Ricordo con emozione l’incontro con il compianto
collega Luigi Pellegrini, illustre chirurgo, ma soprattutto
raffinata figura di collezionista ed erudito e la sua richiesta di
allestire un catalogo della sua raccolta di dipinti e di redigerne
le relative schede.
L’amico era a Napoli con la moglie per il Maggio dei monumenti ed
aveva acquistato in libreria una copia del catalogo della mia
collezione, mi telefonò, ci incontrammo e mi mostrò le foto dei suoi
quadri, che subito mi apparvero di grande qualità e di notevole
interesse.
Lo incoraggiai a renderli noti attraverso una pubblicazione e
riuscii a vincere i suoi timori di rendere pubblica una raccolta
così prestigiosa e fino ad allora vista solo, e parzialmente, da
pochissimi studiosi.
Ritenni opportuno costituire un pool di studiosi che mi
affiancassero nel difficile ed insidioso terreno delle attribuzioni,
trattandosi di opere dal Cinquecento al Settecento, in gran parte di
scuola napoletana.
Tale gruppo di studiosi era costituito da nomi di grande
prestigio:Spinosa, Leone De Castris, Pacelli, Pavone ed inoltre mi
avvalsi del parere di altri critici, Bologna e Di Dario Guida, che
in passato avevano espresso dei giudizi su alcuni dipinti della
collezione. Molto utili mi furono anche le indicazioni della Daprà,
massima esperta del Gargiulo e di Stefano Causa, grazie al quale
potetti escludere una paternità di Battistello Caracciolo su una
tela in precedenza a lui attribuita.
Il potersi avvicinare ad una storica collezione, che per tanto tempo
è stata celata gelosamente, non solo al pubblico, ma agli stessi
studiosi, e così ricca di firme eccellenti da Massimo Stanzione a
Luca Giordano, da Filippo Vitale a Nicola Vaccaro ed a tanti altri
famosi pittori è stata un’esperienza affascinante ed estremamente
costruttiva.
Il lavoro durato molto tempo e costatomi tanto impegno mi ha
permesso però di offrire al lettore la possibilità di dilettarsi
alla vista di così splendidi dipinti, di sentirsi rapito dalle
forme, dai colori e dai soggetti trattati dagli artisti e di
sollevarsi dagli affanni quotidiani per addentrarsi nel mondo senza
frontiere della bellezza e dell’arte.
La collezione nasce nel XVIII secolo grazie ad un Nicola
Pellegrini (fig. a - b ), nato a Longobardi nel 1743, che visse ed
operò per molti anni a Napoli, ove divenne un personaggio importante
e di grande prestigio presso la corte dei Borbone.
fig a - antenato
fig b - albero genealogico
Nel testamento di questo avo così illustre si possono contare 196
dipinti e tra questi un Leonardo da Vinci! (fig. c).
Il palazzo Pellegrini (fig. d), costruito nella seconda metà del
Settecento, si trova nel centro storico di Longobardi; una grande
dimora ricca di quadri, tappeti e mobili di grande pregio, piena di
vita e di animazione ed oggi vuota e disabitata. La quadreria è
stata custodita nel palazzo per circa 130 anni per dividersi nel
1955 tra gli eredi, otto persone e quella che noi descriveremo è
dunque una minima parte di quella, cospicua, che fu in passato.
“Bisogna amare le cose perché in esse noi lasciamo un po’ di noi
stessi. I ricordi di famiglia conservano le vibrazioni dell’amore di
quelli che ci hanno preceduto ed evocano la sorridente tenerezza del
nostro piccolo mondo antico. Scrigni di memorie che puntualizzano il
nostro esistere, come tracce dei nostri percorsi, come puntelli ai
quali inchiodiamo le nostre sensazioni”(Luigi Pellegrini).
fig c - testamento
fig. d-palazzo pellegrini.
Oltre ai dipinti, illustrati nelle schede, sono conservati una serie
di oggetti e curiosità di estremo interesse, dai reliquari (fig. e –
f) agli orologi (fig. g – h), dai ventagli ai bastoni (fig. i) ed alle
penne pregiate (fig. l), oltre ad un singolare documento(una
locandina di un piccolo concerto familiare) (fig. m), che conferma
quanto peraltro già noto circa i passatempi delle virtuose fanciulle
delle buone famiglie di un tempo: ricami, lezioni private di
letteratura, storia e francese, lezioni di ballo e soprattutto
musica, condita da sospiri d’amore.
fig e -reliquario1
fig f - reliquario2
fig g -orologio1
fig h -orologio2
fig i - penna
fig l -bastoni
Prima di passare alla disamina dei principali dipinti seicenteschi
di scuola napoletana presenti nella collezione vorrei rammentare le
parole del caro amico Luigi che chiudevano il catalogo, una traccia
imperitura ed un coraggioso omaggio alla fruizione pubblica di un
così ricco patrimonio:
“Con queste ultime immagini si conclude la nostra storia. Una storia
di dipinti, di oggetti, di affetti. Una storia di famiglia.
Intanto lì, nella suggestiva piazzetta nel centro antico di
Longobardi, la casa paterna è ferma nel tempo. Il massiccio portale
corroso dalla ruggine degli anni; le mura dismesse, qualche crepa.
Le imposte, un tempo ridenti ed oggi invecchiate, sono tutte
serrate.
Ripercorro da solo, con lento passo, le vuote stanze silenziose
dell’antico palazzo. Rivedo quasi uno per uno, i mobili, i libri, i
quadri, gli oggetti, anche nella loro disposizione spaziale. Mi
soffermo nell’ormai disadorno salottino turco, mio prediletto
rifugio di sempre, per pensare. Riflessioni da mettere a fuoco: la
grande suggestione dei dipinti, l’arte, la storia, la famiglia, le
tradizioni, il respiro delle cose.
In un bagliore della mente rivivo attimi remoti e precisi,
sensazioni sepolte che riaffiorano all’improvviso misteriosamente
intatte, vive; è il tempo interiore, non date precise, ma stagioni
dell’animo. Infanzia felice. Risento le voci, le risa, il parlare di
immagini care, ricordi stupendi, affetti perduti, emozioni.
Poi… il rombo indiscreto di un rauco motore, è il progresso, è il
mondo che cammina e va avanti, verso il futuro.
