Finalmente, dopo soli trenta anni di chiusura,
riapre, in occasione del Maggio dei monumenti, la chiesa di Santa
Maria di Donnalbina, una delle più ricche di opere d’arte della
città.
San Gregorio di Nicola Malinconico
Il complesso di Donnalbina affonda nel pieno medioevo le sue origini
ed il motivo del suo nome è confuso nella leggenda. In età ducale la
zona era denominata Albinense, altri si collegano invece ad una
torre eretta in età romana da un certo Albino, ma noi preferiamo
seguire un’invenzione letteraria moderna creata dalla fertile penna
di Matilde Serao la quale, nelle Leggende napoletane, narrò la
storia delle tre figlie del barone Toraldo, un nobile del Sedile di
Nilo vissuto ai tempi del re Roberto d’Angiò. Le tre fanciulle donna
Regina, Donna Ròmita e Donna Albina erano innamorate dello stesso
uomo e non potendo averlo decisero di monacarsi, fondando i tre
famosi conventi napoletani. Tra tanti dubbi e fantasie sappiamo con
certezza che un monastero esisteva già nei primi anni del IX secolo,
quando in esso si rinchiuse Euprassia, figlia del duca di Napoli,
alla quale si può ricondurre la fondazione del cenobio benedettino.
altare
Benedettine furono anche le monache provenienti dai soppressi
monasteri di Sant’Agata a Mezzocannone e di Sant’Agnello al
Cerriglio, che, nel 1563, entrando nel convento, portarono con loro
reliquie di ogni genere, dall’ubiquitaria spina della corona di
Cristo alla gruccia di sant’Agnello e finanche un pezzo di grasso di
san Lorenzo, che si liquefaceva nella ricorrenza del martire ed una
mammella di sant’Agata. Un repertorio che oggi può sembrare
stupefacente e fantasioso, ma che all’epoca dava grande prestigio ad
un monastero.
La chiesa medioevale non esiste più e quella che noi visitiamo è
stata realizzata nel Seicento per l’intervento prima di Bartolomeo
Picchiati e poi, sul finir del secolo, di Arcangelo Guglielmelli.
chiostro coretto e contofacciata
Entrando in chiesa si è accolti, sulla sinistra, dal monumento
funebre del celebre compositore Giovanni Paisiello, una modesta
realizzazione dello scultore Angelo Viva. Un bagno di luce si
irradia dai finestroni e permette una perfetta visione dell’insieme,
mentre lo sguardo si perde ad ammirare lo spettacolare soffitto in
legno dorato, realizzato da Sabbato Daniele nel 1701 su disegni
dell’architetto Antonio Guidetti, nel quale sono incastonati i
grandi dipinti di Nicola Malinconico: al centro un’Assunzione,
firmata, di lato un Sant’Agnello che scaccia i Saraceni, mentre la
terza tela, un Martirio di Sant’Agata risulta perduta. Sono opere
intrise da una dinamica spazialità ed animate da colori cangianti di
ascendenza giordanesca. Negli stessi anni il pittore realizzava
anche una serie di otto tele poste tra i finestroni della navata
raffiguranti santi dell’ordine benedettino. Sul coretto della
controfacciata è collocato un dipinto murale, molto rovinato, sempre
del Malinconico, che rappresenta l’Entrata di Gesù in Gerusalemme.
Il parapetto della cantoria, la grata dell’abside e tutte le gelosie
furono realizzate nel 1699 da Sabbato Daniele, esse sono dominate da
un elegante rameggio a labirinto e nella loro superba imponenza
richiamano a viva voce i più celebri, ma non più belli, manufatti
realizzati in San Gregorio Armeno. La zona absidale contiene una
panoramica dell’attività del Solimena nell’ultimo decennio del
Seicento. Un vasto programma decorativo, in parte perduto, che va
dalla decorazione della cupola, quasi scomparsa, alle Virtù dipinte
nei pennacchi, ad otto sante vergini rappresentate tra i grandi
finestroni del tamburo. Tutte opere eseguite tra il ‘92 ed il ‘95,
mentre la serie di sei tele poste ai lati del transetto, di
altissima qualità, sono eseguite tra il 1696 ed il 1701. Esse sono:
a destra l’ Adorazione dei Magi, il Sogno di Giuseppe e la Fuga in
Egitto, a sinistra la Natività, la l’Annunciazione e la Visitazione.
