Regalo di Natale Per le feste di Natale ho pensato di fare un omaggio ai miei
lettori, raccogliendo una parte dei miei articoli e delle
lettere al direttore pubblicati nel 2009.
L’indice permette di leggere solo ciò che interessa ed è
possibile anche spedire ai propri amici e conoscenti la piccola
miscellanea.
Mancano gli scritti di arte e, salvo 3 - 4 eccezioni, le
recensioni cinematografiche per non appesantire troppo la
lettura. Per chi fosse interessato a questi argomenti basta
consultare l’archivio di www.napoli.com e digitare il mio
cognome, si potranno così leggere oltre 600 articoli e guardare
circa 5000 foto.
Buona lettura
Achille della Ragione |
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INDICE
1. Un video hard inesistente ed un passato a luci rosse
consistente
2. D’amore si vive, un libro da regalare a Natale
3. Dio non abita qui
4. Presentato il calendario Pirelli 2010
5. Ludmilla Radchenko, una imperatrice nuda a Milano
6. Un mondo alla rovescia
7. La tenacia dell’amore senile
9. Una soffiata maliziosa su Maria Stella Gelmini
10. Sull’invivibilità delle nostre carceri
11. Il fascino perverso del transessuale
12. Intervista allo scrittore Andrej Longo
13. Baarìa un esaltante capolavoro
14. Addormentarsi con un Caravaggio
15. Rivisitiamo il Risorgimento
16. I danni della sessuofobia
17. RU 486 un’opportunità per cambiare la legge 194
18. Post colonialismo di rapina
19. Lo strapotere dei computer negli scacchi
20. Il perché dell’intolleranza
21. Festival Internazionale di Scacchi “Panza – Isola d’Ischia”
22. Arrivederci Arturo
23. Pigrizia intellettuale
24. Un flagello ubiquitario: i writers
25. Vincere, una torbida pagina di storia
26. sull’obiezione di coscienza
27. Angeli e demoni, un trionfo annunciato
28. Il nostro turismo: una risorsa incommensurabile
29. Proposte del governo per nuove carceri
30. L’ultima frontiera del copyright
31. Spes ultima dea
32. La cecità
33. Requiem per il Karama
34. A tu per tu con Mike
35. Una entusiasmante gara di braccio di ferro
36. Il pillolo soppianterà la pillola?
37. Essere scrittore a Napoli dopo Gomorra
38. La pratica del sesso nei disabili
39. Diario di una ninfomane
40. Quale mondo dopo la crisi?
41. Il sovrintendente Spinosa abdica?
42. Passeggiando per antichi casini
43. Generazione 1000 euro
44. La forza di una tradizione millenaria
45. Truffa sul referendum
46. Una festa di Carnevale indimenticabile
47. La finanza vola mentre l’economia arranca
48. Garbata replica
49. Proverbi napoletani di latina origine
50. Un poco noto primato napoletano
51. La bellezza è necessaria?
52. Bentornato bigliettaio
53. Il Tempio della memoria
54. Vergogna Marrazzo
55. Il napoletano è una lingua, non un dialetto
56. L’epicedio del Banco di Napoli
58. Vecchi senza fine
59. Trenta navi cariche di scorie radioattive al largo della
Calabria
60. Singolare o plurale, Borbone senza pace
61. Le carceri scoppiano, non solo in Italia
62. San Gennaro superstar
63. Lettera aperta alla direttrice della Galleria Corsini
64. Un nuovo libro su Achille Lauro
65. Il male assoluto e l’angelo custode
66. Napoli capitale mondiale delle reliquie
67. Addio Mike sovrano incontrastato del quiz
68. Un’ondata di violenza gratuita
69. L’amore per i nostri cromosomi
70. La maledizione del decoder
71. Le brune surclassano le bionde
72. Caritas in veritate, un invito alla lettura
73. Una rivoluzione pacifica ma necessaria
74. Un prezioso manuale da consultare
75. Basta con la favola della Resistenza
76. Il definitivo tramonto del lavoro
77. Testamento biologico, riparliamone
78. Benedetto terremoto
79. Un vocabolario maschilista
80. Quale mondo dopo la crisi?
81. Obiezione di coscienza: diritto o prevaricazione?
82. Emanuele Filiberto di Savoia trionfa a Ballando sotto le
stelle
83. Droga libera, appello provocazione all’Onu
84. Nazionalizzare necesse est
85. Una legge anacronistica
86. Chiavette internet:truffa o progresso?
87. I love shopping
88. Stupro culturale
89. Le grotte Platamonie ed i riti orgiastici
90. I confini della vita
91. Il falso mito della democrazia
92. Il mendace trionfo dell’evoluzionismo
93. Possibili rimedi alla vecchiaia
94. Chi comanda nel mondo
95. Elogio del tiranno
96. Videocracy, uno spietato ritratto di una società alla deriva
97. La crisi dell’utopia di internet
98. Il caso dell’infedele Klara
Un video hard inesistente ed un passato a luci rosse consistente
Oramai la lotta politica in Italia si fa a base di ricatti e di
video compromettenti. Inutile perdere tempo a discutere di
riforme e di contenuti è più facile infangare l’avversario
attraverso notizie ad effetto, meglio se a sfondo erotico
perverso. Dopo i video su Marrazzo, nei giorni scorsi è
circolata ad arte la voce di un filmato che riprendeva la
procace Alessandra Mussolini durante un incontro
ravvicinatissimo con un collega di partito. Gli interessati
hanno smentito vigorosamente e sembra si sia trattato di una
panzana, ma solo dopo che stampa e media avevano massacrato la
reputazione dei presunti protagonisti.
Peccato, perché legioni di guardoni avrebbero gradito ammirare
le grazie di una delle poche donne impegnate in politica, che,
nonostante l’età non più verde, conserva un sexy appeal di tutto
rispetto.
Col pensiero sono ritornato ad una cassetta di alcuni minuti,
mangiata letteralmente con gli occhi, visionata a casa di un
amico collezionista di video scollacciati, il barone Maffettone,
noto arrapato dai gusti raffinati.
Ricordo, come fosse ieri, alcune sequenze nella quali la futura
onorevolessa, mostrava generosamente poppe vigorose, fianchi
provocanti ed un sedere da favola, senza lasciare alcun
centimetro del suo giovane corpo alla fantasia dello spettatore.
Niente da meravigliarsi, la fanciulla voleva seguire le orme
cinematografiche della celebre zia ed i suoi inizi, come sempre
capita, furono nel cinema a luci rosse.
Lasciate ogni speranza di poter visionare su you tube il
filmato, il barone sarà pure un voyeur immarcescibile, ma è
innanzitutto un gentiluomo e la cassetta non uscirà dalla sua
lussuosa dimora di Piazza Dante.
Poi Alessandra si accorse di possedere uno straordinario cognome
e decise di darsi alla politica.
Si rivolse a Riccardo Monaco, celebre abortista di via
Caracciolo, che all’epoca finanziava il M.S.I e dall’incontro…,
per chi vuole sapere cosa successe fra i due non vi è che andare
su internet e leggere un mio scritto sull’argomento” Un
personaggio dimenticato da non dimenticare”. Buona lettura.
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D’amore si vive, un libro da regalare a Natale
Cosa vi può essere di più elegante(ed economico) che regalare
per le prossime festività un libro, soprattutto se il volume in
questione può rappresentare anche una chiara allusione ed uno
stimolo ad apprendere, parafrasando Woody Allen, tutto ciò che
avremmo voluto sapere sul sesso e non abbiamo mai avuto il
coraggio di chiedere.
D’amore si vive è una interessante antologia di 890 pagine, che
per soli 15 euro, raccoglie 100 novelle erotiche di 44 autori,
tra cui illustri specialisti del settore come Giovanni
Boccaccio, Pietro Aretino, Giacomo Casanova e Gabriele
D’Annunzio, ma anche letterati insospettabili quali il patriota
Luigi Settembrini, lo storico Federico De Roberto o la
giornalista Matilde Serao, unica voce femminile in un consesso
di soli scrittori.
I racconti spaziano per mezzo millennio, dal Trecento
all’Ottocento e tra le pagine troviamo un caleidoscopio di
tipologie talmente vasto e composito, ma soprattutto attuale, da
convincerci che alcuni fenomeni, dai trans alle escort, dai
pedofili agli incestuosi, che credevamo fossero un esito della
moderna corruzione dei costumi, apportata dal crollo dei valori,
sono sempre esistiti e tollerati, ieri forse più di oggi.
Scorre così una galleria di monachelle dal pube voglioso, di
monaci arrapati, di contadinelle sverginate, di mariti cornuti
ed a volte anche mazziati, di contadinotti sodomiti, soprattutto
con gli animali da cortile e poi legioni di ruffiani
impertinenti, incestuosi immarcescibili, stupratori incalliti,
senza considerare quelle festose brigate di ragazze e
giovanotti, che si appartavano per giorni e giorni e senza
inibizioni o censure si raccontavano a vicenda storielle
licenziose a sfondo sessuale, come ci riferisce il Decamerone ed
oggi la televisione col Grande Fratello.
Il curatore della raccolta è un raffinato intellettuale che
risponde al nome prestigioso di Guido Davico Bonino, il quale
spiega nell’introduzione la nascita del proibizionismo
letterario con il Concilio di Trento e l’istituzione dell’indice
dei libri proibiti, mentre in precedenza, memori della
licenziosità del paganesimo, il sesso veniva interpretato come
un’esplosione di sana vitalità, senza distinzione di classi
sociali, anche se era raro che una marchesa concedesse le sue
grazie ad un moro o ad un poveraccio, anche se ben dotati.
Il Decamerone diventa il modello di tutti i novellieri
licenziosi che seguiranno, anche se la censura cercherà di
mitigare la fantasia del racconto, ma la prosa riflette la vita
e la vita è sesso più o meno nascosto o esibito.
Un merito precipuo dell’antologia è quello di farci conoscere
alcuni dei nostri misconosciuti libertini seicenteschi e tra
questi spicca la scrittura agile di Ferrante Pallavicini, autore
di numerose novelle amorose e di un impareggiabile Retorica
delle puttane, un vero e proprio trattato dedicato alle
meretrici, alle quali vengono dati opportuni consigli, la cui
lettura risulterà oltremodo utile anche per le escort
ubiquitarie dei nostri giorni: “Farsi credere sfinita dopo
l’orgasmo maschile e recitare nello stesso tempo frasi di
supremo godimento”. Accoppiarsi davanti ad uno specchio ed
incoraggiare l’uomo al possesso posteriore, una penetrazione
sempre gradita per stuzzicare l’orgoglio maschile. Ed inoltre
mostrare sentimenti genuini come affetto e comprensione. Un
prezioso consiglio inconsciamente recepito dai moderni viados,
che pare riescano ad attrarre più delle donne facendo leva su
virtù una volta tipicamente femminili.
L’autore di questi fecondi suggerimenti pagò con la vita,
decapitato dal boia, la sua audacia letteraria, ma si dimostrò
un vero libertino, difendendo le proprie idee con coraggio fino
alla fine.
Arrivati al Settecento vi saranno i resoconti delle mille
imprese erotiche del prode Casanova e il tentativo di eguagliare
il maestro da parte di Lorenzo Da Ponte, librettista di Mozart e
tombeur de femme, reso famoso da un recente film a lui dedicato.
Sarà un secolo però meno spumeggiante dei precedenti per via
della morigerata serietà lombarda e piemontese che domina la
scena.
E con l’Ottocento, improntato alla verecondia manzoniana, un
alone di finto perbenismo ottunderà le terrificanti esplosioni
di gioia che solo un sesso libero da regole può apportare, ne
risentiranno gli amplessi più o meno proibiti ed il racconto che
di essi fecero i pochi cronisti di quei decenni malinconici.
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Dio non abita qui
Da troppi anni a Napoli sono gli omicidi a scandire ritmicamente
il calendario, mentre tutto il territorio sfugge completamente
al controllo dello Stato, che da tempo ha abdicato alle sue
funzioni, vicariato dalla delinquenza organizzata, che detta
legge oramai in ogni faccenda pubblica e privata. Il Comune e la
Regione sono entità astratte prive di ogni potere. L’assoluta
incertezza del diritto fa sì che gran parte dei malavitosi siano
certi di farla franca e di dover rispondere al massimo ai
rimorsi della propria coscienza, un tribunale, almeno da
Dostoevskij in poi, di tutto rispetto, ma purtroppo, non ancora
parificato agli ordinamenti di una moderna Repubblica.
I giovani fuggono in massa verso un destino meno amaro, una
diaspora di dimensioni bibliche che preclude ogni speranza di
miglioramento futuro; restano soltanto i vecchi borghesi,
pensionati e piccoli commercianti che oramai si sono arresi.
Leopardi che pure l’amava la definì “terra di lazzaroni e di
pulcinella” e tanti altri insigni personaggi, da Campanella alla
Serao, condivisero pareri negativi, senza parlare dei tanti
viaggiatori stranieri, in visita a Napoli, quando la capitale
era una delle mete obbligate del Gran Tour. Si giunse così al
laconico giudizio di “ un paradiso abitato da diavoli”, coniato
quando la camorra non era ancora divenuta una delle
organizzazioni criminali più feroci della Terra.
Eppure nonostante questa antica maledizione gravi come un
macigno, non esiste città dove disorganizzazione e gioia di
vivere convivano con maggiore armonia. Ed è questa la colla che
tiene ancora uniti tutti coloro che amano svisceratamente il
loro luogo natio, la loro patria e soffrano una struggente
malinconia quando sono costretti a cercare altrove pane e
tranquillità.
E’ probabile che la nostra città rappresenti un laboratorio dove
affrontare una serie di tematiche che da noi hanno da tempo
raggiunto e superato il livello di guardia, ma che interessano
tutti gli Italiani: traffico, disoccupazione, delinquenza
organizzata, smaltimento dei rifiuti, abusivismo, ecc.
I Napoletani sono gente antica, che non ha reciso le radici col
passato e che ha rifiutato vigorosamente le suadenti sirene
della modernità. Rappresentiamo una delle ultime tribù della
terra in lotta contro la globalizzazione.
Abbiamo alle spalle una storia gloriosa di cui siamo fieri,
passeggiamo sulle strade selciate dove posò il piede Pitagora,
ci affacciamo ai dirupi di Capri appoggiandoci allo stesso masso
che protesse Tiberio dall’abisso, cantiamo ancora antiche
melodie contaminate dalla melopea fenicia ed araba, ma
soprattutto sappiamo ancora distinguere tra il clamore
clacsonante delle auto sfreccianti per via Caracciolo ed il
frangersi del mare sulla scogliera sottostante.
Avere salde tradizioni e ripetere antichi riti con ingenua
fedeltà è il segreto e la forza dei Napoletani, gelosi del loro
passato ed arbitri del loro futuro, costretti a vivere,
purtroppo, in un interminabile e soffocante presente.
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Presentato il calendario Pirelli 2010
Trionfo del nudo adolescenziale e dell’eros sfacciato
Il nuovo calendario Pirelli, presentato a Londra in anteprima
mondiale ad una scelta platea di 800 ospiti vip, è un inno
gioioso al nudo adolescenziale, alla perfezione delle forme
anatomiche acerbe, alla straripante vitalità di 11 lolite(fig.
01), tutte giovanissime, che in una lussureggiante spiaggia
esotica brasiliana si sono docilmente affidate agli scatti di un
celebre fotografo americano: Terry Richardson, conosciuto
nell’ambiente come Terry il terribile ed anche come il
ritrattista ufficiale di Obama.
Il risultato è una sequenza di immagini conturbanti, dal doppio
senso sfacciato, adatte a risvegliare i lubrici desideri di un
pubblico assopito di rudi camionisti, più che di raffinati
guardoni dai gusti prelibati.
Abbiamo così Abbey Lee Kershaw, modella australiana, con un
piercing sul capezzolo alla Federica Pellegrini, che copre
timidamente il pube glabro con una coppa di champagne; Gracie
Carvahlo nella classica posa sotto la doccia; la platinata Ana
Beatriz Barros mentre si gusta una fetta di cocomero, incurante
del dolce succo che le gocciola sul seno e sul ventre o, in
un’altra foto, mentre lecca vogliosa la cresta di uno spaventato
gallo nero o Daisy, in topless e jeans sbottonati, con un rigido
tubo di gomma tra i seni, che le innaffia vigorosamente il volto
e la bocca, spalancata e con la lingua protesa nell’ansia di
ingurgitarne il getto. Ed infine la più eclatante, la ragazza
del mese di agosto, l’ungherese Eniko Mihalik, che si gusta
felice una banana mentre fissa docile l’obiettivo(fig. 2),
naturalmente completamente nuda incluso il pube rigorosamente
depilato.
La sorpresa maggiore per noi è stata ammirare l’inglese Lily
Cole, già vista come interprete del film Parnassus, nel quale
interpreta la parte di una quindicenne vergine e casta,
destinata a divenire preda prelibata del diavolo e soprattutto
dove per qualche attimo compare completamente nuda con delle
forme appena accennate, mentre sul calendario sfodera un seno
alla Sophie Loren(fig. 3), di debordanti proporzioni. Non
contenta di questa metamorfosi pare abbia chiesto ai giornalisti
presenti di non pubblicare la sua foto a petto in fuori, per il
timore che l’università che frequenta, Cambridge, molto
tradizionalista, abbia a prendere qualche provvedimento
disciplinare.
Mesi più castigati sono luglio, con la classica luce del sole
che deborda sul seno(fig. 4) di Marloes Horst, modella olandese
preferita da Prada, ottobre, con la serba Georgina Stojilikovic
in felice connubio con un robusto bradipo(fig. 5).
Nel backstage scorrono immagini più castigate, come quella
fascinosa della fanciulla già vista alle prese con il sole e qui
in posa ammiccante davanti all’obiettivo di Richardson(fig. 6),
le due ragazze siamesi per via di un pneumatico di camion(fig.
7), la minorenne in posa fatale(fig. 8), la spilungona spogliata
al punto giusto(fig. 9), la credente nella forza del fattore
B(fig. 10), la bella tra i rovi(fig. 11), la scontrosa ripresa
da dietro(fig. 12) e per finire, niente paura non stanno
affogando, stanno facendo la cura dei fanghi.
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Ludmilla Radchenko, una imperatrice nuda a Milano
Generalmente rifuggo dalle gallerie d’arte moderna, ma l’altro
giorno a Milano ho avuto una piacevole esperienza, tale da farmi
cambiare parere.
Avevo conosciuto via mail una studentessa russa, la quale voleva
ragguagli per una sua tesi di dottorato sulla pittura del
Seicento napoletano da discutere a Brera. Ci sentimmo per
telefono e dalla voce suadente intuì che fosse utile conoscere
personalmente la ragazza. Infatti l’incontro, seguito da molti
altri, fu fecondo, perché la fanciulla, oltre che intelligente e
colta, era di una straripante bellezza e dotata di un fascino
misterioso.
Un pomeriggio, dopo ore trascorse a discutere di Ribera e di
Stanzione, mi invitò a visitare in anteprima un vernissage di
una sua zia, che eseguiva collage con le tecniche più varie ed
anche ritratti di tipo tradizionale, spesso di grandi
dimensioni, anzi, vedendomi poco entusiasta e sperando in una
mia recensione,(credeva fossi un critico di grande levatura) mi
disse che la sua parente, solo per me, avrebbe dal vivo
interpretato un personaggio da lei dipinto più volte: Caterina,
la grande imperatrice di Russia in versione osé.
Lo spettacolo che si è presentato ai miei occhi è stato
superiore alle più rosee aspettative, come possono accertarsi
anche i miei lettori e tale da convincermi di aver conosciuto
un’artista in grado di fondere abilmente contemporaneità e
tradizione, ma soprattutto di saper rivisitare e spogliare(in
senso non solo metaforico) i celebri personaggi raffigurati e
farceli conoscere sotto una diversa prospettiva.
La mostra è ancora aperta e seguite il mio consiglio andate a
visitarla, non ve ne pentirete.
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Un mondo alla rovescia
Il caso Marrazzo è stato emblematico nel rappresentarci una
contemporaneità allo sbando nella quale la realtà supera la
finzione, l’apparire conta più dell’essere, il denaro, e non più
l’uomo, è misura di tutte le cose, mentre l’eccezione diventa la
regola e l’eccentricità viene scambiata per la normalità.
Un mondo in coma dominato da confusione ed inversione di ruoli,
dove si tende a scambiare sempre più spesso la figlia per la
moglie, l’uomo per la donna, l’animale per l’umano, il privato
per il pubblico ed il pubblico per il privato.
Un teatrino dell’assurdo animato da attori abili a recitare il
copione degli altri con tutori della legge che si trasformano in
estorsori, politici amanti della famiglia che si dilettano con
squallidi pervertiti ed altri politici che li mettono in guardia
invece di denunciarli, giornalisti che non cercano più notizie,
ma gossip ed hanno sostituito i commenti con chiacchiere da
donnicciole.
Ed inoltre magistrati che vogliono fare i politici, politici che
si dilettano a fare gli economisti, finanzieri che pensano solo
a fregare il prossimo.
E nel frattempo religione ed ideologia vanno in soffitta, la
morale e la giustizia diventano merce rara e nessuno sa se
abbiamo raggiunto il fondo o dobbiamo ancora precipitare in un
baratro più avvilente.
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La tenacia dell’amore senile
Dedicato ad Elvira
L’amore può
resistere in eterno ed in questo si differenzia dall’attrazione
fisica, destinata a finire con lo scorrere inesorabile degli
anni e con le ingiurie che essi, impietosi, arrecano al corpo,
quando la lunga ed allegra cavalcata della gioventù cede il
passo agli acciacchi ed al perfido filo tessuto dalle Parche.
Proprio allora una lunga storia d’amore può vivere i suoi
momenti più esaltanti anche se la passione iniziale è svanita,
sostituita però da complicità, comprensione, rispetto, amicizia,
affetto, autoironia, attributi caratteristici di ogni autentica,
libera, fortunata avventura amorosa.
La donna che sa di essere amata incede sicura di sé tra la gente
con il passo felpato di chi si muove leggero tra le nuvole, come
una superba ragazza senza età, incurante delle rughe, che pure
hanno solcato il suo volto come capricciose onde marine o come
campi di grano dopo l’aratura.
La bellezza l’aveva resa affascinante e potente, è stata, a
secondo dei giorni e delle notti Sherazade e Mata Hari, Sophia
Loren e la fata Morgana, ha prodotto sogni, estasi ed
affabulazioni, ma anche dannazione e tormento; ora vuole
semplicemente perdersi nell’amore del suo innamorato. Bisogna
vivere senza drammi l’incedere delle lancette dell’orologio
dell’universo, perché chi ama ed è amato vive al di fuori di
quelle fugaci convenzioni rappresentate dallo spazio e dal
tempo.
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Una soffiata maliziosa su: Maria Stella Gelmini
Gentile dottore,
un lettore da Desenzano del Garda, mi ha inviato una notizia
riguardante un personaggio famoso con preghiera di diffonderla.
Non si tratta del solito scandalo a luci rosse, una squallida
storia condita da escort e transessuali, ma forse qualcosa di
ancora più grave. Siamo nel mese di marzo del 2000 e il
presidente del consiglio comunale di Desenzano sul Garda è una
piacevole quanto inefficiente signorina, per la quale il suo
stesso partito, Forza Italia, chiede l’espulsione per “manifesta
incapacità ed improduttività politica ed organizzativa”.
La ridente località turistica è dotata di un sito nel quale è
possibile consultare tutte le delibere e la n. 33 del 31 – 3 –
2000 conferma la notizia, con l’unica differenza che la mozione
di sfiducia venne proposta dall’opposizione, ma accettata dalla
maggioranza, per cui tutti erano d’accordo sul provvedimento.
La signorina in questione, Maria Stella Gelmini, non rimase a
lungo inoperosa, perché, scoperta da Berlusconi per le sue doti
sconosciute ai suoi concittadini, è divenuta uno dei più
importanti ministri della Repubblica, quello della Pubblica
Istruzione.
Probabilmente per esprimere a pieno le sue qualità organizzative
una piccola cittadina aveva frontiere troppo ristrette ed era
necessario dimostrarle su tutto il territorio nazionale.
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Sull’invivibilità delle nostre carceri
Gentile dottore,
Dichiarare ogni giorno che si costruiranno nuove carceri, che le
pene diverranno più severe e soprattutto certe, sono
dichiarazioni che fanno aumentare la popolarità del governo,
anche se poi alle parole non seguono i fatti e non potrebbe
essere altrimenti, perché per costruire nuovi penitenziari ci
vogliono decenni e l’attuale situazione di invivibilità delle
nostre galere ha da tempo superato il livello di guardia e,
soprattutto, sono necessarie risorse finanziarie che non ci sono
e non ci saranno per anni. E se anche si costruissero, ci
vorrebbero ulteriori fiumi di denaro per farle funzionare
decentemente.
Lo stesso riguardo le pene e la loro esecuzione, che attendono
da tempo una moderna revisione del codice di procedura penale,
tale da fornire una serie di misure alternative alla detenzione,
in grado di creare un percorso non solo punitivo, ma anche
riabilitativo, come chiaramente sancito dalla nostra
Costituzione.
Invece si blatera sul reato di immigrazione clandestina da
punire con la reclusione, un’affermazione che, se applicata,
vedrebbe centinaia di migliaia di nuovi galeotti.
Negli ultimi giorni i quotidiani hanno segnalato casi di
suicidio e di sevizie avvenute in carcere, ma non si tratta
certo di casi isolati: negli ultimi dieci mesi i suicidi sono
stati 61 e gli atti di automutilazione sono un migliaio ogni
anno.
Cifre da brivido che lasciano stupefatti gli operatori del
settore(secondini, educatori, medici, cappellani e gli stessi
direttori) non perché siano tanti, bensì come mai siano così
pochi!!
L’opinione pubblica non vuole sentir parlare di questi argomenti
e plaude solo alla spettacolarità delle dichiarazioni di una
sempre maggior severità.
Nessuno vuole intendere che la capienza massima dei nostri
istituti di pena può accogliere 41.000 detenuti ed oggi,
ammassati come animali, ne sono ospitati 66.000 e se non vi
fosse stato l’indulto sarebbero oltre 90.000.
Nessuno vuole capire che un terzo di questi reclusi è in attesa
di processo e di conseguenza innocente fino a sentenza
definitiva, che molte migliaia hanno diritto, secondo le norme
vigenti, a misure alternative che arbitrariamente non vengono
concesse.
Quando si entra in un carcere si perde ogni dignità umana e si
diventa un numero.
Bisogna consegnare all’ufficio matricola non solo lacci e
cinture, foto dei propri cari ed effetti personali, ma anche la
propria anima per divenire una bestia. Si viene denudati,
sottoposti ad una vigorosa esplorazione rettale ed avviati in
cella, dove, se tutto va bene, si divideranno 15 – 20 mq con
altre 10 – 12, a volte anche 20 persone.
Letti a castello fino al soffitto ed uno spazio per potersi
muovere da invidiare i polli in batteria.
Ogni anno 30.000 persone entrano in questi gironi infernali per
uscirne entro tre giorni, dopo aver subito questa annichilente
liturgia.
E vogliamo parlare dei maltrattamenti? Un argomento tabù sul
quale eccezionalmente la magistratura riesce a fare luce, tra
omertà impenetrabile e paura di nuove più squassanti sevizie: il
detenuto è caduto dalle scale…,la camera di sicurezza non è
certo un albergo a cinque stelle, ma che massacro era un
semplice richiamo verbale.
Queste sono le più comuni giustificazioni del personale di
sorveglianza.
Per chi volesse approfondire la tematica consiglio la lettura
del capitolo Storie incredibili di matta bestialità dal libro Le
tribolazioni di un innocente (consultabile in rete).
Ma poi che vogliono questi rompiballe, si lamentano di aver
trascorso l’estate chiusi per 22 ore al giorno dentro celle
dalle sbarre arroventate con temperature superiori ai 40° ed
un’umidità dell’aria da sauna, anche noi abbiamo sopportato il
caldo mentre eravamo al mare. E poi non vi è da preoccuparsi, a
giorni la temperatura li rinfrescherà nelle loro gabbie senza
vetri alle finestre ed un freddo glaciale li ristorerà per tutto
l’inverno.
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Il fascino perverso del transessuale
I recenti squallidi episodi di cronaca che hanno visto
importanti uomini politici colti in fallo…, mentre, pur essendo
ammogliati, cercavano tra le braccia di un transessuale qualcosa
che la moglie, la famiglia, la società, nella quale era membri…
di rilievo non erano in grado di dargli, ha riproposto
all’attenzione generale ed al necessario dibattito culturale tra
gli esperti una spinosa problematica, che rischia di far saltare
i delicati equilibri sui quali poggia la nostra società.
Tre termini, ritenuti erroneamente sinonimi, occupano spesso le
pagine dei giornali e le trasmissioni televisive: travestito,
transessuale, transgender.
Tutti sono pervasi da una voglia di cambiamento della propria
identità sessuale, come si evince chiaramente dal prefisso
comune trans, ma mentre i travestiti amano semplicemente
assumere i vestiti ed i comportamenti tipici dell’altro
sesso(come ad esempio i celebri femminielli della tradizione
napoletana), i transessuali anelano, con l’aiuto della
chirurgia, di variare la propria anatomia genitale, per farla
corrispondere a quella psicologica, mentre infine i transgender
negano la dicotomia sessuale e ritengono di poter assumere
contemporaneamente anatomia ed identità sia maschile che
femminile. Un comportamento sfacciatamente sovversivo per i
canoni della nostra civiltà, che si rifà all’antico mito degli
androgini, creature bisessuali, descritte da Aristofane nel
Simposio di Platone o alla figura di Tiresia, che divenne donna
per sette anni, per poi ritornare ad essere uomo.
Prima di proseguire è necessaria un’ulteriore precisazione
scientifica: nella nostra specie, a differenza di altre, non
esiste la figura dell’ermafrodito ed alcune patologie, legate a
tare genetiche, danno luogo ad individui con un duplice corredo
di attributi sessuali, ma in nessun caso essi sono in grado di
funzionare alternativamente come maschio o femmina. Alcuni
soggetti presentano pene ed utero rudimentale, oppure il cosi
detto ovotestis, la presenza nell’ovaio di tessuto testicolare
primordiale.
Per cui le trasformazioni praticate al tavolo operatorio non
sono in grado di sovvertire ciò che la natura non ha previsto.
Ma l’interrogativo che sempre più incalzante si presenta in
questi giorni è cosa cerchino tanti uomini potenti tra le
braccia(e tra le cosce…) di questi misteriosi individui. E come
mai non capiscano quanto sia facile essere oggetto di un
ricatto. Basta una cimice, una microtelecamera nascosta, un
pedinamento e si finisce oggetto di minacce ed estorsioni, se
non sulle pagine dei quotidiani.
La nostra morale li disprezza e considera disdicevole
frequentarli, per cui il rischio di essere colti in fragrante
rappresenta un concreto pericolo, che pare non spaventi più di
tanto i loro più assidui clienti, addirittura eccitati dal rito
della trasgressione.
Non esistono attendibili studi scientifici sulla psicologia del
transessuale, se non alcune datate considerazioni di Foucault,
per cui dobbiamo affidarci a quel che hanno raccontato
sull’argomento registi e scrittori.
Il transessuale si differenzia dall’omosessuale che conserva
l’ortodossia del soggetto attivo e di quello passivo nella
dinamica sessuale, come capitò a Verlaine quando lasciò sua
moglie per Rimbaud divenendo, la “vergine folle” del suo “sposo
infernale”.
Il transessuale è un uomo in fuga dalla sua identità, che cerca
di trasferirsi nell’altro sesso senza rinunciare al suo, spesso
per necessità contingenti legate al suo triste mestiere.
Lapidarie a tal proposito le parole che Almodovar mette in bocca
ad Agado, il protagonista del suo film Tutto su mia madre, il
quale, alla domanda perché non si faccia asportare
chirurgicamente quell’imbarazzante appendice che gli ricorda la
sua mascolinità, risponde candidamente: ” E poi come lavoro, i
miei clienti vogliono una donna col pisello”.
Ancora più clamorosa è un’altra dichiarazione del regista
spagnolo, tra i primi a denunciare il problema sociale del
transessuale: “ Trans fu quel Dio che si fece uomo restando
Dio”.
La nostra società vive sull’apparenza più che sulla sostanza,
per cui il trans diventa, più che fenomeno da baraccone,
curiosità da esibire in pubblico, dal Grande Fratello al
Parlamento. E poiché in un’epoca da basso impero e di finta
democrazia come la nostra spuntano come funghi difensori di ogni
causa, anche la più strampalata, perché non concedere loro di
farsi una famiglia, di adottare dei figli, di costituire un
modello di riferimento per le nuove generazioni?
Alcuni paesi Europei, apparentemente all’avanguardia, vorrebbero
concedere loro il doppio congedo, uno di maternità ed uno di
paternità, già ora la mutua rimborsa integralmente le spese per
il cambio del sesso, ma anche per loro non sarà facile creare un
ordine in un campo dove regna sovrana l’anarchia.
Altrimenti saremmo costretti a gettare alle ortiche migliaia di
anni di civiltà, riscrivere Bibbia e Corano, oltre a mitologia e
psicoanalisi, filosofia greca e poesia provenzale.
Si aprirebbe un futuro da incubo dominato da istinto e
permissività e non più da razionalità e morale.
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Intervista allo scrittore Andrej Longo
Uno scacchista pizzaiolo lanciato verso la celebrità
Andrej Longo, ischitano doc, occupa una posizione eccentrica nel
panorama degli scrittori partenopei ed attraverso i suoi libri:
Adelante, Dieci e ora Chi ha ucciso Sarah? sta indagando il
composito universo della napoletanità, non solo il mondo degli
emarginati e della delinquenza più o meno organizzata, ma anche
la vita dei quartieri bene della città. Infatti nella sua ultima
fatica letteraria è passato dalle periferie degradate al salotto
buono arroccato sulla collina di Posillipo, dove la borghesia
vive nel benessere, guardando da lontano i problemi sempre più
gravi che stanno facendo letteralmente affondare quella che fu
una gloriosa capitale, dalla spazzatura ubiquitaria al traffico
impazzito, dalla criminalità dilagante alla disoccupazione
crescente. Inoltre è passato da una raccolta di racconti brevi
al romanzo, adoperando sempre la prima persona dell’io narrante
ed un linguaggio originale, diverso dal dialetto, che fa grande
uso del dativo etico e dei verbi intransitivi in forma
transitiva.
Conosco da sempre Andrej e sono a lui legato non solo da una
sincera amicizia, ma soprattutto da una comune passione: gli
scacchi, uno sport della mente nel quale entrambi abbiamo il
titolo di maestro, per cui ogni volta che ci incontriamo, prima
di cominciare qualunque conversazione, ci affrontiamo con
energia per ore sulla scacchiera ed otteniamo quasi sempre un
risultato complessivo di parità.
Più che un’intervista con l’autore le domande e risposte che
seguono rappresentano perciò uno scambio di idee tra due
napoletani che hanno a cuore le sorti della propria città e si
interrogano su come opporsi ad una deriva generalizzata, la
quale, come un morbo incurabile sta devastando abitudini e
mentalità di una antica civiltà.
Essere scrittori a Napoli dopo Gomorra è un’impresa difficile?
Ho letto il tuo saggio sull’argomento e francamente lo condivido
solo parzialmente, certamente dopo il successo planetario
ottenuto da Saviano e l’aura di mistero che circonda l’autore è
difficile per chiunque ottenere la stessa attenzione da parte
dei media, ma vi sono settori della città ancora da esplorare e
lo dimostra il mio ultimo libro, Chi ha ucciso Sarah?,
ambientato a Posillipo, che indaga il mondo dell’imprenditoria,
degli intellettuali e dei professionisti, i quali, chiusi nelle
loro case eleganti e nei loro circoli esclusivi, hanno fatto
dell’omertà, della corruzione e dell’odio di classe i loro
strumenti di sopraffazione.
Molti ritengono che a Napoli convivano due tribù, un tempo
assolutamente separate e che oggi si contaminano, prendendo
ognuna il peggio dell’altra, sei d’accordo?
Esiste una Napoli della criminalità e dell’illegalità,
solitamente identificata con le periferie ed i quartieri
popolari ed una Napoli della borghesia, la quale è mancata
clamorosamente al suo ruolo di guida. Sono due facce di un’unica
medaglia ed hanno in comune gli stessi non valori, entrambe
perseguono lo stesso obiettivo: l’arricchimento rapido e veloce.
Nel tuo romanzo mi pare che tu voglia però delineare un’altra
Napoli, di solito poco rappresentata e che viceversa rappresenta
la maggioranza.
Certamente vi è la Napoli delle persone normali che lavorano, si
arrangiano, ma riescono ad andare avanti con fatica e dignità ed
a questi napoletani ho voluto dare corpo e voce con i personaggi
del poliziotto e del commissario, ma anche della stessa Sarah,
figlia della borghesia, costretta a pagare la sua disponibilità
verso gli altri.
Recentemente a Posillipo sono avvenuti fatti di sangue che
rappresentano una assoluta novità per il quartiere, hai preso
ispirazione da essi?
Il romanzo era già completato quando sono avvenuti, in certo
senso, vi è stata una sorta di premonizione.
Scrivere per Adelphi, oltre che un traguardo, rappresenta una
garanzia per l’autore che si vede accompagnato per mano verso il
successo, dalle recensioni sulle grandi testate ad un giro ben
organizzato di presentazioni ed un trattamento di riguardo
quando si debbono assegnare premi e riconoscimenti.
Sono molto grato alla casa editrice che ha puntato sul mio
lavoro e ciò rappresenta uno stimolo ad impegnarmi per non
tradire le aspettative.
Quali sono i tuoi autori preferiti?
I miei gusti sono cambiati nel tempo, giovanissimo sono stato
fulminato da Kafka, la cui opera ho riletto numerose volte, vi è
poi stato il periodo dei grandi narratori russi da Tolstoi a
Gogol, oggi leggo soprattutto libri di inchiesta e tra i giovani
scrittori italiani prediligo Valeria Parrella: Mosca più balena
mi è molto piaciuto.
Tra i giornalisti che segui vi è qualche firma in particolare?
Michele Serra mi fa letteralmente impazzire e tra i cronisti
sportivi Gianni Clerici.
Stai lavorando ad un nuovo romanzo?
Certamente, ma per il momento titolo ed argomento sono
rigorosamente top secret.
Vogliamo un po’ parlare della favola del pizzaiolo scrittore e
vogliamo rivelare ai lettori la vera essenza di Andrej Longo,
laureato al Dams, collaboratore per anni della Rai, maestro di
scacchi ed intellettuale attento alla realtà che lo circonda?
Certamente non mi considero un intellettuale ed infornando pizze
ho avuto tutto il tempo per meditare, posso affermare che molti
passi dei miei libri sono nati impastando tra una margherita ed
un calzone.
Sei anche un ottimo cuoco?
Si, ma soltanto per pochi fidati amici.
Allora finita la conversazione non ci resta che accomodarci
davanti ad un piatto di spaghetti alla carbonara e ad uno
spezzatino con patate in grado di far risuscitare i morti, per
poi passare altre ore a combatterci sulle 64 caselle della
scacchiera.