E su tutto domina il tempo, con i suoi imprevisti, con le sue
segretissime regole, insomma con il suo mistero”(Luigi Pellegrini).
fig m - spartito
Il San Girolamo (01), quadro di altissima qualità, tra i gioielli
della raccolta, è attribuibile con certezza a Luca Giordano nella
sua fase riberesca. Nei primi anni della sua attività è a tutti noto
che l’artista si rifece ai modi pittorici del Ribera e ne riprese
alcuni temi iconografici di successo, come le mezze figure di
filosofo, che ebbero nel Seicento una grande diffusione, non solo in
Italia, perché richieste da uomini di cultura che amavano adornare i
loro studi e le loro biblioteche con immagini di sapienti
dell’antichità.
fig.01 - Giordano-S.Girolamo
Molto ricercate erano anche le figure di santi per devozione privata
e tra queste bisogna includere il nostro San Girolamo, il quale ci
consente di verificare il grado di assimilazione della lezione del
valenzano da parte del Giordano, un imprinting mai dimenticato,
infatti la critica più avvertita ritiene che anche in anni maturi
Luca dipinse più volte alla maniera del Ribera.
Nella composizione si osserva l’abbandono del netto stacco
chiaroscurale, dei bagliori folgoranti e dei fondi scuri presenti
anche nel San Girolamo della Pinacoteca civica di Asolo, mentre col
Profeta Balaam fermato dall’angelo del museo di Berlino condivide il
tono della folta barba bianca. Per la collocazione cronologica della
tela l’ipotesi più convincente è intorno agli anni Sessanta, a
comprovare il recupero di formulazioni verso le quali Luca si era
orientato nei tempi della sua prima formazione.
Prima di aderire anche lui alla paternità giordanesca del dipinto il
Pavone aveva ipotizzato che potesse trattarsi di un prodotto della
bottega riberiana ed aveva pensato al pennello di Hendrick Van Somer,
uno dei suoi allievi più dotati.
L’altro Giordano della collezione Pellegrini, il Cristo
benedicente (02), assegnato all’artista da Spinosa e Leone De Castris
è di minore qualità e risente vistosamente dei numerosi restauri ai
quali negli anni è stato sottoposto. Esso si colloca agli anni 1658
– 60, in un periodo di tangenza con l’attività di Mattia Preti,
presente in città in quegli anni.
Il Giordano infatti, tornato a Napoli nel 1653 dal suo viaggio di
studio a Roma, Firenze e Venezia, sviluppò in senso barocco il suo
stile, quindi nel decennio successivo si accostò al Preti che
divenne per lui uno stimolo ed un punto di riferimento.
fig02 -Giordano-Cristo benedicente
Nella collezione sono conservate sei quadri di forma ovale
attribuibili ad un artista noto sotto il nome convenzionale di
Maestro dei martirii, di questi quattro furono esposti nel 1976
nella mostra di Cosenza organizzata dalla Di Dario Guida che
ipotizzò lo stesso autore. Essi rappresentano Guarigione dello
storpio, Martirio di Sant’Andrea, Resurrezione di Lazzaro,
Crocefissione di San Pietro (03 – 04 – 05 – 06).
fig.03 Maestro dei Martirii-Guarigione dello storpio
fig.04
Maestro dei Martirii-Crocifissione di S.Andrea.
fig.05
-Maestro dei Martirii-Resurrezione_di_Lazzaro
fig06
-Maestro dei Martirii-Crocifissione di S.Pietro
Lo studio di queste tele permette di approfondire la conoscenza di
quella figura ancora dai contorni indefiniti che si cela ancora
sotto un nome di convenzione. Si tratta probabilmente di un nordico,
collocabile stilisticamente tra i modi pittorici di Scipione
Compagno e Carlo Coppola, attivo intorno al IV decennio del secolo,
il cui corpus ancora esiguo è spesso ricavato escludendo
l’attribuzione ad artisti dai caratteri più riconoscibili dalla
critica o più frequentemente quando in un dipinto si legge lo stile
di più artisti, come se ci si trovasse davanti ad un’originale
esercitazione di bottega. Inizialmente tale figura era ritenuta più
arcaica rispetto all’attività di un affermato specialista del genere
come può essere considerato Domenico Gargiulo, ma la comparsa
recente di dipinti, tra cui da annoverare anche quelli di collezione
Pellegrini, nei quali evidenti sono i prelievi letterali di
personaggi, scene ed abbigliamenti lungo un arco temporale molto
ampio, ha indotto ad ipotizzare un periodo molto lungo di attività o
la presenza di più pittori che si nascondono sotto la provvisoria
etichetta di Maestro dei martirii.
Numerose opere, anche importanti, navigano ancora incerte sotto
questa denominazione convenzionale e tra esse ricordiamo il Martirio
di San Gennaro del museo di Besancon, che dopo aver sopportato tre
diverse attribuzioni, anche da fonti autorevoli, a Salvator Rosa, a
Filippo Napoletano ed a Scipione Compagno, oggi secondo gli studiosi
più avvertiti non può essere assegnato a nessuno di questi artisti
più noti, perché in esso sono presenti più modi pittorici non
omogenei.
Un esame dettagliato dei quattro dipinti permette di cogliere più
compiutamente i riferimenti stilistici ed i prelievi letterali dagli
artisti più importanti nella specialità dei martirii, genere in voga
a Napoli nel III e IV decennio del Seicento.
Una prima constatazione è che in tutte le tele i cieli sono “spenti”
e non hanno niente di quelli del Gargiulo, nei quali la gamma
cromatica e le grigie nuvole trasversali orlate di rosa contro
l’azzurro, costituiscono il più tipico segno di riconoscimento del
pittore.
Nella Guarigione dello storpio(03) è presente sulla destra una
figura femminile con un bambino che denota chiaramente una
derivazione da Schoenfeld, artista svevo presente a Napoli dal 1638
al 1649, i cui caratteri distintivi furono l’uso di colori chiari e
tenui, la pennellata vibrante e nervosa, la luce forte e diretta,
che rende evanescenti ed instabili le figure, dall’elegante modello
allungato, desunto dalle stampe di Callot, inserite in ambienti
fortemente caratterizzati in senso classico, simili a scene
teatrali.