Sono dipinti che testimoniano il passaggio del Solimena dai modi
barocchi e pretiani a soluzioni compositive nelle quali palpabile è
il gusto classicista.
La zona absidale ospita uno spettacolare altare, datato 1692, con la
cona che sale vertiginosamente lungo la parete, rivestito da
multicolori marmi policromi dal cromatismo avvincente, nel quale
risaltano motivi floreali e tarsie madreperlacee. La straordinaria
bellezza ha fatto ipotizzare nelle schede della Soprintendenza la
mano di Cosimo Fanzago, ipotesi non compatibile con la data di
esecuzione. Al centro si trovava un quadro firmato del Simonelli,
una Visitazione sostituita nel 1892 da una statua lignea
settecentesca raffigurante l’Immacolata, che fu posta in una nicchia
realizzata a bella posta. Una trasformazione che non piacque a
Benedetto Croce, che dalle pagine di Napoli nobilissima, con lo
pseudonimo di Don Fastidio, la definì “qualche cosa tra l’ostrica di
Mucchitello e il gelato alla crema”.
Nelle cappelle laterali, quattro per lato, sono tornati dall’esilio
dai depositi numerose tele sulle quali è opportuno soffermarsi,
anche per correggere i numerosi errori nei quali sono incorse sia le
antiche guide sia i recentissimi depliant, che pubblicizzano
l’apertura della chiesa.
Partendo dal lato destro nella prima cappella vi è un’Immacolata
tradizionalmente assegnata al Solimena, attribuzione accettata anche
dalla Napoli Sacra, certamente opera di un ignoto e modesto seguace;
nella seconda si trova una Natività di buona fattura di uno
stanzionesco orbitante tra De Bellis e Marullo, ai lati a momenti
dovrebbero ritornare due piccole tele di Domenico Antonio Vaccaro,
due Santi vescovi, firmati e datati 1736.
Sul lato sinistro nella prima si trova una dipinto, interessante
esito di un pennello femminile, un San Francesco di Sales e Giovanna
Francesca di Chantal (una poco nota santa francese vissuta a Digione
nel Cinquecento), realizzato nel 1752 (non nel 1723 come altrove
indicato) dalla pittrice pugliese Teresa Palomba; nella terza vi è
un’antica tavola del primo Cinquecento, una Dormitio Virginis di
ignoto, che potrebbe essere assegnata, in via ipotetica, a Pietro
Befulco oppure a Mario di Laurito ed infine nella quarta, che
presenta alle pareti un ricco rivestimento marmoreo messo a punto
nel 1730 da Francesco Raguzzino è collocata una Madonna con Maria
Maddalena e San Giovanni Evangelista ai piedi della Croce, che in
passato era ricoperta da un crocefisso ligneo oggi non più presente,
la cui presenza nascondeva la sigla dell’autore, Andrea(e non
Domenico Antonio come altrove indicato) Vaccaro, inducendo gli
studiosi ad ipotizzare la mano del Marullo.
Dal 1942 il monastero è affidato alla Congregazione di Don Orione,
che svolge meritorie iniziative a favore di portatori di gravi
handicaps fisici e psichici.
In anteprima assoluta, venerdì 4 maggio alle ore 17, grazie alla
cortese disponibilità di padre Angelo De Ninis, gli Amici della
chiese napoletane potranno visitare, con la guida del sottoscritto,
chiesa e monastero e per l’occasione sono invitati a partecipare
tutti gli appassionati.
Achille della Ragione
Foto di Dante Caporali
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