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Baarìa un esaltante capolavoro
A volte la trepidante attesa per vedere un film sul quale i
giornali hanno versato fiumi d’inchiostro, tessendo lodi ed
entusiastici apprezzamenti, si traduce in una delusione
ma ciò non capita certo con Baarìa, un vero capolavoro che ci
restituisce la gioia del grande cinema e ci dimostra come i
grandi riconoscimenti siano falsi simulacri e mentre il
vincitore della mostra di Venezia non viene neanche preso in
considerazione dai distributori, il lavoro di Tornatore, oltre a
poter ben rappresentare il nostro cinema agli Oscar, sarà, al di
la di una possibile statuetta, ampiamente ricompensato dai
risultati del botteghino e verrà a lungo riproposto dalle
televisioni.
Una cinquantina di anni di vita bagariota focalizzati su tre
generazioni di appartenenti alla famiglia Torrenuova vengono
raccontati con la forza della poesia, che, unita alla musica
travolgente di Morricone e ad una fotografia perfetta, riescono
ad emozionare
e ad avvincere lo spettatore per i centocinquanta minuti
abbondanti della proiezione.
I due protagonisti Francesco Sanna e Margareth Made sono volti
nuovi destinati a divenire famosi, ma con loro partecipano a
costituire un grande affresco una moltitudine di attori famosi
impegnati in straordinari cammei, a volte anche di pochi
secondi, ricostituendo quel delicato tessuto connettivo, che i
maestri neorealisti erano soliti approntare utilizzando una
schiera di impareggiabili caratteristi, una specie necessaria e
da tempo scomparsa. Scorrono perciò sullo schermo il politico
Michele Placido, il giornalista Raul Bova, il guitto Vincenzo
Salemme, la veggente Lina Sastri, il compagno con il cappotto
pesante Leo Gullotta, lo scalcagnato assessore Nino Frassica,
l’ossessivo Beppe Fiorello cambiavalute clandestino e tanti
altri a formare un indimenticabile mosaico.
La sequenza dell’assessore all’urbanistica non vedente, che si
fa portare i piani regolatori in braille e li apprezza solo dopo
aver intascato l’ineludibile mazzetta è anche essa memorabile e
rammenta alcune scene di Mani sulla città.
I dialoghi sono in dialetto, ma francamente non me ne sono
accorto e penso capirà tutto anche un seguace di Bossi, il quale
sarà contento, che il dibattito politico sul tema possa
rinfocolarsi fino a divenire una priorità nazionale.
Le immagini ci portano dietro nel tempo in un microcosmo
popolare e picaresco dove il pranzo è pane e cipolla, i
disperati si martellano un piede per non andare a combattere, il
popolino sbeffeggia i federali ed ama ascoltare i poemi
cavallereschi declamati dal pastore nella stalla. È un coro
prettamente siciliano, che però acquista i caratteri
dell’universalità con la forza di tanti piccoli paesi, dove in
uno spazio ristretto è più facile distinguere il male dal bene,
l’essere dall’ apparire, il sogno dalla delusione.
La regia riesce ad equilibrare il racconto di un paese con
quella di una famiglia, la storia con la cronaca, la realtà
dalla fantasia, la memoria con la riflessione, la religione con
la superstizione, la fascinazione con la mostruosità ben
espressa dalle temibili statue di villa Palagonia.
Si intravedono gli sviluppi cruciali e le nobili origini della
lotta comunista tra liturgie dirigistiche e semplificazioni
ideologiche, immortalate dalla candida affermazione del
protagonista:”Cercare di cambiare il mondo senza tagliare la
testa a nessuno”.
Un vero kolossal dell’anima che parla ai cuori con le ombre e
con la luce, sperando che finalmente la Sicilia sappia liberarsi
da suoi antichi mali e riesca a sprigionare tutta la sua
vitalità creatrice.
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Addormentarsi con un Caravaggio
Visita senza immagini ad una straordinaria collezione di dipinti
Il personaggio di cui voglio parlarvi è un vero principe della
cultura, esperto di storia dell’arte e tra i massimi specialisti
del pittore oggi alla moda, l’unico in grado anche con un solo
suo dipinto in mostra di attirare fiumi di visitatori,
desiderosi di sostare davanti ad un suo quadro e poter poi
raccontare: era un vero capolavoro.
L’incontro era fissato per il pomeriggio, grazie ai buoni uffici
di Pietro, un professore mio amico, che si era offerto di
presentarci.
Il principe abita in una stradina della vecchia Roma, un palazzo
apparentemente modesto. Saliamo al quarto piano con l’ascensore
e quando entriamo veniamo accolti da una marea debordante di
libri d’arte, che occupano ogni angolo della casa, straripando
dagli scaffali ed impossessandosi di ogni spazio disponibile, al
punto che muoversi è una vera impresa, anche perché l’abitazione
è posta su due livelli con lunghi corridoi e temerarie
scalinate, che si affrontano con timore reverenziale, a stento
rincuorati sapendo che di recente sono state scalate con
successo anche dal centenario Denis Mahon, una leggenda della
storia dell’arte. Alcune stanze si aprono su piccoli e grandi
terrazzi e su uno di questi ci accomodiamo per trascorrere
alcune ore di colta conversazione, pasteggiando una bottiglia di
prosecco di Valdobiadene veramente squisita, intitolata dalla
ditta produttrice al nome del grande pittore e regalata in
cospicue quantità all’esimio studioso per onorare uno dei
massimi conoscitori dell’artista.
Avevo portato con me il Secolo d’oro della pittura napoletana,
una mia fatica in dieci tomi per farne dono al padrone di casa,
speranzoso fosse un adeguato biglietto di presentazione.
Passiamo oltre un’ora in un entusiasmante giochetto culturale,
cercando di indovinare il nome degli autori rappresentati nella
prima e quarta di copertina dei vari fascicoli.
Pietro partecipa fuori gara, conoscendo già da tempo l’opera,
mentre l’anfitrione e la sua giovane e colta compagna Ferdinanda
(nome di fantasia) alternano nomi precisi a vistose cantonate.
Il tempo vola letteralmente nella conversazione, tra progetti di
visite a mostre, collezioni private ed importanti rassegne
antiquariali prossime ad inaugurarsi.
La casa, oltre a possedere 40 - 50.000 libri, è ricca di un
centinaio tra dipinti e disegni, la quasi totalità inedita e
tutti di grandissimo interesse e di straordinario valore venale.
Naturalmente è d’obbligo una visita guidata dall’esimio
proprietario, il quale di ogni opera conosce vita, morte e
miracoli.
Per assoluta mancanza di spazio solo metà dei quadri è affissa
alle pareti, mentre molte decine, anche se di autori degni di
figurare in un museo, sono malinconicamente accatastati in
attesa di una superficie libera.
Gli autori rappresentati coprono tutta la pittura europea del
‘600 e del ‘700 e descriverli sarebbe impresa improba, in
mancanza anche delle foto, per cui mi limiterò a commentare i
quadri napoletani, ricordando che sono tutti inediti. Parto da
uno spettacolare San Sebastiano curato dalle pie donne del
Ribera, di grosse dimensioni e di altissima qualità, del quale
ricordo, nei depositi di Capodimonte, una rovinata copia
attribuita al Giordano nel regesto uscito di recente. Vi è poi
una replica autografa, sempre di Luca, della Maddalena penitente
conservata al Prado, che i curiosi potranno vedere da me
pubblicata sul Secolo d’oro(vol. 5, pag. 304).
Di autori considerati napoletani d’adozione: Mattia Preti ed
Artemisia Gentileschi vi sono poi una figura di Santo, non
ricordo se fosse San Pietro ed una muscolare Aurora, che fu
esposta alla mostra di Roma sull’artista ed è reperibile tra le
pagine del catalogo. Entrambe le tele appartengono però al tempo
dei soggiorni romani dei due pittori.
Di Salvator Rosa vi è uno splendido disegno, visibile in una
stanzetta che funge da esposizione del settore grafica e dove vi
sono una ventina di fogli.
Un bozzetto di Solimena non mi ha entusiasmato particolarmente,
forse perché realizzato intorno al terzo decennio del Settecento
e dell’artista prediligo la sua produzione seicentesca.
Il Luca Forte, pubblicato come tale in un catalogo antiquariale
e raffigurante dei funghi posti su di un piano dì appoggio, mi
ha lasciato perplesso per l’attribuzione, perché non ho
percepito avvicinandomi alla tela quell’afrore napoletano, che
colgo quasi sempre, una sorta di sindrome di Sthendal, ogni qual
volta mi soffermo ad ammirare un quadro realizzato all’ombra del
Vesuvio. Ritengo, anche per il soggetto, trattarsi di pittura
settentrionale, forse lombarda, al massimo, come latitudine,
fiorentina.
Tra i quadri in attesa di uno spazio espositivo vi è poi un San
Gennaro pubblicato da Michael Stougthon come Battistello
Caracciolo dopo l’uscita dell’opera omnia a cura di Stefano
Causa. Una tela a carattere devozionale che non suscita
particolari emozioni e che mi lascia qualche ragionevole dubbio
sull’autografia.
Infine vi sono poi due eccezionali Stanzione, il primo una
fanciulla dal seno prorompente, parzialmente coperto da un manto
trasparente che esalta maggiormente la nudità e che si offre
candidamente allo sguardo libidinoso dell’osservatore. Un primo
piano da perdere la testa, al quale non avrei saputo rinunciare
se lo avessi conosciuto prima di scrivere il mio saggio sul Seno
nell’arte dall’antichità ai nostri giorni.
L’altro Stanzione è un piccolo bozzetto, certamente autografo,
anche se sono rimasto sbalordito sentendo il mio ospite
affermare trattarsi del modello preparatorio di un’opera
perduta, che si trovava a Roma nella chiesa di San Lorenzo in
Lucina.
La visita guidata si completa arrivando nella stanza del
principe, piccola, con un letto matrimoniale e tanti quadri
esposti, i più cari, e tra questi mi soffermerò su
un’originalissimo Poussin di argomento mitologico, che propone
in primo piano una invitante fanciulla nuda con le cosce
divaricate, che fanno chiaramente vedere quella che poeticamente
Courbet denominava l’ origine del mondo.
Il quadro quando venne comprato, negli anni Cinquanta, proveniva
da un monastero laziale ed un mano pietosa, aveva ricoperto in
tempi remoti le sfacciate fattezze della giovinetta,
trasformandola in una martire addormentata, per non turbare i
pensieri casti delle monachelle, costringendole a riparatrici
contrizioni. Un accorto restauro aveva poi svelato lo spirito
primitivo della composizione, un inno pagano che esaltava la
bellezza del corpo femminile.
Una piccola natura morta, che ho saputo poi presenta sul retro
una firma strepitosa, attirò la mia curiosità, ma alla mia
richiesta su chi fosse l’autore, ho ricevuto una diplomatica
quanto laconica risposta:”Non lo so”.
Il soggetto rappresentato sono dei fiori variopinti in una
boccia di cristallo, la quale è realizzata in maniera mirabile
con una lucentezza ed una trasparenza che tradiscono una mano
famosa. Ho pensato al Maestro di Hartford, una figura
prestigiosa, attiva a Roma, a cavallo tra XVI e XVII secolo ed
ancora non ben delineata dalla critica. La parte superiore con
dei fiori spampanati ed alieni alla nostra flora mi hanno fatto
invece pensare ad un francese, ma lo stridente contrasto di
qualità tra contenitore e contenuto, continuano a lasciarmi
perplesso.
L’ultimo dipinto è religiosamente preservato da una tendina,
come una reliquia, come un’immagine sacra davanti alla quale
pregare o sostare in meditazione.
La sorpresa lascia stupefatti quando si può finalmente ammirare
l’oggetto così accuratamente conservato.
Si tratta di un Caravaggio, il celebre Fanciullo che monda un
frutto, uno dei pochissimi esemplari fuori dai musei. Se la
memoria non mi tradisce ve ne è soltanto un altro, di non certa
attribuzione, nella collezione di una stramiliardaria americana,
mentre il nostro è confessato e comunicato, ultra documentato ed
ineccepibile. E parlando di vile denaro, il principe, bisogna
oramai che lo chiami così, mi ha confessato di aver rifiutato
per il suo quadro, anni fa, un’offerta di decine di miliardi.
E sono certo abbia fatto la scelta migliore, perché, anche
potendosi coricare con Ferdinanda, una ragazza più giovane di
trenta anni, addormentarsi guardando un Caravaggio è un
privilegio unico, indimenticabile, inestimabile.
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Rivisitiamo il Risorgimento
Mentre incombono le celebrazioni per i centocinquanta anni
dell’Unità d’Italia, previste per il 2011, si alzano voci
autorevoli per segnalare l’assoluta mancanza di fondi, per cui
la manifestazione avverrà senza dubbi in tono minore, anche per
l’ostruzionismo praticato dalla Lega, la quale interpreta in
senso negativo quella serie di avvenimenti che portarono al
sorgere dell’Italia come nazione.
La pagina più nera della nostra storia è ancora coperta dal
segreto militare a distanza di oltre 140 anni dagli avvenimenti.
Nonostante il Risorgimento stia lentamente subendo un processo
di rivisitazione in chiave neoborbonica, grazie all’impegno di
alcuni storici coraggiosi,che lavorano in contrasto
all’ortodossia accademica, a Roma, presso lo Stato Maggiore
dell’Esercito, si conservano, inaccessibili agli studiosi,
150.000 pagine che contengono la verità sull’insurrezione
meridionale contro i piemontesi: quel controverso periodo
capziosamente definito brigantaggio.
I documenti che potrebbero finalmente fare luce sulla
distruzione di interi paesi, sulla deportazione dei suoi
abitanti e sulla fucilazione di migliaia di meridionali
subiscono ancora “il complesso La Marmora”, dal nome del
generale che diresse per anni la repressione nel Mezzogiorno,
prima di divenire capo del governo.
Negli archivi militari americani si può tranquillamente
conoscere ogni dettaglio del genocidio degli indiani, in quelli
francesi indagare sugli aspetti più oscuri del colonialismo,in
quelli tedeschi sapere tutto sul nazismo. Da noi nel 1967,dopo i
prescritti 50 anni di segretezza, abbiamo potuto meditare sulla
dolorosa disfatta di Caporetto, ma sulla ”conquista” del Sud da
parte del Nord vige ancora un silenzio assordante ed una
vergognosa chiusura degli archivi pubblici alla consultazione!
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I danni della sessuofobia
Le religioni orientali hanno sempre intrattenuto con il sesso un
rapporto cordiale ed equilibrato a differenza dei grandi
monoteismi:cristianesimo, ebraismo, islamismo, i quali hanno
costantemente demonizzato il rapporto con il piacere, anche
quello innocente della gola.
Il cristianesimo, ed in particolare il cattolicesimo, hanno
utilizzato non solo l’arma dei sermoni domenicali e i
penitenziali consigli dati nei confessionali, ma hanno anche
monopolizzato le arti figurative, che da secoli sono sature di
martiri, crocifissioni, torture, vergini gloriose ed altre
mortificazioni corporee, mentre l’arte tantrica ed i templi di
Khajuraho in India sono uno inno alla beatitudine terrena,
ottenuta attingendo col sorriso sulle labbra alle naturali gioie
dell’accoppiamento.
Nell’iconografia indiana il seno è radioso, rigonfio,
debordante, accattivante, bombato, desiderabile, innocente e
sembra reclamare a viva voce la carezza della mano vogliosa
dell’uomo, non certo la boccuccia del poppante, come la sferica
mammella nel capolavoro di Jean Fouquet, men che mai la tenaglia
sadica del torturatore, come possiamo constatare in infiniti
quadri sul martirio di S. Agata.
Tanti secoli di oscuro proibizionismo e di eros mortificato
hanno fortemente condizionato il nostro rapporto con il piacere,
identificato con il peccato e tributario della contenzione
cristiana.
I nostri sogni erotici subiscono una censura inconscia, che fa
oramai parte del nostro Dna. Il cristianesimo è riuscito ad
immaginare angeli senza attributi e chiede alle donne di
prendere a modello la madonna, capace di generare senza copula.
Un simile modo di pensare non poteva sfociare se non in una
nevrosi generalizzata, mentre le sapienze orientali celebravano
il corpo e le sane gioie del sesso, immortalate in quella bibbia
laica ed illustrata costituita dal Kamasutra.
Se sulla nostra coscienza abbiamo l’Inquisizione e milioni di
streghe mandate al rogo, la religione islamica non è meno
colpevole, con leggi scritte dagli uomini, che tengono in
vergognosa subordinazione sotto il dominio dei maschi ed
usurpando il nome di un dio, mezzo miliardo di donne.
Regole assurde ed anacronistiche, fonte di prigionia, di
mortificazione, di esclusione dalla vita sociale, di
discriminazione, di sottomissione continua, spesso di lutti,
come di recente le cronache italiane hanno raccontato, con un
padre assassino della figlia, perché non rispettosa della
ortodossia morale imposta dalla religione.
Il mondo fortunatamente cammina ed ogni giorno scalfisce questi
assurdi tabù, anche se ci vorranno secoli prima che frusta,
bastone e coltello diventino un orribile ricordo del passato ed
il sano disordine della libertà abbia la meglio su norme
arcaiche decrepite e fuori di ogni logica.
La superstizione e la costrizioni sono dure a morire, ma la
forza pulsante dell’eros non può essere imbrigliata all’infinito
e prima o poi scardinerà le regole assolute dei padri padroni.
Gentile dottore,
tre episodi apparentemente isolati, avvenuti nell’arco di poche
ore, dimostrano in maniera inconfutabile l'incertezza del
diritto che regna in Italia e soprattutto le difficoltà
incontrate dai giovani che vogliono appartarsi per scambiarsi
effusioni senza dover spendere una cifra per adoperare una
camera di albergo.
Il primo episodio avviene sulla collina di Posillipo al Parco
delle Rimembranze, un posticino romantico scelto dalle coppiette
in vena di peripezie erotiche nell’angusto spazio concesso
dall’abitacolo di un’auto, dopo aver tappezzato i finestrini con
vecchi giornali allo scopo di garantirsi un minimo di intimità.
Entrano in azione gli agenti del locale commissariato, i quali,
trascurando la repressione di ben più gravi reati, si dedicano
per alcuni giorni ad elevare contravvenzioni ai rocamboleschi
amanti: tariffe particolarmente salate fino a 311 euro, mezzo
stipendio di un giovane precario.
Vicino Pomigliano d’Arco nello stesso tempo in cui si
somministrano pesanti intimidazioni economiche alle focose
coppiette, dei feroci rapinatori con un martello infrangono i
vetri di un’auto dove due giovani stanno facendo l’amore e non
contenti del provento economico della loro bravata decidono di
approfittare della fanciulla, ma il fidanzato è un vigilante
armato e nel tentativo di difendersi uccide i due delinquenti,
applicando senza volere quello che dovrebbe essere un principio
condiviso da tutti: la legittimità della legittima difesa.
Terzo episodio a Roma, dove la Suprema Corte di Cassazione
pontifica in campo di morale sessuale un paradigma stupefacente,
assolvendo un individuo, il quale, con pervicace costanza
palpeggiava le colleghe di lavoro, anche se unicamente con
intenti ludici ed eventualmente per accrescere il bagaglio di
conoscenze anatomiche, ma senza intenti libidinosi.
Per cui possiamo dedurre come la libidine sia la delicata linea
di confine che demarca ciò che è lecito da ciò che è vietato:
toccare la propria fidanzata è punibile, mentre approfittare
delle grazie di colleghe bonazze, anche se non consenzienti è
lecito, forse anche auspicabile, almeno secondo la
giurisprudenza sancita dalla Suprema Corte.
Ogni commento è superfluo, mentre opportuno è un invito ai
sindaci di tutte le città italiane: create dei parchi
dell’amore, delle aree protette, eventualmente a pagamento, dove
sia possibile appartarsi senza il rischio di guardoni,
rapinatori e censori pubblici bacchettoni, potendo usufruire di
calma e tranquillità, oltre a condom, zabaioni energetici e per
i più attempati e deboli di reni muniti di prescrizione medica
anche Viagra e Cialis in dosi necessarie.
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RU 486 un’opportunità per cambiare la legge 194
In ritardo di anni rispetto al mondo civile anche nella
farmacopea italiana è stato registrato lo RU 486, il discusso
prodotto che induce l’aborto per via farmacologica. La Chiesa si
è letteralmente scatenata, facendo ricorso tra i tanti anatemi,
anche alla scomunica, dimenticando che l’Italia è un paese laico
e facendo somigliare il nostro paese all’Iran di Khomeini o
all’Afganistan dei talebani, ma non è di questo che vogliamo
parlare, bensì di alcuni argomenti fondamentali dei quali la
stampa, impegnata nella consueta diatriba tra laici e cattolici,
non ha trattato e sui quali viceversa è necessario meditare.
a) Il farmaco va assunto entro la settima settimana di
gestazione, per intenderci quando la donna ha pochi giorni di
ritardo e si è appena accorta della gravidanza, mentre la legge
prevede tutta una serie di ostacoli burocratici, dalla
riflessione di sette giorni ai colloqui ed alle analisi, che
costringono la paziente spesso vicino al limite dei tre mesi, in
ogni caso costantemente oltre il periodo nel quale il farmaco è
efficace. Senza un cambiamento della normativa vigente sarà come
discutere sul sesso degli angeli.
b) Il prodotto ha un costo di pochi euro e potrebbe far
risparmiare allo Stato i circa 2000 euro che rappresentano il
costo di un’interruzione di gravidanza in ospedale, essendo del
tutto inutile il ricovero della donna per tre giorni fino al
completamento dell’espulsione del materiale abortivo.(In nessuno
dei paesi dove lo RU486 è adoperato si usa questo protocollo).
c) Il vero effetto scatenante dell’aborto è dato dalla dose di
prostaglandina che viene somministrata dopo due giorni,
basterebbe questo farmaco, eventualmente associato ad un
contratturante uterino ad ottenere lo stesso risultato,come il
sottoscritto ha dimostrato da quasi venti anni, pubblicando i
risultati su riviste scientifiche internazionali. (Per chi
volesse approfondire l’argomento cfr.
ilparoliere.ilcannocchiale.it/.../le_ragioni_didella_ragione_il.html)
d) Il gravoso problema dell’obiezione di coscienza tra il
personale medico e parasanitario, che assilla e paralizza tanti
ospedali, sarebbe alleviato da tale metodica, perché è
ipotizzabile che le donne possano da sole introdursi in vagina
le candelette di prostaglandina e finalmente dell’aborto non
dovrebbero più interessarsi legislatori e preti, medici ed
assistenti sociali, facendo sì che questa scelta, difficile e
quasi sempre dolorosa, riguardi unicamente la donna e la sua
coscienza.
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Post colonialismo di rapina
Gentile dottore,
l’unica via per arginare la diaspora dell’immigrazione
dall’Africa verso l’Europa è basata sul miglioramento delle
condizioni di vita di un miliardo di disperati in fuga da terre
desertificate, rese inabitabili dai cambiamenti climatici e dal
dissennato utilizzo delle risorse naturali.
Urge un piano Marshall organizzato dai paesi ricchi del vecchio
continente, che debbono dedicare una quota del loro reddito per
inviare ingegneri, medici, volontari e personale specializzato,
ma soprattutto tecnologia per rendere di nuovo fertili i campi e
sono improcrastinabili gigantesche opere di idraulica per
imbrigliare le acque e condurle dove ve ne è urgente necessità,
al limite recuperandola dal mare e desalinizzandola.
Sono necessari cospicui capitali, ma basterebbe dedicare qualche
punto percentuale del reddito per salvare milioni di uomini e
per frenare un esodo, che avrebbe effetti devastanti per tutti.
Si tratta di una scelta obbligata in sintonia con quanto
preconizzato dal pontefice nella sua ultima enciclica, ma questi
investimenti debbono avere l’ottica di aiutare gli africani e
non di continuare a sfruttarli come in una sorta di post
colonialismo di rapina si apprestano a fare alcune
multinazionali onnipotenti ed alcuni stati, in primis Cina ed
India, che stanno acquistando pezzi di territorio, estensioni
enormi, alcune più grandi delle più grandi regioni italiane, per
organizzare culture intensive basate prevalentemente
sull’utilizzo degli ogm, al solo scopo di produrre reddito e
prodotti da esportare, lasciando agli indigeni, utilizzati con
ritmi di lavoro da schiavi, la miseria di un tozzo di pane.
Naturalmente senza investimenti che migliorino la produttività e
scegliendo i pochi terreni ad alta redditività, possibilmente in
paesi politicamente tranquilli come il Madagascar o il Senegal.
Naturalmente si tratta di una scelta dettata dal più bieco
capitalismo, agli antipodi degli interventi urgenti dei quali
abbiamo accennato prima e che aggrava ulteriormente le
condizioni di vita delle popolazioni locali.
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Lo strapotere dei computer negli scacchi
Karpov 58 anni e Kasparov 46 , hanno deciso di sfidarsi di nuovo
nel sequel del loro primo storico incontro , il più lungo ed
estenuante della storia scacchista : in palio, 25 anni fa ,
c’era il titolo di campionato del mondo , detenuto da Karpov,
presidente dei giovani pionieri dell’Urss e pupillo di Breznev.
A settembre a Valencia, dove i due hanno deciso d’incontrarsi,
c’è un conto sospeso. All’epoca la sfida fu interrotta, perché
non se ne intravedeva la fine, dopo 5 mesi e 48 partite, di cui
40 nulle. Campomanes, presidente della federazione, mandò a casa
i due il 25 febbraio 1985 e decretò che il titolo doveva restare
a Karpov. Tutti sapevano che lui aveva vinto perché era il
campione del regime sovietico e Kasparov era il giovane che non
accettava la disciplina del partito. Il mondo si divise. Chi era
il più forte Kasparov o Karpov? Il talento con il gioco
scintillante fatto di sacrifici e di varianti estreme o quello
metodico e razionale. Dal 21 al 24 settembre lo decideranno 12
partite, 4 a ritmo veloce, 8 a blitz. Oggi Karpov non gioca in
competizioni ufficiali, preso com’è dal business, mentre
Kasparov ha chiuso la sua attività agonistica nel 2005 e si è
concentrato sulla carriera politica , fiero oppositore di Putin.
Siamo certi che la sfida non attirerà più di tanto l’interesse
dei mass media, come capitò alcuni fa ad un'altra rivincita
ancora più clamorosa, tra Fischer e Spaski, quando il fuori
classe americano distrusse l’egemonia della scuola sovietica
scombussolando regole e comportamenti durante l’epocale
confronto di Reykjavík del 1972 , in piena Guerra fredda, per
poi scomparire dal mondo divenendo un mitico ectoplasma.
In questi venticinque anni trascorsi dalla mitica sfida dei due
titani della scacchiera una vera rivoluzione ha devastato il
nobile gioco con l’avvento ed il perfezionamento dei computer,
che giocano da tempo in maniera perfetta al punto da
sconfiggere, non solo nel gioco veloce, anche i più abili
campioni. Da tempo le partite che prima duravano anche
settimane, aggiornate dalla “mossa in busta”, devono concludersi
col finale rapido, perché gli analisti artificiali
sconvolgerebbero il risultato con il loro esame esaustivo delle
varianti.
Anche la preparazione del giocatore si basa oggi prevalentemente
sull’allenamento al computer, in grado di competere a diversi
livelli di efficienza e di valutare aperture, medio gioco e
finale in maniera inconfutabile. I libri di teoria vengono
scritti, non più dai grandi maestri e dai teorici, bensì da
queste onnipotenti intelligenze artificiali.
La bellezza del gioco ne ha risentito non poco ed una grossa
umiliazione è stata inflitta all’orgoglio dell’uomo, il quale
riteneva che queste macchine pensanti tutto avrebbero potuto
fare, senza mai però competere con lui in una disciplina nella
quale, oltre a memoria e calcolo, grande importanza hanno
caratteristiche propriamente umane, quali l’intuizione, la
fantasia, addirittura la capacità di correggere i propri errori.
Invece è successo e presto altri campi verranno invasi dai
computer, se verranno programmati e se lo si riterrà necessario,
pensiamo alla lettura delle radiografie e degli
elettrocardiogrammi, al riconoscimento della paternità di un
dipinto, alla composizione di un’opera letteraria o di un
componimento sinfonico nello stile di un grande autore come
Dante o Beethoven. Molti scrittori di grido si fanno già oggi
predisporre i testi dei loro racconti, che a volte diverranno
gettonatissimi best seller da programmi predisposti a ripetere
pedissequamente il loro stile. Soprattutto la musica sarà fra
poco invasa dalle creazioni di questi temibili concorrenti,
perché note ed accordi sono uno spazio determinato con un numero
enorme, ma non infinito di combinazioni, né più né meno delle
posizioni che possono assumere i pezzi sulle sessantaquattro
caselle di una scacchiera. Già oggi vediamo che numerose
contestazioni di plagio nelle note e nei testi delle canzoni
vengono giustificate con la considerazione che un compositore
moderno si vede costretto a ripercorrere sentieri già esplorati
da altri per una finitezza del campo musicale.
Sarà uno sconvolgimento al quale culturalmente non siamo
preparati, ne trarremo indubitabili vantaggi, principalmente
nelle applicazioni mediche, ma il nostro orgoglio di essere gli
unici a saper creare, emuli della divinità, subirà uno scossone
decisivo e ci farà comprendere il potere smisurato del silicio
dei circuiti e degli algoritmi in confronto alla fragilità del
carbonio dei nostri cervelli.
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Il perché dell’intolleranza
Molti intellettuali blaterano che gli Italiani, antichi
migranti, dovrebbero accogliere con fraternità i nuovi arrivati,
più degli inglesi, dei francesi o dei tedeschi che non hanno
conosciuto questa pagina buia nel loro passato.
Dopo l’Unità d’Italia nel corso di pochi decenni circa 25
milioni di Italiani sono stati costretti all’emigrazione oltre
oceano. Soltanto pochissimi sono ritornati. La stragrande
maggioranza di questi disperati proveniva dalle regioni
meridionali e lo Stato sabaudo, dopo aver combattuto il
brigantaggio con metodi militari, incoraggiò questo silenzioso
genocidio, del quale invano cercheremo notizia nei libri di
storia.
Oggi la storia si ripete all’incontrario ed ecco legioni di
disperati che vedono nelle nostre città e nelle nostre campagne
la terra promessa.
Il nostro passato di emigranti è dimenticato, seppellito nel più
profondo inconscio, complici le istituzioni, che non hanno
realizzato un museo che ci rammenti gli anni in cui eravamo
carne da macello, pronta a qualsiasi lavoro, anche il più umile
e pericoloso, quando dal porto di Napoli, per un’eternità sono
partiti i bastimenti, carichi di disperazione e di nostalgia, di
ansia di riscatto e di antica dignità.
Non vogliamo ricordare il passato, anche se sarebbe utile per
spegnere in noi qualsiasi seme di razzismo e di becero leghismo.
Oggi gli Italiani non soffrono più i morsi della fame, vestono
abiti nuovi, anche se spesso acquistati nei mercatini e vogliono
sembrare benestanti. Il ricordo della passata povertà ci rende
intolleranti. I disperati che arrivano da fuori assomigliano
troppo al nostro passato, che vogliamo rimuovere e dimenticare,
essi incarnano la fatica di sopravvivere, le difficoltà del
presente, l’incertezza del futuro.
Diverso è il discorso per gli immigrati di colore, dove giocano
difese ataviche verso il diverso basate sull’odore e su istinti
primordiali e nei riguardi dei rom, un popolo sostanzialmente
diverso dagli altri, nomade in una società stanziale e povero,
salvo poche eccezioni, in paesi che sono o vogliono apparire
ricchi.
Per affrontare i problemi dell’immigrazioni bisogna essere
generosi ed avere coraggio e lungimiranza, altrimenti saranno
guai seri, soprattutto per i paurosi e per gli avari che
verranno travolti e spazzati via.
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Festival Internazionale di Scacchi “Panza – Isola d’Ischia”
Con una punta di malinconia mi appresto a parlare del Festival
Internazionale di Scacchi “Panza – Isola d’Ischia” svoltosi
nelle sale dell’Hotel Galidon di Forio Panza, il quale ha
ereditato il torneo da me organizzato per anni.
La manifestazione che si svolgeva nella mia villa di Ischia era
principalmente un’occasione conviviale, riservata a poche decine
di partecipanti, i quali potevano giocare in un ambiente
particolare tra tuffi in piscina e piacevoli degustazioni di
spuntini e bevande ghiacciate, mentre il festival organizzato
dall’amico Miragliuolo e l’associazione giochi di Natale è stato
un importante raduno di forti giocatori, tra cui numerosi grandi
maestri, provenienti da ben 12 nazioni: Germania, Gran Bretagna,
Irlanda, Polonia, Serbia, Macedonia, Russia, India, Perù,
Lettonia e Ucraina, suddivisi in due tornei: un torneo
principale (Open A) con 30 partecipanti, e un torneo secondario
(Open B) con 37 partecipanti.
Da un punto di vista tecnico, i giocatori più rappresentativi
sono stati i Grandi Maestri Naumkin (Russia), Mejiers
(Lettonia), Bakre (India); e i Maestri Internazionali Gaponenko
(Ucraina), Dragojlovic (Serbia), Kizov (Macedonia) e Martorelli
(Italia).
Notevole la partecipazione femminile: nell’Open A, oltre alla
già citata Gaponenko, erano presenti la campionessa italiana
Under 20 in carica, Maria De Rosa, e la tedesca Manuela Schmitz,
entrambe Maestri FIDE femminili. Nel torneo B giocano invece
Valentina Tomasi e la piccola ucraina Violeta Gaponenko, di soli
9 anni.
Nutrita ed agguerrita la pattuglia dei giocatori ischitani, in
particolare nel torneo secondario.
Alla fine, dopo una lotta serrata ed avvincente ha vinto una
donna, superba ed affascinante: la maestra internazionale Inna
Gaponenko, giunta dalla lontana Ucraina, a dimostrazione che il
gentil sesso è in grado di prevalere anche in gare considerate
appannaggio degli uomini, nelle quali sono necessarie
aggressività, concentrazione, calcolo e grande intelligenza.
Deludente la prova degli italiani, soprattutto del maestro
internazionale salernitano Antonio Martorelli, giunto con
propositi bellicosi e finito al dodicesimo posto, mentre molto
valida è stata la prestazione del maestro romano Saverio Farina,
l’unico concorrente che ha partecipato a tutte le precedenti
competizioni svoltesi nell’isola verde.
Impeccabile la terna arbitrale composta da Sergio Pagano,
Claudio Miale e Peppe Bonocore, che ringrazio per avermi fornito
in tempo reale risultati e classifica.
Durante la settimana dedicata agli scacchi, sono state
programmate diverse iniziative collaterali a beneficio degli
scacchisti e dei numerosissimi accompagnatori: un giro
dell’isola in battello,un ingresso gratuito in un complesso
termale, un torneo lampo serale, una serata in pizzeria
allietata da melodie napoletane, una cena di gala.
La perfetta riuscita di questa prima edizione ha invogliato gli
organizzatori a prevedere per il prossimo anno una seconda
edizione, sempre nel periodo di inizio estate e ci auguriamo
baciata dal successo come questa conclusasi sabato.
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Arrivederci Arturo
Improvvisamente è venuto a mancare all’affetto dei suoi cari
Arturo Capasso, scrittore e giornalista, ma soprattutto uomo
buono, amato da tutti.
Laureato in Scienze politiche si era dedicato per anni alla
gestione del negozio di famiglia, uno dei più importanti della
città nel commercio dei tessuti, ma la sua passione era stata
sempre la scrittura. Le sue ricerche ed i suoi viaggi in terre
lontane erano iniziati nel 1956, quando si imbarcò su una nave
mercantile diretta verso l’India. Passò poi lunghi periodi in
Svezia ed in Unione Sovietica, dove usufruì di una borsa di
studio dell’università di Mosca. Nacquero così i suoi primi
saggi di natura sociologica e la sua fama di sovietologo, che
gli permise di compilare alcune voci per l’Enciclopedia Minerva.
Si dedicò poi attivamente al giornalismo come inviato speciale
collaborando con numerose riviste.
La sua firma compare su una miriade di testate, di respiro
nazionale come Gente e di nicchia come La Nostra Gazzetta,
l’unico periodico in lingua russa che si pubblica in Italia e
Scena Illustrata di cui è stato anche condirettore.
Parlava correttamente svariate lingue ed aveva licenziato alle
stampe vari libri e negli ultimi anni aveva raccolto i suoi
scritti in una trilogia: Cose antiche e cose nuove, Pensieri in
corso, Piano Concerto, oltre al saggio Comprendere e l’ultima
fatica Il mio Gesù.
Convertitosi al web era infaticabile nel commentare, con garbo
ed acuto spirito di osservazione, le tante sfaccettature dei
difficili tempi che viviamo.
Aveva un culto per l’amicizia da gentiluomo d’altri tempi e
mancherà ai tanti che gli hanno voluto bene ed hanno potuto
godere delle sue colte conversazioni e che da oggi saranno più
poveri e più soli.
Credeva in Dio sinceramente e la fede gli è stata di conforto in
questi ultimi tempi che un male subdolo lo aveva ghermito.
Arrivederci Arturo, ci rivedremo e continueremo per l’eternità
le nostre discussioni lì dove non esiste il tempo e gli animi
sono dediti solo alle cose belle.
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Pigrizia intellettuale
La Napoli che nessuno racconta
Vi è un’altra Napoli, diversa da quella raccontata da Roberto
Saviano, ma non meno tragica e disperata, della quale nessuno
parla. Una faccia della città dominata non dalla droga e dalla
delinquenza organizzata, quanto dal degrado civile, da giovani
senza futuro, dai riti esasperati del consumismo e dalla
disperazione.
Napoletani inquinati dalla televisione spazzatura, dal Grande
fratello e da Maria De Filippi, che idolatrano miti negativi e
li propongono incessantemente ad un pubblico privo di barriere
critiche, facendo trionfare un rude maschilismo, una virilità
antiquata e spudoratamente esposta nei suoi attributi più
eclatanti, dai tatuaggi ubiquitari ai piercing più sfacciati, un
bullismo degenerato e frotte di donne che litigano per i favori
di un tronista sultano.
Si viene così a creare un nuovo immaginario popolare, il quale
sostituisce l’antica oleografia di pizza e mandolini con canzoni
neomelodiche fracassone e sguaiate, folle squattrinate che si
danno appuntamento nei megacentri commerciali, novelli agorà,
dove si guarda e non si compra, pseudo stelle delle televisioni
locali che si credono divinità e folle di giovani sfaccendati
delle immense periferie dormitorio passeggiare senza sosta e
senza metà con le loro divise tutte eguali fatte di jeans
sdruciti, borchie pacchiane e camicette multicolori, senza
accorgersi del tanfo della monnezza materiale e morale che li
avvinghia in una stretta mortale.
E nessuna voce che si sollevi a denunciare questo silenzioso
epicedio di una città antica capitale, sprofondante ogni giorno
di più in un gorgo senza fondo che sdegnoso si rifiuta di
inghiottirla.