Il Martirio di Sant’Andrea(04) si rifà al dipinto di analogo
soggetto del Gargiulo conservato a Portici nel ritiro
dell’Addolorata e presenta caratteri falconiani in alcuni personaggi
come anche nella groppa poderosa del cavallo bianco in primo piano;
mentre il nudo maschile ripreso di spalle, che guarda la scena e che
possiamo trovare in molti altri dipinti della prima metà del
Seicento, ha una chiara matrice battistelliana.
Nella Resurrezione di Lazzaro(05) i colori dei mantelli dei
personaggi centrali ricordano la tavolozza del Gargiulo, al cui
stile si rifanno anche i rami e le foglie degli alberi. Interessante
il dettaglio della città all’orizzonte che si apre ulteriormente con
la visione di un’aspra montagna.
Ed infine nella Crocefissione di San Pietro(06) è sotto gli occhi
l’impressionante somiglianza tra la figura piegata in primo piano
con la maglia rossa e l’analogo personaggio del Martirio di Santo
Stefano di Carlo Coppola presente a Roma sul mercato antiquariale (cfr
A. della Ragione – Il secolo d’oro della pittura napoletana, II vol,
pag 130); rispetto alla tela del Gargiulo di analogo soggetto,
conservata in collezione privata a Napoli, possiamo invece
riconoscere alcune figure e la caratteristica bandiera rossa, quasi
una firma nascosta dell’autore.
Le Nozze di Cana(07) sono opera di un ignoto pittore fiammingo
attivo a Napoli nei primi decenni del XVI secolo, un membro di
quella numerosa colonia presente nel viceregno sin dai tempi della
Notte di San Bartolomeo. La tela presenta elementi veneteggianti e
parallelismi con le opere di Wenzel Cobergher ed Abraham Vinx.
fig.07 - Ignoto-Le nozze di Cana
Nei cani che si azzuffano, nei piatti, nel vassoio di frutta trapela
una propensione verso la pittura di genere che potrebbe far pensare
alla produzione di pittori fiamminghi documentati a Napoli nel primo
trentennio come Bartolomeo Ghesenz o Pietro Fiammingo, specialisti
in cacce e nature morte.
Sul retro della seggiola è presente lo stemma dei Pignatelli, nobile
e famosa famiglia napoletana, particolare che conferma l’esecuzione
della tela in area meridionale.
Nella composizione sono evidenti caratteri precipui della pittura
nordica quali la trasparenza dei calici, la rifinitura dei vassoi,
la cura dedicata al cromatismo delle vesti ed ai copricapo delle
donne.
Altri interessanti dettagli sono costituiti dai cani che si
azzuffano, il cagnolino che si affaccia sotto la tovaglia e lo
splendido scorcio di natura morta in primo piano, che denota
caratteri prettamente napoletani, con frutta tutta partenopea, dalle
pere all’uva, ai fichi dottati, che dovrebbero far avanzare la
datazione oltre il terzo decennio del secolo.
Un altro ignoto pittore fiammingo attivo tra la fine del Cinquecento
e l’inizio del Seicento è l’autore di un rametto raffigurante l’Ecce
Homo(08), un’esecuzione di buon livello realizzata con una buona
conoscenza dell’anatomia sia degli arti che delle restanti parti del
corpo. Notevole è la resa dell’aspetto fisico del Cristo e della sua
dignità umiliata ed offesa.
fig 08 Ignoto-Ecce Homo
Di grande perizia l’esecuzione del volto con un colorito tra il
bruno ed il rosa.
I toni bronzei del corpo ed i bianchi del perizoma, che emerge anche
in virtù del l’ombra che si addensa sotto il mantello, permettono
una collocazione cronologica dell’opera, perché fanno pensare che
l’ignoto autore sia a conoscenza della pittura napoletana dei primi
decenni del secolo.
La natura morta con uva, melograni, fichi e brocca(09) è
classificabile nell’ambito di Luca Forte ed il nome dell’autore più
calzante è quello di Antonio Cicalese, del quale nulla ci
riferiscono le antiche fonti e solo il rinvenimento di alcune sue
opere firmate ci ha fatto intravedere la sua personalità,
caratterizzata da una capacità di definizione volumetrica,
un’abilità nella sagomatura del piano d’appoggio e nella
determinazione luministica dei singoli frutti.
fig 09 - Cicalese- Natura morta con uva, melograni, fichi e brocca
Siamo arrivati alla determinazione di assegnare la tela in esame al
Cicalese sulla base di una serie di raffronti stilistici con le
poche opere certe di questo ancora poco conosciuto generista, attivo
a cavallo della metà del secolo XVII, con la speranza che in futuro,
se verrà alla luce qualche opera firmata, l’attribuzione possa
trovare conferma.
L’Allegoria della Fortezza(010) è un’importante opera di Giovan
Battista Beinaschi che risente dell’influenza del Lanfranco.
fig.10 - Beinaschi-Allegoria della fortezza
L’artista piemontese è attivo a lungo a Napoli dove riveste una
certa importanza per la formazione di Francesco Solimena, che per
suo tramite risale al neocorregismo di Lanfranco ed ai fondamenti
della pittura classicistica del secolo. Egli è ritenuto modesto come
pittore di cavalletto, ove pure dimostra di aver appreso la lezione
di Mattia Preti, dei cui motivi più specificamente barocchi si
appropria, raggiungendo una notevole abilità come frescante.
Le sue tele sono abbastanza rare ed è perciò particolarmente
importante questo dipinto che viene ad accrescere il suo catalogo.
L’Allegoria della Fortezza è un’opera della fase tarda del Beinaschi
relativa al secondo soggiorno napoletano, nel quale si avvale spesso
della collaborazione di aiuti, quali Giovanni della Torre, Orazio
Frezza e Giuseppe Fattorusso. Fa sicuramente parte di un ciclo di
tele raffiguranti le Virtù, che dovettero ispirarsi a quelle
realizzate per la chiesa di Santa Maria di Loreto(detta delle
Grazie) dei padri Teatini, nella strada Toledo, ricordate dal De
Dominici” in quanto di scurcio si bello che furono molto lodate dal
nostro celebre Luca Giordano, il quale non saziavasi di mirare
adattata in si picciol sito una figura al naturale con tanta
proprietà; e quest’opera è dipinta con bellezza di colore operato
con dolcezza”.
