosiddetto civile; tutti si considerano membri di una
grande famiglia e chi non conosce la nostra lingua la impara in
fretta acquisendo anche la cadenza dialettale locale.
Un esempio virtuoso di cui tenere conto e da perseguire perché non
si può andare contro il corso della storia. Noi abbiamo bisogno
della loro energia e voglia di conquistare il benessere ed è una
fortuna non una calamità che molti scelgano l’Italia, antica terra
di emigrazione, divenuta oggi la terra promessa. Il nostro passato è
dimenticato, seppellito nel più profondo inconscio complici le
istituzioni che non hanno realizzato un museo che ci rammenti gli
anni in cui eravamo carne da macello, pronta a qualsiasi lavoro,
anche il più umile e pericoloso. Un museo dell’emigrazione per
ricordare il passato e per spegnere in noi qualsiasi seme di
razzismo e di becero leghismo. E quale sede più degna del porto di
Napoli dove per un’eternità sono partiti i bastimenti carichi di
disperazione e di nostalgia, di ansia di riscatto e di antica
dignità.
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