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Un flagello ubiquitario: i writers
Da tempo le mura private e pubbliche di tutte le città italiane
sono umiliate da scritte demenziali e disegni osceni e lo stesso
dicasi delle carrozze ferroviarie, delle statue e dei monumenti
anche i più famosi, imbrattati da vernici colorate, che
penetrando in profondità creano danni irreversibili. Una
situazione intollerabile, sconosciuta all’estero, dove tali
scempi non solo non sono tollerati, ma nemmeno immaginabili.
Alcuni cattivi maestri, che si credono critici d’arte, hanno in
passato tessuto le lodi di questa arte povera ed espressiva ed
hanno cercato di spiegarci che si trattava di pittori
incompresi, una fandonia alla quale stesso loro non credevano,
ma blateravano in giro queste idiozie per mostrarsi alla page e
anticonformisti.
Questa scriteriata devastazione deve essere fermata al più
presto e per farlo, in attesa di una auspicabile normativa che
preveda pene esemplari per i writers, basterebbe applicare la
legge, imputando i trasgressori di danneggiamento aggravato e,
quando molto spesso agiscono in gruppo, prevedere anche
l’ipotesi dell’associazione a delinquere, che permette
l’arresto, un escamotage ben noto alla magistratura quando vuole
eseguire dei provvedimenti con grande risalto mediatico.
Non dovrebbe essere difficile raggiungere lo scopo, gli
avversari da battere sono semplicemente dei giovani disadattati,
non certo pericolosi criminali, per cui una eventuale sconfitta
contro tali scalcagnati personaggi rappresenterebbe per le
istituzioni una cocente sconfitta e la lampante dimostrazione di
non saper gestire nemmeno l’ordinaria amministrazione.
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Vincere, una torbida pagina di storia
Accolto tiepidamente dalla critica italiana, Vincere, di Marco
Bellocchio sulla stampa specializzata straniera è stato
viceversa salutato come uno ottimo film in grado di gareggiare
alla pari con i favoriti per la conquista del palmares.
La trama rende conto di un aspetto poco noto della nostra
storia, un amore giovanile di Benito Mussolini con Ida Dalser,
sancito da un matrimonio civile e dalla nascita di un figlio
riconosciuto dal duce. Un episodio sul quale dubito che gli
storici abbiano posto il loro imprimatur definitivo e che fu
trattato alcuni fa in un servizio televisivo che fece grande
scalpore.
La narrazione scorre come un gigantesco affresco con i toni di
uno struggente melodramma, intercalato da immagini di repertorio
celebri, dalle cruente battaglie della prima guerra mondiale
alle inqualificabili scorrerie delle squadracce in camicia nera,
dai discorsi del duce dal balcone di Palazzo Venezia alla firma
del Concordato.
L’interpretazione di Giovanna Mezzogiorno è semplicemente
superba, sia quando ci mostra ripetutamente, completamente nudo,
il suo esile corpo, sia quando lavora magistralmente con un
volto espressivo ed un uso degli occhi da cinema muto.
All’inizio vi sono numerosi, quanto gratuiti, amplessi tra un
giovane ed aitante Benito e la Dalser, conditi da sonori ed
imbarazzanti mugolii di orgasmi, a rafforzare la fama
iperviriloide del futuro dittatore. Poi la inaspettata
gravidanza, il matrimonio, la nascita del bastardello dal nome
altisonante, riconosciuto, ma non gradito.
La donna non rinuncerà al suo amore ed ai suoi diritti con una
tenacia ed una perseveranza che la condurranno al manicomio,
sana di mente, pazza solo della sua passione sviscerata per un
uomo che non la desiderava più e divenuto potente decise di
annientarla.
I fotogrammi scorrono solenni come in una funesta odissea nella
quale ambizione e solitudine ci riportano ad un’Italia che pochi
oramai possono dire di aver conosciuto di persona. Ci mostrano
la dolorosa parabola di una donna che, nell’illusione di un
amore finito, ebbe il coraggio di combattere da sola contro il
potere, trascinando anche il figlio nello stesso triste destino.
Moriranno infatti entrambi tra le mura di un manicomio, Ida nel
1937, Benito nel 1942.
Impagabili sono le scimmiottature che il figlio fa del celebre
genitore, mimando la sua grottesca retorica, fatta di gesti
ridicoli e di una mimica folle e disarticolata; sembra quasi di
rivedere il divino Totò in una delle sue inimitabili imitazioni.
Penose sono invece le scene di vita manicomiale dove le
sventurate recluse, nude e legate ai loro lettini, sono
costrette ad un’esistenza misera e senza speranza di redenzione.
Un film che ci restituisce un Mussolini inedito, spietato e
crudele, mentre la sua fama di maschio superdotato ne esce
visibilmente rafforzata, anche se non ha mai subito incrinature,
al punto che le compagne della infelice Ida le chiedevano
curiose quanto fosse grosso l’uccello dell’infaticabile
condottiero.
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sull’obiezione di coscienza
Gentile dottor Pepe,
vorrei aggiungere alcune considerazioni nel dibattito scaturito
sull’obiezione di coscienza prevista dalla legge 194. In Italia
l’applicazione della legge è di fatto paralizzata dall’altissima
percentuale di obiettori sia tra i medici che nel personale
parasanitario, una facoltà adoperata spesso per motivi
utilitaristici. Nel resto del mondo l’interruzione di gravidanza
può essere praticata non solo in ospedale, ma anche in clinica
privata, per cui l’obiezione di coscienza, dovunque molto
frequente, non influenza minimamente i tempi di attesa.
Tra le modifiche, alcune molto urgenti, da apportare alla legge,
vecchia di oltre trenta anni e frutto all’epoca di un ipocrita
compromesso tra cattolici e laici, si impone perciò la
possibilità di abilitare all’esecuzione delle interruzioni anche
tutte le strutture private che ne facciano richiesta.
Ne guadagnerebbero tutte le donne che vivono l’esperienza come
un trauma profondo, e sono la maggioranza, aggravato da
interminabili attese, da interrogatori inquisitori e da
un’atmosfera poco serena in momenti particolarmente delicati.
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Angeli e demoni, un trionfo annunciato
Preannunciato da mesi come il film dell’anno, Angeli e demoni
non ha tradito le attese e da giorni sta letteralmente sbancando
il botteghino con cinema affollati come ai bei tempi ed un
trionfo completamente meritato.
Il film con la regia di Ron Howard e l’interpretazione di Tom
Hanks, un binomio perfetto, si avvia a superare gli incassi del
Codice da Vinci, del quale ricalca gli stessi ingredienti di
successo, suspence dal primo all’ultimo minuto,contaminazione di
storia e fantasia, lotta tra il bene ed il male ed una trama
anticonvenzionale in grado di provocare vibrate proteste da
parte delle gerarchie vaticane.
La pellicola è ricavata da un best seller di Dan Brown, lo
stesso autore del Codice da Vinci e si svolge nella fascinosa
cornice di una Roma rinascimentale e barocca, con le sue chiese
grandiose ed i suoi capolavori artistici, i quali scorrono come
in un’ideale visita guidata densa di colpi di scena, che
aumentano gradualmente la tensione e siamo certi apporterà un
cospicuo vantaggio turistico alla Città eterna, la quale vedrà
nei prossimi anni fiumane ancora più incontenibili di quelle
attuali ripercorrere i luoghi dove si volge la trama di Angeli e
Demoni.
Il messaggio del film è moderato e conciliatorio riguardo ai
complessi rapporti tra scienza e religione, tra fede e ragione,
dicotomie non risolte dalla modernità e che creano dubbi ed
incertezze all’uomo dei nostri giorni. La stessa lotta tra bene
e male sempre presente in ogni storia lascia perplesso lo
spettatore e non gli permette di prendere chiaramente posizione.
La narrazione si svolge mentre, simultaneamente, al Cnr di
Ginevra viene rubato da una setta massonica, gli Illuminati, un
dispositivo contenente una scintilla primordiale, un frammento
di antimateria in grado di produrre una gigantesca deflagrazione
ed a Roma si sta svolgendo un conclave per nominare un nuovo
pontefice, essendo morto, e si scoprirà assassinato, il
precedente, che fa pensare per molte circostanze a papa Luciani.
Nel frattempo vengono rapiti i quattro cardinali favoriti alla
successione e gli Illuminati minacciano di far esplodere la
Città del Vaticano per vendicare l’antica offesa patita da
Galileo.
Durante la sede vacante le principali funzioni di supplenza sono
svolte da un giovane camerlengo, pupillo del papa scomparso, che
egli con amore filiale chiamava padre, volendo intendere un
genitore nel senso biblico e non spirituale, né più né meno di
come Noemi appella papi il nostro superdotato Berlusca.
Viene chiamato per risolvere la difficile situazione il
professor Langdon, interpretato da Tom Hanks, il superesperto di
simbologia e sette segrete, laico e miscredente inveterato.
Comincia una lotta contro il tempo per evitare la catastrofe con
una serie di colpi di scena continui al di fuori di ogni logica
storica e scientifica, ma non per questo meno entusiasmanti per
lo spettatore, il quale rimane avvinto fino all’imprevedibile
finale.
Un grande film che farà discutere a lungo teologi e ben pensati,
ma che ci riconcilia con il grande cinema.
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Il nostro turismo: una risorsa incommensurabile
Difendiamo un tesoro indifeso
In un momento di crisi economica mondiale e di difficoltà per le
nostre esportazioni, disponiamo di una immensa risorsa da
tutelare e da sfruttare con intelligenza e lungimiranza: il
turismo, che quest’anno ci darà grosse soddisfazioni, perché
moltissimi italiani rinunceranno al costoso viaggio all’estero
per godere delle molteplici attrattive offerte dall’Italia, dal
mare alla montagna, ma soprattutto le nostre città zeppe di arte
e di storia.
Dopo aver dilapidato per decenni questo ingente patrimonio,
cementificando senza criterio le nostre inimitabili coste ed
inquinando i nostri mari, dobbiamo adoperarci ad offrire servizi
qualificati a prezzi competitivi, ma soprattutto dobbiamo
impegnarci tutti, cittadini ed autorità, nella difesa di un
tesoro che tutto il mondo ci invidia e rappresenta
un’inestimabile fonte di guadagno per le future generazioni.
La diffusione della moda del bed e breakfast ha permesso un
sensibile abbattimento dei costi di un soggiorno nelle nostre
città e nello stesso tempo costituisce una fondamentale risorsa
per molte famiglie, che hanno così modo di integrare i propri
introiti, fronteggiando con più risorse le difficoltà della
crisi economica.
Questo inizio della stagione turistica ha creato numerosi
allarmi per la tutela dei nostri monumenti più famosi, sempre
più spesso lasciati in ostaggio di folle debordanti di
visitatori, incuranti del rispetto delle più elementari regole
del vivere civile.
Piazza San Marco ha visto improvvisati bivacchi, siti
archeologici come Pompei o i Fori romani sono stati sommersi da
cartacce impregnate ancora dell’odore di robuste frittate,
statue di uomini illustri sono state ripetutamente imbrattate da
spray micidiali e scritte demenziali, monumenti e fontane più o
meno famosi sono divenute vette da scalare per torme di
ragazzini arrampicatori e piscine di fortuna per gitanti
accaldati.
L’assalto più insistente ha riguardato Fontana di Trevi: prima
le scriteriate performance pseudo artistiche, quindi le
invasioni barbariche di folle incontenibili; dopo l’acqua tinta
di rosso siamo all’appropriazione fisica dell’opera, il tutto
naturalmente sotto gli occhi indifferenti dei vigili urbani.
Purtroppo sia i cittadini che le autorità preposte a vigilare
sul loro comportamento non capiscono l’interesse a proteggere i
propri tesori, che racchiudono la loro memoria storica e
rappresentano una vitale risorsa economica.
Sarebbe auspicabile una campagna di sensibilizzazione da parte
dello Stato che partisse dalle scuole, dove viceversa si
abolisce o si umilia lo studio della storia dell’arte. In attesa
che questa necessaria campagna di evangelizzazione si attui non
resta che aumentare la vigilanza da parte di personale
qualificato e motivato.
I numerosissimi stranieri in visita alle nostre città d’arte,
davanti all’assenza quasi completa di controlli e di disciplina
subiscono un contagio imprevedibile e così possiamo osservare
tranquilli giapponesi, miti scandinavi, severi anglosassoni,
organizzati russi ed americani abbandonarsi al brivido della
trasgressione, salendo sul bus senza biglietto, cercando di
evitare le file, schiamazzando senza ritegno ad ogni ora del
giorno e della notte.
Stiamo divenendo una meta di turismo allegro e disorganizzato,
dove tutto è permesso, una vera e propria vacanza dalle regole,
che umilia la nostra storia e la nostra dignità. Da tempo non
siamo più un popolo di santi e navigatori, bensì di osti e
bottegai, ma(o tempora o mores)non deve bastarci che circoli
tanto denaro.
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Proposte del governo per nuove carceri
Il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria
Franco Ionta ha presentato il piano del governo per far fronte
all’emergenza carceraria, che da tempo ha superato
abbondantemente il livello di guardia straripando in un marasma
ingovernabile con un numero di reclusi superiore di oltre
ventimila unità la capienza massima. La notizia viene accolta
con soddisfazione con la speranza che trovi quanto prima
attuazione e che l’opinione pubblica, presa da altri problemi,
non si dimentichi dell’urgenza della questione. A giorni, mentre
gran parte della popolazione partirà per le vacanze, nelle
celle, dove stipati come bestie sono ammassati i detenuti, la
temperatura supererà costantemente i 40°, gli stessi ambienti,
privi di vetri alle finestre, nei quali durante l’inverno si
gelava dal freddo.
Gran parte delle strutture carcerarie italiane sono fatiscenti e
collocate in antichi monasteri, conventi o seminari, come se lo
Stato avesse volto delegare all’aura di sacralità di quei luoghi
il compito, inevaso, di influire positivamente sulla
rieducazione e sul recupero dei reietti.
Né più né meno di ciò che è successo a Napoli nello stridente
contrasto tra il nome altisonante di alcune strade e lo
squallore che le circonda, indirizzi beffardi a Secondigliano
per abitanti costretti a vivere gomito a gomito con la
criminalità organizzata. La più grande piazza per lo spaccio
della droga d’Europa che confina con Il posto delle fragole o Il
giardino dei ciliegi, mentre le vedette della camorra si
stagliano prepotenti in via La certosa di Parma o I racconti di
Pietroburgo. A Ponticelli, altro Bronx invivibile, si passeggia
in strade desolate che richiamano un lontanissimo mondo di
favola da via Walt Disney a via Marilyn Monroe o viale Fratelli
Grimm. Come se i nostri incauti amministratori avessero voluto
affidare ad un’improbabile toponomastica il compito improbo di
rendere quei luoghi inospitali, vivibili e civili.
Tra le novità del piano vi è anche la proposta di utilizzare
delle navi, attraccate nei porti, come carceri galleggianti. Una
soluzione che avrebbe il vantaggio di essere rapidamente
esecutiva. Dopo aver sfruttato per tanti anni le isole, da
Procida all’Asinara, senza mai raggiungere la fama funesta di
Alcatraz, perché non seguire questa linea solo apparentemente
rivoluzionaria, essendo stata già prescelta da altre nazioni.
Anche l’ipotesi di far lavorare i galeotti nei lavori di
ristrutturazione delle celle solo a prima vista può apparire
romantica, tenendo conto delle notevoli valenze educative.
Ma l’idea più dirompente è quella basata sulla vendita delle
vecchie e famigerate strutture penitenziarie, situate spesso nel
centro della città, a società immobiliari decise a trasformarle
in alberghi lussuosi o in centri commerciali, collaborando in
cambio alla costruzione di nuove carceri con criteri di
efficienza e modernità.
Una soluzione vincente che permetterà un giro dell’orrido,
ripercorrendo i padiglioni di Poggioreale, un via vai di
pellegrini a Regina Coeli, dove Giovanni XXIII recitò messa o
nella cella di Vallanzasca a San Vittore, nella quale il
fascinoso bandito pasteggiava a champagne.
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L’ultima frontiera del copyright
Il copyright compie trecento anni entrando in una crisi comatosa
per la quale non si intravede un rimedio efficace, mentre le
griffe sono da tempo in grave difficoltà per l’invasione di una
quantità crescente di vestiti, borse, scarpe e profumi di marca
clonati, in gran parte in Oriente e distribuiti poi in Occidente
a prezzi stracciati.
Un affare di decine, se non centinaia di miliardi di euro ogni
anno, che finisce in larga misura nelle tasche della delinquenza
organizzata.
Volendo circoscrivere l’analisi a libri, dischi e film possiamo
far risalire l’origine del fenomeno alla nascita e diffusione
delle fotocopiatrici e dei registratori audio e video, ma
l’esplosione della pirateria si è avuta con internet, quella
terra di tutti e di nessuno, che non tollera regole e
restrizioni.
L’ultimo album degli U2 “No line on horizon” è finito
misteriosamente sul web due settimane prima della sua
pubblicazione ed eguale sorte è spettata al film “X - Men le
origini: Wolverine” scaricabile in rete 20 giorni prima del
debutto.
L’industria discografica è in prima linea in questa disperata
battaglia in difesa del diritto d’autore ed essendo quasi
impossibile arrivare ai singoli ladri di suoni, ha deciso di
attaccare legalmente i siti peer to peer, che consentono lo
scambio dei file ed i grandi gestori telefonici proprietari
delle strutture dove si consuma il delitto…, in Italia sul banco
d’accusa sono Telecom, Infostrada e Fastweb.
Corte di giustizia europea( Dove, quando, come, perché?)
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Spes ultima dea
La Corte di giustizia europea è l’organismo internazionale che
cerca di tutelare i diritti dell’uomo. Essa esiste da 50 anni ed
ha già emesso 10.000 sentenze.
Ad essa il cittadino, che ritiene sia stato leso un suo diritto,
può ricorrere direttamente senza necessariamente essere
assistito da un legale, purché il procedimento a cui si
riferisce abbia esaurito i gradi del processo con sentenza
definitiva.
La domanda va presentata entro 6 mesi dalla conclusione del
giudizio.
La Corte di Strasburgo nasce nel 1959 e comprende 47 Stati
membri tenuti al rispetto della Convenzione; essa rappresenta
l’ultima speranza per godere di una tutela giuridica per i
diritti umani violati ed ha visto negli ultimi anni crescere in
maniera esponenziale le richieste di giustizia ed a fronte dei
10.000 verdetti emessi, ha dovuto esaminare 332.000 pratiche.
Oltre la metà dei ricorsi sono stati presentati contro 4 Stati:
Federazione russa, Turchia, Romania ed Ucraina, mentre l’Italia
è stata ripetutamente condannata per la lungaggine dei processi,
perché la legge Pinto prevede degli indennizzi risibili, tali da
indurre i cittadini esasperati a ricorrere a Strasburgo per
vedersi assegnare un risarcimento maggiore. Tra le altre
principali violazioni contestate al nostro Paese vi sono quelle
riguardanti il diritto alla proprietà privata e nel campo penale
il contestato articolo 41 bis, che prevede la detenzione in
regime di isolamento dei condannati per reati gravi come
l’associazione mafiosa con pesanti rischi per l’equilibrio
psichico dei carcerati, una normativa assente in altre
legislazioni, la quale ha fatto gridare a vari associazioni il
nome di tortura. Vi è inoltre una situazione di invivibilità nei
nostri penitenziari, dovuta principalmente al sovraffollamento,
che ci pone agli ultimi posti del mondo civile, alla pari di
Paesi più volte condannati come la Turchia e la Russia.
Molte nazioni, anche insospettabili, come la Svezia o l’Olanda,
sono state più volte condannate per misure contro l’immigrazione
clandestina, uno degli altri grossi problemi con il quale
l’Europa deve confrontarsi.
Purtroppo l’entusiasmo del dopoguerra e della dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo si sono affievoliti ed è
necessario riaffermare solennemente e praticamente il rispetto
di tali diritti, per cui sarebbe necessaria una vasta campagna
di sensibilizzazione dell’opinione pubblica ed una conferenza
programmatica di alto livello tra gli Stati europei per
rilanciare alcuni principi basilari di tutela di quei valori
irrinunciabili per gli uomini protagonisti del XXI secolo.
Gian Filippo della Ragione
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La cecità
La più terebrante delle maledizioni
La cecità è il più grave flagello che possa colpire l’uomo,
anche nell’animale essa rappresenta una condizione devastante,
ma la natura, preveggente, ha previsto, dopo breve intervallo,
la morte, mentre nella nostra specie la pietà fa proseguire una
vita non più degna di essere vissuta.
La scienza fino ad oggi non è stata in grado di trovare un
valido rimedio e siamo ancora lontani dal giorno in cui si
troverà una soluzione risolutiva.
L’utilizzo delle cellule staminali per reintegrare i danni alla
retina e la creazione di una minuscola telecamera in grado di
inviare al cervello gli stimoli visivi sono lodevoli filoni di
ricerca, purtroppo ancora in fase embrionale e bisognevoli di
cospicui investimenti, che le istituzioni e le università dei
paesi ricchi non elargiscono volentieri, perché la cecità
colpisce prevalentemente gli abitanti di nazioni povere.
Nell’attesa che la medicina sia capace di venire in soccorso di
questi sventurati, alcuni palliativi potrebbero essere
facilmente escogitati per rendere più tollerabile la vita di chi
è colpito da questa terribile menomazione.
Una delle cause più diffuse di cecità è provocata in Africa
dall’oncocercosi, un’infestazione che colpisce le popolazioni
dimoranti vicino ai fiumi ed in un continente in agonia alla
disperata ricerca dell’acqua gran parte della popolazione vive
sulle sponde dei pochi fiumi non ancora in secca. Sarebbe
relativamente facile per la ricerca farmacologica ideare dei
medicinali, anche di basso costo, idonei a sconfiggere queste
così diffuse patologie, ma i potenziali utenti sono quasi tutti
indigenti ed in un mondo che segue solo le egoistiche leggi del
profitto le aspettative di questi infelici non trovano ascolto.
Anche la cataratta, che in Occidente si risolve con un
intervento di routine di pochi minuti, negli sperduti villaggi
sub sahariani costringe al buio perenne centinaia di migliaia di
uomini, che non godono di alcuna assistenza sanitaria. Il Mali
ha il tasso di cecità più alto del mondo con il 27% della
popolazione con problemi oculistici, aggravati da carenze
alimentari e precarie condizioni climatiche, un esercito
silenzioso costretto a vegetare tra le tenebre.
Tantissimi ciechi riescono a sopravvivere grazie ad un aiuto
inconcepibile ai nostri occhi, che gridiamo scandalizzati ad una
subdola forma di schiavismo: al posto e ben più efficienti dei
cani guida vengono utilizzati dei bambini, a volte parenti o più
spesso venduti dalle famiglie per questo triste ufficio. Questi
fanciulli, perdono così la loro infanzia, divenendo i silenziosi
ed affidabili compagni del non vedente loro affidato, mangiano e
dormono con lui, lo accompagnano dappertutto per le strade a
chiedere l’elemosina o nella moschea per pregare. Questo triste
lavoro che esclude dalla scuola e dal gioco rientra nelle
consuetudini di molte popolazioni africane che, a differenza
delle società basate solo sul denaro, le quali spesso
considerano vecchi e malati una inutile zavorra, ritengono gli
anziani una grande ricchezza, perché depositari della storia e
delle tradizioni, tramandate a voce, per cui è normale
consuetudine per tutta la famiglia essere al loro servizio.
Il bambino guida il cieco tirandolo con un bastone, una immagine
antica da parabola evangelica, che richiama a viva voce lo
splendido quadro di Brueghel conservato nel museo di
Capodimonte, il quale immortala sulla tela la dolente fissità
dello sguardo verso l’alto e l’artificio del bastone, ma i suoi
ciechi ruzzolano l’uno sull’altro…,mentre questi fanciulli
africani rappresentano una bussola affidabile.
Da noi questi pietosi angeli custodi sono sostituiti da fedeli
cani specializzati e negli ultimi tempi sono stati sperimentati
anche i pony. Pochi sanno quanto impegno e quanto denaro siano
necessari per istruire un cane prima che possa essere affidabile
e vi è da meravigliarsi, in un epoca di elettronica e gps, che a
nessuno scienziato sia venuto in mente di costruire un bastone
elettronico in grado di sostituirsi a questi accompagnatori
viventi, siano essi umani o animali.
Sarebbe una meritoria scoperta degna del Nobel, in ogni caso al
generoso studioso andrebbe il plauso incondizionato di tanti
infelici e l’imperitura riconoscenza di tutti gli uomini di
buona volontà.
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Requiem per il Karama
Distrutta la leggendaria barca del Comandante Achille Lauro
Uno scontro con una pala meccanica ed il Karama, il leggendario
veliero di Achille Lauro, è andato in frantumi e con lui tanti
ricordi nostalgici legati a questo titanico personaggio che
attende ancora, paziente, una rivalutazione storica completa
fino ad ora negata per l’ottuso ostruzionismo di una sinistra in
avanzato stato di decomposizione.
Tanti aneddoti su questa superba reginetta dei mari mi sono
stati raccontati mentre compilavo il mio libro sul Comandante
“Achille Lauro superstar”(consultabile su internet) ne ho scelto
un paio che ci restituiscono il ritratto di un uomo genuino
amante delle bellezze della natura e della vita.
Achille, quando compariva in pubblico amava vestire sempre con
grande eleganza, profumatissimo, in doppio petto con
l’immancabile fazzoletto a triangolo nel taschino, tutto firmato
dalla camicia alle mutande di seta preziosa, siglate con le
iniziali. Spesso si cambiava più di una volta da capo a piedi,
se doveva partecipare a diverse cerimonie.
D’estate questa regola era stravolta e volentieri egli amava
vestirsi in maniera casual, come solo i veri ricchi possono
permettersi senza scadere di tono.
Con la sua barca, il Karama, amava veleggiare lungo la costa
azzurra, con a bordo 11 marinai e l’affascinante Eliana. Quando
scendeva a terra gli bastavano un paio di rumorosi zoccoli, un
calzoncino ed una canottiera colorata, oltre ad un basco messo
di tre quarti che gli donava una certa aria francese. Spesso
comprava personalmente il pesce, mostrando grande competenza
nell’esaminare il colore delle scaglie e la lucentezza degli
occhi. Scambiato per un cuoco, i negozianti si meravigliavano
quanto assomigliasse al suo padrone: il mitico Comandante.
Questa divisa poteva forse andare bene per il mercato, un po’
meno per fare acquisti da Cartier, ma il nostro eroe, avendo
adocchiato nella vetrina uno scintillante monile, che riteneva
potesse essere degno di adornare il seno prosperoso della sua
bella, non esitò ad entrare nel favoloso negozio per chiederne
il prezzo. I commessi furono incerti se fosse il caso di
rispondere ad un personaggio così poco raccomandabile, ma alla
fine, per dovere di ufficio, sciolsero il quesito: 95 milioni.
“E’ un po’ caro, ma se me lo date per 90 milioni lo prendo”.
Ancora più meravigliati dalla proposta, i commessi consultarono
il direttore, che sdegnato esclamò: “Cartier non fa sconti!”.
Lauro non batté ciglio e tornò sulla sua barca .
Gli impiegati della esclusiva gioielleria raccontarono divertiti
l’episodio a più di un cliente e rimasero di sasso, quando uno
di questi, un noto camorrista in libera uscita, identificò nel
canuto vegliardo il Comandante, da lui incontrato poche ore
prima sul molo.
Il direttore si affrettò a far pervenire a Lauro la preziosa
collana impacchettata con cura presso il Karama, con un fascio
di fiori per la signora ed una lettera di scuse, in cui si
spiegava che il prezzo era naturalmente 90 milioni, da pagare
con comodo.
Il vecchio capitano sorrise sornione mentre cingeva orgoglioso
la collana al collo della sua amata amante; nel pomeriggio poi
da Napoli il fido Manfellotto, con un bonifico internazionale,
provvide a saldare l’improvviso capriccio del suo padrone.
Michele Cappiello, motorista del Karama, lo splendido veliero
privato di Lauro, rievoca la bonaria severità che regnava a
bordo, ove l’ordine e la pulizia erano imperativi categorici da
rispettare.
Il grande capo voleva che tutti gli ottoni luccicassero a furia
di olio di gomito. L’equipaggio, per lavorare di meno, aveva
escogitato di salvaguardare tutta la superficie da lucidare con
dei panni di copertura, da mettere la sera e togliere al
mattino, ma non aveva calcolato le sveglie antelucane di don
Achille, il quale, scoperto lo stratagemma, volle punire i
marinai per la loro ingenua furbizia.
“Qual è la vostra cena questa sera?”
“Un uovo sodo soltanto!”
“Bene mangerete mezzo uovo a testa!”
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A tu per tu con Mike
Una memorabile partecipazione a Rischiatutto
Milano, 11 maggio 1972 ore 21, sono passati meno di quaranta
anni, ma al sottoscritto sembra ieri, quando, spavaldo laureando
in medicina, partecipai alla trasmissione Rischiatutto
presentata da Mike Buongiorno assistito dalla bella Sabina
Ciuffini.
Avevo ventiquattro anni e credevo di avere tutto il mondo ai
miei piedi dopo aver superato brillantemente una doppia serie di
selezioni, la prima a Napoli con una raffica di 200 domande di
cultura generale e la seconda a Milano, dove si simulava una
gara in piena regola al cospetto del mito vivente, con tanto di
pulsante per scegliere sul tabellone con 6 materie i quiz e le
domande finali di raddoppio in cabina.
Nel primo test, che comprendeva i quesiti più astrusi, da quando
una lettera diventa pacco alle commedie minori dell’Ariosto,
ottenni una prestazione eccellente da sbalordire gli stessi
esaminatori, i quali dissero che avrei subito partecipato alla
seconda prova, nella quale fui particolarmente fortunato, perché
scelsero le domande di una vecchia puntata, che ricordavo
perfettamente, per cui sbaragliare gli avversari non richiese
alcuna fatica.
Mike dopo la trasmissione simulata mi disse che ero stato
prescelto ed a breve avrei partecipato, anzi vista la mia
prestazione mi confidò che avrebbero cercato di favorirmi,
mettendo sul tabellone qualche argomento che avevo indicato tra
i preferiti e scegliendomi degli avversari non irresistibili. Vi
era solo un problema sulla materia da me prescelta: la storia
della medicina, essendo attinente alla mia futura professione;
risposi che potevano sceglierla loro tra un ventaglio di una
ventina, dall’atletica leggera alla geografia, dalla letteratura
alla storia di Napoli. Alla fine ne fu prescelta una originale:
i premi Nobel, una richiesta da parte di Mike che accolsi senza
problemi.
Attesi trepidante alcuni mesi la convocazione ed all’arrivo del
telegramma che indicava il giorno della gara mi sembrò di
toccare il cielo con un dito, ma purtroppo mia madre, da tempo
malata, si aggravò all’improvviso ed io non mi sentii di
lasciarla sola ed inviai un telegramma dando forfait. Fu l’unica
volta nella storia del Rischiatutto che venne chiamata
all’ultimo momento una riserva.
Mike puntava molto su di me e dopo alcune settimane mi telefonò
personalmente per chiedere di partecipare all’ultima puntata in
assoluto della stagione, confidandomi che la ripresa del
programma in autunno era incerta ed avrei perso un’occasione
d’oro.
Mia madre, che si era in parte ripresa, mi invogliò a partire ed
io con due delle mie sette zie, con l’ispettore Lombardi,
vecchio amico di famiglia e con Elio Fusco, fidato amico
d’infanzia, salii sul treno.
La mattina della gara registrai uno speciale Rischiatutto per la
Rai di venticinque minuti nel quale mi vennero fatte una serie
di domande, in particolare perché avevo scelto i premi Nobel
come materia di base e come esercitavo la mia memoria.
Spiegai che si rammentano con facilità solo le nozioni che ci
interessano, per cui è necessaria una grande curiosità culturale
per poter ricordare agevolmente, inoltre bisogna dedicare
costantemente molte ore al giorno allo studio, un’abitudine da
me praticata sin dagli anni del liceo, dove avevo le materie
preferite nelle quali ero imbattibile, mentre ero impacciato in
matematica e negato per le lingue straniere, che consideravo
aliene, amando solo di parlare il vernacolo o al massimo
l’italiano. L’unico exploit culturale fu la mia partecipazione,
prima della maturità, in rappresentanza della mia scuola, al
concorso nazionale per il miglior tema su un argomento
letterario, dove ottenni il primo premio con relativo articolo
su alcuni importanti giornali.
Simulai poi per gli ascoltatori un giochetto con il quale
sbalordivo solitamente gli astanti in occasione di balletti e
feste varie: mi facevo dare il nome di un oggetto (pentola,
sedia radio, fiore, automobile ecc.) da ognuno dei presenti e lo
facevo annotare da un volontario in veste di notaio, fino ad un
totale di 40 – 50. Quindi tra la meraviglia generale li ripetevo
dal primo all’ultimo o viceversa, inoltre ero in grado di dire
l’oggetto n 24 o 35. Vi è un piccolo trucco, che vi rivelerò in
un’altra occasione, ma ci vuole anche una memoria robusta se non
eccezionale.
In un primo momento dovevo sfidare il campione Paolini, un
barbiere al quale in caso di sconfitta avrei offerto in
olocausto barba e capelli, infatti in quel periodo esibivo una
chioma fluente ed una cespugliosa vegetazione pilifera sulle
guancie da far esclamare a Mike, quando comparsi al suo
cospetto:” Ecco l’uomo delle caverne”.
Il ritardo nella mia partecipazione dovuto alla malattia di mia
madre mi fece viceversa incontrare con un modesto campioncino,
che addirittura nella tenzone al tabellone finì sotto zero e non
potette partecipare (caso unico nella storia del Rischiatutto)
alle domande di raddoppio ed una simpatica e procace giornalista
sportiva con la quale feci il mio ingresso mano nella mano. Il
celebre presentatore esclamò:” Entrano i fidanzatini”, mentre la
mia cortese accompagnatrice si giustificò con la scusa che
volevamo solo darci coraggio. Lesse nel futuro perché tra noi
due scoppiò una scintilla e nonostante lei fosse in procinto di
convolare a nozze ed io avessi ben due fidanzate ufficiali, ci
rincontrammo in campeggio a Marina di Doronatico e furono notti
indimenticabili.
Lo svolgimento della trasmissione perde molto raccontandola
senza l’ausilio della visione, per cui rimando chi volesse
vederla e chi è curioso di come si concluse ad andare sulla
sezione video del mio sito www.guidecampania.com/dellaragione
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Una entusiasmante gara di braccio di ferro
Capodanno del 1989, mentre caduto il muro di Berlino il mondo
conosceva una nuova era, il sottoscritto, con la sua famiglia,
assaporava il fascino esotico di una vacanza al mare, al sole
dei tropici, quando in Italia imperversava il vento e la
pioggia.
La meta prescelta il villaggio Valtur Les Palativie in Costa
d’Avorio, un posto da sogno dove passammo quindici giorni
indimenticabili tra bagni in acque incontaminate, pranzi
pantagruelici con annesse libagioni, balli sfrenati fino
all’alba e quotidiane gare sportive, dal nuoto al calcetto,
dalle bocce al braccio di ferro. Ed è proprio di queste ultime
due competizioni che voglio brevemente raccontarvi.
Io partecipavo a tutte le competizioni, unica eccezione miss
topless per mancanza di attributi. Nel nuoto venivo
costantemente superato da giovani siluri ed anche, a volte da
avvenenti ondine, nel calcio inesorabilmente dribblato e nel
tennis surclassato, unica soddisfazione un secondo posto nella
gara di bocce miste in coppia con una valchiria, che mirava al
bersaglio con teutonica precisione.
Grande attesa vi era poi per la sfida di braccio di ferro, che
si svolgeva dopo cena nell’anfiteatro tra una folla plaudente,
un tifo da stadio e le note del film di Stallone Over the top.
Vi era una competizione tra ultra quarantenni ed un trofeo
assoluto. Scelsi di tentare la sorte nel torneo principale
dotato di un cospicuo premio in denaro, rinunciando ad una coppa
sicura, ma a casa, vinte a scacchi o a poker, ne ho talmente
tante da non avere più spazio.
Facevo affidamento non tanto sulla residua forza dei bicipiti,
che da tempo si era affievolita, quanto su un’abilità tecnica di
vecchia data e sulla notevole lunghezza del braccio: il trucco
infatti consiste nel creare una leva più alta dell’avversario,
cercare di fargli ruotare la mano verso il basso e poi il più è
fatto.
Tra i concorrenti all’alloro vi erano numerosi palestrati, ma in
particolare incuteva timore un gigante di oltre due metri con 48
di bicipite, la misura di Steeve Reeves quando prestava ad
Ercole il suo corpo statuario per interpretare le leggendarie
sette fatiche.
Ognuno di questi energumeni poteva contare poi su una claque di
fanciulle scatenate, le quali urlavano a squarciagola speranzose
nella vittoria del loro idolo, mentre io potevo fare
affidamento, oltre che su mia moglie Elvira e sulle mie figlie
Tiziana e Marina, su poche signore attempate che mi lanciavano
languidi sguardi di incoraggiamento.
Rimasi sorpreso dalla facilità con la quale superai lo scoglio
delle prime prove e mi trovai, quasi senza accorgermene, alla
finalissima con il temuto avversario che aveva scelto il nome
d’arte di Attila.
Dopo un doppio zambaione rinforzato al rhum ed aver posto sulla
testa un cappellino affrontai senza paura l’ultimo ostacolo, al
suo cospetto mi accorsi che al di là della massa muscolare egli
possedeva in un alito pestifero, la sua arma segreta.
Mi rivolsi a lui spavaldo, girando all’indietro la visiera alla
Sylvester Stallone ed esclamai:”Ti torcerò il braccio”. Quindi
gli piegai la mano e cercai di tenere la mia al di sopra.
Resistetti al suo impeto disordinato per alcuni minuti, fino a
quando, spompato fu alla mia mercé e cadde come una mela
fracida.
L’applauso che salutò il mio trionfo fu interminabile, tutte le
ragazzine che puntavano su di lui ora erano pazze per il mio
successo, inclusa miss topless, incaricata di premiarmi, che
oltre alla fascia mi gratificò con un bacio saporitissimo.
Per chi non credesse alle mie parole, oltre alle foto vi è un
breve video della serata che si può consultare sul mio sito
www.guidecampania.com/dellaragione
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Il pillolo soppianterà la pillola?
Periodicamente i mass media, a corto di scoperte scientifiche
importanti, sulla base di articoli pubblicati su riviste
internazionali più o meno autorevoli, strombazzano notizie che
viceversa richiederebbero un’analisi più accurata prima di
essere divulgate e date per certe. L’ultimo caso è costituito
dal pillolo, un prodotto contraccettivo per l’uomo, il quale
viene presentato come sicuro e privo di effetti collaterali.
Il farmaco consiste in un’iniezione periodica di testosterone
che renderebbe infertili i soggetti a cui viene praticata
durante il periodo di somministrazione, con la possibilità di
ritornare fecondi poco tempo dopo l’interruzione del
trattamento.
Il prodotto viene dalla Cina ed è comparso sulle pagine del
Journal of clinical endocrinology and metabolism: si
somministrano ciclicamente dosi di 500 milligrammi di
testosterone, il quale blocca alcuni ormoni ipotalamici deputati
alla produzione dello sperma.