Pur conservando in questo dipinto il timbro scuro(valutato
negativamente dal De Dominici) vivacizzato attraverso l’inserimento
di figure di angeli”in bellissime e difficilissime azioni, e ben
intesi nel sotto in su”, la definizione delle forme si spinge ad un
rimeditato controllo che consente una equilibrata disciplina
formale.
Riferimenti tipologici nel percorso dell’artista si individuano in
opere quali l’Annunciazione di San Bonaventura al Palatino di Roma,
specie riguardo all’angelo al di sotto del Padre Eterno e qui
ripreso nel sotto in su, in funzione di sostegno della Fortezza, la
quale trova occasioni di confronto con le sue più meditate figure
femminili di stampo dichiaratamente classicistico, non esclusa la
più giovanile Adultera di collezione privata di Salerno.
Per ulteriori confronti si rinvia al saggio di Mario Alberto Pavone
in Prospettive,”Per Giovan Battista Beinaschi”, n.46, pag. 31 – 41 ,
1986.
L’Agar nel deserto(011) fu tra le opere più ammirate alla mostra
Arte in Calabria tenutasi a Cosenza nel 1976. Il catalogo dedicò ben
tre foto al dipinto che, la curatrice Di Dario Guida assegnò a
Francesco Solimena. A conclusione della rassegna Bologna, nel
recensirla per la stampa (Il Mattino del 16 - 7 - 76) ritenne
viceversa la tela opera del Giordano nella sua piena maturità e tale
parere è stato seguito da tutti gli studiosi successivi fino a
quando, progrediti nel frattempo le conoscenze, il Pavone, il cui
parere è stato avallato da Spinosa, ha ritenuto, confortato da
numerosi raffronti stilistici, di inserire l’opera nel corpus di
Nicola Malinconico, il quale, superato il giudizio fondamentalmente
negativo del De Dominici, che vedeva in lui un antagonista del
Solimena, ha acquisito negli ultimi venti anni una maggiore
considerazione da parte della critica, soprattutto dopo gli studi
sulla sua produzione a Bergamo.
Sulla base delle nuove acquisizioni circa la produzione di tale
artista è perciò possibile affermare con certezza che l’opera in
questione è uno dei suoi più specifici prodotti e che trova una
giusta collocazione cronologica a cavallo dell’inizio del
Settecento.
fig11 - Malinconico_N.-Agar nel deserto
Quanto osservato dalla critica in precedenza, e soprattutto nella
scheda del catalogo della mostra calabrese merita opportuna
considerazione, in quanto in tale occasione venivano indicate sia
una base cronologica, sia una serie di riferimenti che sono stati
vagliati adeguatamente proprio dal Malinconico nella fase relativa
al passaggio dall’integrale continuità rispetto alla maniera del
Giordano, verso un aggiornamento condotto sui modi del Solimena in
Donnalbina.
Infatti è alla fase relativa alla decorazione pittorica in
Donnalbina che si riallaccia il dipinto in esame, il quale presenta
quei caratteri di contenimento formale e di pulizia strutturale, di
impronta dichiaratamente classicistica, che il Malinconico, di
riflesso dal Solimena, adottò in occasione della decorazione della
volta della navata della chiesa di Donnalbina agli inizi del
Settecento.
Segni di continuità nell’ambito della produzione del Malinconico
sono rappresentati dall’angelo in volo, che coincide nella
strutturazione con quello dell’Adorazione dei pastori di Santa Maria
la Nova e della Famiglia della Vergine di San Giuseppe a Chiaia a
Napoli. Il taglio del volto dell’Agar permette inoltre di
confrontarlo con certezza a prototipi quali la Madonna della citata
Adorazione, ma ancora più precisamente alle figure di sante che,
insieme a santi prediletti dell’ordine benedettino, decorano i
finestroni di Donnalbina e che troveranno ulteriore codificazione
nelle Virtù delle lunette della navata di Santa Maria la Nova.
L’Apollo e Marsia(012) è una tela di altissima qualità e di grande
suggestione, collocabile cronologicamente nell’ottavo decennio del
secolo XVII; essa presenta spiccati caratteri rosiani nella
definizione del paesaggio, per cui può essere avanzata l’ipotesi di
assegnarla a Nicola Vaccaro in un suo momento di massima tangenza
con i modi del grande Salvatore, conosciuto ed ammirato nel corso di
un soggiorno romano
fig12 - Vaccaro-Apollo e Marsia
La forte resa naturalistica del dipinto evoca il pennello dello
stesso Ribera, che ha più volte trattato magistralmente lo stesso
tema. Il ghigno di dolore nel volto di Marsia, lo spasimo straziante
che riverbera in tutti i muscoli appartengono esclusivamente al
naturalismo napoletano più genuino, di cui il Rosa fu uno degli
interpreti più significativi. Ed è proprio a lui che si ispira la
parte paesaggistica che costituisce una porzione fondamentale
nell’economia del dipinto, con il classico tronco spezzato.
Il brano mitologico è di rilevante qualità nella definizione
disegnativa, mentre poderosa si staglia l’atletica figura del Dio
che, con rigorosa tensione, ma per nulla impietosito, compie la sua
atroce vendetta ed è proprio la figura di Apollo, che presenta
stringenti affinità fisionomiche con una Decollazione del Battista
opera certa di Nicola Vaccaro, conservata in collezione privata.
La tela è dominata dalla potenza dei colori ed incentrata
nell’elegante e fine figura di Apollo, dal quale emana il riverbero
di una luce intensissima che illumina il suo mantello rosso. La
rabbia e il dolore di Marsia di essere stato da Apollo vinto e
legato, si rivelano in pieno in quel fosco volto, eseguito in modo
mirabile, alla stregua del figliolo, il piccolo faunetto, che piange
disperato allo strazio del disgraziato padre, alla base di quel
tronco spezzato eseguito così minuziosamente.