Non si tratta di una novità, come riferito dalla stampa
d’informazione, infatti da oltre trenta anni si sperimentano
prodotti analoghi, che non sono mai arrivati nelle farmacie
perché presentano numerosi effetti collaterali, tra i quali, il
più imbarazzante, la diminuzione della libido, il pabulum
indispensabile nel rapporto sessuale, senza considerare sicure
interferenze sul sistema cardio vascolare, sulla funzionalità
prostatica e sul comportamento.
Fino ad ora il peso della contraccezione, unica vera profilassi
dell’aborto, è gravato completamente sulle spalle delle donne,
ad eccezione del profilattico, fastidioso, del coito interrotto,
poco sicuro e della vasectomia, irreversibile.
Ogni nuova scoperta nel campo degli anticoncezionali deve essere
vista con interesse, ma non bisogna trascurare gli studi sui
sistemi di sterilizzazione reversibile, sia maschile che
femminile, i quali presentano numerosi vantaggi, sia economici
che nei confronti della salute, evitando l’assunzione di farmaci
per decenni.
In Italia purtroppo esiste un’antiquata legislazione restrittiva
sul problema, ereditata dal codice Rocco, che impedisce
qualsiasi sperimentazione. A tal proposito ricordo ancora le
difficoltà legali che incontrai personalmente e l’ostracismo
accademico, quando negli anni Settanta ideai e pubblicai una
metodica di sterilizzazione femminile reversibile, basata
sull’occlusione delle tube con una sostanza siliconata(Silastic)
facilmente rimuovibile.
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Essere scrittore a Napoli dopo Gomorra
il crepuscolo delle coscienze
Napoli è stata per secoli una capitale europea, alla pari di
Londra e di Parigi, con il vantaggio di essere posta sul
Mediterraneo, una posizione centrale favorevole per gli scambi
non solo commerciali, ma anche culturali; a differenza delle
altre grandi città non ha però avuto celebri scrittori della
statura di Balzac o Hugo o Dickens, che ne abbiano saputo
raccontare la storia e le storie. Pochi i nomi che potremmo
citare, come Mastriani o la Serao, ma parliamo sempre di
narratori d’appendice che scrivevano in dialetto o si
interessavano di problematiche prive di un respiro universale.
Il motivo di questa carenza va ricercato, oltre che nel
carattere autoreferenziale che ha sempre caratterizzato la
nostra cultura, nella circostanza, comune a tutte le società
povere e con molti analfabeti, di utilizzare come principale
forma espressiva il teatro e la musica popolare con le sue
canzoni struggenti e malinconiche, vivaci ed appassionate.
Il cuore palpitante di Napoli ha trovato degni interpreti in
Viviani, attento ai bisogni del sottoproletariato, che affollava
i vicoli brulicanti di passioni e di umanità ed in Eduardo acuto
osservatore della piccola borghesia con i suoi pregi ed i suoi
difetti.
Tra gli scrittori del secolo scorso in grado di portare le
vicende napoletane, per quanto squallide, all’attenzione di una
platea internazionale, vi è il solo Curzio Malaparte, oggi in
parte dimenticato, ma all’epoca in grado di incendiare il
dibattito sulla città.
Dopo il successo planetario di Gomorra la letteratura
napoletana, già povera di firme prestigiose, ha inseguito un
solo tema: la camorra, con la segreta speranza, fomentata dagli
stessi editori, di sfruttare l’effetto Saviano.
Abbiamo avuto un diluvio di pubblicazioni, tutte brutte copie
dell’originale, dal libro della giornalista Capacchione a quello
del pluriscortato giudice Cantone, oltre ai testi di Simone Di
Meo, che rivendica alla sua penna di cronista interi brani di
Gomorra.
Il risultato è stato un aumento di prestigio dei clan, dotati
ora di una celebrità gratuita legata a libri, film e spettacoli
teatrali.
Napoli ha un disperato bisogno di autori che sappiano raccontare
una società in trasformazione dopo essere stata immobile per
secoli, al punto da far pronunciare a Pasolini la celebre frase
che “I Napoletani sono l’ultima tribù che lotta contro la
modernità”.
Nessuno ha saputo raccontare le immense periferie, che sono
cresciute come funghi e palpitano di mestieri e di piccoli
commerci, di amori impossibili e di sogni infranti, di dolore e
di ansia di vivere; nessuno ha saputo raccogliere e fare suo il
grido di dolore che proviene dalla Napoli vera, che non compare
mai sui giornali: quella dei disoccupati cronici, dei giovani
senza futuro, dei pensionati alla fame, dei commercianti
strangolati dal pizzo, dei lavoratori al nero per 500 euro al
mese, la folla degli onesti costretti in un angolo dalla
prepotenza dei vincitori; nessuno si interessa a far conoscere
le antiche chiese cadere in rovina, gli abusi edilizi
ubiquitari, l’esercizio spietato della prevaricazione dei
burocrati come regola di vita.
Nessuna voce, né indigena né aliena, ha saputo captare quel
coacervo di suoni, odori, sapori, sensazioni che promana potente
come un afrore inebriante dai tanti immigrati, di colore o meno,
che a decine di migliaia hanno sostituito i napoletani nel
centro storico.
Aspettiamo ancora quell’intellettuale il quale, invece di
limitarsi a descrivere, sappia spiegarci il perché in tanti
quartieri della città vi sia un odio verso le forze dell’ordine,
verso lo Stato e verso la legge, visti come carnefici, come
persecutori, come custodi di norme incomprensibili. Come in così
vasti settori della popolazione vi sia un’idea di aggregazione
limitata a pochi isolati, a poche famiglie e non si riconoscano
regole che non siano quelle dettate da secoli di ignoranza e di
incuria pubblica e dove si perpetuano usanze tribali, portando
inesorabilmente verso il degrado, la povertà e la subordinazione
alla malavita, che a sua volta considera la polizia come un
esercito straniero e le vittime degli scontri caduti in guerra.
Negli ultimi decenni la città si è dilatata in una periferia
anonima, un mondo grigio di palazzi tutti eguali, abitati da
centinaia di migliaia di persone che non si conosco più come nel
vicolo, un popolo senza memoria storica e senza un ragionevole
progetto per il futuro, costretto a vivere, purtroppo, in un
interminabile e soffocante presente.
Un universo che somiglia a tante periferie del sud del mondo con
le stesse ansie e gli stessi problemi, ma che a Napoli non
poteva non avere il suo lato comico nello stridente contrasto
tra il nome altisonante di alcune strade e lo squallore che le
circonda, indirizzi beffardi a Secondigliano per abitanti
costretti a vivere gomito a gomito con la criminalità
organizzata. La più grande piazza per lo spaccio della droga
d’Europa che confina con Il posto delle fragole o Il giardino
dei ciliegi, mentre le vedette della camorra si stagliano
prepotenti in via La certosa di Parma o I racconti di
Pietroburgo. A Ponticelli, altro Bronx invivibile, si passeggia
in strade desolate che richiamano un lontanissimo mondo di
favola da via Walt Disney a via Marilyn Monroe o viale Fratelli
Grimm. Come se i nostri incauti amministratori avessero voluto
affidare ad un’improbabile toponomastica il compito improbo di
rendere quei luoghi inospitali, vivibili e civili.
Ed infine in questo disperato crepuscolo delle coscienze
attendiamo un valido cantore di una borghesia malata e collusa e
dell’intreccio inestricabile tra imprenditori voraci e politici
corrotti, mentre magistratura ed opinione pubblica non si
accorgono di nulla.
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La pratica del sesso nei disabili
Marianna, una puttana misericordiosa
La notizia comparsa su alcuni giornali di Marianna, una matura
prostituta spagnola, che da anni si è dedicata a soddisfare i
bisogni erotici dei disabili, creando scandalo e l’oscuramento
del sito dove propagandava la sua attività, mi ha portato
indietro nel tempo agli anni del mio corso di sessuologia tenuto
all’università di Napoli per gli specializzandi in ginecologia
nel quale mi interessai per primo in Italia dell’argomento,
illustrando in alcune lezioni la necessità di non trascurare nei
soggetti portatori di gravi handicap la pratica sessuale.
Il direttore dell’istituto ufficialmente mi invio una lettera di
biasimo, ma in un colloquio privato mi disse di non tenerne
alcun conto e di continuare senza problemi.
Anche a livello internazionale la letteratura sul tema era quasi
inesistente e vi erano solo alcuni lavori basati unicamente
sulla teoria.
Nel 1982 un olandese condannato alla sedia a rotelle fondò
vicino Utrecht un ente di assistenza sessuale per disabili,
negli anni successivi analoghe iniziative sorgeranno in Svizzera
ed in Svezia, dove attualmente esiste a carico dello Stato un
servizio condotto da assistenti, sia uomini che donne, i quali
danno conforto ai disabili attraverso massaggi e giochi erotici.
Anche in Italia questa esigenza è molto sentita, come dimostra
un recente sondaggio tenuto su un sito specializzato, che ha
rivelato che otto disabili su dieci gradirebbero una sorta di
assistenza sessuale.
Naturalmente si tratta di un argomento doppiamente tabù, perché
di sesso, seriamente, è meglio non parlarne e lasciare che si
esprima scompostamente in televisione o sui cartelloni
pubblicitari, ugualmente qualsiasi problema del mondo degli
handicap non trova ascolto sui mass media, che cercano di
evitare tematiche poco accattivanti.
Tenuto conto di queste difficoltà l’unica speranza è legata
all’iniziativa spontanea di qualche escort particolarmente
sensibile la quale voglia, pur con un adeguato riconoscimento
economico, specializzarsi in questo tipo di prestazioni, che
richiedono molta pazienza e piena disponibilità.
Esprimere le proprie pulsioni più profonde, oltre che
un’esigenza, possiede anche in molti casi una fondamentale
funzione terapeutica, in particolare nei portatori di deficit
psichici e la pratica del sesso o alcuni giochi erotici possono
apportare considerevoli benefici
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Diario di una ninfomane
Giunge nelle sale, dopo un interminabile battage pubblicitario,
il Diario di una ninfomane e possiamo affermare che alla fine la
montagna partorì un topolino; infatti si tratta di un prodotto
appena decente, al limite tra la denuncia pseudo femminista e le
luci rosse.
Tratto dal best seller autobiografico della scrittrice francese,
spagnola d’adozione, Valérie Tasso, la pellicola ripercorre le
peripezie erotiche della protagonista, dalla deflorazione,
avvenuta senza particolari emozioni a quindici anni, alla
redenzione finale, che riscatta la storia, quando incontra un
disabile alla ricerca di tenerezza e gli si dona con tutta la
sua carica erotica e vitale, cercando disperatamente di
sopperire alle menomazioni dello sfortunato cliente.
Tra l’inizio e la fine vi è una serie interminabile di nudi
integrali del corpo esile dai seni appena accennati della
debuttante Belén Fabra nei panni(si fa per dire) di Valérie,
infiniti amplessi, per la gioia visiva dei voyeur, alcuni
cunnilinctus, una originale fellatio subacquea ed una
sodomizzazione alla pecorina, giusto per concludere.
Un prezioso cameo è offerto da Geraldine Chaplin, la nonna di
Valérie, che consiglia alla nipote di tenere un diario delle sue
esperienze sessuali e la invita a non perdersi alcuna
occasione:”Approfitta della giovane età, tutto il lasciato è
perso”, “Il matrimonio e la prostituzione sono la stessa cosa,
nel primo la dai ad un solo uomo che ti paga per tutta la vita,
nel secondo la dai a tanti che ti pagano volta per volta”. Una
filosofia spicciola della quale fa tesoro l’intraprendente ed
insaziabile fanciulla, che comincia a mettere ko schiere di
giovani e focosi amanti, nessuno dei quali riesce a mantenere i
suoi ritmi forsennati ed i suoi orgasmi a ripetizione. Si salva
tra i tanti messi alle corde Hassan, un poderoso negro,
iperdotato, che periodicamente viene a trovarla, naturalmente in
senso biblico.
Incontrerà poi una miriade di uomini, tra i quali nevrotici,
violenti e sado masochisti, fino a quando, perso più volte il
lavoro, prima di impiegata poi di commessa, matura la decisione
di prostituirsi, un po’ per infliggersi un’autopunizione, ma
soprattutto per guadagnare, placando nello stesso tempo la sua
irrefrenabile ninfomania. Si rivolge alla navigata maitress di
una casa d’appuntamento alla page nel cuore di Barcellona e
comincia la sua nuova esperienza, fino all’incontro con il
disabile che la riscatterà, aprendole gli occhi sulle bellezze
della vita per chi, come lei, ha la fortuna di essere sano.
Un finale inaspettato che riabilita il film e lo rende degno di
essere visto.
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Quale mondo dopo la crisi?
Nessuno aveva previsto la tempesta finanziaria che si è
abbattuta come una folgore sui mercati internazionali e nessuno
ha la ricetta giusta per uscire dalla crisi, né i governi, né le
banche centrali, nonostante previsioni contrastanti si
accavallino: depressione, deflazione, cenni di ripresa. Il
giocattolo con il quale si sono dilettati per anni i boss della
finanza criminale si è rotto e certamente non si potrà riparare.
Il signoraggio mascherato che si è praticato spudoratamente
sulla pelle di centinaia di milioni di sprovveduti risparmiatori
non potrà ripetersi.
L’aver creato per anni falsi bisogni, in omaggio al moloch
insaziabile del consumismo, aver alimentato un indebitamento
spropositato dei cittadini per comprare beni dei quali non
avevano reale necessità, ha innestato un meccanismo perverso che
non poteva non deflagrare con effetti disastrosi. La formula che
si sta seguendo attualmente di curare il debito con un altro
debito non porta da nessuna parte; i governi hanno
nazionalizzato le banche, utilizzando un denaro che non
possiedono ed hanno semplicemente trasformato un debito privato
in un debito pubblico, ipotecando pericolosamente il futuro e
con grave nocumento per i nostri figli e nipoti.
Dalle ceneri di un capitalismo sfrenato e senza regole dovrà
necessariamente sorgere un mondo nuovo, tutti noi dobbiamo
impegnarci che sia un mondo migliore, ci vorranno una ferrea
volontà e la consapevolezza di essere gli artefici di una
rivoluzione culturale che, dimenticando l’economia centralizzata
di tipo sovietica, già fallita negli anni Ottanta e l’economia
di mercato senza restrizioni e controlli, la quale sta crollando
miseramente sotto i nostri occhi, sia in grado di creare un
nuovo modello di sviluppo, rispettoso delle improcrastinabili
esigenze ecologiche e dell’esaurimento delle risorse , capace di
procurare benessere più che beni materiali e che cerchi di
colmare le diseguaglianze di reddito tra i cittadini e tra i
popoli.
La crisi potrà allora rappresentare un’opportunità per arginare
i rischi mortali di una globalizzazione anarchica, che in breve
avrebbe travolto la nostra ideologia basata sull’egoismo e
sull’individualismo e messo in discussione la stessa democrazia,
dimostratasi inadeguata a gestire il caos nelle transazioni
internazionali di merci e denaro.
Il futuro del mondo è legato all’istaurarsi di un’economia
mista, nella quale pubblico e privato sappiano convivere, ma
fondamentale resta la necessità di un diritto ed un governo
planetario, che garantisca una più equa ripartizione delle
risorse. I mercati finanziari, globali per definizione, non
possono resistere senza una normativa internazionale e senza uno
Stato sovranazionale che la faccia rispettare.
Siamo al day after di una guerra nucleare che ha distrutto le
nostre certezze, ma ha lasciato in piedi le fabbriche ed i vita
i lavoratori, bisogna approfittare di questa circostanza ed
impegnarsi, in primis politici ed intellettuali, a disegnare un
mondo migliore, che superando la crisi garantisca benessere ed
uguaglianza universali.
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Il sovrintendente Spinosa abdica?
L’annuncio, dato dallo stesso interessato, che Nicola Spinosa,
lascia in anticipo il ponte di comando della sovrintendenza
napoletana, dopo 25 anni fecondi di dittatura incontrastata ha
sorpreso e nello stesso tempo deluso i napoletani.
Tutti attendevano, come più volte promesso, che Spinosa
concludesse la sua formidabile carriera organizzando l’anno
prossimo il revival di Civiltà del Seicento, una mostra che solo
lui può realizzare, ottenendo con la sua autorità i necessari
prestiti dai musei di tutto il mondo.
Profondo studioso, grande esperto del Seicento e soprattutto del
Settecento napoletano, autore di decine di monografie, infinite
introduzioni e presentazioni, dotato di una prosa ciceroniana ed
accattivante, ma soprattutto indefesso organizzatore di mostre
che a decine negli ultimi anni hanno tenuto alto il nome della
città a livello internazionale, seguendo una luminosa tradizione
inaugurata dal suo mitico predecessore, il compianto Raffaello
Causa.
Spinosa ha sempre avuto un carattere burbero ed autoritario, ha
sempre retto la sovrintendenza come un pontefice, un difetto che
si trasforma in dote quando si tratta di organizzare un evento,
coordinando il lavoro di decine di collaboratori.
Se non dovesse recedere dalla sua decisione Napoli si vedrà
orbata di uno dei suoi figli migliori e continuerà il suo
inarrestabile declino: dopo la chiusura di antiche librerie e di
storici megacinema, la più grave delle perdite quella dei
migliori cervelli.
Un solo auspicio, se si dovrà pensare alla successione, che il
Ministero, non potendo scegliere nessuna delle sue valenti
collaboratrici, prive della necessaria idoneità, sappia nominare
una personalità esperta della pittura napoletana e che ami la
città e le sue gloriose tradizioni.
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Passeggiando per antichi casini
Rimembrando le memorabili giornate di Monumenti porte aperte,
numerose associazioni organizzano visite guidate, non solo alle
testimonianze artistiche e storiche della città, ma anche
all’immenso patrimonio culturale di tradizioni e leggende; in
questa scia va collocata l’iniziativa di Insolitaguida, che si
propone di far conoscere gli antichi casini napoletani
attraverso un originale percorso che prevede, in 90 minuti, la
scoperta di un mondo perverso ed affascinante, ricordato con
struggente nostalgia da tutti i napoletani con i capelli
bianchi, assidui frequentatori del peccato consentito dalle
leggi dello Stato.
L’itinerario contempla una tappa in alcuni ambienti dello
storico ritrovo di salita Sant’Anna di palazzo, dove si
ascolteranno i racconti su alcuni prestatrici d’opera
dell’epoca, da Anastasia a friulana a Nanninella a spagnola,
famose per le loro prestazioni particolari che venivano incontro
ai desideri inconfessabili dei clienti, né più, né meno delle
meretrici di Pompei, che esponevano, con disegni inequivocabili
le specialità della ditta.
Attualmente la vecchia casa di tolleranza La Suprema è stata
trasformata nel Chiaja hotel de charme, con alcune stanze che
portano ancora il nomignolo delle donne dispensatrici di
lussurioso piacere.
Si passa poi al Monferrante, altra casa di tolleranza tra le più
ambite della città, dove saranno narrati sfiziosi aneddoti e si
parlerà delle regole e delle tariffe applicate nei bordelli
partenopei.
Una differenza che verrà sottolineata è quella tra le case
eleganti del quartiere Chiaja, frequentate da commercianti e
professionisti e quelle, a buon mercato, dei vicini quartieri
spagnoli dove i prezzi venivano incontro alle improcrastinabili
esigenze del popolo.
Napoli è stata a lungo capitale della prostituzione sia maschile
che femminile ed in passato si è dotata di leggi lungimiranti
per confinare in alcune aree della città la pratica del più
antico mestiere del mondo. In passato, come apprendiamo dalla
Storia della prostituzione del Di Giacomo, vi erano luoghi,
stabiliti dall'Autorità, dove travestiti e prostitute potevano
liberamente esercitare...A lungo questa zona fu l'Imbrecciata,
che si trovava nei pressi di Porta Capuana.
Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell'area vennero
progressivamente localizzati tutti i postriboli partenopei.
Infine, in un editto emanato nel 1781, l'Imbrecciata fu
riconosciuta come l'unico quartiere dove era ammesso il
meretricio. Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu
delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello
d'accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni
attività poco prima della mezzanotte. Questa segregazione durò
fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in
altri quartieri. Nell'ambito di questo rione off limits vi era
una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per
l'appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via
Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri.
L'utopia di creare un quartiere separato per la prostituzione è
l'orientamento odierno di numerosi paesi del nord Europa dove,
attraverso consuetudini e regolamenti, il sesso a pagamento
viene limitato in quartieri a luci rosse,il colore della
lanterna che serviva a segnalare le cortigiane napoletane, come
raccontava nel 1785 Charles Dupaty nel suo Lettres sur l'Italie.
Dopo l’Unità d’Italia si cercò di porre un argine al dilagare
delle malattie veneree aprendo i famosi casini, tenuti dallo
Stato, che ne regolava l'attività e fissava le tariffe, dando
poi l'appalto, come un qualsiasi genere di monopolio, ad un
privato, la famigerata maitresse. Sul funzionamento di queste
case abbiamo memorabili descrizioni di Francesco Mastriani nel
suo celebre romanzo i Vermi, mentre la storica Lucia Valenzi
compulsando gli archivi ha reperito le poche notizie
documentarie che ci illuminano sulle terribili condizioni di
vita delle puttane dell'epoca (una situazione che, purtroppo, ai
nostri giorni ha subito un precipitoso peggioramento).
La provenienza delle ragazze di piacere era per metà cittadina,
dai vicoli più bui e malfamati e per metà dai paesi del contado,
dove spesso una fanciulla disonorata non aveva altra scelta che
il bordello. Per lavorare bisognava iscriversi nei ruoli,
ricevere una libretta ed entrare poi nel giro, che prevedeva un
via vai in numerosi postriboli su e giù per l’Italia, cambiando
luogo ogni sette, massimo quindici giorni. La prestazione delle
ragazze veniva compensata con la famosa marchetta, un gettone
forato al centro acquistato dalla maitresse e consegnato in
camera prima del rapporto.
Erano previste tariffe particolari a tempo e la famosa doppia.
Nel 1891 Giovanni Nicotera stabilì che dalle finestre non ci si
potesse più mostrare, per cui le persiane chiuse divennero un
contrassegno delle case chiuse.
I casini napoletani avevano fama di arredamenti sontuosi, dal
velluto alla seta e trattamenti particolari; ne parlano
entusiasti, non solo i viaggiatori del Grand Tour, ma anche
intellettuali famosi nell’Ottocento e nel Novecento; meno
entusiasta è invece la descrizione che traspare dall’inchiesta
giornalistica di Jessie White Mario nel suo libro la Miseria di
Napoli, una testimonianza cruda ed spietata.
La guerra con l’arrivo degli Americani, carichi di dollari e
sigarette, fece esplodere il mercato aumentando l’offerta con le
signorine che si vendevano per contrastare i morsi della fame; è
la triste epoca delle tammurriate nere e del meretricio
praticato in centinaia di bassi, magistralmente descritto da
Malaparte nella Pelle. Poi cinquanta anni fa, febbraio 1958
entrava in vigore la legge Merlin e, pur con la lodevole
intenzione di liberare le prostitute da un giogo secolare, non
si faceva altro che gettarle in pasto ai lenoni, mentre gli
Italiani, come sintetizzava magistralmente il film di Totò,
erano costretti ad arrangiarsi. Per pochi bacchettoni, difensori
della morale, fu una conquista civile di portata storica, per
molti una inutile ipocrisia che renderà la prostituzione una
giungla feroce senza igiene, senza regole, senza pietà.
A Napoli si ebbero giganteschi falò con i materassi dei casini
pieni di ricordi e di pidocchi. Allora le prestatrici d'opera
provenivano in gran parte dalla provincia e prevalevano, in
un'Italia perbenista e bigotta che non esiste più, le sedotte ed
abbandonate. Oggi siamo obbligati a confrontarci con un turpe
ritorno allo schiavismo, gestito dalle mafie straniere, con
punte di ferocia impensabili mezzo secolo fa.
Per chi volesse approfittare di queste visite guidate telefonare
per la prenotazione al 338 9652288, per chi volesse approfondire
l’argomento consiglio di consultare su internet alcuni miei
scritti: per la prostituzione maschile il mio saggio i
Femminielli per l’atmosfera dei casini Nostalgia dei casini ed
il Casino di Santa Chiara, per un quadro generale del fenomeno
Breve storia della prostituzione a Napoli dal Cinquecento ai
nostri giorni e per la situazione attuale un Esercito di puttane
colorate nel regno dei casalesi.
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Generazione 1000 euro
Una incalzante denuncia del lavoro precario
Un film amaro condotto con sottile ironia da Massimo Venier, che
si avvale di attori bravi nell’ interpretare le ansie, i
desideri repressi, l’incertezza del futuro, il mal di vivere
della generazione dei trentenni alle prese con il lavoro
precario.
Una commedia all’italiana che rincorre una realtà complessa e la
rappresenta semplificandola eccessivamente.
Un cameo gustoso è costituito dalla presenza di un improbabile
cattedratico nei panni, debordanti, di Paolo Villaggio, che
sembra uscito letteralmente da una pellicola di Frank Capra.
I personaggi che danno vita al racconto sono tutti laureati
brillantemente e costretti ad adattarsi ad un lavoro spesso
diverso da quello per il quale si erano preparati, ma
soprattutto con contratti aleatori che possono interrompersi da
un momento all’altro per il capriccio di un capoccia.
Il lavoro precario è una maledizione per i giovani, i quali non
hanno più punti fermi che permettano di fare progetti per il
futuro: formarsi una famiglia, fare dei figli, comprarsi una
casa con un mutuo, godere un domani della pensione.
Anche il Papa ha fatto sentire la sua autorevole voce sul
problema, ma purtroppo, più che lamentarsi del fenomeno, non è
riuscito ad avanzare alcuna proposta risolutiva.
Molti credono che il lavoro precario sia una triste prerogativa
dell’Italia, viceversa esso è una regola in tutti i paesi
europei, per non parlare degli Stati Uniti, dove la estrema
mobilità del lavoro è considerata la ricetta dello sviluppo
economico.
La scuola fino a quando il problema non avrà trovato una
soluzione dovrà impegnarsi a fornire ai giovani una preparazione
multidisciplinare, in previsione che, nel corso della vita,
siano costretti più di una volta a cambiare completamente tipo
di attività.
Lo Stato ed i sindacati devono impegnarsi ad elaborare e
rispettare una legislazione che preveda la possibilità reale di
licenziamento per giusta causa, allo scopo di sfatare il
pregiudizio(in gran parte vero) che un datore di lavoro che
assuma un dipendente lo debba assumere a vita. Bisogna
convincersi che una strenua difesa del lavoro comporta una
palpabile penalizzazione per chi lo cerca.
Gli economisti debbono spiegarci se la precarietà è una
condizione favorevole dello sviluppo economico e prospettarci
modelli alternativi, nei quali un maggiore rispetto dei diritti
del lavoratore sia compatibile con un incremento della
produzione.
I politici debbono recepire la gravità del problema e,
coraggiosamente, proporre soluzioni anche contro i poteri forti,
spesso sopranazionali e sempre onnipotenti. Il loro compito è il
più gravoso e necessita di un grosso appoggio per evitare il
senso di solitudine delle scelte decisive, in mancanza delle
quali non esisterà un futuro, non solo per i giovani, ma per la
nostra civiltà.
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La forza di una tradizione millenaria
I Fujenti una sorprendente contaminazione di riti arcaici
Per fare una sortita nel medioevo o ancora più indietro
all’epoca della colonizzazione della Magna Grecia non è
necessaria alcuna mirabolante macchina del tempo, basta recarsi
il lunedì in Albis a Sant’Anastasia al santuario della Madonna
dell’Arco ed assistere al rito dei Fujentes, una tradizione che
sfida i secoli, un rito collettivo tra furore e superstizione,
che sopravvive imperterrito alle sirene della modernizzazione.
A due passi dalle fabbriche di auto e di componenti aerospaziali
per la Nasa, una moltitudine di pellegrini di tutte le età
provenienti da ogni angolo della Campania accorre vestita di
bianco, a piedi scalzi e sventolando variopinti stendardi
tappezzati di banconote.
Una imprevedibile umanità che vive fuori dalla logica e dalla
storia celebra ogni anno imperterrita un rito pasquale
contaminato dalle antiche festività pagane, una resurrezione di
Cristo, che si coniuga con il rifiorire della natura e delle
messi.
Quasi duecentomila persone si mettono in moto all’alba e corrono
per ore fino a raggiungere l’immagine della Madonna conservata
nel celebre santuario, costruito sulle fondamenta di un antico
tempio pagano, per sfruttarne imperscrutabili linee di forza, un
segreto tenuto gelosamente celato dagli antichi costruttori.
Al canto di nenie mielose e ritmiche litanie, che ricordano la
melopea fenice ed araba, ingagliardite da uno squassante rullio
di tamburi, i pellegrini arrivano alla meta esausti, moltissimi
in trance, alcuni strisciando con la lingua a terra, quindi,
dopo l’adorazione, cominciano con rinnovato vigore la via del
ritorno, intervallando il percorso con soste dedicate a
vorticanti tarantelle ed estenuanti tammurriate.
Il rito è uno stupefacente fossile vivente di antichi culti
praticati su lontane sponde di quello che fu il Mare nostrum,
dalla Grecia al nord Africa, fino alla lontana Andalusia.
Dall’alba al tramonto è una marea incontenibile di arcaiche
energie sopite che esplodono all’improvviso tra pianti,
preghiere, implorazioni disperate e voci assordanti, che
rimembrano il richiamo del muezzin e le tradizionali grida dei
venditori ambulanti.
A questa folla dolente ed esaltata negli ultimi anni si sono
affiancati migliaia di nuovi arrivati: filippini, polacchi,
latino americani e tantissimi rom, a tangibile dimostrazione
della capacità delle antiche tradizioni di calamitare
sorprendentemente sempre nuovi devoti.
Questi originali pellegrini chiedono spesso una grazia alla
Madonna e sono prodighi di ex voto, un fiume in piena conservato
nella chiesa dal Cinquecento ad oggi. Spesso si richiede la
fertilità, come reclamavano le fanciulle sterili che si
affollavano ai piedi della dea Cibele o nei secoli successivi
baciavano ardentemente il pesce di Nicolò, ma negli ultimi anni,
segno dei tempi mutati, si implora sempre più spesso di
liberarsi dal flagello della droga, una nuova esigenza
testimoniata dalle numerose siringhe d’argento appese in bacheca
tra gli ex voto, come se un sottile filo volesse collegare
nell’immaginario popolare le austere Matres matutae, oggi
visibili nel museo di Capua alle coraggiose madri dolorose
presenti nelle squallide periferie dove la vita è lotta e molti
vengono travolti.
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Truffa sul referendum
Gentile dottore,
la dimostrazione più lampante della deriva democratica nella
quale sta rovinosamente precipitando l’Italia è la spavalderia
con la quale il governo sta trattando la questione del
referendum, arrivando nei giorni scorsi ad ipotizzare
addirittura uno slittamento della consultazione all’anno
prossimo.
Il timore che accorpare i quesiti referendari alle elezioni
europee faccia raggiungere facilmente il quorum, induce a far
slittare le date, con uno spreco di denaro pubblico scandaloso,
ma la Lega ha minacciato una crisi e Berlusconi ha dovuto
cedere.
I celoduristi sono giustamente preoccupati, perché una delle
questioni sulle quali è chiamato ad esprimersi il corpo
elettorale riguarda il premio di maggioranza, attualmente
assegnato alla coalizione vincente, che verrebbe a premiare
invece, in caso di vittoria dei si, il partito più votato.
Bossi diventerebbe inutile ed il suo potere verrebbe falcidiato,
per cui il truce lombardo non vuole sentire ragioni.
E la volontà popolare, il desiderio dei cittadini di far sentire
la propria voce? Argomenti futili che i partiti calpestano
indecorosamente, certi dell’impunità.
Ma per quanto tempo ancora (parafrasando Cicerone) tutti noi
permetteremo al sistema di funzionare in questo modo maldestro?
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Una festa di Carnevale indimenticabile
La tradizione del Carnevale risale ai tempi lontani della
Serenissima, quando era famosa in tutta Europa, ma riprese in
grande stile a partire dal 1980, quando riempì del suo eco il
mondo intero.
Soltanto Venezia, una città senza futuro, può rivivere
pienamente il passato, dove il bello è a diretto contatto con la
fine. Dietro l’essere nel suo pieno fulgore c’è solo il fantasma
della morte. Se le persone indossassero sempre maschere in un
luogo che vive più di passato che di presente sarebbero il
tragico specchio di essa.
Eppure Venezia la senti sotto pelle quando ne indossi il
passato. Da quando celebrò lo Sposalizio col Mare sul regale
Bucintoro, essa si legò ad un destino superiore e dai fasti
splendori iniziò a decadere progressivamente. Alcuni dipinti ed
affreschi ricordano nostalgicamente la sua maestà trascorsa: il
Canaletto, il Guardi, il Bellotto, ne hanno magistralmente
immortalato la bellezza. E niente è ridicolo, trasgressivo,
impossibile nelle vie dove gli insetti ti pungono, o lungo i
canali dove i topi galleggiano e i mendicanti, prima di morire,
magari ubriachi, tendono ancora la mano perché sanno che la vita
è generosa, mentre loro sono ormai sul triste ponte, dove la
Signora vestita di nero con la falce in mano li attende.
Venezia a prima mattina è ancora un po’ dormiente, va
svegliandosi gradualmente verso l’imbrunire come se nel tempo
l’uomo “gaudens” l’avesse abituata al proprio ritmo circadiano.
Dopo il crepuscolo incomincia a rianimarsi, ma soltanto a cena
consumata le sue energie sono pronte e disponibili. Allora i
vizi escono dalla prigione e si liberano in tutte le direzioni,
dal gioco d’azzardo del Casinò alle cortigiane notturne, che
hanno solo cambiato abitudini rispetto al passato, in cui famose
ad ogni angolo erano le belle veneziane che desideravano il
piacere e ad esso si offrivano. Le maschere diventano provocanti
e la città rivela la sua indole più pagana che cristiana.
In passato partecipare alle favolose feste in maschera al
Cipriani era un’impresa impegnativa, non solo per il costo del
biglietto, proibitivo, per la necessità di indossare un costume
in sintonia con il tema prescelto, ma soprattutto perché
bisognava prenotarsi con un anno di anticipo.
Rammento nel 1984, quando per la prima volta decidemmo di
trascorrere il Carnevale a Venezia e sentimmo parlare di queste
feste favolose, la mia ricerca spasmodica per procurare gli
inviti. La direzione alla mia richiesta sorrise perché i
biglietti erano esauriti da mesi e potevo eventualmente
acquistare quelli per il 1985. Era l’anno di un gemellaggio tra
Venezia e Napoli e mi venne l’idea di telefonare a nome di un
personaggio influente per ottenere in extremis la possibilità di
partecipare ad uno dei veglioni in maschera.
Scelsi di spacciarmi per l’onorevole Gava e nel ristorante dove
cenavamo assieme ai nostri amici Vittoria e Gino chiesi dove
fosse il telefono(erano gli anni preistorici prima
dell’invenzione dei cellulari). Il cameriere mi disse che non
dovevo alzarmi perché avrebbe portato a tavola l’apparecchio ed
infatti, munito di un interminabile filo, comparve un elegante
telefono bianco. Imbarazzato per la presenza di tanti
occasionali ascoltatori composi il numero e, fingendo prima la
voce femminile di una segretaria, mi feci passare il direttore
del Cipriani, al quale, qualificandomi per il vegliardo
senatore, chiesi un paio di biglietti per una coppia di ospiti
importanti ed influenti che desideravano, pagando regolarmente,
ardentemente partecipare alla festa; non li avrei accompagnato
perché molto stanco.
Il direttore si mise a disposizione, ma volle per forza fornire
dei biglietti omaggio, che purtroppo non potetti utilizzare,
timoroso, una volta scoperto di essere accusato di truffa,
mentre se avessi potuto averli pagando non vi sarebbero stati
problemi, dato che a Carnevale ogni scherzo vale. Vidi con
malinconia la lancia con un impiegato con i biglietti dirigersi
verso l’albergo che avevo indicato come dimora di questa coppia
importante alla quale non si poteva dire di no.
Per l’anno successivo ci preparammo in tempo acquistando i
biglietti con grande anticipo e preparando i travestimenti per
le tre feste che avevano temi diversi: la prima, il venerdì, la
lunga notte indiana Achille maragià, Elvira odalisca, la
seconda, il sabato, il grande circo, io pagliaccio, la mia
consorte domatrice, l’ultima, il martedì, di tendenza
trasgressiva, prete e coniglietta; abbigliamento talare che
adoperai anche per la serata di domenica quando ci recammo al
casinò, dove all’ingresso volevano vietarmi di accedere, perché
privo della cravatta; evidentemente avevano scambiato un luogo
di vizio e perdizione per il Parlamento. Io indossavo una giacca
rossa con il collo chiuso e non si vedeva che da sotto vi era
l’abito da prete. Protestai vivacemente per il divieto che
volevano impormi:” Giovanotto, ma cosa vuole, che indossi una
cravatta sulla mia divisa?” Fu chiamato un dirigente che, per
quanto meravigliato dal fatto che fossi in compagnia di due
signore, giovani, belle e scollacciate, mi autorizzò ad entrare
ed a sedermi ai tavoli da gioco. Feci prima un giro nei vari
locali, alternandomi al braccio delle mie accompagnatrici,
tenendole strette ed accarezzandole appassionatamente tra lo
stupore generale. Mi sedetti poi ad un tavolo di roulette e
cominciai a vincere una cifra considerevole. Il mio stato
laicale fu scoperto soltanto quando, fatta una cospicua puntata
sul 28 ed uscito il 29, bestemmiai vigorosamente le principali
divinità delle religioni monoteiste.
Attirati dal fascino misterioso del Carnevale negli anni
successivi ci recammo altre tre volte a Venezia negli anni
Ottanta, naturalmente approfittando dell’occasione anche per
visitare mostre e rivedere palazzi, musei, campi e campielli. Ed
inoltre Tintoretto e le Procuratie Vecchie a Piazza San Marco
così suggestive quando c’è il fenomeno delle acque alte, le
quali si specchiano su quella ingannevole superficie che
raddoppia in un fallace rimando all’infinito i portici e gli
archi già così numerosi. Il richiamo delle attività culturali
così intense a Venezia è poi cosa nota in ogni luogo: dal
Festival del Cinema alle Biennali di Arte e di Architettura,
dalle anteprime teatrali a tavole rotonde sugli argomenti più
disparati, ma l’attrattiva irresistibile era sempre costituita
da quelle feste magiche in maschera che si tenevano in uno degli
alberghi più esclusivi del mondo: il Cipriani.
Nel 1995 Achille ed Elvira, memori delle favolose feste degli
anni Ottanta alle quali avevano partecipato, decisero di
ritornare a Venezia all’Hotel Cipriani per cercare di nuovo
un’occasione di divertimento e di trasgressione. Compagni di
baldoria Sonia e Diego, una coppia di amici di vecchia data,
simpatica e soprattutto carica di denaro, perché il biglietto
per la serata di gala nel principesco albergo costava un milione
a persona.
In passato partecipare alle feste in maschera al Cipriani era
un’impresa impegnativa, non solo per il costo del biglietto,
proibitivo, per la necessità di indossare un costume in sintonia
con il tema prescelto, ma soprattutto perché bisognava
prenotarsi con un anno di anticipo.
Come era nella nostra consuetudine ci prenotammo per la famosa
festa all’hotel Cipriani, che si svolgeva in una cornice di
pubblico selezionato, per la maggior parte tutti clienti
dell’albergo, oltremodo esclusivo.
Dopo una cena pantagruelica alla fine della serata era prevista
la sfilata per la premiazione della maschera più bella. Quella
sera annunciarono il premio anche per la maschera più
divertente, anzi affermarono che poiché il Carnevale è
soprattutto divertimento era stato previsto un premio record di
dieci milioni. Io ero vestito da diavolo, un travestimento
semplice basato su una calzamaglia rosso fuoco, che andava
indossata direttamente sul corpo e che, facendo trasparire le
forme anatomiche, non lasciava molto all’immaginazione, inoltre
vi era una coda rigida che si poteva far ribaltare in avanti
simulando ben altro organo.
Due graziose hostess dell’albergo in divisa rossa furono
attirate dal colore del mio abito e, dopo avermi fornito il
numero per la gara, mi invitarono a fare con loro un giro tra
gli ospiti per procacciarmi voti a favore.
Passando tra i tavoli feci un po’ di moine alle signore,
soprattutto a quelle di annata, che erano la maggioranza ed a
molte feci toccare l’appendice caudale, promettendo in caso di
voto positivo, una tastata ben più coriacea e dirompente ed
eventuali nottate di fuoco; il tutto tra lo scrosciare di
applausi entusiasti ed un’andatura ancheggiante, che
rivaleggiava con quella leggendaria di Totò.
Dopo le 22 avvenne la premiazione, alla quale non pensavo oramai
più, al punto che con alcuni amici incontrati alla festa, tra i
quali Vittorio Sgarbi e Philippe Daverio, ci eravamo trasferiti
su un terrazzo a discutere animatamente, in egual misura, di
arte e di mondanità. Da lontano sentii più volte una voce che
scandiva un numero e lo invitava sul palcoscenico, solo dopo
vari richiami capii che si trattava del mio numero: avevo vinto
il primo premio, una vera sorpresa perché al veglione erano
presenti circa mille persone.
Non si trattava di un premio in vile danaro, ma del soggiorno
gratuito di quattro giorni per una coppia da trascorrere
nell’hotel Cipriani, dove per inciso una giornata a pensione
completa costava un milione e mezzo a persona.
Decidemmo di trascorrere questi giorni di svago nel mese di
ottobre e di nuovo compagni(per loro a pagamento) Sonia e Diego,
i quali poi per uno sciopero degli aerei da Roma saltarono
l’appuntamento.
Dovetti fare numerose telefonate per fissare la camera, perché
l’albergo era quasi sempre esaurito. Naturalmente non segnalavo
nel prenotarmi che saremmo stati ospiti a sbafo. Sonia, la
nostra amica, voleva assolutamente una camera con vista sul
canale, che per inciso era gravata da un supplemento di un
milione al dì e questa preferenza rendeva ancor più difficile la
disponibilità.
Appena giunti in albergo fummo accolti con tutti gli onori, che
non scemarono quando io presentai il coupon che ci garantiva il
soggiorno gratuito.
Preso possesso della suite mi accorsi che il balcone si
affacciava sul canale, per cui, memore del salato supplemento,
mi precipitai alla reception per rammentare la nostra posizione
di non paganti, ma fui accolto da un malizioso sorriso.
Ci apprestavamo a valutare piacevolmente l’elasticità dei
materassi, quando bussò alla porta ed una cameriera ci consegnò
un gigantesco fascio di rose, Elvira credette per un attimo ad
un mio cortese pensiero, ma la fantesca chiarì trattarsi di un
benvenuto della direzione ai graditi ospiti.
Di nuovo a letto pronti a passare a vie di fatto e ad una
memorabile tenzone amorosa, quando di nuovo il campanello ci
interrompe: un valletto ci consegna una bottiglia di Moet
Chandon con i complimenti del direttore.
Brindiamo al nostro soggiorno e fummo folgorati dalla certezza
che quei giorni sarebbero stati un dolce e prezioso momento di
grande amore, vissuto tra rose, champagne e serenate col violino
serali.
Elvira provava nel momento in cui si allontanava dai rumori del
clima carnascialesco, una sensazione drammatica di coesistenza
tra il sublime e la negazione di esso, come un trancio
improvviso. Nella patria della Serenissima la vita s’immergeva
sensuale nel vortice delle passioni tumultuose, dalle quali con
fatica risorgeva all’alba, dimentica dei piaceri notturni, ma
forse con una invisibile ferita in più sul volto, profondamente
segnato dall’insieme di esse.
E le nebbie, che di giorno accompagnavano stancamente i passanti
non ancora ben desti, i quali risentivano ancora dei bagordi
trascorsi nella notte, chiudevano in alto un mondo senza
schiarite di orizzonti futuri.
Era il mal di Venezia che prende gli uomini, li contagia e li
isola nella laguna morente, che grida la sua fine mentre il
mondo la ignora. E se partono, fatalmente ritornano perché
l’attrazione può essere come la morte che sa aspettare ma prima
o poi esige lo scotto da pagare.
Elvira dormiva poco a Venezia, lasciava Achille ancora a letto e
lievemente stordita per la mancanza di sonno, ma spinta dal
desiderio di non perdersi il risveglio lento e pigro della
città, si dirigeva verso piazza San Marco al Caffè Florian, dove
nel torpore di ogni mattina, oltre alla pausa per la cosa con la
curiosità di un obiettivo fotografico alla ricerca di segreti
custoditi gelosamente da chi per l’amore di quella città si era
trasformato in una sua cariatide. Tali apparivano ad Elvira
alcuni strani personaggi seduti dietro la vetrata Art Dèco con
lo sguardo fisso nel vuoto e il cuore stretto pateticamente
nella loro solitudine. Anche lei si sedeva non solo per capire
ma per assaporare l’atmosfera che le piaceva. Ordinava l’Irish
Coffee, che secondo lei i barman preparavano in modo divino,
scorreva qua e là le notizie del quotidiano e poi rientrava in
albergo.
In seguito non le piacque più Venezia quando il Carnevale si
volgarizzò, anche quel palpito vitale si spense. Le sarebbero
mancate le maschere, quei volti non umani, espressioni
grottesche e seriose, sculture drammatiche, immagini evocanti un
passato che non le apparteneva, ma le piaceva perché aveva
un’anima che esprimeva la gioia di vivere. Ricordava quando
improvvisamente sbucavano dal nulla, imponendosi al suo sguardo
e alla sua riflessione, oppure, quando imboccava la penombra di
un sottoportego e all’uscita la luce le faceva notare la
presenza angosciante di un essere umano, che portava a spasso
una butta sul suo volto: un “memento mori” e subito dopo magari
incrociava la maschera radiosa del sole, un disco dorato e
paffuto sulle guance con tanti raggi intorno: miraggio ambiguo
della nostra interiorità.
Purtroppo quel soggiorno a Venezia per noi è stato l’ultimo, ma
fin quando c’è vita c’è speranza.
Achille della Ragione – Elvira Brunetti
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La finanza vola mentre l’economia arranca
I ricchi godono ed i poveri piangono
Una situazione paradossale venutasi a creare in questi ultimi
tempi è costituita dal fatto che, mentre banchieri e finanzieri
hanno ricominciato a guadagnare copiosamente ed i titoli in
borsa sono tornati a volare, l’economia reale arranca, la
disoccupazione cresce e, nonostante l’incauto ottimismo del
governo, i cittadini non vedono la fine della crisi, anzi temono
che il peggio debba ancora venire.
La considerazione più amara è che i soldi che stanno ingrassando
le banche di tutto il mondo sono soldi nostri, carpiti dalle
nostre tasche con la scusa che bisognava salvare dal fallimento
il sistema creditizio, altrimenti non vi era che attendere
l’apocalisse.
I governi di tutti i paesi occidentali hanno elargito cifre
smisurate alle banche, aumentando oltre ogni limite il debito
pubblico ed ipotecando il futuro delle nuove generazioni.
Inoltre hanno abbassato il costo del denaro, favorendo
spericolate speculazioni da parte dei soliti squali della
finanza internazionale, i quali, da un lato lesinano il prestito
al sistema industriale, dall’altro si impegolano in spericolati
acquisti di obbligazioni asiatiche, da vendere a breve,
realizzando colossali plusvalenze.
Nessuno crede alla favola che gli istituti di credito siano
pronti a prestare denaro alle aziende meritevoli di fiducia, il
loro interesse è lucrare su operazioni di ingegneria finanziaria
senza alcun addentellato con la produzione di beni e servizi.
Alla smisurata liquidità ed al basso costo del denaro,
praticamente zero, si è aggiunta l’accentuata debolezza del
dollaro, all’origine dell’impennata della quotazione del dollaro
e delle materie prime, senza che i mercati siano in grado di
trovare delle regole che non siano quelle della giungla e così
gli Stati Uniti stanno creando una nuova gigantesca bolla
finanziaria, che prima o poi deflagrerà, travolgendo quel poco
che resta della nostra disastrata economia.
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Garbata replica
Gentile direttore,
Le chiedo, non per polemizzare ma per una doverosa precisazione,
di poter replicare brevemente al commento sul mio intervento a
favore del metodo Karman pubblicato ieri da parte di un anonimo
lettore, rifugiatosi sotto la sigla di un’improbabile
associazione.
Davo per scontato che l’interruzione volontaria di gravidanza
prevista da una legge, confermata da ben due referendum, fosse
un diritto della donna e non desideravo assolutamente entrare
nel merito di un’annosa diatriba tra laici e cattolici.
Intendevo unicamente, da addetto al settore, da trenta e più
anni in prima linea sul problema dell’aborto e non nella comoda
retroguardia dalla quale incessantemente pontificano giornalisti
e politici e dopo aver pagato un prezzo altissimo per questa mia
scelta, fornire una serie di informazioni tecniche sia ai
lettori che agli stessi specialisti, che ignorano i benefici
della metodica.
L’anonimo lettore vuole viceversa terrorizzare le donne con
immagini raccapriccianti e con dati statistici falsi e vorrebbe
che esse tornassero ad abortire dalle mammane con la sonda o con
l’antiquato raschiamento, pur di non banalizzare una scelta
sempre difficile e dolorosa.
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Proverbi napoletani di latina origine
4000 modi di dire comparati tra vernacolo e lingua di Cicerone
Il napoletano è una lingua, non un dialetto, con la sua
grammatica e la sua letteratura, ma come tutti gli idiomi ha
debiti verso le parlate precedenti, principalmente il latino,
come dimostra con molteplici esempi Roberto Vigliotti, autore di
una colta raccolta di proverbi napoletani, per ognuno dei quali
corrisponde un’antica dizione nella nobile lingua di Cesare e di
Cicerone.
Vigliotti è un ingegnere edile in pensione, da sempre
appassionato di Napoli e delle sue tradizioni linguistiche,
coltivate sin da ragazzo, il quale, dopo aver preso appunti per
una vita, ha dato alle stampe in questi giorni un volume di ben
750 pagine, una vera e propria summa sull’argomento: Antique
sententiae nun falliscene maje con prefazione di Renato De
Falco, l’avvocato a tutti noto come la Cassazione del dialetto
napoletano.
L’autore nella prefazione spiega come la lingua napoletana non
sia altro che il volgare latino della regione, come il toscano
per la Toscana, al quale si sono poi sovrapposte le parlate
degli invasori. Una vera novità, infatti basta sfogliare
qualsiasi vocabolario etimologico del nostro vernacolo per
constatare come per la maggior parte delle parole sia stata
ipotizzata una radice spagnola o francese. Nessuno studioso era
fino ad oggi andato così a ritroso nel tempo alla ricerca delle
nostre origini linguistiche.
Il libro, nonostante le rispettabili dimensioni, è di facile
consultazione: parte da una storia del proverbio dall’antichità
ad oggi, e poi divide in 16 capitoli per argomento(canzoni,
donna, famiglia, religione, sentimenti) i 4000 proverbi e modi
di dire napoletani, per ognuno dei quali recupera l’etimo
latino.
Molto divertenti gli esempi citati, alcuni addirittura risalgono
alla Bibbia come ” qui parcit virgae, odit filium suum”, che in
napoletano recita” chi se sparagna ‘a mazza, nun vò bbene ‘e
figlie” ; chi non educa i figli non vuole il loro bene oppure “A
àceno a àceno s’appara ‘a macena” un detto derivato da “ multae
guttae implent flumen” che in italiano vuole ammonire che le
cose importanti si fanno con pazienza, una virtù sconosciuta ai
giovani di oggi.
Sorprendenti i collegamenti con Totò, che nella sua celebre
canzone Malafemmena diceva ”te voglio bene e t’odio” come
Catullo diceva della sua Lesbia “odi et amo” ed addirittura il
concetto espresso nella sua più famosa poesia “a morte è ‘na
livella”, già espresso dal poeta Claudiano due millenni prima
nel De raptu Proserpinae “omnia mors aequat”.
Un libro che non deve mancare nella biblioteca degli
appassionati delle tradizioni napoletani e che deve ammonirci a
conservare il nostro passato e i nostri dialetti, anche se tutti
dobbiamo oramai parlare la stessa lingua, con buona pace di
Bossi e dei suoi scriteriati colonnelli.
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Un poco noto primato napoletano
Napoli, soprattutto sotto i tanto bistrattati Borbone, è stata
in primo piano con importanti innovazioni nel campo industriale
e scientifico; tra i tanti primati ricordiamo la prima ferrovia
italiana (seconda nel mondo) la Napoli Portici, inaugurata nel
1839. Il Seicento viene viceversa ricordato come un secolo buio,
segnato da una crisi economica strisciante e da precarie
condizioni di vita per la numerosa popolazione, che faceva di
Napoli, con circa 400.000 abitanti, la seconda metropoli europea
dopo Parigi.
Un libro di Daniele Casanova: Fluent ad eum omnes gentes. Il
Monte delle Sette opere della Misericordia nella Napoli del
Seicento ci illumina su un aspetto poco noto della benemerita
istituzione, celebre per aver commissionato a Caravaggio la
superba pala d’altare illustrante le Sette opere della
Misericordia, una tela che diffonderà tra gli artisti partenopei
un nuovo messaggio pittorico, che diverrà verbo e condizionerà
positivamente gli sviluppi del secolo d’oro della pittura
all’ombra del Vesuvio.
In quegli anni tutta l’Europa conosce, alle soglie della
modernità, i morsi della fame e la miserevole condizione della
povertà, per un cospicuo incremento della popolazione e per un
lungo periodo di stasi nella produzione agricola ed industriale.
La pauperizzazione, un termine caro agli studiosi del fenomeno,
mette a nudo diseguaglianze sociali ed anacronistici privilegi
ed impone un programma di assistenza da parte dello Stato verso
le legioni di nuovi poveri.(Una situazione di imbarazzante
attualità che vede oggi ghermiti dalla crisi finanziaria
mondiale sempre più persone, abituate ad una vita dignitosa,
verso il baratro della più opprimente povertà).
Nella Napoli alle soglie del Seicento lo Stato è lontano e sordo
alle esigenze dei cittadini, essendo la gloriosa capitale un
vice regno, amministrato dagli spagnoli unicamente con
l’obiettivo di trarne risorse per la loro politica imperiale.
Necessita perciò un’azione vicaria da parte della nobiltà e dei
ricchi, basata su un imperativo etico che i napoletani non
lasciano inascoltato. Sorgono perciò, già nel Cinquecento,
numerose istituzioni caritatevoli che si propongono di aiutare i
più bisognosi, prestando denaro su pegno, i tanti Banchi che
confluiranno poi nel Banco di Napoli o i Pellegrini, che
ospitano e curano tutti coloro che si spostano verso Roma ed
altri luoghi di fede ed anche in campo sanitario con gli
Incurabili sorgerà un ospedale efficiente invidiato per secoli
anche all’estero.
L’autore, attraverso l’esame di numerosi documenti conservati
nell’archivio del Pio Monte, ha dimostrato che, a fianco
all’attività caritatevole, nel tempo, la famosa istituzione, che
ancora oggi esercita le sue funzioni, ha praticato il credito
derivante dalle numerose donazioni in maniera discreta quanto
efficiente, al punto da identificarsi con un vero e proprio
istituto finanziario.
Un’amministrazione scrupolosa di investimenti, prestiti e
gestione del patrimonio, che ha creato un virtuoso intreccio tra
carità e finanza, a dimostrazione di un dinamismo
imprenditoriale, come sottolinea Aurelio Musi nell’introduzione,
in contrasto con l’immagine stereotipata di un meridione
immobile economicamente durante il Seicento, mentre il sud e la
sua capitale decadevano sempre più.
Dai numerosi libri dei conti, come in campo artistico dal
capolavoro di Caravaggio, ci rimbalza la scoperta piacevole di
una città che seppe accettare le sfide della modernità e seppe
porsi, ieri più di oggi, tra le più importanti città europee.
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La bellezza è necessaria?
La bellezza della quale vogliamo parlare non è quella più o meno
ideale dell’arte, bensì quella ordinaria che regola, attraverso
il gusto più o meno variabile nel tempo, i rapporti
interpersonali.
La natura, con la sua proverbiale saggezza, ha posto
nell’istinto sessuale il motore per perpetuare le specie
animali, incluso l’uomo, ma alla base dell’attrazione ha posto
delle condizioni completamente stravolte dall’avvento della
società e della cultura, che si manifesta con parametri del
tutto diversi da quelli previsti.
La prima rivoluzione che ha mutato la scena della seduzione è
stata l’uso dei vestiti ed in seguito l’abolizione, attraverso
la diffusione dell’igiene personale, degli odori, che in passato
rivestivano un ruolo fondamentale nel formarsi della coppia,
anche se solo per l’espletamento della copula.
I ferormoni, che rimangono decisivi nell’accoppiamento tra gli
animali, nella nostra specie sono trascurabili e addirittura le
zone encefaliche specializzate alla percezione
olfattiva(rinocefalo) nell’uomo hanno subito una significativa
riduzione.
Anche la funzione visiva, che abbracciava l’intero corpo del
potenziale partner, incluso i genitali, è mortificata dagli
abiti, i quali non permettono di valutare quei segnali che
costituivano una bussola necessaria per indirizzare le pulsioni
sessuali nel momento più favorevole alla fecondazione.
L’attenzione viene oggi posta principalmente sul volto(quando
non è coperto da veli più o meno opprimenti, come è raccomandato
da alcune confessioni religiose) e rivestono meno importanza
tutta una serie di fattori, dalla massa adiposa alla procacità
delle mammelle, che rappresentavano in passato un indice, anche
se grossolano, di fecondità e di capacità di allattare la prole.
Gli uomini cercano nella donna principalmente la giovinezza,
ubbidendo ad un imperativo genetico che condiziona le loro
scelte a favore di una maggiore probabilità riproduttiva, ma
sono particolarmente attratti dalla bellezza di un viso e
trascurano una fanciulla, per loro brutta, anche se in possesso
di uguali capacità procreative.
Essi non conoscono quale carica d’amore si nasconda nelle donne
brutte, che ansia di dedizione, che riconoscenza anche per una
sola parola pietosamente galante, per un gesto gentile. Ma loro
guardano, affascinati, gli occhi e il nasino, il seno e le gambe
delle donne belle e si schiantano per avere i brandelli di un
cuore che tanti altri, prima di loro, si sono divisi. Le donne
brutte, intanto, sfioriscono, con il cuore gonfio e intatto.
Un altro fattore precipuo della nostra specie, che in parte
condiziona l’attrazione tra maschio e femmina, è costituito
dall’innamoramento e dall’amore, un’emozione sconosciuta agli
animali, un gioco capriccioso dei sensi, un malanno contagioso
che ci penetra all’improvviso, nel momento meno prevedibile e
può darci una febbricola di pochi giorni o un morbo incurabile.
Le regole dell’amore sono spesso diverse da quelle
dell’attrazione ed a volte, soprattutto per le donne, basta un
particolare insignificante per far scoccare a Cupido la sua
freccia fatale: degli occhi malinconici, un sorriso radioso, dei
capelli precocemente brizzolati, delle mani particolarmente
curate, perfino un volto brutto, ma interessante.
Per quanto la bellezza che presiede al formarsi della coppia
risponda a criteri quanto mai soggettivi, per motivi di
selezione naturale, poiché tutti, gli uomini ma anche le donne,
cercano un partner con caratteri piacevoli, potremmo sperare
nella predominanza sempre maggiore della bellezza nelle nuove
generazioni, fino a quando la bruttezza diverrà uno spiacevole
ricordo del passato, di un medioevo dalle regole feroci, il
quale, purtroppo, rappresenta il nostro presente che siamo
costretti ogni giorno a vivere e che per molti rappresenta
sofferenza ed esclusione.
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Bentornato bigliettaio
Gentile dottore,
si potrebbero creare immediatamente diverse migliaia di posti di
lavoro se, con una leggina, si obbligassero le società che
gestiscono i trasporti urbani a ripristinare la antica figura
del bigliettaio. I vantaggi sarebbero molteplici ed i costi
completamente coperti dal recupero delle somme evase dai
portoghesi che viaggiano a sbafo, divenuti falangi, come può
accertarsi chiunque abitualmente adopera mezzi pubblici.
Si risparmierebbero anche le percentuali erogate a tabaccai e
giornalai dove abitualmente si è costretti ad acquistare i
biglietti, spesso incontrando difficoltà se si viaggia di
domenica o nelle ore serali, ma principalmente aumenterebbe la
sicurezza a bordo, divenuta negli ultimi tempi alquanto
precaria.
Alcuni comuni, tra cui Roma, hanno previsto su alcune linee
molto frequentate di dotare le vetture di un addetto ai
biglietti ed al controllo dei passeggeri, segno evidente che si
comincia ad avvertire la impellente necessità di tornare
all’antico.
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Il Tempio della memoria
Finalmente apre a Roma il museo dell’emigrazione italiana
Finalmente, dopo tanti progetti accantonati e tante promesse non
mantenute, apre a Roma nel complesso del Vittoriano il museo
nazionale dell’emigrazione, a testimoniare un esodo doloroso
durato oltre un secolo di 29 milioni di Italiani, dei quali meno
di un terzo è ritornato in patria e che in alcuni momenti, per
le dimensioni macroscopiche del flusso e per le condizioni
disumane con le quali è avvenuto, si è configurato come un vero
e proprio genocidio.
Visitarlo è importante per meditare sulla circostanza,
sottolineata ieri dal Presidente Napolitano all’inaugurazione,
che l’Italia è un paese di emigrazione prima che di
immigrazione. Questo magmatico fenomeno, segnato da infinite
vicissitudini, ha trovato ora un luogo concreto, dal pregnante
valore simbolico, dove possa essere raccontato alle nuove
generazioni, che sono invitate a conoscere il nostro passato per
sapersi adeguatamente comportarsi oggi, che siamo divenuti un
paese in grado di offrire lavoro e benessere ad altre
popolazioni.
Il percorso espositivo si avvale delle più avanzate tecnologie
in campo di comunicazione audio visiva e tecnologia virtuale ed
è suddiviso in cinque sezioni, che coprono diversi periodi
storici dal periodo pre unitario ai nostri giorni.
Le antiche emigrazioni, quando l’Italia era costituita da una
miriade di piccoli stati, rappresenta una interessante sorpresa
anche per chi ha già letto e studiato l’argomento e le mete
erano rappresentate principalmente dalla Francia e dalla
Germania.
Dal 1861 al 1915 cominciano i giganteschi esodi verso l’America
ed il centro Europa, è l’epoca eroica dell’emigrazione, durante
la quale si sono spostati un numero considerevole di Italiani,
spesso accompagnati dalla propria famiglia.
Viene poi esaminato il periodo tra le due guerre mondiali, in
rapporto al fascismo, al colonialismo ed alle migrazioni
interne, tenuto conto che con la grande depressione del 1929
negli Stati Uniti furono varate norme restrittive.
Segue poi l’esame dei flussi nel secondo dopo guerra, quando il
miracolo economico provocò, oltre a ondate migratorie verso
l’estero, anche un epocale spostamento di popolazione da sud a
nord.
Infine l’attuale realtà della presenza italiana all’estero,
fatta da quattro milioni di unità, caratterizzata da un’elevata
qualificazione: cervelli pregiati ed imprenditori.
Questo cammino nel dolore di un popolo costretto a trovare
lontano dalla patria i mezzi per sopravvivere è corredato da
tabelle esplicative, fotografie, documenti, giornali, manifesti,
video, film storici, oggetti caratteristici, vecchie cartoline,
valigie di cartone ed altri cimeli di famiglia. In alcuni punti
è possibile ascoltare antiche canzoni o vedere piccoli quanto
rari filmati dell’istituto luce.
Vi è poi una ricca biblioteca specializzata con oltre 500 testi
sul’emigrazione utile per studenti e studiosi desiderosi di
approfondire l’argomento ed una sala dove è possibile assistere
ad un documentario di un’ora con interviste a dieci celebri
registi da Salvatores a Squitieri, da Montaldo a Crialese, che
si sono interessati al problema intervallate da brani dei loro
film.
Non manca un settore dedicato a coloro che oggi cercano fortuna
e lavoro in Italia con 60 foto che ci rammentano come il dramma
dell’emigrazione non cambia con il tempo: i raccoglitori di
pomodori nel foggiano o gli anonimi vu cumprà che affollano le
strade ed i mercati delle nostre città.
Le immagini più commoventi sono però quelle che si riferiscono
alle vicissitudini dei nostri antenati, quando per la penisola
giravano 30.000 procacciatori di carne umana, che organizzavano
questi viaggi oltre oceano, con modalità che ricalcano quelle
dei moderni negrieri, utilizzando piroscafi vecchi di decenni,
stipati fino al doppio della capienza ed in assenza di qualunque
presidio igienico sanitario.
Vengono rammentati alcuni episodi dimenticati come il naufragio
nel 1891 davanti al porto di Gibilterra della nave Utopia con la
morte dei 576 passeggeri tutti meridionali o il caso della
Matteo Brazzo, che nel 1884 fu accolta a cannonate nel porto di
Montevideo, perché a bordo vi erano alcuni ammalati di colera.
Paradigmatico che il Brasile divenne meta dei nostri emigranti
dopo il 1888, quando venne abolita la schiavitù e vi era
necessità di nuovi schiavi.
Le partenze nei primi decenni dopo l’Unità avvenivano
prevalentemente dal porto di Genova, perché le regioni più
interessate al fenomeno erano, oltre al Veneto, anche il
Piemonte e la Lombardia, quasi a sfatare definitivamente
l’immagine stereotipata di un nord ricco che aveva civilizzato
il sud. Quando poi la questione meridionale scoppiò in tutta la
sua gravità e venne affrontata con metodi militari, cominciò
l’esodo delle popolazioni meridionali e fu da Napoli che
cominciarono a partire i famigerati bastimenti carichi di
un’umanità dolente, carica di disperazione e di nostalgia, di
ansia di riscatto e di antica dignità, anche se questa realtà
trova difficoltà ad essere documentata con precisione per un
incendio che anni fa ha distrutto gli archivi del porto
napoletano.
Nell’immaginario popolare più corrente il binomio emigrante -
meridionale, divenuto quasi un termine equivalente, risale a
quegli anni dolorosi ed ha avuto poi un rinforzo quando nel
secondo dopoguerra è avvenuto un esodo di dimensioni bibliche
dal sud, sempre più povero, verso il nord divenuto ricco.
Questo splendido museo, che anticipa le celebrazioni per i 150
dell’Unità d’Italia, dovrebbe essere clonato e divenire
itinerante, affinché tutti i cittadini possano visitarlo e
soprattutto gli alunni di tutte le scuole, spesso accompagnati
ad inutili mostre di arte contemporanea, mentre rimangono
ignoranti di questa sofferta quanto interminabile parentesi del
nostro passato.
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Vergogna Marrazzo
Gentile direttore,
speriamo che dopo che la squallida vicenda del presidente della
regione Lazio Marrazzo è venuta alla luce in tutta la sua
miserevole completezza cesseranno gli attacchi da parte della
sinistra alla vita privata di Berlusconi. Alcuni giornali
comincino a vedere la trave nei loro occhi: il seguito
dell’episodio riguardante Sircana, ammogliato e braccio destro
di Prodi, mai destituito, anche dopo essere stato fotografato in
compagnia di robusti transessuali prezzolati.
E non meravigliamoci poi che gran parte degli Italiani nel loro
inconscio continuino ad identificarsi con il prode Silvio,
sciupa femmine attempato e non con un pervertito che cerca il
soddisfacimento dei sensi tra le braccia di un transessuale.
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Il napoletano è una lingua, non un dialetto
Nei giorni scorsi un europarlamentare napoletano, Enzo
Rivellini, ha pronunciato un discorso a Strasburgo in perfetto
vernacolo, scatenando il panico tra gli interpreti e lo stupore
dei colleghi. Intervistato dalla stampa internazionale
candidamente ha affermato che il napoletano non può essere
assolutamente considerato un dialetto, bensì una lingua a tutti
gli effetti, con la sua grammatica e la sua letteratura ed,
aggiungeremo noi, con un suo patrimonio canoro conosciuto ed
apprezzato in tutto il mondo, grazie ad alcuni celebri
ambasciatori, tra i quali, negli ultimi anni, il compianto
Pavarotti.
La parlata di Basile, di Viviani, di Eduardo non è certo
sottocultura, perché essa è stata definita nei secoli da Vico
”lingua filosofica”, da Galiani ”il volgare illustre d’Italia
degno degli ingegni più vivaci”, da Croce “gran parte dell’anima
nostra” senza parlare della poesia animata da vivacità e
fantasia, passione ed amore, in grado di essere intesa anche da
chi non ne riconosce correttamente le parole.
Sarebbe quanto mai opportuno che a Napoli finalmente si pensasse
ad un museo della canzone partenopea, il quale, con gli
opportuni ausili audio visivi, riesca a preservare per le future
generazioni un patrimonio inestimabile da Bovio e Caruso a Di
Giacomo, Viviani, Murolo, Bruni, fino a Pino Daniele e gli
Almamegretta.
Ed in attesa che le istituzioni si muovano, tutti possono godere
di un ottimo spettacolo “Novecento napoletano” che girerà i
teatri di tutta Italia.
Esso ricapitola, con rigore filologico in tre ore di musica, la
ricca tradizione della canzone popolare napoletana, la cui
produzione raggiunse l’apice nella seconda metà dell’Ottocento,
per decadere tristemente con la seconda guerra mondiale.
Di fronte allo spettatore si apre una messinscena complessa con
oltre cinquanta interpreti ed una sontuosa coreografia
ricostruita grazie alle opere di artisti come Scoppetta, Matania
e Dal Bono.
Il musical debuttò al Politeama nel 1992 e per anni ha incantato
le platee di Tokyo, Parigi e Buenos Aires.
L’insieme di emozioni, atmosfere, ricordi, poesia diventa
repertorio popolare di una napoletanità autentica e rituale e ci
permette di apprezzare la festa di Piedigrotta, le folli corse
dei fuientes, la forza espressiva della sceneggiata, le figure
mai dimenticate del pazzariello e dei posteggiatori e
soprattutto il dramma dell’emigrazione, che in alcuni decenni
ebbe la dimensione di un vero e proprio genocidio dimenticato,
con milioni di uomini e donne che partivano dal porto di Napoli
con i famigerati bastimenti, carichi di disperazione e di
nostalgia, di ansia di riscatto e di antica dignità.
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L’epicedio del Banco di Napoli
Cronaca dettagliata di una criminale spoliazione
Scrivere sull’epicedio del Banco di Napoli, su quella vergognosa
operazione di spoliazione del più antico istituto di credito del
mondo da parte di una politica dominata dalle ragioni del nord e
da un apparato burocratico servo dei diktat del Tesoro e della
Banca d’Italia non è stato facile per me, nonostante provenga da
una famiglia che da generazioni ha servito onorevolmente nel
Banco: mio fratello, già direttore ed oggi pensionato, ma ancora
con entusiasmo attivo nel sindacato e nella stesura del
battagliero periodico Senatus, mio padre, all’epoca vice
direttore della sezione di credito industriale, mio nonno,
impiegato e prematuramente scomparso durante l’epidemia di
spagnola nel 1918. E senza salire oltre nell’albero genealogico
ho respirato da ragazzo quell’atmosfera di rispetto che
circondava il dipendente del Banco di Napoli, forte di stipendi
lauti e delle sue quindici mensilità. Una situazione sociale
distante anni luce dall’approssimazione e dalla sciatteria che
contraddistinguono oggi i rapporti con la clientela.
Della crisi del Banco avevo poi due personali esperienze da cui
partire: la perdita secca del 100% del capitale(44 milioni)
investito in azioni dell’Istituto, l’unica volta che,
consigliato dal mio germano, avevo giocato in borsa e la
conoscenza di una paradossale gestione di un debito di quasi
cento miliardi verso la banca da parte di un mio amico rampante
finanziere, il quale, insolvente, ha continuato per
decenni(forse ancora oggi) a percepire i fitti su circa
cinquecento immobili dati in garanzia e sottoposti a sequestro.
A squarciare il velo sull’assordante silenzio che ha coperto
l’operazione è giunto fortunatamente in libreria un volume
scritto, con competenza e precisione, da Emilio Esposito,
docente universitario e Antonio Falconio, già direttore
centrale, i quali hanno documentato le tappe dello
smantellamento del sistema bancario meridionale ed in
particolare del Banco di Napoli.
Il volume contiene anche quattro dotte presentazioni da parte
del rettore Guido Trombetti, del presidente della Fondazione
Banco di Napoli Adriano Giannola, del presidente dell’attuale
Banco di Napoli Spa Enzo Giustino e del direttore del quotidiano
economico Il Denaro Alfonso Ruffo, i quali, con le loro puntuali
chiavi di lettura, collaborano ad illuminare questa opera di
spoliazione perpetrata ai danni dell’economia meridionale.
Alcuni capitoli ripercorrono la storia del Banco, sorto nel 1539
dall’unione degli otto Banchi meridionali presenti in città,
dando luogo a quella che è stata la più lunga istituzione
creditizia del mondo occidentale, mentre altri descrivono la
situazione negli anni precedenti la crisi, per giungere poi al
fatale triennio 1994 – 96, con la scomparsa del marchio
fagocitato da un processo di accorpamento del credito, per
comparire di nuovo, recentemente, anche se solo nel nome, per
assecondare i desideri di una clientela di vecchia data, che si
sentiva castrata nell’entrare in filiali dove, oltre a non
trovare più volti noti, nei quali riponeva la sua incondizionata
fiducia, capeggiava la scritta delle banche conquistatrici.
Nell’introduzioni gli autori sottolineano che scopo del loro
libro è quello di preservare la verità per le nuove generazioni,
ben sapendo che la storia la scrivono i vincitori, i quali,
spesso, servendosi di cronisti asserviti, occultano documenti
scomodi e favoriscono che sull’accaduto si sedimenti la damnatio
memorie.
A tale scopo sono citati ampiamente anche tutti gli atti
parlamentari di quei pochi meridionalisti che difesero la
centralità dell’operato del Banco di Napoli, a difesa degli
interessi di tanti piccoli imprenditori del sud, anche se
rimasero inascoltati, perché cominciava a premere la questione
settentrionale e tutto il Mezzogiorno veniva quotidianamente
descritto dalla stampa come il luogo del clientelismo e
dell’inefficienza.
Venne adottato il sistema dei due pesi e due misure, con
un’eccessiva prudenza contabile, che condusse all’azzeramento
del patrimonio ed alla successiva scomparsa del Banco di Napoli.
Il sud perse la sua banca di riferimento secolare e migliaia di
imprese furono costrette al fallimento con gravi contraccolpi
sull’occupazione e con un grave impoverimento socio culturale.
Fu uno dei danni più gravi inferto ai danni del Mezzogiorno in
nome della supremazia del mercato, proprio alla vigilia di una
drastica inversione di rotta degli Stati più liberisti del
mondo, che hanno adottato la ricetta delle partecipazioni
statali immettendo ingente liquidità per salvare traballanti
colossi della finanza e dell’economia.
Alcuni aspetti tecnici dell’operazione, per quanto chiaramente
esposti dagli autori, sono difficilmente afferrabili dal lettore
meno versato in economia, anche se risalta come truffaldino il
criterio adottato all’epoca per valutare il Banco di Napoli, da
parte dell’advisor del Tesoro, la Rotschild, la quale nel 1977
ritenne equo il prezzo di 61 miliardi di lire per acquistare il
60% del glorioso istituto da parte dell’Ina e della BNL e dopo
circa due anni ritenne altrettanto equo un prezzo di 3600
miliardi per la vendita del 56% dello stesso Banco al Sanpaolo –
Imi, dando luogo ad una vergognosa plusvalenza.
Non è il solo punto oscuro del criminale atto di sabotaggio e di
desertificazione verso il sud ed aspettiamo tutti che
sull’argomento voglia quanto prima scrivere una penna alla
Saviano, che voglia gridare tutta la rabbia repressa dei
meridionali, dimostrando che i delinquenti non si annidano solo
nell’inferno di Scampia o Secondigliano, ma anche tra i colletti
bianchi che siedono boriosi al Tesoro o nei consigli di
amministrazioni delle grandi banche del nord.
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Vecchi senza fine
Il numero dei vecchi sta salendo da anni in maniera
esponenziale, non solo nel mondo occidentale, ma anche nei paesi
del terzo mondo; una circostanza che provoca problemi sociali ed
economici da far tremare le vene ai polsi. Infatti la
percentuale di giovani sulle cui spalle vi è il carico di
provvedere a questi eserciti sterminati, le cui file si
ingrossano giorno dopo giorno, tende a divenire sempre più
bassa. Pochi anni fa tre lavoratori concorrevano a pagare la
pensione per un anziano, fra poco un lavoratore dovrà mantenere
tre vecchi.
Nei giorni scorsi sull’autorevole rivista Lancet è stata
pubblicata una ricerca secondo la quale la maggior parte dei
bambini di oggi sono destinati a divenire centenari, una
prospettiva sconvolgente, che metterebbe in forse lo stesso
futuro dell’umanità.
Una catastrofica pandemia di sopravvivenza sta per abbattersi
sul mondo senza speranza di salvezza in antidoti o vaccini e con
l’unica allucinante soluzione di un’eutanasia di massa,
programmata ed obbligatoria.
Il premio Nobel per la medicina quest’anno è stato assegnato a
tre scienziati americani, due dei quali donne, che hanno
dedicato la loro vita allo studio dell’invecchiamento cellulare,
segno inequivocabile di come il problema sia tenuto in grande
considerazione, ma nessun medico ha pronta una terapia per lo
stupore dell’uomo che continuerà a vivere invece di morire. Egli
dovrà prepararsi a diventare poco ingombrante, ad essere
tollerato, compatito, inascoltato. Lo specchio gli fornirà
un’immagine nella quale stenterà a riconoscersi, dovrà
dimenticare di essere stato maschio o femmina, perché la
senilità nei suoi gradi più accentuati ci fa somigliare un po’
agli angeli, almeno nella mancanza di un sesso, vicino ai cento
anni ridiventiamo come i neonati nella culla, distinguibili
unicamente per il colore della maglietta.