In passato il quadro ha sopportato ben più impegnative attribuzioni,
tra cui abbastanza credibile quella di un autografo rosiano, la cui
produzione a figure grandi solo da poco è stata riscoperta dalla
critica, come nel caso dello spettacolare Martirio di San
Bartolomeo, oggi a Vienna, di cui l’Apollo e Marsia è il
corrispettivo nel mondo pagano e quello di collezione Pellegrini,
impregnato di crudo realismo, presenta la figura del musicista
sconfitto alternata di luci ed ombre e con le pieghe della pelle al
centro del suo torace che sembrano richiamare il San Bartolomeo del
museo di Vienna.
Tutta la composizione è animata da un vivace dinamismo giocato sulle
diagonali incrociate e sulla circolarità determinata dal rapporto
tra le due figure ed è sottolineata dal manto svolazzante di Apollo,
di un rosso cupo tra le cui pieghe si intravede un rosso fuoco
abbagliante, mentre il figlio di Marsia assiste attonito alla scena,
alla quale sembra partecipare psicologicamente.
L’influsso delle correnti pittoricistiche è già presente nella
cultura figurativa partenopea quando nasce questa splendida tela,
che, nello scorcio di paesaggio e nei dettagli delle foglie, dei
rami e del tronco spezzato, ci offre un saggio dell’autore, Nicola
Vaccaro o altri, ma senza dubbio uno dei protagonisti del secolo
d’oro della pittura napoletana.
Il Paesaggio con vacche e pastori(013), una composizione di genuino
argomento bucolico, fu assegnata da Leone De Castris al pennello del
Gargiulo nei primi anni della sua attività: ”Il repertorio è quello
del Giacobbe e Labano, siglato, della pinacoteca D’Errico di Matera,
ma la concretezza naturalistica falconiana delle vacche, la
figuretta del pastore e il taglio del paesaggio alberato, che
rimandano alla Roma non solo di Tassi, ma anche dei bamboccianti
fiamminghi, lo associano alle prime cose di Spadaro nei tardi anni
Trenta, i tondi con la Buona ventura e l’Osteria, la Marina e la
Fiera di Sorrento(Daprà – Sestieri n. 1,2,5,7)”.
fig13 - Spadaro_(attr.)-Paesaggio con vacche e pastori
La Daprà, specialista del pittore, pur esaminando il dipinto solo
attraverso una foto, espresse parere dubitativo sull’attribuzione
consigliando di rinviare un giudizio definitivo a dopo il restauro
del quadro, bisognoso di una pulitura, che ridia la lucentezza e la
vivacità dei colori di un tempo.
Cogliamo l’occasione per ribadire la necessità di una correzione
della data di morte dell’artista al 1672 e non il 1675, generalmente
indicata su tutti i libri di testo e per chi volesse approfondire la
questione rinviamo alle ragioni esposte nel nostro saggio sul
Gargiulo(cfr. A.della Ragione, Il secolo d’oro della pittura
napoletana, vol. II, pag.100).
Il Memento mori(014) è una tela ampiamente ridipinta nel volto del
Bambino, per cui l’autore, sicuramente di cultura napoletana, attivo
intorno alla prima metà del secolo XVII, rimane ignoto. Egli si rifà
ai modi pittorici di Battistello Caracciolo ed ai suoi
caratteristici putti da lui dipinti nello stesso modo lungo tutta la
sua carriera, sin dai suoi primi lavori al Monte di Pietà nel 1601,
dove affrescò sei angeli, fino ai tanti puttini presenti nelle sue
opere tarde anche degli anni Trenta, come nella Natività
dell’Oratorio dei Nobili e nell’Assunta del museo di San Martino.
fig14 - Ignoto-Memento mori
La fattura dignitosa del panno che riveste il fanciullo e la stessa
iconografia avevano in passato fatto avanzare da parte di qualche
studioso il riferimento al Caracciolo, che è stato decisamente
escluso da Stefano Causa.
Il tema trattato, un Memento mori, fa parte del vasto capitolo delle
Vanitas, presente in larga misura nella natura morta europea.
Il teschio quale simbolo di “Mors absconditus”, cioè della
putrescenza cui l’uomo non può scampare, anticipa la condizione
futura della persona ritratta in primo piano sul quadro.
Tale teschio, espressione e lamento per la caducità di tutte le
cose, nell’iconografia classica si accompagna spesso a simboli della
gloria terrena come preziosi, libri oppure a scritte con frasi
ammonitrici, come quelle nel quadro in esame, purtroppo non
decifrabili.
Il messaggio che sembra inviarci questo triste bambino dal volto
pensieroso è dunque un invito alla riflessione sull’inutilità degli
affetti terreni nel segno dell’eternità, quando ogni cosa perde
significato, anche l’erudizione nella quale l’ambizione illuminista
cercò di dare dignità all’esistenza umana, anch’essa però destinata,
come i libri ponderosi con cui spesso è simboleggiata, a scomparire
nel nulla.
La circostanza che l’autore del dipinto debba restare anonimo
accresce i significati reconditi del messaggio, aumenta la gravità
del monito ed invita con sollecitudine alla meditazione sulla vanità
dell’umana esistenza.
Il David e Golia(015), già presentato alla mostra Arte in Calabria
del 1976 e pubblicato sul relativo catalogo come ignoto del XVII
secolo, deve purtroppo rimanere nel limbo dei dipinti anonimi a
causa di un ampio restauro che rende difficile il riconoscimento
della sua paternità.
fig15 - Ignoto-David e Golia
La tela, di suggestivo effetto teatrale, con l’eroe ebreo che sembra
pavoneggiarsi allo specchio con la gigantesca testa del Golia,
abbracciata a guisa di maschera grottesca e con il braccio destro
teso in maniera imperiosa, che strappa un ciuffo di capelli al
nemico abbattuto, non è priva di dettagli di altissima qualità come
il manto di pelle animale che avvolge il giovane guerriero, reso con
grande accuratezza e con gradazione cromatica molto ricercata.
Lo scorcio di paesaggio sulla destra con i suoi tenui azzurrini ci
permette di datare la tela oltre la metà del secolo. In passato era
stata ventilata da qualche critico la possibilità di assegnare
l’opera al Guarino; tale ipotesi non può essere presa in esame per
le considerazioni già esposte e più probabilmente bisogna orientarsi
a ritenere che l’ignoto artista abbia potuto prendere ispirazione da
un originale non identificabile di scuola emiliana.
Le morbide e ben modellate fattezze del David richiamano infatti la
pennellata classicista e le doti disegnative di Guido Reni, anche se
il Golia dal volto afflosciato denota marcati segni di derivazione
naturalista.
In ogni caso un dipinto interessante e di buona fattura, gradevole a
vedersi, anche se costretto all’anonimato dell’autore.
La Sant’Apollonia(016) è il quadro più affascinante della collezione
Pellegrini ed il primo parere sul suo autore fu espresso nel 1954 da
Amadio, il quale riconobbe senza ombra di dubbio la mano di Massimo
Stanzione:”La straordinaria dolcezza del volto della santa nel
dolore del martirio, gli occhi arrossati dallo strazio e dalle
lacrime versate fanno del quadro una potente opera pittorica, la
quale non è assolutamente seconda alla Sant’Agata che è conservata
nel museo Nazionale di Napoli, anzi si può dire sia la stessa
modella adoperata dall’artista”. Egli singolarmente colse una
rassomiglianza con il quadro che è oggi conservato a San Martino ed
è riferito con certezza al catalogo di Francesco Guarino.
fig16 - Stanzione-S.Apollonia
In seguito in occasione della mostra Arte in calabria, ritrovamenti,
restauri, recuperi del 1976, la tela fu inserita nel catalogo dalla
curatrice Di Dario Guida(Foto 288, pag. 194) come autografo di
Stanzione.
In seguito nel 1983 il professor Pillon, noto critico e titolare
della rubrica la bottega dell’arte del settimanale Il Borghese, ne
pubblica sulla rivista la foto confermando la paternità stanzionesca
e la qualità pregevole del dipinto.
“La Sant’Apollonia è un pezzo degno di un museo ed è interessante
per un motivo storico più che artistico, infatti la tradizione
racconta che tra il 249 ed il 250 dopo Cristo(così assicura anche
Eusebio di Cesarea nella sua Historia Ecclesiae) scoppiò in
Alessandria d’Egitto una sommossa popolare contro i Cristiani. Tra
gli altri, fu presa una vecchia e brutta zitella di nome Apollonia:
le furono divelti i denti e venne preparato un gran fuoco per
bruciarla viva. Per salvarsi avrebbe dovuto pronunciare bestemmie
contro il suo Dio, ma con un’astuzia riuscì a liberarsi e si slanciò
da sé nelle fiamme. Così morì e la Chiesa la venera come martire
perché ha ritenuto che in quelle circostanze il suicidio non fosse
una colpa; è venerata il 9 febbraio ed invocata contro il mal di
denti.
Ma poteva mai un artista, poeticamente raffinato come Massimo
Stanzione, accettare l’idea che Apollonia fosse vecchia e brutta? Ed
ecco l’artista infonderle gioventù e bellezza come è nella tela”(Il
Borghese, 3 aprile 1983, pag. 879 – 880).
Al coro di voci di critici che da decenni davano per scontata la
paternità stanzionesca, nel 1992 si è creata una dissonanza con il
disconoscimento autorevole da parte di Thomas C. Willette, lo
studioso autore con Sebastian Schutze della monumentale monografia
su Massimo Stanzione edita dall’Electa, il quale pubblica(n.372 a
pag. 404) la foto della Santa Apollonia, ma la giudica non
autografa(scheda C6 e pag. 248) proponendo per la stessa, anche se
dubitativamente, una paternità di Giuseppe Marullo.
Willette evidenzia una singolare rassomiglianza e ritiene dello
stesso autore anche una Santa Caterina d’Alessandria(foto 398 a pag.
416 – scheda 416 a pag. 253) di collezione privata napoletana.
Abbiamo avuto modo di esaminare il quadro in questione di qualità
inferiore e di dimensioni simili alla Santa Apollonia, per il quadro
è stata utilizzata senza dubbio la stessa modella, che compare a
nostro parere anche nella Madonna col Bambino(foto 373 a pag. 404 –
scheda C3 a pag. 248), conservata a Dunkerque nel Museè des Beaux
Arts: un’altra tela della quale il Willette esclude la paternità
stanzionesca, pur essendo stata in passato riferita con certezza al
divino cavaliere da studiosi del calibro del direttore del Louvre
Pierre Rosenberg e del noto critico Jacques Foucart.
Il Willette senza visionare l’opera, semplicemente utilizzando una
foto, attribuisce la Santa Apollonia al Marullo, un allievo di
Stanzione all’epoca poco conosciuto nonostante la presenza di
numerose sue tele firmate nelle chiese napoletane.
Un attento esame può evidenziare un accenno ad un cono d’ombra sulla
porzione sinistra del volto della santa, una sorta di firma nascosta
dell’artista, riscontrabile in molte sue tele, ma la modella non è
quella che Marullo continuò ad adoperare a lungo nonostante lo
scorrere del tempo.
Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di consultare
(anche sul web) la mia monografia sul pittore: Giuseppe Marullo,
opera completa.
Ammirare da vicino la Santa Apollonia fornisce una profonda
emozione, difficile da riferire e permette una identificazione più
certa del suo autore da tante sfumature, che non possono
comprendersi con il solo esame di una foto.
Questa eterea bellezza mediterranea dal volto sensuale ed
accattivante mostra l’oggetto del suo martirio con indifferenza e
con lo sguardo trasognato incurante degli affetti terreni e con gli
occhi che, pur fissando lo spettatore, sembrano proiettati fuori dal
tempo e dallo spazio. Dal dipinto promana una dolcezza languida,
serena, rassicurante che ci fa comprendere con quanta calma la Santa
abbia affrontato il martirio, sicura della bontà delle sue
decisioni, illuminata dalla fede che tutto trascende, placando e
spegnendo tutti i sentimenti e le sensazioni negative quali il
dolore, la sofferenza, l’umiliazione, lo sdegno ed esaltando la
calma serafica, la serenità dell’animo, la certezza di una scelta
adamantina.
In occasione della stesura del catalogo della collezione tutti gli
studiosi del pool da me costituito hanno espresso pienamente la
convinzione di trovarsi davanti ad un autografo stanzionesco di
altissima qualità.