Molti saranno costretti ad invocare la morte per mettere fine ad
un’esistenza fuori da ogni logica ed al di là dei programmi
della natura, tornerà di moda l’invocazione di San Francesco a
sorella morte corporale, pietosa risolutrice di imbarazzanti
situazioni.
La società dovrà già da ora prepararsi a reggere l’impatto di
questa pandemia sul sistema previdenziale, ad organizzare un
sistema assistenziale che supplisca ai compiti di una famiglia
patriarcale oramai un pallido ricordo del passato, mentre la
medicina dovrà cercare disperatamente di aggiungere vita agli
anni, dopo aver contribuito con le proprie scoperte ad
aggiungere soltanto anni alla vit
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Trenta navi cariche di scorie radioattive al largo della
Calabria
La settimana scorsa i giornali hanno riportato la notizia che al
largo delle Calabria, a breve distanza dalla costa, in un mare
dove ogni estate milioni di bagnanti si immergono ed una
moltitudine di pesci ci vive prima di finire nelle nostre
padelle, giacciono ben trenta navi colme di rifiuti tossici e
scorie radioattive, affondate dalla ndrangheta.
A distanza di pochi giorni, nonostante l’enormità dell’episodio,
del quale si è venuto a conoscenza grazie alle confidenze di un
pentito, nessuno sembra più interessarsi della cosa. Mi sembra
di ripercorrere una storia già vissuta, quando alcuni anni
orsono nel mio libro di denuncia Monnezza viaggio nella
spazzatura campana(consultabile in rete) segnalavo che in
centinaia di pozzi del casertano la camorra aveva depositato un
egual carico di veleni e di morte e nel corso delle
presentazioni in tutta Italia il pubblico apprendeva incredula
la notizia, senza che nessuno: magistrati, autorità, giornalisti
si impegnassero per controllarne la veridicità e prendere gli
opportuni provvedimenti. E dire che sulla copertina del libro
era riportata una pecora a due teste, uno squallido trofeo
fotografato nella casa di un camorrista di Casal di Principe, a
tangibile dimostrazione delle mutazioni genetiche provocate
dall’uranio e le immagini di Beatiful cauntry, un film
coraggioso, che quasi nessuno ha potuto vedere, perché
maldestramente distribuito, mostrassero che in ogni gregge nella
terra dei casalesi vi fosse qualche esemplare affetto da
mostruosità.
Cosa aspettiamo ad indignarci e poi indagare e soprattutto
provvedere?
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Singolare o plurale, Borbone senza pace
La scomparsa di Alfonso Scirocco, celebre storico specialista di
alcuni protagonisti del nostro Risorgimento, mi ha fatto tornare
alla mente la sua partecipazione, alcuni anni orsono, in veste
di relatore, nel salotto culturale di mia moglie Elvira, quando,
nel corso del dibattito, gli fu posta la domanda se lui
ritenesse più corretta la dizione Borbone o Borboni ed il
professore, senza esitazioni, si pronunciò per la forma al
plurale. Un parere in linea con quello del professor Galasso,
come ebbi modo di constatare nel corso di una presentazione di
un libro alla Saletta rossa Guida a Portalba, mentre Paolo Mieli
sposava la tesi del singolare. Ne seguì un colto articolo sul
Mattino di Titti Marrone, presente come moderatrice, molto
equilibrato, che aveva una conclusione equidistante tra le due
ipotesi.
In seguito ebbi il privilegio di accompagnare Umberto Eco in una
visita guidata al museo di Capodimonte e così approfittai per
chiedere il suo parere, che fu decisamente per il singolare.
Convenimmo di comune accordo che Benedetto Croce era all’origine
di questa confusione, perché aveva scritto sull’argomento più
volte adoperando il plurale.
Spesso viene citata una lettera di Ferdinando II con la firma
Borboni, naturalmente non fa testo, ben conoscendo il livello
culturale del sovrano, come pure la lunga disquisizione sulle
famiglie europee che acquisiscono la dizione Bourbon al plurale,
essendo nozione elementare che alcune lingue, ad esempio inglese
o francese, a volte hanno il plurale per i cognomi, errore
gravissimo per l’italiano.
A conferma di ciò che pensavo richiesi tempo fa un parere
all’ancora attiva ed autorevolissima Accademia della Crusca, la
quale si espresse senza esitazioni per la forma singolare,
conclusioni che comunicai alla stampa e pubblicata da numerosi
giornali, anche non napoletani.
Nonostante questa autorevole dichiarazione, che dovrebbe
chiudere definitivamente la questione, sono certo che la lunga
diatriba linguistica continuerà certamente immutata, avendo
sulle opposte sponde autorevoli personaggi, da un lato i
professori Scirocco e Galasso, dall’altro Mieli ed Eco e troverà
una soluzione definitiva solo nel tempo, essendo la nostra una
lingua viva, che macina lentamente le parole.
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Le carceri scoppiano, non solo in Italia
La situazione drammatica delle carceri italiane, che
letteralmente esplodono per l’aumento oltre ogni limite dei
detenuti, è stata richiamata all’onore delle cronache da una
sentenza della Corte di giustizia europea, la quale ha
condannato lo Stato per aver costretto un ladruncolo bosniaco,
anni fa, a convivere in penitenziario con altri cinque soggetti,
in un ambiente ristretto di 16 metri quadrati, ben al di sotto
della soglia di 7 metri a persona, ritenuta il minimo
compatibile con la dignità umana, altrimenti si parla senza
mezzi termini di tortura.
Bisognerà pagare 1000 euro e la sentenza costituisce un
importante precedente per coloro che vorranno adire alla Corte
europea dei diritti dell’uomo per aver subito un trattamento
analogo, la situazione nella quale si trovano in questo momento
tutti i 64000 detenuti ospiti dei nostri penitenziari, nessuno
escluso.
Il ricorso può essere presentato direttamente dall’interessato
senza necessità di assistenza legale e consiglio a tale scopo di
consultare preliminarmente sul web l’articolo di mio figlio Gian
Filippo Corte di giustizia(dove, quando, come, perché).
Una mole di condanne internazionali potrebbe essere uno stimolo
dirompente per il governo che, dopo tante chiacchiere deve
decidersi ad affrontare una situazione assolutamente
intollerabile.
Se l’Italia piange la California non ride, infatti anche nella
ricca America ai galeotti è riservato un trattamento non certo
con i guanti, ma lì vi è un giudice coraggioso, il quale ha
sentenziato che se le condizioni di vita nelle carceri non
migliorerà sensibilmente nei prossimi mesi bisognerà liberare il
30% dei detenuti. Una bancarotta in piena regola che da noi
farebbe gridare allo scandalo, ma quando uno Stato non riesce a
garantire i diritti più elementari non resta che abdicare.
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San Gennaro superstar
Gentile dottor Romano,
in riferimento alla lettera di una vostra lettrice, la quale
ironizzava sulla stupefacente puntualità della liquefazione del
sangue di San Gennaro, vorrei segnalare una curiosità poco nota,
che fa di Napoli l’indiscussa capitale delle reliquie: la
presenza in città di oltre cento ampolle contenenti grumi
sanguigni di santi ed eremiti, i quali con cronometrica
precisione vanno incontro al fenomeno di scioglimento per
ritornare poi allo stato solido: le ampolle sono conservate in
numerose chiese, ma anche nelle cappelle gentilizie di antiche
famiglie napoletane.
Un esempio tra tanti quello di S. Patrizia che subisce
periodiche liquefazioni, ma di questi sorprendenti fenomeni ne
potremmo citare altre decine, meno conosciuti: il sangue di
Santo Stefano, custodito nel monastero di Santa Chiara, che si
liquefa il 3 agosto ed il 25 dicembre, quello di Sant’Alfonso
Maria de’ Liguori, conservato nella chiesa della Redenzione dei
Captivi, che si scioglie il 2 agosto, quelli di San Pantaleone e
di San Luigi Gonzaga, nel Gesù Vecchio, attivi entrambi il 21
giugno
Questa moltitudine di eventi prodigiosi rappresenta per il
credente un valido motivo di orgoglio, ma anche per i laici deve
rappresentare un’occasione di profonda meditazione, perché le
spiegazioni fino ad ora proposte dalla scienza, per cercare di
dare una spiegazione razionale al fenomeno, sono poco più che
risibili.
E nell’attesa che parte del mistero che circonda i sacri grumi
possa dissolversi attraverso l’indagine della scienza resta
l’oggettività del prodigio sotto gli occhi di tutti, credenti e
scettici, a fornire agli uni il coraggio della fede, agli altri
una giusta dose di meditazione e riflessione.
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Lettera aperta alla direttrice della Galleria Corsini, alla
Soprintendenza di Roma ed al Ministro dei Beni culturali
L’altro giorno mi sono recato alla Galleria Corsini(fig. 1) con
il desiderio di poter ammirare uno dei capolavori del Ribera:
Venere ed Adone(fig. 2), oltre naturalmente ad altre 300 opere
di tanti importanti pittori italiani e stranieri, che fanno del
museo romano un vero scrigno prezioso per gli amanti dell’arte e
per i forestieri.
Con il timore di indicare solo i nomi più importanti ricordiamo
il Beato Angelico(fig. 3), Fra’ Bartolomeo, Jacopo Bassano,
Caravaggio(fig. 3), Annibale Carracci, Reni, Guercino, Preti,
Andrea del Sarto, Salvator Rosa, Giordano, Piazzetta, Maratta e
tra gli stranieri Rubens, Van Dyck, Murillo, Poussin, Dughet,
senza considerare la camera da letto della regina Cristina di
Svezia con splendidi affreschi del XVI secolo(fig.5)
Giunto alla biglietteria vengo a sapere che da oltre un’ora per
un guasto è venuta a mancare la corrente e non si può stampare
il tagliando; attendo per molto tempo, sono l’unico visitatore,
fino a quando decido di entrare egualmente, lasciando i soldi
dell’ingresso per stampare in seguito il biglietto e sperando,
con l’apertura delle finestre, tutte rigorosamente chiuse, di
poter lo stesso ammirare tante meraviglie.
Vengo allora avvertito che su otto sale solo metà sono visibili
e che tale limitazione non è una novità, ma persiste da tempo
immemorabile.
Mi contento di vedere ciò che è visibile ed incontro difficoltà
per l’assenza di targhette con la didascalia dei dipinti, i
quali, come in molte altre gallerie romane, antiche residenze
nobiliari, hanno conservato una disposizione sulle pareti a più
livelli, per cui, anche per un occhio esperto, riconoscere i
quadri posti in alto è estremamente difficile.
Decido allora di acquistare il catalogo per un aiuto nella
lettura delle opere, ma la pubblicazione, uscita nel 2000,
riporta una collocazione completamente diversa da quella
attuale.
Scoraggiato, mi limito ad una visita frettolosa, senza poter
approfondire ciò che è esposto nel completo anonimato.
La situazione della Galleria Corsini non è eccezionale, ho
trovato una identica chiusura generalizzata, pochi mesi fa sia
nella Galleria Barberini che nel Palazzo Ducale di Venezia,
senza parlare di Brera o del museo di San Martino. Uno sfascio
che grida vendetta per il modo maldestro con il quale viene
amministrato un patrimonio unico al mondo, che dovrebbe essere
fonte di ricchezza per il richiamo irresistibile esercitato
sugli appassionati di arte italiani e soprattutto stranieri,
mentre rappresenta una fonte di vergognoso imbarazzo.
La mancanza di fondi dovuta alla crisi economica, che ha
investito ogni settore, non può essere una scusante, perché
mettere dei cartellini sotto i dipinti o aggiornare le guide, ha
un costo irrisorio e se lo Stato non è più in grado di garantire
il minimo non resta che abdicare e dare un’opportunità ai
privati di investire in un settore fondamentale per l’andamento
del nostro turismo.
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Un nuovo libro su Achille Lauro
Finalmente un grande editore, Mondadori, ha dedicato un libro a
quel personaggio vulcanico ed ancora misconosciuto che fu
Achille Lauro: grande armatore e sindaco plebiscitario per molti
anni all’ombra del Vesuvio, oltre che editore, creatore della
prima televisione privata italiana, presidente del Napoli, uomo
politico di rilievo nazionale e tante altre cose ancora.
A ricordarcene le gesta, in un nuovo disperato tentativo di
sdoganarne l’immagine, offuscata da tanti decenni di propaganda
denigratoria da parte della sinistra, giunge un
libro(o’Comandante, vita di Achille Lauro) di Carlo Maria
Lomartire, giornalista specializzato in biografie, avendo già
scritto su Mattei e sul bandito Giuliano, ma soprattutto un
grande editore capace di una massiccia e capillare
distribuzione, come ho potuto personalmente constatare
telefonicamente tramite amici, che hanno potuto acquistare il
volume anche in piccoli centri sia nel nord che nel centro
Italia.
Dall’uscita nel 2003 del mio Achille Lauro
superstar(consultabile su internet) quasi ogni anno è uscito un
nuovo libro sul Comandante, a volte ricordi di umili uomini
della sua flotta, altre volte contributi su particolari aspetti
della sua poliedrica attività, come quello di Gaetano Fusco su
Lauro produttore cinematografico o l’indagine di Fabio Gentile
sulla sua carriera politica, ma servendosi sempre di modeste
case editrici locali, prive di un’adeguata distribuzione e senza
poter contare su recensioni sulla stampa.
O’ Comandante, vita di Achille Lauro, viceversa, grazie al
potere mediatico della Mondadori, ha già avuto, ancor prima
dell’uscita in libreria, attestazioni di fiducia di importanti
testate, a partire da Il Mattino che l’altro giorno gli ha
dedicato un’intera pagina.(Ricordo che all’epoca per avere sullo
stesso giornale quattro righe di recensione dovetti far
intervenire più di un amico redattore).
Il libro di Lomartire espone in maniera semplice e lineare la
parabola di Lauro, dall’esordio giovanissimo come mozzo sulla
nave paterna, fino al malinconico tramonto culminato con il
fallimento della flotta e la morte all’età di 95 anni.
Dopo aver raccontato gli esordi e la sua attività durante il
fascismo, l’attenzione è fissata sugli anni del grande successo
politico, quando in un’Italia ancora sospesa tra modernità e
sottosviluppo, tra promesse di ricostruzione ed ampie sacche di
clientelismo, la figura di Lauro segna un’intera stagione della
politica del Mezzogiorno e non solo. Con spregiudicato
equilibrismo, assiste alla fine del centrismo di De Gasperi, al
quale riesce a strappare la legge speciale per Napoli, è
avversario di Fanfani, ma sostiene lealmente i governi
democristiani moderati, dialoga con Almirante fino a riunire
sotto le insegne del Partito democratico di unità monarchica, da
lui fondato, i nostalgici della corona.
Il testo, preciso in molti dettagli, purtroppo manca di un
approfondimento su alcuni aspetti fondamentali della sua
attività e non risponde ad una domanda che a lungo ha costituito
la punta di diamante dei suoi detrattori: in che misura fu
coinvolto nella speculazione edilizia degli anni Sessanta,
immortalata nel celebre film di Rosi” Le mani sulla città”.
Modesto è il corredo fotografico, solo 18 scatti, quasi tutti
però mai visti prima, mentre una pecca molto grave è la mancanza
di un’introduzione e soprattutto di una bibliografia, tenendo
conto che l’autore ha attinto a piene mani dal testo dei
principali libri scritti in precedenza sull’argomento.
Un libro al quale auguro di avere tanti lettori ed attraverso un
suo successo si possa riparlare di dedicare una piazza di Napoli
ad Achille Lauro, una vergognosa dimenticanza, che pesa come un
macigno sull’amministrazione partenopea, la quale si è sempre
caparbiamente rifiutata anche solo di discutere in consiglio le
varie proposte che nel tempo sono state presentate, con la
speranza che una città dove esiste via Kagoscima e via Jan
Palach, via dei Chiavettieri al Porto e via dei Chiavettieri al
Pendino possa giustamente ricordare un così esimio personaggio.
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Il male assoluto e l’angelo custode
Il Male impregna la nostra vita come un’energia misteriosa che
si oppone imperiosa alle forze del Bene, e non si tratta
semplicemente del piccolo tedioso male della realtà quotidiana,
bensì l’incanto che diffondono le grandi ali nere, ancora
bagnate di luce, di Satana e degli angeli decaduti, anche nel
cuore del XXI secolo.
Il Male assoluto macina inesorabile la sua opera nefasta, compie
sino in fondo la sua esperienza tremenda, esercita il suo
fascino irresistibile, seduce, corrompe, uccide. Sembra
identificarsi con il tutto e nel momento di diventarlo, rivela
di non essere altro che il vuoto, quel vuoto gelido che produce
vertigini, illimitato e senza confini, che offusca le coscienze
e si impadronisce delle anime e degli intelletti di gran parte
del mondo contemporaneo.
L’unica divinità nella quale, laico inveterato, sono portato a
credere, è quella costituita dall’Angelo custode. Non saprei
spiegarmi altrimenti la prodigiosa incolumità che protegge la
vita spericolata di milioni di giovani prostrati nelle più
spericolate movide notturne, tra fiumi di alcol, quantità
smisurate di ectasy, folli corse in moto, insonnie invincibili,
copiose scariche di adrenalina, danze sfrenate fino all’alba.
Ogni mattina avviene un miracolo con il ritorno a casa incolume
di questo esercito disordinato costituito dai nostri figli, in
guerra perpetua contro le insidie del destino, che può
riservarci una terribile sorpresa ogni momento, eppure, esposti
a tanti strapazzi, tanti rischi, tante tentazioni, vengono
quotidianamente salvati dal potere luminoso della vita in lotta
dal tempo dei tempi con la perfida evenienza della morte, che si
annida insidiosa dietro ogni curva.
I lutti, in questa bolgia sfrenata rappresentata dal delirio
della giovinezza, sono eccezionali al cospetto della enormità
dei pericoli e non possiamo non credere che il caso, sempre
cieco e spietato, non venga governato da una protezione benevola
che sovraintende al destino di questi ingovernabili scapestrati.
E perché non credere che questa entità superiore non sia
quell’Angelo custode, al quale da bambini ci affidavamo con
tanta fiducia e con quella dolce preghiera, più intensa del
Credo e dell’Ave Maria, che tutti noi ricordiamo e che recita:”
Angelo di Dio che sei il mio custode, illumina, custodisci,
reggi e governa me che ti fui affidato dalla pietà celeste.
Amen”.
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Napoli capitale mondiale delle reliquie
Nell’imminenza del biannuale prodigio della liquefazione del
sangue di San Gennaro, conservato in due ampolline nella
Cappella del Tesoro del Duomo, previsto per il 19 settembre,
onomastico del venerato martire, vogliamo rammentare i risultati
di alcune nostre ricerche, parzialmente già pubblicati, sulla
presenza all’ombra del Vesuvio di un numero stupefacente di
grumi di sangue, più o meno miracolosi, che va incontro a
cadenze stabilite al fenomeno dello scioglimento, per tornare
poi allo stato solido.
Napoli è da oltre cinquecento anni capitale mondiale delle
reliquie, in particolare custodisce circa duecento ampolle
contenenti grumi di sangue di santi, martiri ed asceti. Infatti,
dopo la caduta dell’Impero romano d’Oriente, avvenuta nel 1453,
immagini religiose di ogni tipo e reliquie varie affluirono
copiose nella nostra città e da allora non si sono più mosse,
pur cadendo lentamente nell’oblio.
Molti di questi grumi presentano la stupefacente caratteristica
di liquefarsi con una precisione anche superiore a quella del
celeberrimo Santo patrono e senza la necessità di quel corteo di
preghiere ed invocazioni che qualcuno ha proposto come
spiegazione parapsicologica del fenomeno.
Il sangue di San Gennaro, conservato in due balsamari vitrei di
foggia diversa, databili al IV secolo, si scioglie
costantemente, a partire dal 1389, il 19 settembre, anniversario
del martirio, avvenuto come è noto nella Solfatara il 305 ed il
primo sabato di maggio, con qualche sporadico fuori programma il
16 dicembre, anniversario della apocalittica eruzione del
Vesuvio del 1631, quando la lava giunse a lambire Napoli e venne
fermata sul ponte della Maddalena dal pronto intervento del
Santo, da allora indiscusso patrono della città ed
eccezionalmente anche il 14 gennaio, in ricordo del ritorno a
Napoli delle spoglie del martire, nascoste a Montevergine sino
al 1497.
La fama universale del sangue di San Gennaro, un prodigio
osservato nei secoli da tanti smaliziati visitatori stranieri, a
Napoli per il Grand Tour, scettici ed illuministi, ma sempre
cauti nel cercare una spiegazione razionale del fenomeno, ha
rubato la scena alle numerose altre testimonianze del fenomeno
liquefattivo, che si ripete da secoli in numerose chiese
napoletane e nel segreto di cappelle gentilizie di antiche e
nobili famiglie.
Cominceremo ora un’ appassionante carrellata attraverso
l’affascinante universo esoterico partenopeo, partendo da alcune
tra le reliquie più note quali: il sangue di Santo Stefano,
custodito nel monastero di Santa Chiara, che si liquefa il 3
agosto ed il 25 dicembre, quello di Sant’Alfonso Maria de’
Liguori, conservato nella chiesa della Redenzione dei Captivi,
che si scioglie il 2 agosto, quelli di San Pantaleone e di San
Luigi Gonzaga, nel Gesù Vecchio, attivi entrambi il 21 giugno o
quello di Santa Patrizia, il più dinamico in assoluto,
conservato in San Gregorio Armeno.
Sorprendente è il comportamento del sangue del Battista,
scioltosi per la prima volta nel 1554 durante la celebrazione
della messa nel convento di Sant’Arcangelo a Baiano, dove era
custodito, proveniente dalla Francia, sin dal Duecento. Quando
il convento venne soppresso, per il leggendario comportamento
licenzioso delle monache, il sangue del santo, diviso ab antico
in due ampolle, venne affidato alle monache di San Gregorio
Armeno e di Donnaromita. Il primo continua regolarmente a
sciogliersi, mentre il secondo ha cessato ogni attività dal
Seicento. Quando anche il monastero di Donnaromita venne
soppresso, l’ampolla “inattiva” ritornò vicino alla gemella
conservata in San Gregorio Armeno e stranamente ha ricominciato
a manifestarsi anche se in formato ridotto, con un semplice
arrossamento, in occasione della festa del Santo.
Questa moltitudine di eventi prodigiosi rappresenta per il
credente un valido motivo di orgoglio, con il sangue che tanti
martiri versarono per la loro fede, il quale si riversa, come
una pioggia ristoratrice, su tutti noi, in un periodo così
difficile per la Chiesa e per l’umanità tutta; ma anche per i
laici deve rappresentare un motivo di profonda meditazione,
perché le spiegazioni fino ad ora proposte dalla scienza, per
cercare di dare una spiegazione razionale al fenomeno, sono poco
più che risibili.
Basta leggere le conclusioni del Cicap, un’associazione
scientifica che si propone di trovare la soluzione ai tanti
quesiti ancora aperti della parapsicologia, per convincersene.
Si è dato grande risalto ad una pubblicazione, nell’ottobre del
1991, sulla prestigiosa rivista Nature, di una equipe
dell’università di Pavia, guidata dal ricercatore Garlaschelli,
che riteneva di saper riprodurre il fenomeno del passaggio dallo
stato solido allo stato liquido in un fluido, adoperando poche
sostanze elementari già note agli alchimisti medioevali, dal
carbonato di calcio al cloruro di ferro in soluzione, per
ottenere una sostanza gelatinosa ”reversibile” a piacimento,
purché dall’esterno venga fornita energia attraverso lo
scuotimento del contenitore; condizione del tutto assente nella
liquefazione di gran parte dei grumi di sangue dei santi
precedentemente descritti, incluso lo stesso San Gennaro, che si
“manifesta” nelle più diverse condizioni.
Un’ipotesi alchemica, affascinante, ma forse vicina alla verità,
era stata avanzata dal compianto Mario Buonoconto, uno studioso
autore di un prezioso libretto sulla Napoli esoterica, ancora
reperibile sulle bancarelle in edizione economica, profondo
conoscitore della antica scuola napoletana specializzata
nell’apertura della materia e nella possibilità di trasformare
gli elementi naturali in maniera reversibile, come ridurre il
ferro malleabile o le interiora umane dure come il marmo.
Lo stesso famoso, quanto famigerato, principe di Sansevero,
chimico e letterato, massone e scienziato, pare fosse in grado
di replicare il “miracolo” nel suo laboratorio, posto
nell’angolo più segreto del suo palazzo in San Domenico
Maggiore, per la meraviglia dei suoi amici più fidati e delle
belle dame che gli facevano visita.
Naturalmente per studiare più approfonditamente il fenomeno
della prodigiosa liquefazione del sangue dei santi, sarebbe
necessario aprire le ampolle, per sottoporre il contenuto ad
indagini di laboratorio e ciò è naturalmente impensabile per
quelle del venerato ed amatissimo San Gennaro, ma perché non
analizzare qualche grumo di sangue di santi meno venerati tra i
tantissimi che si conservano nella nostra città, non solo in
chiese, ma anche di proprietà di antiche famiglie napoletane?
Credo che nessuno potrebbe opporsi a degli esami eseguiti su
ampolle di sangue conservate nelle cappelle gentilizie di
famiglie disposte a placare una insopprimibile sete di
conoscenza.
“Pulcra sunt quae videntur, pulchriora quae sciuntur, longe
pulcherrima quae ignorantur”.
E nell’attesa che parte del mistero che circonda i sacri grumi
possa dissolversi attraverso l’indagine della scienza resta
l’oggettività del prodigio sotto gli occhi di tutti, credenti e
scettici, a fornire agli uni il coraggio della fede, agli altri
una giusta dose di meditazione e riflessione.
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Addio Mike sovrano incontrastato del quiz
Improvvisamente è venuto a mancare Mike Bongiorno, gran signore
e per oltre cinquanta anni icona incontrastata del piccolo
schermo.
Egli, giunto in Italia giovanissimo, dopo aver lavorato negli
States nelle tv commerciali, fece da mallevadore alla nascente
televisione italiana, ideando alcune trasmissioni quali Lascia o
raddoppia? e Rischiatutto, che per anni inchiodavano davanti al
video metà dell’Italia con punte di 25 milioni di
telespettatori.
I cinema il giovedì sera dovevano collocare in sala un
televisore ed interrompere la programmazione per seguire la
puntata condotta da sua maestà Mike.
Dopo anni alla Rai Bongiorno era passato a Mediaset, continuando
a mietere allori ed oggi, a 85 anni, aveva previsto una
riedizione del Rischiatutto, che doveva cominciare in autunno e
per la quale era stato selezionato il sottoscritto.
Oltre ad un’ammirazione assoluta di Mike avevo un piacevole
ricordo per avere con lui partecipato alla sua trasmissione di
maggior successo nel 1972.(Per chi volesse vedere il video ed il
racconto di quell’esperienza può consultare sul mio sito
l’articolo”A tu per tu con Mike”.
In quella occasione durante le prove simpatizzammo e lui mi
invitò a cena, durante la quale parlammo a lungo di molteplici
argomenti. Ero un giovane laureando in medicina di ventiquattro
anni e rimasi estasiato dai suoi racconti, ma rimasi
particolarmente colpito dalla sua fede, fortificatasi nel
periodo convulso di fine guerra, quando, imprigionato dai
tedeschi, più volte era stato vicino alla morte. Era certo che
la fortuna degli anni seguenti era una sorta di riparazione per
quanto aveva sofferto.
Sono seguiti decenni di successo incontrastato e di
apprezzamento da parte non solo dal pubblico, ma anche dai
colleghi, che lo consideravano poco meno di una divinità.
Addio Mike, senza di te la televisione, in un’era dominata da
anchorman d’assalto e spudorate veline, si sentirà orbata del
suo personaggio storico di maggior spicco, di una memoria
condivisa da più generazioni.
Ci mancherà la tua professionalità, il tuo garbo, la tua
signorilità, ma soprattutto la tua sobria allegria.
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Un’ondata di violenza gratuita
Gentile dottore,
viviamo in una clima dove la violenza scandisce le ore del
giorno e della notte tra rapine, minacce, estorsioni, borseggi,
stupri ed incresciosi episodi di pedofilia, ma quella che più ci
avvilisce è l’ondata di violenza gratuita che sembra esplodere
senza un motivo plausibile come un fiume in piena. Ragazzi
annoiati che danno fuoco a barboni addormentati, ultra scatenati
che si accaniscono a coltellate contro i tifosi avversari o
qualche poliziotto trovatosi isolato, leghisti scriteriati alla
caccia di extra comunitari, bulletti di borgata decisi a farla
pagare a pacifici omosessuali. Una cagnara cinica ed oscena con
la quale una plebe, inselvatichita dalla civiltà dei consumi e
dalla deriva di ogni regola di vita civile, crede di divertirsi,
confrontandosi con un male del quale non riesce nemmeno ad
identificare forma e contenuti.
In questi giorni tra tanti episodi inqualificabili si è
stagliata con vigore la bravata di Svastichella, un pericoloso
teppista romano, il quale ha aggredito senza motivo due giovani
colpevoli di essere diversi ai suoi occhi deliranti. Il suo
soprannome risveglia momenti tragici della nostra storia, pur
essendo, nello stesso tempo, una buffa caricatura da maschera
della commedia dell’arte, una capacità di rendere cialtrona
anche la memoria delle pagine più buie del nostro passato.
Arrestato numerose volte è sempre stato immediatamente liberato,
perché ”seminfermo di mente” e non idoneo alla vita nei gironi
infernali rappresentati dai nostri infami penitenziari.
Un’assurdità kafkiana resa possibile dalla chiusura di strutture
manicomiali intermedie, per cui decine di matti pericolosissimi
vagano indisturbati e compiono con cinica sfrontatezza impuniti
abusi di ogni genere, mentre la permanenza in carcere avrebbe
per questi loschi individui una pregnante valenza pedagogica,
non certo per la capacità di rieducazione delle nostre
istituzioni, del tutto evanescente, bensì per le ferree norme
etiche in vigore tra i galeotti, i quali, con sonori paliatoni,
saprebbero rieducare e restituire alla dimensione umana questi
viscidi pseudo dementi.
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L’amore per i nostri cromosomi
La paura di un mondo senza futuro
La civiltà occidentale soffre di un tasso di infertilità ogni
anno più alto, mentre sono sempre di più coloro che decidono di
non avere figli per sfiducia nel futuro, per difficoltà
economiche, ma principalmente per egoismo. Una visione del mondo
basata sull’individualismo, che non tiene conto di un progetto
insito nel nostro Dna, quello di moltiplicarci e di vivere in
funzione della nostra discendenza, un amore sviscerato verso i
nostri cromosomi, nei riguardi di individui lontani nel tempo e
nello spazio, che non conosceremo personalmente e che danno un
significato alla nostra esistenza.
Le persone che non percepiscono in pieno il senso di questa
missione tendono a vivere alla giornata, sfruttando al massimo
ogni risorsa attuale, senza fare progetti per un futuro che
travalichi la loro aspettativa di vita.
Da questa sempre più diffusa condotta deriva la crisi
spirituale, che attanaglia le grandi religioni, infatti sia
l’ebraismo che il cristianesimo sono basati sulla promessa di
redenzione, su un percorso comune, il quale dalla Genesi ci
conduce verso un culmine glorioso.
Anche il mondo dei laici si basa sull’impegno di intere
generazioni che si sono sacrificate per assicurare un futuro
migliore ai propri discendenti, tanti personaggi straordinari
hanno affrontato sfide titaniche perché pensavano ai loro eredi.
Tutti i leader, i grandi scrittori, gli artisti più ambiziosi
hanno inseguito la fama, il desiderio irrefrenabile che il loro
nome e le loro imprese fossero ricordati nel tempo.
Senza l’amore verso i posteri non vi sono né progetti esaltanti,
né vertiginose ambizioni. Tutto, dalla politica alla stessa
giustizia, scade a livello effimero, alla caducità di un
presente senza futuro.
Non si costruirebbero più edifici destinati a durare nel tempo,
non si penserebbe a nuove attività imprenditoriali, non si
avrebbe nessun ritegno a sfruttare avidamente ogni risorsa
ambientale. Tutti i rapporti sociali basati sull’osservanza di
regole durevoli e da tutti riconosciute si sgretolerebbero e nel
giro di poco tempo la nostra civiltà entrerebbe in coma
irreversibile. Una società che non vuole avere figli non ha più
uno scopo e non vi è alcun motivo che continui ad esistere.
Avremo ancora un motivo per sopravvivere fino a quando l’ombra
di questi miliardi di esseri umani destinati a vivere nei
prossimi secoli agirà come una forza invisibile quanto
irresistibile su di noi, dando un senso alla nostra esistenza ed
alla nostra laboriosità.
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La maledizione del decoder
Fra poco necessari quattro telecomandi per ogni televisione
Gentile direttore,
l’ingresso nel digitale terrestre, per ora avvenuto solo in
alcune regioni, ma entro l’anno attivo in tutta Italia, è stato
pomposamente festeggiato dai vertici della Rai come un ingresso
nel futuro ed un trionfo della tecnologia, mentre per gran parte
degli utenti, anziani desiderosi di trascorrere qualche ora
serena di svago, si tratta dell’inizio di un percorso irto di
difficoltà, perché a breve saranno necessari per ogni
televisione ben quattro telecomandi e tre decoder, uno per il
digitale terrestre, uno per Sky ed uno per la nuova emittente
frutto del matrimonio tra Rai, Mediaset e Telecom. Un vero shock
tecnologico per vedere semplicemente le stesse cose che vedevamo
in precedenza, con l’aggiunta di notevoli balzelli ed esborsi
vari per poter accedere ai programmi a pagamento la cui offerta
aumenterà a dismisura.
Le nostre case verranno invase da nuove scatole nere, nuovi
cavi, nuovi depliant petulanti ed incomprensibili, una invasione
voluta dai mercanti dell’etere e dai produttori di questi
infernali marchingegni, che produrrà una metastasi di bottoni,
di fili intrecciati, di libretti di istruzione
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Le brune surclassano le bionde
Cambia il gusto in tutto il mondo
Questo inverno una serie di trasmissioni televisive dal
Bagaglino di Roma mettevano a confronto, in una gara all’ultimo
televoto, un gruppo di procaci soubrette brune, capitanate da
Pamela Prati, contro una squadra di bionde, guidate dalla
supermaggiorata Valeria Marini.
Le fanciulle, oltre ad esporre generosamente le proprie grazie,
si esibivano in canzoni, spogliarelli, danze e brevi recitazioni
ed alla fine di ogni puntata i telespettatori decidevano chi
avesse prevalso. Stranamente la palma del vincitore spettava
quasi sempre alla equipe delle more, sfatando un antico
pregiudizio che, non solo gli uomini preferivano le bionde, ma
anche che il colore platinato fosse il prescelto dalle stesse
donne.
Evidentemente il processo di meridionalizzazione del mondo con
ispanici alla conquista dell’America e l’Africa in marcia verso
l’Europa ha rimescolato le regole dell’appeal, al punto che il
colore di moda per la chioma delle donne di tutte le età non è
più il biondo cenere o il biondo miele, bensì il castano e lo
scuro con tonalità di mogano o corvino.
Icone della bellezza muliebre, che hanno fatto sognare milioni
di uomini ed alle quali le donne cercavano disperatamente di
somigliare, vanno in soffitta, nonostante rispondano a nomi
leggendari come Marilyn Monroe o Brigite Bardot e Catherine
Deneuve e con loro scompare la moltitudine di imitatrici, che
nei quartieri periferici delle città di tutta la terra facevano
del biondo taroccato un pass partout per salire di livello nella
società.
La sudditanza verso un modello cromatico importato da Hollywood
tramonta definitivamente e lascia il campo ai capelli neri,
possibilmente lunghi, ricci e vaporosi come quelli delle donne
del sud, stanche di dover ricorre a colorazioni forzate per
piacere ai loro uomini. Le signore e signorine di Posillipo e
del Vomero finiranno di giurare di discendere dai normanni e
dagli svevi e tanti coiffeur alla page dovranno cambiare la
tavolozza delle loro tinture.
Addirittura pare che la stessa bambola Barbie, bionda per
antonomasia, sia diventata nera influenzando i gusti e le scelte
delle future generazioni
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Caritas in veritate, un invito alla lettura
Un’enciclica sociale che illumina il cammino per uscire dalla
crisi
Alla vigilia del G8 Benedetto XVI ha reso nota la sua terza
enciclica: Caritas in veritate, incentrata sulle difficili
problematiche poste dalla globalizzazione dell’economia e sugli
effetti sulla vita delle persone.
Rifacendosi alle tematiche contenute nella Popularum progressio
scritta da Paolo VI nel 1967 e venti anni dopo la Centesimus
annus di Paolo II, papa Ratzinger approfondisce alcuni aspetti
dello sviluppo economico planetario ed indica la strada per
uscire dalla crisi nel rispetto dell’uomo.
Non fornisce ricette pragmatiche, ma lancia una sfida al mondo:
"Serve garantire a tutti l'accesso al lavoro, e anzi: a un
lavoro decente. Bisogna rafforzare e rilanciare il ruolo dei
sindacati, combattere la precarizzazione e - a meno che non
comporti reali benefici per entrambi i Paesi coinvolti - la
delocalizzazione dei posti di lavoro".
127 pagine dense di insegnamento che si leggono tutte di un
fiato ed invitano alla meditazione il laico come il credente,
perché ad eccezione dei paragrafi dedicati alla sessualità e
crescita demografica che lasciano perplessi, le esortazioni
contenute nell’enciclica trovano d’accordo tutti gli uomini di
buona volontà, i quali da oggi posseggono una bussola per
cercare di uscire con dignità e giustizia dalla più grave crisi
finanziaria degli ultimi decenni.
Tutti sono invitati a reagire alle difficoltà economiche con
fiducia, cercando di inventare nuove regole più giuste ed adatte
a fornire una soluzione al precariato, il quale, se diviene
endemico, produce instabilità nei giovani ed impedisce loro un
progetto per la vita futura e per importanti decisioni come il
matrimonio e l’educazione della prole.
Bisogna con tutte le forze adoperarsi per far cessare lo
scandalo della fame nel mondo per salvaguardare la pace e la
stabilità.
L’economia di mercato necessita di iniezioni di etica e di
solidarietà e deve avere come obiettivo lo sviluppo ed il
benessere di tutti e non solo di pochi privilegiati.
I governi degli Stati devono collaborare con le imprese, mentre
i sindacati devono trasformarsi per affrontare le problematiche
insorte con la globalizzazione e devono impegnarsi a tutelate i
diritti anche dei non iscritti.
Una attenzione particolare è dedicata al fenomeno della
migrazione, la quale va governata nel rispetto dovuto ad ogni
singolo individuo. “Gli immigrati recano un contributo
significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il
loro lavoro, oltre che a quello del Paese d'origine grazie alle
rimesse finanziarie e non possono essere considerati come una
merce o una mera forza lavoro”.
Fondamentali sono i doveri verso l’ambiente un patrimonio che va
rispettato e conservato per le generazioni future.