Spinosa ha riferito inoltre che in passato alcuni studiosi,
discutendone con lui, avevano avanzato l’ipotesi di trovarsi davanti
ad un’opera di Francesco Guarino, sempre di ottima fattura, mentre
Leone de Castris, oltre a confermare la paternità, colloca la tela
nel periodo di influenza caravaggesca dell’artista, prima del 1630,
per i toni più scuri rispetto all’altra santa presente nella
collezione, di epoca successiva.
“Dipinto precoce ed importante di Stanzione verso la fine degli anni
Venti. Qualità e forte senso naturalistico rendono inaccettabile la
proposta di Willette per Marullo. Nonostante i danni e le
alterazioni, è volontaria la quasi monocromia dell’insieme ancora
molto caravaggesca, coi bruni e i rosa spenti delle vesti illuminati
solo dal bianco delle carni e dal rosso delle labbra e del sangue
sulla radice del dente crudamente estratto.
Raffronti con l’Adorazione dei pastori di San Martino, Sala del
Capitolo(circa 1627) e del museo di Bilbao e con le Storie del
Battista del Prado di Madrid, comprovano la datazione”(Leone De
Castris).
L’altro autografo stanzionesco della collezione è una Sant’Orsola(017)
dal volto dolcissimo e dagli occhi rivolti al cielo che affronta
serena il martirio senza turbamenti, senza incertezze, senza
esitazioni.
fig17 - Stanzione-S.Orsola
Sant’Orsola è una figura leggendaria, la cui iconografia è recente,
risalendo al XIV secolo. Unica figlia di un re di Bretagna, di
ritorno da un pellegrinaggio a Roma con un seguito di undicimila
fanciulle, fu uccisa a Colonia dagli Unni con le compagne. Altre
volte è rappresentata in abiti regali accompagnata da uno stuolo di
vergini.
Celebre il dipinto del Caravaggio che raffigura il suo martirio, di
proprietà a Napoli dell’ex Banca Commerciale italiana, la cui
autografia e lo stesso soggetto sono stati argomento di discussione
per gli studiosi.
Nella tela caravaggesca la santa viene uccisa da una freccia in
pieno petto, mentre nel nostro quadro la saetta fatale la colpisce
alla gola, facendo scorrere quelle gocce di sangue così naturalista
che incontriamo per la prima volta nella pittura napoletana nel
Martirio di Sant’Orsola di Giovan Bernardo Azzolino in una privata
collezione napoletana, in cui da parte dei manieristi tardo
cinquecenteschi protrudenti nel nuovo secolo si ha una reazione
particolarissima, ma intensa e vivace, alle provocazioni del dipinto
del Caravaggio, già in collezione Doria.
Nel dipinto in esame la mano destra dalle lunghe dita affusolate
posta sul petto è un segno di conferma della scelta adottata in
piena consapevolezza delle gioie ultraterrene che l’attendono dopo
la morte, nella luce di Dio, in cui lei crede così fermamente da
perdersi nella sua grandezza con una calma imperturbabile, che è di
esempio e di insegnamento per tutti noi.
La tela aveva avuto negli anni Cinquanta un’insostenibile
attribuzione alla pittrice Elisabetta Sirani, amica carissima di
Guido Reni, dal quale apprese la tecnica e prese ispirazione per i
propri soggetti. Sant’Orsola viceversa è stata unanimemente
considerata da tutti gli esperti del pool un autografo stanzionesco,
nella piena maturità dei suoi mezzi espressivi, verso la fine degli
anni Quaranta, a differenza dell’altra santa della collezione, la
Santa Apollonia, appartenente al periodo caravaggesco del divino
Massimo.
Unica voce fuori dal coro quella di Pavone che riteneva di
riconoscere un’opera giovanile di Andrea Vaccaro in un momento,
ancora poco noto alla critica, di massima tangenza con l’attività di
Stanzione. Noi riteniamo che i caratteri stilistici più propriamente
vaccariani che si scorgono nella tela, come la chiusura della bocca,
siano frutto di restauri del passato, mentre inequivocabilmente la
mano destra dalle dita filiformi è patognomonica della firma di
Stanzione.
Leone De Castris tenne a dichiarare”Stanzione certo della seconda
metà degli anni Quaranta da confrontare con l’Adorazione dei pastori
di Capodimonte, già nella chiesa del Divino Amore e con
l’Incoronazione della Vergine a San Giovanni Battista delle monache,
detta un tempo datata 1649. Classicismo ispirato alla Guido Reni,
dita affusolate e tornite dall’ombra, gamma cromatica standardizzata
già nelle mezze figure di Madonne (blu oltremarino, rosso, bianco e
beige della sciarpa, dipinta con pennellate liquide come un velo,
tipiche del periodo maturo; molti confronti, dalla Madonna e santi
della cappella di S. Ugo e San Martino, alla Madonna del museo di
Trapani). Forse qualche restauro di rinforzo nel volto.
Questa splendida ed inedita Sant’Orsola con la Sant’Apollonia,
finalmente restituita al corpus stanzionesco, accrescono il catalogo
del grande pittore napoletano di due nuovi eccezionali capolavori.
Il Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia(018) fu il dipinto che mi
creò più problemi all’epoca della stesura del catalogo della
collezione Pellegrini, quando dovetti riordinare e dare una
paternità a tante opere che, per quanto pregevoli, erano in gran
parte inedite e di autore da identificare. Ero assistito da un pool
di esperti eccezionale costituito dai professori Spinosa, Leone De
Castris, Pacelli e Pavone, i quali per quanto riguarda il Mosè
avevano ognuno un’idea diversa.
fig18 D'Amato - Mosè fa scaturire l''acqua dalla roccia.
Spinosa pensava a Gaetano Recco, del quale poco conosciamo con
sicurezza, anche se alcune sue figure di vecchi hanno una vaga
somiglianza con qualcuno dei personaggi rappresentati, o a Giovanni
Ricca, anche lui tutto da esplorare per la critica, del quale sono
noti alcuni suoi quadri di vecchi filosofi, firmati.
Pavone e Pacelli proclamavano con fermezza la paternità di Pacecco
De Rosa, suggestionati dai colori, dalle fisionomie dei personaggi e
dall’atmosfera complessiva della tela, ipotesi che Spinosa escludeva
recisamente.