Sul piano più squisitamente pastorale un capitolo dell’enciclica
è dedicato alla denuncia della sistematica pianificazione
eugenetica delle nascite. Le biotecnologie, l'aborto,
l'eutanasia, la clonazione sono segni di una "cultura di morte
sempre più diffusa che apre scenari inquietanti per il futuro
dell'umanità". Per Papa Ratzinger, ''stupisce'' che da una parte
si condanni il degrado sociale ed economico, e dell'altra si
tollerino ingiustizie inaudite in campo bioetico.
Il Pontefice conferma i no della Chiesa all'aborto talvolta
promosso da organismi dell'Onu nei Paesi più poveri. In varie
parti del mondo, avverte Benedetto XVI, c'è "il fondato sospetto
che gli aiuti allo sviluppo vengano collegati al controllo delle
nascite". Accuse pesanti, che il Pontefice rivolge anche alle
organizzazioni umanitarie: "Capita talvolta che chi è
destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi lo aiuta e che
i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni
burocratiche". L'indice è puntato contro l'Onu e le Ong, a cui
chiede maggiore trasparenza.
Una serie di esortazioni da prendere con molta serietà ed un
invito alla lettura ed alla meditazione valido per tutti coloro
che hanno a cuore le sorti del mondo ed il benessere
dell’umanità.
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Una rivoluzione pacifica ma necessaria
La crisi finanziaria che ha messo in ginocchio il mondo è stata
affrontata da tutti i governi in maniera paradossale, credendo
di poter curare il debito creandone uno nuovo, ancora più
grande, alle spalle dei cittadini, già truffati dai banchieri e
sui quali grava il peso della catastrofe economica in termini di
disoccupazione, minor potere di acquisto e massima incertezza
per il futuro.
Si spera di far ritornare tutto come prima, consumando senza
ritegno, distruggendo l’ambiente ed esaurendo le risorse
naturali, incuranti di un miliardo di uomini costretti alla fame
ed alla disperazione.
Due eventi di questi giorni, apparentemente distanti,
scandiscono la gravità del momento e l’errore di metodo
nell’affrontarlo: il decreto sicurezza varato dal Parlamento e
la riunione dei G8 all’Aquila.
Il provvedimento contro la delinquenza, ma soprattutto contro
l’immigrazione clandestina, fortemente voluto dalla destra, con
la benedizione dei benpensanti che albergano sotto tutte le
bandiere, si illude di porre un freno a quella diaspora biblica
interessante falangi di disperati in fuga dall’avanzata del
deserto e dalla fame. Quando questa marea dilagante sarà
composta da centinaia di milioni di uomini, quando tutta
l’Africa, che supera il miliardo di abitanti ed è ridotta allo
sfascio, si metterà in moto, non vi saranno leggi restrittive,
respingimenti coatti, mura infinite, cavalli di Frisia in grado
di fermarne la marcia e di arginare l’invasione.
Per fermare l’ondata imminente i paesi europei debbono avere il
coraggio e la lungimiranza di dedicare una quota del loro
reddito per dar luogo ad occasioni di lavoro nei paesi di
origine degli immigrati, debbono creare sviluppo e benessere,
non esiste alcuna altra terapia.
Bisogna fare presto! Probabilmente è già troppo tardi.
Il problema è poco sentito anche a livello internazionale,
infatti quella inutile passerella di potenti, quel vacuo falò
delle vanità rappresentato dalle periodiche riunioni di un club
che non ha saputo prevedere l’esplosione del fenomeno migratorio
in un mondo dove le diseguaglianze economiche tra gli Stati e
tra ricchi e poveri tende ad aumentare vertiginosamente, senza
parlare dell’allarme ambientale, dello strapotere della finanza,
della follia delle guerre e della assurda dipendenza dal
petrolio.
Per un cambiamento radicale, per una rivoluzione pacifica ma
necessaria vi è bisogno dei giovani e degli audaci, prima che i
cinesi del tessile, i raccoglitori di pomodori dell’Africa nera,
gli operai del Maghreb, i tornitori serbi, i mungitori sikh, le
badanti ucraine, i piastrellisti rumeni e le miriadi colorate
dei vu cumprà, con l’arrivo dei loro parenti e connazionali,
appicchino un disastroso incendio al cuore pulsante della
civiltà occidentale provocandone la prematura fine.
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Un prezioso manuale da consultare
Il centro dinamico negli scacchi
Giacomo Vallifuoco è il più abile insegnante del gioco degli
scacchi ad personam attualmente in circolazione in Italia, in
grado con una serie di lezioni private di condurre il
principiante a godere della nobile arte, il giocatore già
esperto a migliorarsi continuamente, il maestro a raggiungere le
vette dell’eccellenza. Gli sarò sempre grato per avermi
trasformato nel 1982, in meno di un anno, da non classificato a
candidato maestro.
Pietro Punzetto da anni, attraverso i suoi libri, ha divulgato i
segreti delle aperture, del medio gioco e dei finali in maniera
elementare, fornendo una bussola efficace e tutte le
informazioni necessarie ad orientarsi egregiamente sulle 64
caselle. Sui suoi agili volumi si sono addestrate generazioni di
scacchisti. Il suo capolavoro Scuola di scacchi lo avrò
consultato tante volte da conoscerlo oramai a memoria.
Su invito delle edizioni Eviscere, impegnate a dare spazio e
voce ad autori italiani, i due maestri hanno unito le loro forze
ed hanno licenziato alle stampe una guida per affrontare la
parte più importante di ogni sfida: il centro partita(Il centro
dinamico negli scacchi, pag. 192, Euro 23,ordinabile in rete),
sottolineando l’importanza del dinamismo e soprattutto del
ragionamento; è infatti perfettamente inutile imparare
pedissequamente a memoria centinaia di varianti se non si è in
grado di impossessarsi di una chiave di lettura, che permetta di
passare da una posizione all’altra nel corso della partita.
Tra le svariate configurazioni che possono assumere i pedoni
centrali, ve ne sono alcune più importanti, perché si ripetono
con una certa frequenza e possono derivare da varianti diverse
della stessa apertura o anche da aperture fra loro diverse.
Possono inoltre comparire indifferentemente nella struttura di
pedoni del Bianco o in quella del Nero. È il caso, per esempio,
del "pedone di Donna isolato", del "centro sospeso" e della
"formazione Maroczy", raggruppate in questo libro e qui
analizzate tenendo in conto le idee strategiche e i piani di
gioco di entrambi i colori.
Le varie possibilità sono analizzate tenendo conto di numerose
varianti e sono illustrate prelevando esempi da partite recenti
dei più famosi Grandi maestri in circolazione.
Oggi i giovani tendono a giocare molto in rete, contro avversari
virtuali e compulsando sterminati data base, ma la lettura di un
manuale ben fatto è assolutamente indispensabile.
Un libro, Il centro dinamico negli scacchi, veramente prezioso
che non potrà mancare nella biblioteca di ogni giocatore. dal
principiante al maestro.
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Basta con la favola della Resistenza
Gentile direttore,
sono sessanta anni che siamo costretti a sorbirci in tutte le
salse la favola della Resistenza e dei patrioti che hanno
salvato l’Italia liberandola dalla dittatura calciando a pedate
i soldati tedeschi.
Pochi sanno che il comandante in capo delle forze alleate in
Italia generale Mark Clark dichiarò perentoriamente, e chi
meglio di lui conosceva il reale svolgimento dei fatti:” Il
contributo dei partigiani fu del tutto irrilevante ai fini della
durata e dell’esito della guerra”. Parole che non lasciano dubbi
e trovano di recente conferma da coraggiose quanto bistrattate
ricostruzioni storiche, le quali hanno inoltre messo in luce la
ferocia sanguinaria verso chi la pensava diversamente.
Sarebbe ora che la sinistra si liberasse da questa sindrome del
passato dietro la quale si è nascosta per tanto tempo e trovi
nuovi argomenti per conquistare la fiducia degli elettori, che
non siano però l’inconsistente attacco al premier basato sul
gossip e su poco credibili dichiarazioni di poppute veline e
prezzolati faccendieri.
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Il definitivo tramonto del lavoro
La crisi economica mondiale sta provocando un massiccio aumento
della disoccupazione, che colpisce specialmente i giovani, un
effetto accelerato di un processo irreversibile che porterà in
breve l’umanità a fare a meno quasi completamente del lavoro.
Il progresso scientifico e l’automazione negli ultimi anni hanno
fatto sì che, con una quota minore di lavoro, si riesca a
produrre una maggiore quantità di beni e servizi, una cosa
certamente positiva che nel tempo potrà liberare l’uomo dalla
maledizione biblica di essere costretto con gran sudore a
procacciarsi il necessario per vivere.
Paradigmatico è l’esempio di quanto produce un contadino
americano ed uno africano: il primo grazie ai fertilizzanti,
alla cospicua irrigazione ed all’uso di macchinari riesce a
produrre quanto cento dei suoi colleghi africani, per cui,
ipotizzando che in futuro anche loro potranno usufruire degli
stessi accorgimenti, fra non molto il lavoro di uno solo potrà
bastare a produrre il cibo per gli altri 99, i quali potranno
anche non lavorare, se però colui che produce sia disposto a
dividere con gli altri il frutto del suo lavoro. E qui nascono
le difficoltà forse insormontabili per l’egoismo dell’uomo,
probabilmente bisognerà creare una rotazione nel lavoro: un
giorno ogni cento. Una prospettiva allettante che invita però
alla meditazione sulla sua fattibilità, dopo che per anni
abbiamo ascoltato l’utopico slogan “lavorare meno lavorare
tutti”.
In numerosi altri campi la riduzione del lavoro è stata
massiccia, mentre il prodotto ha continuato ad aumentare senza
sosta, riuscendo a soddisfare gli scriteriati bisogni crescenti
di una civiltà dominata dall’imperativo categorico di consumare,
consumare ed ancora consumare.
Non è ipotesi fantascientifica immaginare un mondo nel quale il
lavoro non sarà necessario ed i beni ed i servizi necessari
saranno realizzati dalle macchine e dai robot.
Il problema drammatico sarà costituito dalla distribuzione dei
prodotti, venuto meno anche l’uso del denaro o quanto meno del
modo per procacciarselo al quale siamo abituati. Ed a complicare
ulteriormente il quadro vi è il moloch della globalizzazione,
che annulla le decisioni e le volontà non solo dei cittadini, ma
degli stessi Stati, impotenti davanti al potere cieco delle
multinazionali.
Potremo in futuro, quanto prima, liberarci dal fardello del
lavoro, ma dovremo affrontare e risolvere una serie di non
facili problemi: distribuire equamente la ricchezza e creare una
reale uguaglianza tra nazioni e cittadini.
Un compito arduo ed affascinante che dovrà essere l’obiettivo
delle nuove generazioni, le quali dovranno essere in grado di
trasformare la crisi attuale in occasione di crescita. Una
rivoluzione che cambierà la nostra vita, il nostro modo di
pensare e di relazionarci col prossimo. In caso contrario ci
attendono fame, rivolte, guerre ed una instabilità politica
generalizzata con il tramonto della democrazia e l’instaurarsi
ubiquitario di tirannie.
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Testamento biologico, riparliamone
La crisi economica, le elezioni europee e la luce dei riflettori
sulla vita privata del Presidente del Consiglio hanno fatto
dimenticare all’opinione pubblica le discussioni sul testamento
biologico, del quale i politici sembra non siano più
interessati. Un momento favorevole per poter trattare
l’argomento quando gli animi non sono accesi e l’eterna diatriba
tra laici e cattolici sembra sopita.
Il testamento biologico rappresenta l’espressione della volontà
di un soggetto, fornita in condizioni di lucidità mentale, in
riferimento alle terapie che intende accettare o rifiutare nel
caso dovesse trovarsi nell’impossibilità di manifestarla a
seguito di una malattia irreversibile ed invalidante da
richiedere un trattamento con l’ausilio di macchinari che
mantengano artificialmente la vita allo stato vegetativo.
La dizione testamento viene presa dal linguaggio giuridico in
riferimento ai tradizionali pronunciamenti dove si lasciano per
iscritto le decisioni in merito alla destinazione di beni
materiali da lasciare ai propri eredi. Tale forma di documento
esiste in quasi tutti i Paesi occidentali, il più famoso è
quello in uso in Inghilterra, che prende il nome di “living
will”. Alcune volte viene indicato un parente o un fiduciario
incaricato di far rispettare la volontà della persona che redige
il testamento biologico.
In Italia non esiste ancora una legge specifica sull’argomento,
un disegno legislativo, approvato da uno dei rami del Parlamento
in forma restrittiva, a giorni sarà all’esame della Camera, ma
il privato cittadino può, servendosi di un notaio, predisporre
una sorta di testamento biologico. A tale scopo si possono
seguire le indicazioni del professor Umberto Veronesi contenute
sul suo sito. All’occorrenza si potrà trovare un magistrato che
lo farà valere o un medico che, seguendo i dettami della
deontologia professionale, tenga conto delle decisioni del
paziente. E su questo punto in questi giorni la quasi totalità
dei presidenti degli ordini si sono espressi affinché vengano
definite in sede legislativa le condizioni per cui le volontà
del paziente abbiano valore giuridico e gli atti sanitari
commessi o omessi in ottemperanza ai desideri del testatore,
escluse quelle di eutanasia o assistenza al suicidio, li
esonerino da ogni responsabilità civile e penale.
L'articolo 32 della Costituzione della Repubblica italiana
stabilisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato
trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e
l'Italia ha ratificato nel 2001 la Convenzione sui diritti umani
e la biomedicina (L. 28 marzo 2001, n.145) di Oviedo del 1997
che stabilisce che «i desideri precedentemente espressi a
proposito di un intervento medico da parte di un paziente che,
al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la sua
volontà saranno tenuti in considerazione» . Il Codice di
Deontologia Medica, in aderenza alla Convenzione di Oviedo,
afferma che il medico dovrà tenere conto delle precedenti
manifestazioni di volontà dallo stesso.
Per la prima volta in Italia, il 5 novembre 2008, il Tribunale
di Modena emette un decreto di nomina di amministratore di
sostegno in favore di un soggetto qualora questo, in un futuro,
sia incapace di intendere e di volere. L'amministratore di
sostegno avrà il compito di esprimere i consensi necessari ai
trattamenti medici. Così facendo si è data la possibilità di
avere gli stessi effetti giuridici di un testamento biologico
seppur in assenza di una normativa specifica.
La Chiesa cattolica, attraverso il cardinale Angelo Bagnasco,
presidente della CEI, ha sollecitato a varare, con la speranza
di un ampio concorso, una legge sul fine vita che, riconoscendo
valore legale a dichiarazioni inequivocabili e rese in forma
certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie
sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario
tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito di
vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e
coscienza, fuori dalle gabbie burocratiche. Riguardo il rifiuto
dell’alimentazione e dell’idratazione, l'argomento principale su
cui sono divisi i due disegni di legge discussi attualmente in
parlamento, ha precisato che non c'è la necessità di specificare
alcunché a riguardo, in quanto queste somministrazioni sono
ormai universalmente riconosciute come trattamenti di sostegno
vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Questa
sarebbe una salvaguardia indispensabile, se non si vuole aprire
il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati
non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per
se stessi. Quello che la Chiesa auspica, mentre si evitano
inutili forme di accanimento terapeutico è che non vengano in
alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia,
in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato
ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla
Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano.
A conclusione di questa breve dissertazione vorrei aggiungere
alcune mie considerazioni sul delicato confine tra l’inizio e la
fine della vita. Sempre arduo è stato il quesito sull’inizio
della vita, ma quanti si interrogano su quando la vita finisca?
Fortunatamente, della problematica la Chiesa non se ne è mai
interessata e questo disinteresse ha favorito il progresso della
scienza dei trapianti, a differenza delle tecniche di
fecondazione assistita o dell’aborto, che cozzano contro il
dogma dell’animazione coincidente con la fecondazione, sancito
nel 1869 da Pio IX nell’“Apostolicae sedis”. A questa
conclusione si è giunti dopo che sulla spinosa questione si
erano espressi tutti i maggiori studiosi cristiani, da
Tertulliano a Sant’Agostino, fino a giungere a Sant’Alberto
Magno, che candidamente asseriva che il maschio possedeva
un’anima dopo 40 giorni dal concepimento, mentre la donna dopo
90, e San Tommaso d’Aquino, sul cui pensiero si fonda la
teologia e l’etica cristiana, che sosteneva la tesi
dell’animazione ritardata, prima della nascita, ma molto tempo
dopo la fecondazione. Non mi dilungo perché vorrei invitare a
meditare sul preciso momento della morte. Pochi sanno che il
cuore adoperato per un trapianto è perfettamente pulsante, anche
se il vecchio proprietario ha il cervello che non funziona più
(elettroencefalogramma piatto). Una situazione identica a tanti
ricoverati da anni, senza speranza, nei nostri centri di
rianimazione, anche loro con il cervello distrutto, ma con un
cuore o i polmoni malandati che non interessano per un
trapianto. Se a questi soggetti asportassimo il cuore senza
utilizzarlo sarebbe eutanasia? E come mai non lo è se l’organo
serve per un trapianto? Alcune cellule resistono alla mancanza
di ossigeno più delle altre, ad esempio le cellule pilifere
vivono fino a 6 giorni dopo la morte ufficiale, anche dopo il
seppellimento del corpo. In caso di morte traumatica in un
giovane è impressionante, vegliando il cadavere, scoprire che al
mattino ci vorrebbe il barbiere. La delicata linea di confine
tra l’inizio e la fine della vita mal si presta ad essere
delineata con precisione, se si vuole trovare una risposta
unicamente biologica, che non può soddisfare pienamente. Una
verità difficile da accettare per il laico, che non voglia
travalicare nella scienza come dogma.
Un argomento che diverrà sempre più scottante, che ha costituito
per oltre trent’anni per il sottoscritto, come medico e come
libero pensatore, oggetto di studio e riflessione, senza
speranza oramai di una risposta soddisfacente e definitiva.
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Benedetto terremoto
Tramontata ogni ipotesi di devastazione edilizia
Il terremoto che ha devastato nei mesi scorsi l’Abruzzo, a
fronte di lutti e rovine, ha provocato alcuni effetti benefici,
tra i quali, soprattutto, l’aver troncato sul nascere l’ipotesi
di condono edilizio generalizzato, che il governo voleva varare
con la speranza di dare un impulso all’economia boccheggiante.
Si sarebbe trattato in pratica di una parziale abolizione della
concessione edilizia, sostituita da una specie di
autocertificazione per permettere cospicui aumenti volumetrici.
Si è parlato del 10 - 20 - 30% a disposizione dei proprietari di
immobili desiderosi di un ampliamento.
Il nostro amato Presidente aveva salutato il nuovo provvedimento
come una assoluta novità, una sorta di evento rivoluzionario,
mentre non sarebbe stato che il ripetersi di un diffuso
malcostume, che negli ultimi decenni ha cementificato le coste,
offeso il paesaggio, creato milioni di metri cubi di seconde e
terze case inutili, favorita spudoratamente la speculazione del
singolo a danno del bene comune.
Una crescita disordinata senza un vero progresso prodotta da un
rapporto ingordo verso il mattone.
Naturalmente Berlusconi, il quale nasce come costruttore, al
solo odore del cemento ed alla vista delle gru raggiunge
l’orgasmo più che al contatto, vero o virtuale, con 100 Noemi,
ruggisce come una fiera al richiamo della foresta, ma gli
Italiani in questo momento non hanno certo bisogno di una
edilizia selvaggia senza leggi e piani regolatori, in grado di
creare smisurati arricchimenti per pochi privilegiati.
Fortunatamente il governo, pur avendo una larga maggioranza ed
utilizzando impunemente il meccanismo del decreto legge, che ha
umiliato il parlamento al ruolo di notaio di decisioni cadute
dall’alto, si serve dell’annuncio di un provvedimento come una
liberatoria panacea di ogni problema, alla stregua delle
manzoniane grida, che non incutevano timore e lasciavano
irrisolta ogni questione.
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Un vocabolario maschilista
La lingua di un popolo è viva e palpitante, subisce nel tempo
variazioni e mutazioni, ma conserva la sua struttura, la sua
musicalità e le sue inclinazioni.
Nel caso dell’italiano risulta evidente la matrice maschilista
attribuita a numerose parole, che, cambiando di genere assumono
significati completamente diversi e dispregiativi al femminile
con una monotonia sconfortante: puttana!
Una situazione singolare degna dell’attenzione dell’Accademia
della Crusca così severa nella etimologia e nei congiuntivi.
Abbiamo identificato oltre cento parole che variano
drasticamente il loro significato, ma per non tediare il lettore
ne segnaliamo soltanto una ventina in rigoroso ordine
alfabetico.
Accompagnatore – Musicista che intona la base musicale
Accompagnatrice – Puttana
Buon uomo – Soggetto mite e pacifico
Buona donna – Puttana
Compiacente – Disponibile a favorire il prossimo
Compiacente - Puttana
Cortigiano – Gentiluomo di palazzo
Cortigiana - Puttana
Cubista – Artista seguace del cubismo
Cubista – Puttana
Disponibile – Gentile e premuroso
Disponibile – Puttana
Intrattenitore – Affabulatore socievole
Intrattenitrice – Puttana
Leggero – Di peso modesto, oppure frivolo
Leggera - Puttana
Maiale – Animale domestico
Maiala - Puttana
Massaggiatore – Specialista in kinesiterapia
Massaggiatrice – Puttana
Mondano – Frequentatore della buona società
Mondana – Puttana
Omaccio – Un tipo robusto e minaccioso
Donnaccia – Puttana
Ometto – Un tipo piccolo ed inoffensivo
Donnetta - Puttana
Passeggiatore – Amante del camminare
Passeggiatrice – Puttana
Peripatetico – Filosofo seguace di Aristotele
Peripatetica – Puttana
Prezzolato – Corrotto
Prezzolata – Puttana
Professionista - Medico, avvocato, ingegnere
Professionista - Puttana
Segretario particolare - Portaborse
Segretaria particolare – Puttana
Squillo – Suono del telefono
Squillo – Puttana
Tenutario – Proprietario terriero
Tenutaria – Puttana(che ha fatto carriera)
Uomo allegro – Bonario, barzellettiere
Donnina allegra – Puttana
Uomo con un passato – Una persona con una vita degna di essere
raccontata
Donna con un passato - Puttana
Uomo da niente – Un poveraccio, miserabile
Donna da niente – Puttana
Uomo da poco – Un miserabile
Donna da poco – Puttana
Uomo d’alto bordo – Personaggio importante, altolocato
Donna d’alto bordo – Puttana (di lusso)
Uomo di strada – Un tipo losco poco raccomandabile
Donna di strada – Puttana
Uomo facile – un tipo accomodante
Donna facile - Puttana
Uomo pubblico – Personaggio famoso
Donna pubblica – Puttana
Topolone – Un grosso sorcio
Topolona – Puttana
Torello – Un uomo vigoroso
Una vacca – Puttana
Zoccolo – Un tipo di calzatura
Zoccola - Puttana
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Quale mondo dopo la crisi?
Nessuno aveva previsto la tempesta finanziaria che si è
abbattuta come una folgore sui mercati internazionali e nessuno
ha la ricetta giusta per uscire dalla crisi, né i governi, né le
banche centrali, nonostante previsioni contrastanti si
accavallino: depressione, deflazione, cenni di ripresa. Il
giocattolo con il quale si sono dilettati per anni i boss della
finanza criminale si è rotto e certamente non si potrà riparare.
Il signoraggio mascherato, che si è praticato spudoratamente
sulla pelle di centinaia di milioni di sprovveduti risparmiatori
non potrà ripetersi.
L’aver creato per anni falsi bisogni, in omaggio al moloch
insaziabile del consumismo, aver alimentato un indebitamento
spropositato dei cittadini per comprare beni dei quali non
avevano reale necessità, ha innestato un meccanismo perverso che
non poteva non deflagrare con effetti disastrosi. La formula che
si sta seguendo attualmente di curare il debito con un altro
debito non porta da nessuna parte; i governi hanno
nazionalizzato le banche, utilizzando un denaro che non
possiedono ed hanno semplicemente trasformato un debito privato
in un debito pubblico, ipotecando pericolosamente il futuro e
con grave nocumento per i nostri figli e nipoti.
Dalle ceneri di un capitalismo sfrenato e senza regole dovrà
necessariamente sorgere un mondo nuovo, tutti noi dobbiamo
impegnarci che sia un mondo migliore, ci vorranno una ferrea
volontà e la consapevolezza di essere gli artefici di una
rivoluzione culturale che, dimenticando l’economia centralizzata
di tipo sovietica, già fallita negli anni Ottanta e l’economia
di mercato senza restrizioni e controlli, la quale sta crollando
miseramente sotto i nostri occhi, sia in grado di creare un
nuovo modello di sviluppo, rispettoso delle improcrastinabili
esigenze ecologiche e dell’esaurimento delle risorse , capace di
procurare benessere più che beni materiali e che cerchi di
colmare le diseguaglianze di reddito tra i cittadini e tra i
popoli.
La crisi potrà allora rappresentare un’opportunità per arginare
i rischi mortali di una globalizzazione anarchica, che in breve
avrebbe travolto la nostra ideologia basata sull’egoismo e
sull’individualismo e messo in discussione la stessa democrazia,
dimostratasi inadeguata a gestire il caos nelle transazioni
internazionali di merci e denaro.
Il futuro del mondo è legato all’istaurarsi di un’economia
mista, nella quale pubblico e privato sappiano convivere, ma
fondamentale resta la necessità di un diritto ed un governo
planetario, che garantisca una più equa ripartizione delle
risorse. I mercati finanziari, globali per definizione, non
possono resistere senza una normativa internazionale e senza uno
Stato sovranazionale che la faccia rispettare.
Siamo al day after di una guerra nucleare che ha distrutto le
nostre certezze, ma ha lasciato in piedi le fabbriche ed i vita
i lavoratori, bisogna approfittare di questa circostanza ed
impegnarsi, in primis politici ed intellettuali, a disegnare un
mondo migliore, che superando la crisi garantisca benessere ed
uguaglianza universali.
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Obiezione di coscienza: diritto o prevaricazione?
La 194 del 22 maggio 1978, ufficialmente legislazione in difesa
della maternità, in pratica normativa che regola l’interruzione
volontaria della gravidanza, introdusse la facoltà per il
personale medico e paramedico di esercitare l’obiezione di
coscienza, una possibilità della quale usufruirono una
percentuale preponderante degli aventi diritto e non solo,
ricordo infatti che nell’ospedale dove lavoravo i primi due
colleghi che si precipitarono in direzione sanitaria furono due
oculisti!
La legge, frutto all’epoca di un ipocrita compromesso tra
cattolici e forze di sinistra, ha compiuto trenta anni di vita,
mostra vistose incongruenze che il tempo ed alcune scoperte
scientifiche hanno accentuato e necessita urgentemente di alcune
modifiche, in primis la possibilità di scelta del medico da
parte della paziente. Un argomento scottante, che cerco da tempo
di far giungere, se non nelle aule parlamentari, almeno sui mass
media per un confronto sereno tra idee contrastanti, ma in
questo articolo vorrei concentrare la discussione unicamente sul
problema dell’obiezione di coscienza, segnalando ai lettori due
mie contributi recenti, che sono stati pubblicati sui due
principali quotidiani del Paese: la Repubblica ed il Corriere
della sera.
Egregio dottore,
l’obiezione di coscienza è un diritto sacrosanto, previsto in
molte legislazioni europee, che permette ai sanitari di non
avere una parte attiva in prestazioni mediche contrarie ai
propri principi morali.
Lentamente questa facoltà è stata allargata a dismisura, dando
luogo a comportamenti paradossali, come il portantino che non
vuole accompagnare una paziente che deve sottoporsi ad
interruzioni di gravidanza o il farmacista che si rifiuta di
vendere la pillola del giorno dopo, nonostante la presentazione
della ricetta ed il farmaco sia regolarmente registrato nella
farmacopea. Senza tenere conto dell’obiezione dichiarata per non
inimicarsi il direttore sanitario o il protettore politico, uno
squallido prosseneta che tutti coloro che esercitano in
strutture pubbliche sono costretti ad avere. Molti per quieto
vivere o vigliaccheria dimenticano che la coscienza quando non è
d’accordo con una legge ritenuta sbagliata o un sentenza avversa
quando si è innocenti deve essere pronta a ribellarsi, a costo
di essere perseguitati, di non fare carriera, di perdere il
lavoro, gli amici, la libertà, al limite anche la vita.
Troppo facile l’obiezione che fa pagare ad altri il costo di una
scelta comoda, ma in questi casi non si tratta di coscienza, ma
di una pallida parvenza di morale ipocrita e menzognera.
La Repubblica - 19 dicembre 2008, pag 32
Caro Romano,
in riferimento alla lettera sull’obiezione di coscienza negli
Stati Uniti, vorrei precisare che essa, come in Francia, Spagna
e Inghilterra, è del tutto ininfluente perché le interruzioni di
gravidanza avvengono la gran parte in cliniche private. Una
situazione diametralmente opposta a quella dell’Italia dove una
legge vecchia, frutto di un difficile compromesso, permette
l’aborto solo nelle strutture pubbliche, per cui l’obiezione di
coscienza, spesso fasulla, incide pesantemente sui tempi di
attesa, esasperando le donne, già costrette ad una scelta
sofferta e difficile.
Corriere della Sera – 12 aprile 2009, pag 31
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Emanuele Filiberto di Savoia trionfa a Ballando sotto le stelle
Inaspettata, ma non troppo, la vittoria del principe Emanuele,
in coppia con l’affascinante Titova, al popolare programma
televisivo Ballando sotto le stelle, Il successo, decretato
democraticamente col sistema del televoto, rappresenta un indice
attendibile di come la sua popolarità sia cresciuta ed il suo
personaggio, nonostante il peso di un cognome ingombrante, sia
stato accettato come quello di un giovane simpatico, moderno ed
in grado di impegnarsi seriamente.
Emanuele Filiberto è vissuto a lungo lontano dall’Italia, per
via di un’assurda disposizione transitoria della nostra
Costituzione, solo di recente abolita, che vietava agli eredi
Savoia di soggiornare nella loro patria e sognava di potervi
tornare.
Ha cercato senza successo l’ingresso in politica, presentandosi
alla recente consultazione elettorale nella circoscrizione
estera, ma desiderava soprattutto che la gente potesse
conoscerlo e giudicarlo senza pregiudizi e preconcetti, libero
da una nemesi storica opprimente ed anacronistica.
La stampa non è mai stata tenera nei suoi riguardi,
concedendogli qualche spazio solo su riviste frivole attente
agli eventi mondani ed ha trascurato di rendere nota la sua
alacre attività in una organizzazione da lui fondata Finanza e
futuro.
Due anni fa ebbi modo di intervistarlo in esclusiva per un
gruppo di emittenti televisive private e rimasi colpito dalla
sua personalità e dalla sua volontà di rendersi utile nel suo
paese: l’Italia. Mi confessò che da bambino collezionava
cartoline illustrate con le immagini di quella nazione lontana e
proibita.
Alla mia insidiosa domanda se la monarchia come sistema politico
avesse ancora un senso nel XXI secolo, placidamente rispose che
numerosi Stati europei dall’Inghilterra alla Svezia, dalla
Danimarca alla Norvegia sono ben governati con i poteri del
sovrano in sintonia con quelli del Parlamento.
Rispose a domande sulla situazione italiana e di Napoli in
particolare e non si sottrasse, pur timoroso della moglie
gelosa, neppure ad esternare i suoi gusti e le sue preferenze in
campo femminile.
Per chi volesse conoscerlo meglio attraverso questa intervista
può consultarla, anche in versione video, sul web, basta
digitare tra virgolette: Intervista al principe Emanuele
Filiberto di Savoia.
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Droga libera, appello provocazione all’Onu
Gentile dottore,
di liberalizzare la droga fino ad ora ne avevano parlato solo i
radicali, più volte e sempre inascoltati. Le loro argomentazioni
erano ineccepibili e, se diffuse dai mass media, avrebbero
convinto gran parte dell’opinione pubblica: in Italia alla base
di oltre il 50% dei reati vi è l’ombra del traffico di
stupefacenti, il 60% dei carcerati è ospite dello Stato per
reati connessi allo spaccio, la metà delle forze dell’ordine e
della magistratura è occupata da problemi legati alla diffusione
ed al consumo della droga. Non si è mai aperto un dibattito
serio e coraggioso sull’argomento perché l’antistato ha oramai
guadagni tali da poter corrompere chiunque.
La questione è ora rimbalzata a livello internazionale grazie ad
un appello all’Onu partito dall’università di Harvard,
sottoscritto da 500 studiosi di varie nazioni. Essi, in
occasione dei cento anni trascorsi dalle prime norme sul
proibizionismo, invitano i governi a cambiare rotta, strappando
ai narcotrafficanti il loro sterminato fatturato ed
utilizzandone gli introiti per finanziare una gigantesca lotta
alla criminalità organizzata. La politica seguita fino ad oggi
di pura repressione ha dato risultati disastrosi, mentre non
solo circolano sempre più sostanze tossiche, ma anche di pessima
qualità, con grossi pericoli per chi le assume.
Il fiume di denaro per i mercanti internazionali si aggira sui
320 miliardi di dollari l’anno, una massa di liquidità in grado
di incrinare le coscienze e corrompere qualsiasi Stato.
In questi giorni a Vienna i rappresentanti di 50 paesi sono
riuniti per mettere a punto le strategie da adottare nel
prossimo decennio e pare che nessuno si farà paladino della
liberalizzazione, per cui dobbiamo attenderci in futuro un
ulteriore rafforzamento del cartello criminale che domina il
mondo, inquinando la finanza, condizionando le elezioni ed
intimorendo i governi; un potere smisurato al quale nessuno
potrà opporsi fino a quando non si deciderà di cambiare le leggi
attuali.
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Nazionalizzare necesse est
La disastrosa crisi finanziaria che ha sconvolto le borse di
tutto il mondo ed ha provocato un collasso dell’economia
planetaria ha indotto i governi, sia negli Stati Uniti che in
Europa, ad intervenire attivamente sul mercato nazionalizzando
numerose banche, un comportamento contrario ai principi basilari
del capitalismo che ha spaventato gli investitori tradizionali,
provocando un ulteriore caduta del valore nominale delle azioni.
La parola nazionalizzare incute un sacro timore nel piccolo
risparmiatore, memore di quei trasferimenti forzati di ricchezza
che furono nei secoli: l’esproprio dei beni della Chiesa a
seguito della Rivoluzione francese nel 1789 o l’abolizione della
proprietà terriera decisa dai bolscevichi in Russia nel 1918,
decisione seguita poi anche da Mao Zedong in Cina nel 1949.
Oggi (O tempora o mores) i banchieri americani corrono ansimanti
verso i funzionari governativi, chiedendo disperatamente di
essere nazionalizzati, con la benedizione dello stesso Alan
Greenspan, pontefice della banca centrale dai tempi di Reagan e
tra i maggiori responsabili della Caporetto attuale. Una scena
paradossale descritta dall’Economist in un magistrale articolo
dal titolo emblematico: La notte dei morti viventi.
Esiste una sostanziale differenza tra un’azienda nazionalizzata
ed una partecipata, nella prima lo Stato è l’unico proprietario
e spesso si pone degli obiettivi diversi da quelli di un’impresa
privata: acquisire il controllo di materie prime o prodotti
indispensabili per l’economia del Paese, salvaguardare
l’occupazione in momenti di crisi; nel secondo caso vi è
maggiore attenzione al profitto, soprattutto se non si agisce in
regime monopolistico, bensì in concorrenza con altre aziende del
settore.
La differenza che in Italia ha marcato per decenni la
sostanziale diversità tra Enel ed Eni.
Non mancano esempi di interesse dei cittadini all’esistenza di
forti raggruppamenti monopolistici nelle mani dello Stato, come
nel caso della Francia, divenuta punto di riferimento mondiale
nel nucleare e nell’alta velocità grazie ad una visione
proiettata nel futuro, in contrasto con la logica del profitto
immediato caratteristica delle imprese private, che spesso non
stilano programmi se non fino all’anno del pensionamento del
Grande capo.
L’ideale sarebbe che lo Stato intervenisse solo quando è
necessario, capitalizzando l’attività in sofferenza con denaro
dei contribuenti, pronto però a lasciare non appena possibile,
ricollocando quanto acquisito precedentemente di nuovo sul
mercato. Un’utopia virtuosa, poche volte realizzatasi, ma
necessaria alla sopravvivenza del capitalismo.
Oggi gli Stati Uniti, alfieri indiscussi della concorrenza, si
vedono obbligati ad intervenire drasticamente per non far
fallire colossi del credito quali la Bank of America e la
Citigroup, con un impiego di capitali enormemente superiore a
quanto sarebbe bastato a salvare la Lehman, il cui crollo ha
fatto deflagrare il sistema.
Un comportamento simile a quello che fu adottato da Roosevelt,
quando nel 1929, durante la Grande crisi, intraprese la via di
alcune fondamentali nazionalizzazioni, come la creazione della
Tennessee Valley Authority, che inglobò tutte le aziende
elettriche private, influenzando positivamente distribuzione e
tariffe.
Il celebre presidente non si ispirò all’epoca all’Unione
sovietica, ma guardò con interesse a quanto avveniva in Italia,
dove Mussolini divenne proprietario delle banche e creò l’Iri,
un originale modello di sviluppo durato oltre 50 anni.
Tutti avvertono la delicatezza delle decisioni prese
freneticamente in questi giorni di difficile assestamento, con
bollettini quotidiani di guerra scanditi dall’aumento della
disoccupazione, dal crollo delle borse e dalla diminuzione dei
consumi. Si sente la necessità di una linea di pensiero che
ridisegni il nostro futuro, nel frattempo l’idea del capitalismo
sta subendo senza reagire l’oltraggio delle nazionalizzazioni,
una improcrastinabile medicina per salvaguardare interi pezzi
del sistema economico che si stanno liquefacendo come neve al
sole.
Marina della Ragione
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Una legge anacronistica
Soltanto in Italia una legge paradossale, risalente al
ventennio, prevede la possibilità di notificare un’opera d’arte,
sia essa una scultura o un dipinto, come pure un libro o un
palazzo di particolare pregio storico o architettonico.
Notificare significa che lo Stato giudica quel manufatto di
interesse nazionale e ne vieta il trasferimento all’estero, per
cui se esso viene posto in vendita, tramite una trattativa
privata o in un’asta, il legittimo proprietario deve informare
la sovrintendenza della sua intenzione e l’acquirente compra con
l’alea che, se entro 90 giorni, viene esercitato il diritto di
prelazione, non può entrare in possesso di ciò che ha comprato.
Naturalmente il divieto di esportazione e la procedura da
rispettare intimoriscono il potenziale compratore, il quale deve
appalesarsi pubblicamente e sviliscono in maniera tangibile il
valore venale dell’opera con grave nocumento degli interessi del
venditore.
In Europa esiste, come imperativo categorico, la libera
circolazione per ogni tipo di merce, nonché per i lavoratori ed
i capitali, che possono trasferirsi liberamente dove ritengono
più opportuno e conveniente, per cui è lampante che la normativa
italiana è in stridente contrasto con lo spirito che anima tutte
le legislazioni comunitarie.