A tal proposito, riesaminando il quadro a distanza di dieci anni e
facendo tesoro dei miei approfondimenti sull’autore, sul quale ho
pubblicato una monografia (Pacecco De Rosa, opera completa – Napoli
2005, consultabile sul web), vorrei sottolineare che la figura del
bambino al centro della composizione compare i molti dipinti
dell’artista, autore spesso di opere a quattro mani con il patrigno
Filippo Vitale, del quale si respira la pennellata robusta e
naturalista.
Infine Leone De Castris mi mostrò per raffronto una tale quantità di
foto, in gran parte inedite, di tele del D’Amato, pittore poco
conosciuto dalla critica e da Lui lungamente studiato, che mi
convinsi ad accettare questa sofferta attribuzione come la più
probabile.
“Si tratta di un’opera tarda di questo mal noto pittore, documentato
fra il 1594 ed il 1643, riconoscibile dagli elementi della sua
formazione tardo manierista, a bottega dal padre (?) Giovann’Angelo
ed a contatto dapprima con Imparato e poi specie con Santafede, dal
quale evidenti i prelievi nella figura della donna con la tipica
veste rosata impastata e in quella del bimbo, costantemente ripetuta
sin dai suoi esordi.
A partire dalla fine degli anni Dieci e sino alla fine della sua
carriera Giovanni Antonio – che collaborerà nel 1618 al soffitto
dell’Annunziata di Giugliano – mostra di saper innestare e fondere
questi elementi tardo manieristi ad interessi per la pittura
naturalista, per Ribera, Vitale, Pacecco, Stanzione. Nonostante che
i caratteri alla Ribera ed alla Vitale palesi nelle due figure di
vecchi in questo dipinto – unica testimonianza per ora nota del
pittore nel campo della pittura da quadreria- siano già visibili in
opere degli anni Venti(Deposizione dei Girolamini, Sacra
Conversazione della chiesa del Divino Amore), l’apertura
pittoricistica del cielo ed il parallelismo con le cose giovanili di
Pacecco lo spingono verso gli avanzati anni Trenta e l’associano
alla Natività della Vergine di Santa Maria Materdomini, alla Madonna
e santi di Ruvo e alla più tarda Immacolata della chiesa dei SS.
Bernardo e Margherita a Fonseca”.
Anche la Susanna ed i vecchioni(019) creò non pochi problemi
attributivi già alla mostra del 1976, dove passò come di autore
ignoto.
fig19 - Vitale_(attr.)-Susanna e i vecchioni
Il quadro ispirato ad un’iconografia cara a quasi tutti i pittori
del Seicento napoletano, che si sono cimentati su questo soggetto, è
trattato con una cura diligente nell’espressione dei volti dei
personaggi:dai due vecchioni, in cui è lampante la libido repressa e
la sfrenata bramosia di peccato, alla casta Susanna, da un lato
adombrata per le insistenti attenzioni senili, ma che tuttavia non
sa nascondere un’inconscia accondiscendenza a delle profferte così
sfacciate. Il tutto immerso in un’atmosfera resa surreale dalla
presenza sullo sfondo di un’architettura fantastica alla De Nomè,
arricchita da brocche preziose e vesti eleganti di damasco, curate
meticolosamente nell’aspetto cromatico.
Il pennello del pittore ha indugiato voluttuoso sull’incarnato della
donna nuda dalle forme perfette e dalla prorompente bellezza
mediterranea, regalandoci un brivido d malizia indimenticabile.
I seni della Susanna sono di materia carnosa, opulenta, traslucida,
sono eterni, fuori dal tempo e dallo spazio, non si deformano, né
avvizziscono, archetipo femminile della femminile bellezza.
Simboleggiano il porto sicuro cui ognuno anela di fermarsi a
riposare per sempre, preziosi come una boccetta di rare essenze,
maestosi, ma nello stesso tempo fragili, come se costituiti da
sottile cristallo, che a rompersi si disperdono come polvere di
talco.
La tela è stata assegnata da Spinosa a Filippo Vitale, mentre
Pacelli, associandosi al suo parere, ha ipotizzato la collaborazione
del figliastro Pacecco De Rosa.
Molto interessanti furono anche le riflessioni di Pavone:”Si tratta
di un’opera di chiara derivazione dagli esiti di Artemisia
Gentileschi, del tipo della Susanna di Pommersfelden, anche per
l’accentuata carica grottesca dei vecchi, dall’espressione morbosa.
Così la ripetuta esposizione del nudo rimanda ai corpi femminili
illustrati da Artemisia, i cui risultati, ben noti a Napoli,
appaiono ripresi dall’autore del dipinto in questione, che appare
pronto a caricare i toni e le espressioni, secondo un marchio
connotativo, che parte indubbiamente da Vitale e prosegue fino a
Marullo. L’edificio sulla destra per le irreali lumeggiature in luce
diurna appare come una pura citazione, in riferimento alla cultura
figurativa di Francois De Nomè. L’opera trova collocazione alla metà
del Seicento”.
Da considerare attentamente l’ipotesi di Leone De Castris che
condividiamo pienamente, il quale oltre a riscontrare tangenze con
Filippo Vitale tardo, il giovane Pacecco, Onofrio Palumbo e Niccolò
De Simone, ritiene che l’autore possa essere una personalità attiva
a Napoli negli anni ’30 – ’40 o forse appena oltre, che potrebbe
identificarsi con Gerolamo De Magistro. (In seguito identificato
attraverso documenti da De Vito per Gerolamo Dello Mastro)
Lo studioso ci confidò di aver scoperto una sua terza opera firmata
per esteso e di averla collegata a numerose altre che da tempo
raccoglie e che denotano la stessa mano. Tali dipinti fanno capo ad
uno splendido Salomone che adora gli idoli, già in asta a New York
nel 1981 e posseggono tutti uno sfondo architettonico alla De Nomè o
alla Codazzi, una cura meticolosa nella definizione dei panneggi
delle vesti, spesso di damasco, la presenza di oggetti di argenteria
o brocche preziose, mentre i visi delle donne, dolcissimi, hanno
degli ovali caratteristici, lo stesso tipo di costruzione del volto
e la stessa boccuccia ben definita nelle labbra che caratterizza la
nostra casta Susanna.
Per chi volesse esaminare tutti i dipinti della
collezione Pellegrini rinvio al mio saggio
”La collezione Pellegrini” (Cosenza,1998)
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