In Italia è presente circa la metà del patrimonio artistico
mondiale, ma questa circostanza non può autorizzare lo Stato a
prolungare la vita a leggi che non hanno più diritto di
cittadinanza in uno spazio di libertà assoluto come da tempo è
quello europeo.
Nella mia veste di avvocato mi appresto a presentare presso la
Corte Europea un esposto affinché ci sia una pronuncia sulla
questione, ma sarebbe opportuno, allo scopo di evitare una
condanna dello Stato italiano, che qualche parlamentare di buona
volontà si faccia carico di una proposta di legge che abolisca
una norma anacronistica ed eccessivamente protezionistica.
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Chiavette internet:truffa o progresso?
La possibilità di collegamento ad internet da qualunque zona del
Paese è una necessita improcrastinabile per una società che
voglia vivere un presente proiettato nel futuro e non ancorato
al passato.
Straordinarie possibilità di lavoro e non solo di divertimento
si sono aperte nell’era digitale, per cui si guarda con
interesse alla recente commercializzazioni di chiavi di accesso
al web utilizzabili su computer portatili o da appartamenti
privi di rete telefonica fissa.
Anche io ho acquistato una chiavetta Tim per collegarmi ad
internet dal portatile, un contratto biennale di 40 euro al mese
per 100 ore di navigazione ogni 30 giorni. Avevo preventivamente
chiesto se le zone dove avrei adoperato il dispositivo erano
coperte e mi era stata assicurata la possibilità di utilizzarla
24 ore su 24; viceversa non solo è estremamente difficile il
collegamento, con il segnale che spesso cade dopo pochi secondi,
ma addirittura,(una vera truffa), ogni tentativo di connessione,
anche fallito, preleva 15 minuti dalle 100 ore disponibili.
Inoltre la Tim ha la pessima abitudine di inviare messaggi,
banali e non richiesti, durante le ore notturne. Per chi tiene
acceso sempre il cellulare non è piacevole nel cuore della notte
essere risvegliati da un bip, che ci informa che la ricarica è
stata effettuata o che possiamo usufruire di tariffe particolari
per spedire dei messaggi.
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I love shopping
Una amara ironica denuncia del consumismo
I love
shopping, sta letteralmente sbancando il botteghino, incassando
ben più dei film vincitori degli Oscar.
Il segreto sta in una deliziosa storia d’amore, in una
fotografia accattivante, ma soprattutto nel messaggio
subliminale che raggiunge lo spettatore, mettendo a fuoco la
crisi mortale della società dei consumi.
La storia si impernia su una simpatica giornalista affetta da
una sindrome purtroppo oggi molto diffusa. l’irresistibile
follia di comperare vestiario ed oggetti dei quali non vi è
alcuna necessità: centinaia di borse, scarpe, sciarpe, lingerie,
profumi, favoriti in questi acquisti scriteriati dal possesso di
una miriade di carte di credito, che, spostando il pagamento ad
un futuro improbabile, danno l’onnipotente sensazione di poter
possedere qualsiasi cosa. Un’illusione fugace quanto inebriante,
una sensazione di identità ed onnipotenza subdola quanto e più
di una droga.
Una malattia che colpisce, più virulenta di una micidiale
epidemia, non solo signore del jet set, ereditiere croniche o
abituate a cambiare letto con banale disinvoltura, ma anche
decine di migliaia di impiegate e operaie, capaci di spendere
uno stipendio pur di indossare un capo firmato.
Da questo penoso deserto esistenziale deriva la spaventosa crisi
economica che in questi giorni sta travolgendo i mercati. Falsi
bisogni e pagamenti dilazionati, una miscela esplosiva in grado
di mandare in frantumi il mondo.
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Stupro culturale
I sempre più frequenti episodi di violenza sessuale verso le
donne, spesso ad opera di immigrati, ha scatenato un giusto
allarme sociale, ma è mancata sui mass media una seria
discussione sull’origine del fenomeno e sui possibili rimedi.
Bisognerebbe riflettere sulla nefasta abitudine del sesso libero
e dell’esposizione del corpo nudo della donna, che caratterizza
la nostra società e che costituisce un potente richiamo per
individui, di cultura diversa, lontani da casa e soprattutto,
arrapati cronici.
Far vedere una vivanda appetitosa non contribuisce certo a
placare la fame, è come mostrare la droga ad un tossico in crisi
di astinenza o dell’acqua ad un assetato.
Le pulsioni sono difficili da controllare per una persona
normale, diventano ingovernabili per soggetti provenienti da
paesi dove il corpo della donna è tabù; è un comportamento
ipocrita prendersela solo con il criminale senza fare niente per
affrontare le cause che hanno favorito il delitto.
Come arginare il problema? Un poliziotto in ogni strada?
Schierare l’esercito? Le ronde?
Oppure convinceremo le popolazioni che ancora considerano il
sesso un frutto proibito ad uniformarsi alle lascive abitudini
occidentali con tutto ciò che di devastante esse comportano in
fatto di sfascio della famiglia, deriva dei costumi e figli
sbandati?
Aumenteremo le pene per gli stupratori, li castreremo
chimicamente o con appositi forbicioni, mettendo così a tacere
la nostra coscienza, anche se non servirà a nulla come la pena
di morte non riesce a ridurre i crimini.
Il sesso è un’arma micidiale a doppio taglio che l’umanità non è
in grado di gestire senza causare gravi ferite a se stessa.
I mezzi di comunicazione di massa sono responsabili non solo di
proporre immagini di sesso come innocente piacere senza effetti
collaterali, ma di incitare anche i sassi a fare sesso,
incuranti degli effetti che può produrre in chi non è in grado
di dominare i propri impulsi.
Non vi è trasmissione televisiva che non esponga donne seminude
o filmato che non si risolva in un amplesso fine a se stesso o
in una eclatante quanto diseducativa manifestazione di violenza.
La colpa è soprattutto di coloro che condizionano i nostri
desideri, consci ed inconsci, il potere economico che pur di
vendere un prodotto si serve dell’oggetto del desiderio
femminile come specchietto per le allodole senza preoccuparsi
degli effetti collaterali che produce.
Le immagini degli spot pubblicitari non hanno forse lo scopo di
far emulare, far nascere il desiderio di quel prodotto? Perché
il sesso non dovrebbe produrre gli stessi effetti?
Le famiglie, la scuola, lo Stato, devono educare la gente alla
moderazione, all’autocontrollo, alla finalizzazione.
Ma soprattutto la donna deve essere consapevole che può essere
oggetto di forte desiderio e che, finché l’umanità non sarà
migliore, la condotta più efficace è la prudenza.
Nessuno sembra interessato a combattere le radici del fenomeno:
è più semplice e più conveniente intervenire sugli effetti,
anche se il risultato è penosamente nullo.
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Le grotte Platamonie ed i riti orgiastici
La grotta di Piedigrotta è stata per secoli, forse millenni,
teatro di pratiche orgiastiche in onore di Priapo, che
periodicamente impegnavano giovani di entrambi i sessi, i quali
davano libero sfogo alle loro più elementari pulsioni con
innegabili benefici per il corpo e lo spirito. Il buio della
caverna faceva cadere ogni inutile inibizione e alimenti
energetici venivano in soccorso ai maschi impegnati in
defatiganti amplessi (la famosa sfogliatella dalla forma che
rammenta il pube femminile era il viagra dell’epoca).
Con l’avvento del Cristianesimo questi costumi scostumati sono
stati incanalati in una più tranquilla festività a cadenza
annuale, durante la quale gli istinti repressi potevano
sfrenarsi in balli e strusciamenti reciproci; nasce la famosa
Piedigrotta napoletana, assassinata negli anni Settanta del
secolo scorso dal traffico caotico della città e da
amministratori miopi e sconclusionati. Erano feste memorabili,
che duravano fino a quindici giorni, durante le quali, al
passaggio dei mastodontici carri allegorici, era permesso un po’
di tutto: urlare, sbracciarsi, calare coppoloni in testa a tipi
“soggetti”, esercitare vigorosamente la mano morta su sederi di
tutte le età, pur senza trascurare eventuali seni generosamente
esposti, dimenticando in tal modo le angustie quotidiane.
L’antico spirito greco della festa, nata tra venerazioni
priapiche e sfrenate danze liberatorie, sembrava rivivere nel
popolo festoso, esaltando lo spirito trasgressivo e godereccio
dei napoletani.
Meno famose della celebre sorella sono le grotte Platomonie,
poste lungo il litorale dell’antico borgo di S. Lucia ed oggi,
in parte abbandonate o vergognosamente trasformate in garage,
che potrebbero dare un sollievo allo scottante problema del
parcheggio, ma da anni al centro di una diatriba (truffa)
infinita tra squallidi speculatori ed una giunta comunale
collusa ed incapace.
Questi anfratti sono il prodotto erosivo dell’acqua sulla roccia
nel corso del tempo e derivano il loro nome dal greco platamon.
Alcune furono adoperate per l’allevamento delle murene, ma la
loro fama è legata ad un particolare rito orgiastico, che si
svolgeva più volte all’anno e consisteva nell’incontro tra una
menade incoronata da un’alga marina ed uno jerofante agghindato
da uomo pesce che la fecondava.
A partire dal Quattrocento il rituale subì una sorta di
legalizzazione ed i due officianti erano freschi sposi che
consumavano il matrimonio alla presenza dei membri di una setta,
che accompagnavano la deflorazione con ritmiche cantilene e
preparavano un’atmosfera adeguata bruciando essenze profumate
inebrianti in tripodi ornati di falli alati del tipo di quelli
che gli scavi di Pompei porteranno alla luce secoli dopo.
Nelle deliziose grotte Platamonie per rinfrescare gl’immensi
ardori dell’estate, passeggiavano quinci e si riparavano con
spessi e sontuosi conviti, ricevendo dispogliati la grata aura e
il desiderato fiato di ponente, e nudi tra le chiare onde a
nuoto si difendevano dal noioso caldo". Benedetto di Falco,
secolo XV.
"Quivi, come narrasi, la gente allegra e spensierata accorreva a
banchettare e a darsi spasso; finché i sollazzi mutati, poscia,
in orge scandalose, resero quei luoghi dei sozzi postriboli".
Loise de Rosa, 1452.
Vari autori ci raccontano che oltre a rituali i luoghi erano
adoperati anche per ammucchiate che di iniziatico avevano ben
poco.
Anche la malavita cercava di usufruire di un nascondiglio sicuro
per nascondere merci di contrabbando e mal tollerava l’utilizzo
con finalità erotiche delle grotte, per cui fece giungere al
viceré don Pedro da Toledo notizia delle orge scandalose che vi
si svolgevano. Il risultato fu la distruzione delle
stratificazioni più profonde e la chiusura di tutte le altre. Al
medesimo viceré si deve l'ampliamento cinquecentesco che per la
prima volta inglobò all'interno delle mura il monte Echia,
ancora in epoca aragonese fortezza militare siti Perillos,
propaggine esterna della città.
Ma dove si sono ripetuti a lungo riti intrisi di tradizione e di
mistero e si è scatenata incontenibile la furia erotica, i
luoghi restano impregnati da forze che molto lentamente
decantano ed a nulla valse murare le grotte più profonde adibite
alle congiunzioni carnali più folli e scatenate; dal sottosuolo
emanano sedimentazioni energetiche, viscerali, piroclastiche,
telluriche, sibilline e più volte sarà capitato a qualche
signora o signorina, passeggiando per via Chiatamone, senza
capirne il motivo, di avvertire chiaramente un dolce,
improvviso, irrazionale, irrefrenabile desiderio di sesso più
che di amore.
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I confini della vita
Gentile direttore,
arduo è il quesito sull’inizio della vita, ma quanti si
interrogano su quando la vita finisca? Fortunatamente della
problematica la Chiesa non se ne è mai interessata e questo
disinteresse ha favorito il progresso della scienza dei
trapianti, a differenza delle tecniche di fecondazione assistita
o dell’aborto, che cozzano contro il dogma dell’animazione
coincidente con la fecondazione, sancito nel 1869 da Pio IX
nella”Apostolicae sedis”. A questa conclusione si è giunti dopo
che sulla spinosa questione si erano espressi tutti i maggiori
studiosi cristiani, da Tertulliano a S. Agostino, fino a
giungere a S. Alberto Magno, che candidamente asseriva che il
maschio possedeva un’anima dopo 40 giorni dal concepimento,
mentre la donna dopo 90 e S. Tommaso d’Aquino, sul cui pensiero
si fonda la teologia e l’etica cristiana, che sosteneva la tesi
dell’animazione ritardata, prima della nascita, ma molto tempo
dopo la fecondazione.
Non mi dilungo perché vorrei invitare a meditare sul preciso
momento della morte. Pochi sanno che il cuore adoperato per un
trapianto è perfettamente pulsante, anche se il vecchio
proprietario ha il cervello che non funziona più
(elettroencefalogramma piatto). Una situazione identica a tanti
ricoverati da anni, senza speranza, nei nostri centri di
rianimazione, anche loro con il cervello distrutto, ma con un
cuore o i polmoni malandati che non interessano per un
trapianto. Se a questi soggetti asportassimo il cuore senza
utilizzarlo sarebbe eutanasia? E come mai non lo è se l’organo
serve per un trapianto? Alcune cellule resistono alla mancanza
di ossigeno più delle altre, ad esempio le cellule pilifere
vivono fino a 6 giorni dopo la morte ufficiale, anche dopo il
seppellimento del corpo. In caso di morte traumatica in un
giovane è impressionante, vegliando il cadavere, scoprire che al
mattino ci vorrebbe il barbiere.
La delicata linea di confine tra l’inizio e la fine della vita
mal si presta ad essere delineata con precisione, se si vuole
trovare una risposta unicamente biologica, che non può
soddisfare pienamente. Una verità difficile da accettare per il
laico, che non voglia travalicare nella scienza come dogma. Un
argomento che diverrà sempre più scottante, che ha costituito
per oltre trent’anni per il sottoscritto, come medico e come
libero pensatore, oggetto di studio e riflessione, senza
speranza oramai di una risposta soddisfacente e definitiva.
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Il falso mito della democrazia
Tutti crediamo di vivere in una democrazia e solo per questo
dovremmo essere felici guardando tanti popoli in preda a
dittatori folli e sanguinari, dall’Africa alla America del sud,
ma pochi si rendono conto che il sogno di un regime democratico
è falso e menzognero, perché tale forma di governo non esiste,
né può esistere. Forse nella polis greca, quando a governare una
piccola città vi erano pochi capi famiglia, si poteva avere
l’illusione di una realtà, ma oggi anche amministrare un rissoso
condominio sembra un’utopia.
Oggi, e da tempo, viviamo sottoposti ad un regime oligarchico
dominato dai poteri forti: banche e multinazionali, le quali
controllano l’economia e manipolano il consenso attraverso i
mass media, che ci inducono a pensare in un certo modo, mentre
la televisione ci frantuma il cervello ed il senso critico.
In tutte le pseudo democrazie occidentali l’affluenza elettorale
è inferiore al 50% ed anche in Italia siamo su quella strada,
non tanto per disaffezione verso i nostri parlamentari, bensì
perché inconsciamente ci convinciamo dell’inutilità del voto.
Non è politicamente corretto cominciare a rifiutare
semplicemente il paradigma sul quale si basa la democrazia: un
individuo, un voto?
Questa affermazione potrebbe essere giusta se i cittadini
fossero eguali veramente e non soltanto nella fantasia
pomposamente sancita nell’articolo 3 della nostra veneranda
Costituzione.
L’ abissale diversità tra l’ignorante ed il colto, tra il ricco
ed il povero, tra il giovane ed il vecchio salta agli occhi
perentoriamente, come se non bastassero le stridenti diversità
per lingua, razza, religione, censo, cultura, abilità
professionale.
Non credere nella superiorità della democrazia è poco meno che
una bestemmia, ma siamo certi che dobbiamo continuare a crederlo
senza ricercare un possibile rimedio.
L’assenza nel dibattito dei giovani è deleteria, senza il loro
entusiasmo e le loro idee siamo perduti. Cerchiamo di dare più
spazio alla loro immaginazione, senza dimenticare che chi sparge
semi al vento fa germogliare fiori nel cielo.
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Il mendace trionfo dell’evoluzionismo
Il bicentenario della nascita di Darwin trova nei mass media il
giusto risalto trattandosi di commemorare una scoperta
scientifica che ha rivoluzionato la biologia ed ha spodestato
l’uomo da quella posizione privilegiata che credeva di occupare
nel mondo dei viventi, ma si sarebbe dovuto dare spazio anche a
coloro che ritengono la teoria dell’evoluzione non in grado di
spiegare la straordinaria complessità della natura, dalla
mirabolante precisione dell’occhio alle emozioni dell’uomo.
Per chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il calcolo
delle probabilità risulta assurdo pensare che il caso abbia
potuto produrre l’ordine, come un romanzo non può essere il
risultato di uno scarabocchiare a caso delle lettere su un
foglio di carta, come si proponevano nella loro allegra follia i
futuristi, analogamente una specie non può essere il frutto
imprevedibile di casualità e necessità
La selezione naturale, senza un progetto, avrebbe prodotto, al
fianco di forme perfette come un alveare o un cervello,
un’infinità di organismi aberranti.
La stessa esistenza di regole da rispettare, come il trionfo dei
più adatti, presuppone un codice… che precede e sovraintende
alla vita.
Lo studio e la scoperta del processo evolutivo non è altro che
una tappa nella decifrazione del gran libro della natura e non è
obbligatoriamente in contrasto con l’idea di un progetto e di un
sommo ingegnere.
Di recente delle critiche alla teoria dell’evoluzione sono state
avanzate dai seguaci del Progetto intelligente, un movimento più
filosofico religioso che scientifico, i quali ritengono che la
teoria dell’evoluzione da sola non sia capace di spiegare la
complessità della creazione e si battono, soprattutto negli
Stati Uniti, per introdurre nell’insegnamento scolastico le loro
idee.
Ma le accuse più dirompenti sono state avanzate da alcuni
settori del mondo scientifico, dalla fisica più che dalla
biologia e tra queste ne segnaliamo due molto convincenti.
La prima è stata una ricerca effettuata nell’università del
Maryland ed ha dimostrato che la densità di connessioni e la
distribuzione dei gangli nervosi, in tutti i viventi esaminati,
dai nematodi alle scimmie ed allo stesso uomo, è la migliore
possibile tra le decine di milioni di varianti esaminate
pazientemente al computer, migliore anche della connettività
ingegnerizzata nelle migliori microchip oggi realizzabili
industrialmente. Gli studiosi hanno sottolineato che si tratta
di processi innati di ottimizzazione, ma non specificati, in
quanto tali, dai geni. Queste soluzioni ottimali del mondo
biologico è impossibile che si siano realizzate casualmente,
dopo decine di milioni di generazioni di macachi il cui cervello
ha tentato a sorte tutte le soluzioni possibili; la selezione ha
dovuto essa stessa seguire dei binari stretti, imposti dalla
fisica e da principi generali di ottimizzazione.
La seconda stupefacente ottimizzazione naturale è quella
interessante i centomila chilometri di vene, arterie e capillari
che costituiscono il sistema di trasporto del sangue nei
mammiferi. Al Santa Fe Institute hanno dimostrato
matematicamente che l'organizzazione di tutti questi vasi, nel
topo come nella balena, segue costantemente la legge dei
cosiddetti frattali perfetti. In pratica la rete minimizza i
costi di trasporto e ottimizza gli scambi.
Ricordiamo che la teoria dell’evoluzione si interessa unicamente
del mondo vivente sia animali che piante, una trascurabile
scintilla nel gran fuoco dell’universo, regolato da leggi in
parte identificate ed in parte da scoprire e nel quale i sassi
cadono a terra per la forza di gravità, non perché la selezione
naturale ha eliminato tutti quelli che tendevano ad ascendere in
alto.
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Possibili rimedi alla vecchiaia
Gentile dottore,
la vecchiaia è sempre stata vista come una dura condanna da
sopportare e l’uomo ha sognato di potervi porre rimedio: dal
mito di Faust alle fontane della giovinezza, dal Gerovital al
disperato ricorso al botulino ed alla chirurgia plastica.
In futuro questo sogno disperato di evitare la vecchiaia potrà
venirci dalla clonazione, che sarà in grado di trasferire la
nostra identità psichica in un nuovo corpo o dall’ingegneria
genetica, se riuscirà a riparare i guasti a livello molecolare,
che sono alla base dei fenomeni che ci allontanano sempre più
dalla giovinezza. E progressi significativi potranno realizzarsi
studiando a fondo la progeria, una rara affezione che produce
un’accelerazione spasmodica della senescenza, trasformando
innocenti bambini in vecchi decrepiti.
In attesa che i progressi della scienza ci conducano in un
futuro ancora lontano, quando la vecchiaia sarà un orribile
ricordo del passato, relegata come mostruosità nei libri di
storia della medicina, l’impegno delle istituzioni deve tendere
a considerare l’anziano come parte integrante del tessuto
sociale, depositario di saggezza e di esperienza e non un paria
privo di importanza e di ruoli, relegato, in un mondo dominato
dal consumismo sfrenato e dall’egoismo più becero, in un angolo
dimenticato, condannato alla solitudine, all’infermità ed alla
disperazione.
In passato le società primitive o nomadi hanno considerato i
vecchi un peso inutile negli spostamenti, in alcune, molto
povere, venivano sepolti, bruciati vivi oppure lasciati morire
lontano da tutti; in quelle sedentarie, come la nostra, si
apprezzava viceversa la capacità di trasmettere valori alle
giovani generazioni.
Purtroppo il disfacimento della famiglia patriarcale ed un’
organizzazione politica ed economica basata unicamente sulla
produzione e sul profitto non permette agli uomini di conservare
la loro piena dignità di cittadini nell’ultima fase della vita.
Ridare voce agli anziani comporterebbe uno sconvolgimento
radicale in una società dominata dalla volontà di pochi crudeli
mandarini, i quali decidono le sorti degli altri senza timore di
condividerle.
“I vecchi sono esseri umani? A giudicare dal modo con cui sono
trattati nella nostra civiltà è lecito dubitarne: la vecchiaia
resta un segreto vergognoso, un soggetto proibito. Bisogna
rompere la congiura del silenzio ed è necessario l’impegno di
tutti”.
Con queste focose parole Simone de Beauvoir arringava i suoi
lettori ad affiancarla nella battaglia al termine del suo
celebre libro la Terza età e la via da lei indicata resta ancora
l’unica da seguire.
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Chi comanda nel mondo
L’antica farsa del potere
Il denaro è l’indiscusso motore della storia, più della guerra o
dell’amore, scatena le guerre, affama i popoli, condiziona la
vita dell’uomo, creando rigide barriere economiche ed assurde
divisioni in classi sociali.
I soldi rappresentano la droga più potente della quale quasi
tutti sono succubi, affezionati come siamo a quei simpatici
pezzi di carta, sporchi e stropicciati. Li desideriamo
ardentemente, li conserviamo come reliquie nel portafoglio, per
averli siamo anche disposti a lavorare come matti per tutta la
vita, per averne di più siamo pronti a tradire un amico, a
scavalcare un debole, ad ingannare un avversario.
Crediamo ciecamente che con il loro possesso si possa comperare
tutto ciò che si desidera: oltre a vestiti, auto, cibo ed
oggetti lussuosi anche il favore degli altri, l’onestà delle
donne, la giustizia degli uomini, la coscienza del prossimo.
Questa schiavitù, sconfinante nell’idolatria, dell’uomo verso il
denaro infonde un potere smisurato a chi lo detiene e lo
amministra: le banche ed i banchieri, custodi del tempio della
ricchezza, hanno sempre comandato più dei politici, costretti
semplicemente ad eseguire le loro volontà, semplici notai di
decisioni prese nelle ovattate ed irraggiungibili stanze dei
vertici finanziari internazionali.
Questa realtà è ubiquitaria e costituisce un mondo ben distinto
dai governi, una monade laica, internazionale, poliglotta,
spesso collegata a poteri paralleli come la massoneria.
In occasione della attuale crisi finanziaria tutti gli Stati
sono accorsi immediatamente al loro capezzale prendendo
provvedimenti senza badare all’enormità delle somme impiegate e
senza alcuna sicurezza di ottenere un risultato positivo.
Tutto il mondo della produzione e del consumo è in coma,
dall’industria automobilistica all’elettronica, dal turismo
all’edilizia, dalla grande distribuzione ai piccoli negozietti a
gestione familiare, non considerando i singoli cittadini che
vedono compromesso non solo il futuro ma anche il presente;
nonostante questa situazione drammatica, solo per il salvataggio
delle banche i governi all’unisono sono intervenuti senza
nemmeno preoccuparsi di scovare e punire in maniera esemplare i
responsabili e disegnare un nuovo assetto legislativo, che possa
evitare in futuro il ripetersi di tali catastrofi finanziarie.
Dopo la crisi del 1929 furono varate regole severe per impedire
gli eccessi che avevano portato alla grande depressione, si
adeguarono l’America di Roosevelt e l’Italia di Mussolini, che
nazionalizzò l’Iri e separò il credito ordinario da quello a
lungo termine.
Oggi è molto difficile delineare un quadro in grado di tenere
sotto controllo la finanza internazionale dopo il boom dei
derivati, dei futures, la completa liberalizzazione dei
movimenti dei capitali e l’ipertrofia dell’indebitamento, che ha
prodotto la paurosa voragine di titoli tossici dentro i bilanci
delle banche.
Alla base di questo disastro economico vi è il grave malessere
di una società egoista ed edonista, malata di consumismo che
vuole tutto subito e che per decenni, con la chimera di guadagni
esorbitanti, ha attirato i migliori talenti, distogliendoli da
altri impegni più produttivi per l’umanità come ideare nuovi
farmaci o predisporre validi rimedi all’incombente cambiamento
climatico.
In Italia i monarchi della finanza hanno sempre goduto di un
prestigio smisurato, anche se non esibito e di una sorta di
extra territorialità, basta ricordare Giuseppe Toeplitz, il
quale costringeva in anticamera a lunghe attese il Duce senza
che Mussolini osasse rimuoverlo o, in tempi più recenti,
Raffaele Mattioli, mentre infuriava la guerra fredda,
intrattenersi piacevolmente con Togliatti e restituirgli i
Quaderni di Gramsci, da lui salvati rocambolescamente durante
gli anni del fascismo.
Riccardo Cuccia passò indenne rivolgimenti interni ed
internazionali, guardando sempre con sufficienza i capo tribù di
piazza del Gesù e le loro beghe di correnti, il potere bancario
fu ispiratore poi del terremoto giudiziario di Mani pulite e
rappresentò il sogno proibito dei post comunisti, che brigarono
senza ritegno per possedere finalmente un istituto di credito
tutto loro, ripetendo inconsciamente un copione che rimane
invariato da secoli e costituisce l’antica farsa del potere.
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Elogio del tiranno
Dopo aver tratteggiato limiti, difetti e falsità della
democrazia vogliamo porci un traguardo ancora più spericolato e
politically scorrect: tessere un elogio della tirannide e dei
vantaggi che possono trarne i sudditi… di una dittatura.
Per chi vive come noi in regimi… apparentemente democratici,
nutriti forzatamente dalla nascita nel culto della Repubblica e
della Costituzione, la figura di un uomo forte, che si
impadronisca del potere e lo eserciti in solitudine, appare come
il peggiore dei mali, dimenticando che la Grecia e Roma hanno
raggiunto il massimo del loro splendore per secoli proprio sotto
il comando di un solo uomo.
Lo studio dell’antichità deve illuminarci sui meccanismi del
potere, che sono rimasti immutati da allora e ad esso si sono
conformati anche i campioni dell’era moderna da Napoleone ad
Hitler, da Mussolini a Stalin, grossi personaggi, osannati in
vita, che hanno condizionato il percorso della storia ed hanno
guidato, con brutale pragmatismo, i loro popoli verso mete
altrimenti non negate.
Per comprendere a pieno l’utilità dell’elogio bisogna prima
interrogarsi sul diritto della democrazia a configurarsi come il
migliore dei sistemi di rappresentazione politica possibili e
non come un come una mendace pantomima della libertà, nella
quale i poteri forti comandano indisturbati, mentre i cittadini
si illudono di esercitare attraverso il voto un potere
decisionale, che non ha alcuna possibilità di manifestarsi.
Cambiare tutto affinché nulla cambi, una frase celebre del
Gattopardo che fotografa spietatamente la realtà delle moderne
democrazie, nelle quali dopo ogni elezione si vengono a creare
coalizioni disomogenee, incapaci di tradurre la volontà di chi
li ha portati in parlamento, perché imbrigliate da interessi
troppo forti: sindacati, chiesa, banche, multinazionali.
Nel frattempo, in società fondamentalmente materialistiche come
quelle occidentali, i governi permettono che una droga velenosa
si diffonda con effetti dirompenti tra i cittadini elettori: il
consumismo più sfrenato, dando così una forza smisurata ai
detentori del potere economico, veri padroni dello Stato, nei
cui consigli dì amministrazione si decidono le sorti di popoli e
nazioni.
A confronto con gli attuali simulacri di democrazia, che si
illudono e ci illudono di delineare il nostro presente ed il
nostro futuro, ai vizi ed alle finzioni dei parlamenti, alla
bancarotta morale e civile della finanza internazionale, bisogna
cominciare a guardare con interesse a sistemi autoritari, come
quello cinese, in grado di funzionare meglio e con maggiore
beneficio per i cittadini, di democrazie caotiche e
inefficienti.
I tiranni non giungono al potere spinti unicamente dal loro
carisma e dalla loro capacità di dominare, ma sono espressione
di una élite che li circonda, li condiziona e spesso è in grado
di sostituirli quando la loro azione è in contrasto con gli
interessi generali.
La storia è costellata dalle gesta di numerosi dittatori che
hanno guidato, con virile energia, i loro popoli verso traguardi
altrimenti non raggiungibili.
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Videocracy, uno spietato ritratto di una società alla deriva
La mostra di Venezia, oltre a capolavori assoluti come Baaria,
presenta anche interessanti contributi come Videocracy, una
puntigliosa carrellata della voglia di apparire che ha
contagiato i giovani, dalla nascita della televisione privata ai
programmi cult di oggi come il Grande fratello o X - Factor.
La pellicola vuole scimmiottare il Caimano nel suo genuino
ardore di denuncia dello straordinario successo del Cavaliere,
ma Gandini è un pallido ectoplasma al confronto con Moretti, un
volenteroso riciclatore di immagini di repertorio e nuovi
episodi slegati e girati con una video camera parkinsoniana, per
cui alla fine della proiezione la figura del Berlusca non viene
affatto sminuita, anzi appare quella di un gigante al cospetto
di una tribù di pigmei.
Fabrizio Corona, il paparazzo d’assalto noto alle cronache per
le sue vicissitudini giudiziarie e per le sue infinite
provocazioni, assurge a protagonista principale della storia ed
ingenuamente confessa i suoi reati, come l’estorsione perpetrata
a Marina Berlusconi con la richiesta di 20.000 euro per non
pubblicare alcune sue foto imbarazzanti. Dopo la sua detenzione
di 80 giorni nel carcere di Potenza i riflettori si accendono
prepotentemente su di lui, trasformandolo da un avanzo di galera
ad icona della vacuità, la cui presenza per un ora in un locale
viene ricompensata con 10.000 euro, la paga di un anno di un
precario con famiglia a carico. Fabrizio non fa che profumarsi
ogni momento e recitare stupide frasi ad effetto tra le quali
spicca per idiozia quella di essere un moderno Robin Hood, il
quale ruba ai ricchi e conserva il maltolto per sé oppure,
sfidando il fisco, che la sua squallida attività in poco tempo
tempo gli ha reso due milioni e mezzo di euro, una bazzecola
rispetto ai compensi d un calciatore.
Per la gioia di signore e signorine, a parte qualche gay di
passaggio, vi è poi una scena sotto la doccia nella quale il
macho esibisce un nudo integrale da schianto, tra muscoli
scolpiti ed abbronzatura nord africana, appena penalizzato dalla
visione di un inaspettato ipogenitalismo.
L’immagine più scioccante del film è costituita dal volto
patibolare di Lele Mora, mentre ascolta estasiato le note di
Faccetta nera scandite dal suo pacchiano telefonino, non certo
per le simpatie politiche di un così viscido personaggio, che
non ci interessano affatto, ma perché un regime che tanto ha
rappresentato nella nostra storia, nel bene e nel male, in un
contesto vacuo ed evanescente come quello rappresentato, viene
ridotto ad una grottesca quanto innocua caricatura.
Quel ghigno sguaiato incute timore e tristezza, perché esalta un
universo di puttanelle in cerca di successo e palestrati
pluritatuati aspiranti tronisti, i quali pascolano indisturbati
tra spiagge da sogno e night club postribolari.
Un democratico viene disgustato dallo spettacolo di tanta
esibita sciatteria, mentre un nostalgico si dispera per una così
vomitevole rievocazione, che riduce una sofferta ideologia ad un
miserevole gioco di società, un fievole carillon in sintonia con
le risate di un oscuro regista, mentre il nero della sua fede
viene ingoiato dal biancore abbacinante della scena.
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La crisi dell’utopia di internet
Il web si agita tra desiderio di libertà ed esigenza di
controlli
Gentile dottore,
Pochi sanno che internet nasce grazie a ricerche, dettate da
finalità militari, per identificare un sistema di trasmissione
di dati, che il nemico non sia in grado di decriptare; lo stesso
filone di studi che aveva incoraggiato esperimenti di telepatia
anche nel corso delle missioni Apollo.
Lo sviluppo della nuova tecnologia è stato poi tumultuoso ed ha
cambiato in breve il volto del mondo, dimostrandosi una delle
più importanti novità nella storia dell’umanità.
Per anni è sembrato che si potesse realizzare il sogno di un
mondo senza confini né padroni, autogovernato dalla comunità
degli utenti, uno spazio senza controlli e censure, nel quale
notizie e conoscenza potessero dilagare e raggiungere i più
sperduti angoli del globo.
Il numero di coloro che quotidianamente si collegano alla rete
diviene sempre più alto e la circolazione delle idee mette in
crisi spietate dittature, nonostante pene severissime, inclusa
quella capitale e la creazione di una grande muraglia telematica
attorno alla Cina per cercare di filtrare informazioni non
gradite.
Skype permette attraverso il computer di poter parlare
gratuitamente con chiunque, anche all’estero e rompe l’egemonia
ed il latrocinio dei gestori telefonici, nello stesso tempo la
privacy delle conversazioni è assoluta, perché proprietà del
servizio e server, situati tra Scandinavia ed Estonia, non
accolgono alcuna rogatoria che richieda intercettazioni, una
falla ben nota a terroristi e mafie, le quali utilizzano da
tempo esclusivamente questo sistema per le loro comunicazioni.
Giovani di ogni paese utilizzano alcuni siti specializzati per
scaricare file musicali o film senza pagare i diritti d’autore,
come pure è molto semplice stampare un libro coperto da
copyright, una libertà sconfinante nell’anarchia, che alla lunga
metterà in crisi l’industria culturale.
Anche l’esperienza più anarchica dell’etere come Wikipedia,
l’enciclopedia on line che aveva mandato in pensione giganti del
sapere come la Britannica o la Treccani, si appresta a rivedere
la sua filosofia basata su un sapere che sgorgava dal basso
senza gerarchie, davanti ai problemi insoluti di voci
controverse, soprattutto riguardanti la contemporaneità, le
quali negli ultimi anni hanno innescato focosi conflitti tra
appartenenti a fazioni di pensiero contrastante, che si
correggevano all’infinito. La redazione ha stabilito un
controllo da parte di specialisti delle singole materie su gran
parte degli argomenti, una conferma dell’illusione di un sapere
democratico e la consacrazione di un’aristocrazia della cultura,
di nuovo arroccata in una cittadella ideale per pochi eletti.
Ma il pericolo più grave che minaccia la rete è costituito
dall’intenzione di Obama di potersi assurgere a controllore
assoluto del ciberspazio, arrogandosi di decidere l’interruzione
del servizio, se, a suo insindacabile giudizio, dovesse esserci
un pericolo telematico per gli Stati Uniti. Purtroppo non si
tratta di un’evenienza fantastica, come dimostrano i recenti
attacchi a Google e Twitter condotti da hackers che hanno
paralizzato per ore milioni di computer.
Se il Cybersecurity Act verrà approvato dal Senato si sancirà la
volontà di violare la sovranità di altri Stati, né più né meno
della dottrina Bush di inseguire dappertutto il terrorismo
dall’Irak all’Afganistan, facendo scoppiare conflitti e
decapitando governi con la scusa di esportare la democrazia.
Infatti se i terroristi informatici decidessero di utilizzare i
server di nazioni neutrali per infettare con virus micidiali in
grado di controllare a distanza le comunicazioni sarebbe
inevitabile far partire il contro attacco senza il tempo di
avvertire nessuno.
Un pericolo che violerebbe non solo la neutralità del web, ma
anche la sovranità degli Stati, ma non si potrà fare altrimenti,
perché un attacco da parte di hacker specialisti come preludio
di una guerra, bloccando i computer, avrebbe consistenti
probabilità di successo, non solo impazzirebbe il traffico
paralizzando le città, ma andrebbero in tilt anche i codici dei
missili con le ogive nucleari.
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Il caso dell’infedele Klara
Girato tra Praga e Venezia, città sensuali per eccellenza, il
film di Roberto Faenza parla della gelosia, un sentimento che
mina e spesso rende infelice l’amore.
Si intrecciano varie storie tutte segnate da questa strana
emozione, che recenti statistiche hanno dimostrato essere molto
diffusa anche tra i giovani; una sorpresa solo per osservatori
superficiali, dovuta al clima di insicurezza nel quale si svolge
la vita delle nuove generazioni prive di qualsiasi punto di
riferimento e di valori da cui prendere esempio con la famiglia
dissolta, la scuola in disfacimento e le ideologie tramontate.
La pellicola è un prodotto gradevole grazie alla recitazione
degli attori, tutti molto bravi e per i numerosi gradevoli nudi,
anche integrali, che costellano la narrazione.
Confesso di essermi recato al cinema per vedere il film A voce
alta con Kate Wislett, disposto anche a sorbirmi un racconto
sempre triste sulla persecuzione degli Ebrei, pur di ammirare lo
splendido corpo della diva resa celebre da Titanic, immortalata
nature in una tinozza. Trovata la sala completa, sono rimasto
colpito dalla locandina del Caso dell’infedele Klara, che cerca
di calamitare l’attenzione del potenziale spettatore con una
identica rudimentale vasca da bagno nella quale la nostra Laura
Chiatti, con minore prestanza anatomica, ma con una più
sfacciata punta di erotismo, fa il verso alla famosa collega
straniera.
L’argomento, apparentemente banale, fa viceversa discutere
animatamente il pubblico, sia nell’intervallo che all’uscita
dopo la proiezione.
Siamo schiavi delle reazioni chimiche del nostro cervello e ci
crediamo importanti ed insostituibili, non consideriamo che se
la vita, per una catastrofe nucleare o ambientale, dovesse
all’improvviso scomparire, l’universo non se ne accorgerebbe
affatto.
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